GPII 1987 Insegnamenti - Udienza generale - Città del Vaticano (Roma)

Udienza generale - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: "Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me"

Testo:

1. I fatti, che abbiamo analizzati nella catechesi precedente, nel loro insieme sono eloquenti e probanti circa la coscienza della propria divinità che Gesù mostra di avere quando riferisce a se stesso il nome di Dio, gli attributi divini, il potere di giudizio finale sulle opere di tutti gli uomini, il potere di rimettere i peccati, il potere sulla stessa Legge di Dio. Sono tutti aspetti dell'unica verità da lui fortemente affermata, quella di essere vero Dio, una sola cosa col Padre. E' quanto egli dice apertamente ai giudei conversando con essi nel tempio il giorno della festa della Dedicazione: "Io e il Padre siamo una cosa sola" (Jn 10,30). E tuttavia nell'attribuirsi ciò che è proprio di Dio, Gesù parla di se stesso come del "Figlio dell'uomo", sia per l'unità personale dell'uomo e di Dio in lui, sia per seguire la pedagogia prescelta di condurre gradualmente i discepoli, quasi tenendoli per mano, alle altezze e profondità misteriose della sua verità. Come "figlio dell'uomo" egli non esita a chiedere: "Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me" (Jn 11,1).

Lo svolgimento di tutto il discorso dei capitoli 14-17 di Giovanni, e specialmente le risposte date da Gesù a Tommaso e a Filippo, provano che quando egli chiede che credano in lui, si tratta non soltanto della fede nel Messia come l'Unto e il Mandato da Dio, ma della fede nel Figlio che è della stessa sostanza del Padre. "Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me" (Jn 14,1).


2. Queste parole vanno esaminate nel contesto del colloquio di Gesù con gli apostoli nell'ultima cena, riportato nel Vangelo di Giovanni. Gesù dice agli apostoli che va a preparare loro un posto nella casa del Padre (cfr. Jn 14,2-3). E quando Tommaso gli chiede la strada per andare a quella casa, a quel nuovo regno, Gesù risponde che egli è la via, la verità e la vita (cfr. Jn 11,6). Quando Filippo chiede che mostri ai discepoli il Padre, Gesù replica in modo assolutamente univoco: "Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi dire: "Mostraci il Padre"? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere.

Credetemi: Io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse" (cfr. Jn 14,9 Jn 14,11).

Non è possibile sfuggire alla presa di questa dichiarazione di Gesù sull'intelligenza umana, se non si parte già aprioristicamente da un pregiudizio antidivino. A coloro che ammettono il Padre, e anzi piamente lo cercano, Gesù mostra se stesso e dice: Ecco: il Padre è in me! 3. Semmai, per offrire dei motivi di credibilità, Gesù si appella alle sue opere: a tutto ciò che ha compiuto agli occhi dei discepoli e di tutta la gente. Si tratta di opere sante e spesso miracolose, fatte come segni della sua verità. Per questo merita che si abbia fede in lui. Gesù lo dice non soltanto nella cerchia degli apostoli, ma davanti a tutto il popolo. Leggiamo infatti che il giorno dopo l'ingresso trionfale a Gerusalemme, la gran folla venuta per le celebrazioni pasquali discuteva sulla figura del Cristo e in gran parte non credeva in Gesù, "sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro" (Jn 12,37). A un certo momento "Gesù... grido a gran voce: Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato; chi vede me vede colui che mi ha mandato" (Jn 12,44). Si può dunque dire che Gesù Cristo si identifica con Dio come oggetto della fede chiesta e proposta ai suoi seguaci. E spiega loro: "Le cose dunque che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me" (Jn 12,50): allusione trasparente alla dizione eterna per cui il Padre genera il Verbo Figlio nella vita trinitaria.

Questa fede, legata alle opere e alle parole di Gesù, diventa una "conseguenza logica" per coloro che onestamente ascoltano Gesù, osservano le sue opere, riflettono sulle sue parole. Ma essa è anche il presupposto e la condizione indispensabile che Gesù stesso esige da coloro che vogliono diventare suoi discepoli o beneficiare del suo potere divino.


4. Significativo a questo riguardo è ciò che Gesù dice al padre del ragazzo epilettico, invaso fin dall'infanzia da uno "spirito muto" che imperversava in lui in modo impressionante. Il povero padre supplica Gesù: "Se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci. Gesù gli disse: Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede. Il padre del fanciullo rispose ad alta voce: Credo, aiutami nella mia incredulità" (Mc 9,22-23). E Gesù opera la guarigione e la liberazione di quello sventurato. Vuole pero dal padre del ragazzo un'apertura dell'anima nella fede. E' ciò che gli hanno dato nel corso dei secoli tante creature umili e afflitte, che come il padre dell'epilettico si sono rivolte a lui per chiedere aiuto nelle necessità temporali e soprattutto in quelle spirituali.


5. Dove invece gli uomini, qualunque sia la loro condizione sociale e culturale, gli oppongono una resistenza derivante da orgoglio e incredulità, Gesù castiga questo loro atteggiamento col non ammetterli ai benefici concessi dal suo potere divino. Significativo e impressionante è ciò che si legge dei nazaretani, tra i quali Gesù era tornato dopo l'inizio del suo ministero e il compimento dei primi miracoli. Essi non solo si stupivano della sua dottrina e delle sue opere, ma addirittura "si scandalizzavano di lui", ossia ne parlavano e lo trattavano con diffidenza e ostilità come persona non gradita.

"Ma Gesù disse loro: un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua. E non vi poté operare alcun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guari. E si meravigliava della loro incredulità" (Mc 6,4-6). I miracoli sono "segni" del potere divino di Gesù. Quando vi è ostinata preclusione al riconoscimento di tale potere, il miracolo perde la sua ragion d'essere. Del resto anche ai discepoli, che dopo la guarigione dell'epilettico chiedono a Gesù perché essi, che pur ne avevano ricevuto da lui potere, non sono riusciti a scacciare il demonio, egli risponde: "Per la vostra poca fede. In verità vi dico: se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati di qui, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile" (Mt 17,19-20). E' un linguaggio figurato e iperbolico, col quale Gesù vuole inculcare nei suoi seguaci la necessità e la potenza della fede.


6. E' quanto Gesù sottolinea anche a conclusione del miracolo della guarigione del cieco nato, quando lo incontra e gli chiede: "Tu credi nel Figlio dell'uomo? Egli rispose: E chi è, Signore, perché io creda in lui? Gli disse Gesù: Tu l'hai visto, colui che parla con te è proprio lui. Ed egli disse: Io credo, Signore! E gli si prostro innanzi" (Jn 9,35-38). E' l'atto di fede di un uomo umile, immagine di tutti gli umili che cercano Dio (cfr. Dt 29,3 Is 6,9-10 Jr 5,12 Ez 12,2). Egli ottiene la grazia di una vista non solo fisica, ma spirituale, perché riconosce il "Figlio dell'uomo", a differenza degli autosufficienti che si fidano solo dei loro lumi e rifiutano la luce che viene dall'alto e perciò si autocondannano, davanti a Cristo e a Dio, alla cecità (cfr. Jn 9,39-41).


7. La decisiva importanza della fede appare con evidenza anche maggiore nel dialogo tra Gesù e Marta dinanzi al sepolcro di Lazzaro: "Gesù le disse: tuo fratello risusciterà. Gli rispose Marta: So che risusciterà nell'ultimo giorno.

Gesù le disse: Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo? Gli rispose: Si, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo" (Jn 11,23-27). E Gesù risuscita Lazzaro, come segno della propria potenza divina non solo di risuscitare i morti, perché Signore della vita, ma anche di vincere la morte, lui, che, come ha detto a Marta, è la risurrezione e la vita! 8. L'insegnamento di Gesù sulla fede come condizione della sua azione salvifica si riassume e consolida nel colloquio notturno con Nicodemo, "un capo dei Giudei" ben disposto verso di lui e pronto a riconoscerlo come "maestro venuto da Dio" (Jn 3,12). Gesù tiene con lui un lungo discorso sulla "vita nuova" e, in definitiva, sulla nuova economia della salvezza fondata sulla fede nel "Figlio dell'uomo che deve essere innalzato perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Jn 3,15-16). Dunque la fede in Cristo è condizione costitutiva della salvezza, della vita eterna.

E' la fede nel Figlio unigenito - consustanziale al Padre - nel quale si manifesta l'amore dei Padre. Infatti "Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (Jn 3,17). Il giudizio, in realtà, è immanente alla scelta che si fa, all'adesione o al rifiuto della fede in Cristo. "Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede è stato già condannato perché non ha creduto nel nome dell'Unigenito Figlio di Dio" (Jn 3,18).

Parlando con Nicodemo, Gesù indica nel mistero pasquale il punto centrale della fede che salva: "Bisogna che sia innalzato sulla croce il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna" (Jn 3,14-15). Questo si può dire anche il "punto critico" della fede in Cristo. La croce è stata la prova definitiva della fede per gli apostoli e i discepoli di Cristo. Dinanzi a quell'"innalzamento" c'era da rimanere sconvolti, come in parte avvenne. Ma il fatto che egli "il terzo giorno è risuscitato" consenti loro di uscire vittoriosamente dall'ultima prova. Anche Tommaso, che fu l'ultimo a superare la prova pasquale della fede, durante il suo incontro col Risorto proruppe in quella stupenda professione di fede: "Mio Signore e mio Dio!" (Jn 20,28). Come già Pietro a Cesarea di Filippo (cfr. Mt 16,16), così Tommaso in questo incontro pasquale lascia esplodere il grido della fede che viene dal Padre: Gesù crocifisso e risorto è "Signore e Dio"! 9. Subito dopo aver riportato questa professione di fede e la risposta di Gesù che proclama la beatitudine di coloro "che pur non avendo visto crederanno" (Jn 20,29), Giovanni offre una prima conclusione del suo Vangelo: "Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù e il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome" (Jn 20,30-31).

Dunque tutto ciò che Gesù faceva e insegnava, tutto ciò che gli apostoli hanno predicato e testimoniato e gli evangelisti hanno scritto, tutto ciò che la Chiesa conserva e ripete del loro insegnamento deve servire alla fede, perché, credendo, si giunga alla salvezza. La salvezza - e dunque la vita eterna - è legata alla missione messianica di Gesù Cristo, dalla quale deriva tutta la "logica" e l'"economia" della fede cristiana. Lo proclama lo stesso Giovanni fin dal Prologo del suo Vangelo - "A quanti... l'hanno accolto, (il Verbo) ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome" (Jn 1,12).

[Omissis: saluti a vari gruppi]

1987-10-21 Data estesa: Mercoledi 21 Ottobre 1987




Messaggio per le esequie del card. Höffner - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Uomo di fede e di scienza, coerente servitore di Cristo

Testo:

Al mio venerabile fratello card. Agostino Casaroli segretario di Stato.

Dopo la manifestazione della mia più profonda e sentita partecipazione per la dipartita dello stimatissimo e benemerito signor card. Joseph Höffner, desidero sinceramente tributare l'ultimo omaggio all'amato scomparso anche attraverso la mia speciale partecipazione al solenne rito di sepoltura nel grande Duomo di Colonia.

La sua presenza, eminentissimo signor card. segretario di Stato, sia la manifestazione della mia personale partecipazione spirituale alla comune preghiera di ringraziamento a Dio per tutto ciò che egli ha donato agli uomini e alla Chiesa attraverso la vita e l'opera di questo suo fedele servitore. Ci uniamo nel rendere omaggio alla sua attività di uomo di fede e di scienza, all'esempio che ci ha dato di fedele e coerente emulazione di Cristo e di servizio zelante per il bene degli uomini nella Chiesa e nella società. Imploro da Dio, Signore della vita e della morte, in intima comunione con tutti coloro che lo ricordano con tristezza e gratitudine, il compenso promesso da Dio a chi lo serve fedelmente. Possa il Signore ricompensare il benemerito pastore scomparso per la sua sollecitudine spirituale e l'instancabile attività nei confronti dei fedeli a lui affidati e per i molti compiti da lui assolti, con la perfezione e il compimento eterno nella gloria di Dio e possa confortare e sostenere con abbondanti grazie coloro che lo seguono lungo la via della fede quali discepolo di Gesù Cristo.

Unito al Signore imparto di cuore a tutti i fratelli e sorelle presenti alla solenne cerimonia di sepoltura, la mia speciale benedizione apostolica.

1987-10-22 Data estesa: Giovedi 22 Ottobre 1987




Omelia ai seminaristi romani - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: La vocazione al sacerdozio deve diventar un dono per gli altri

Testo:

Carissimi, non sarà una predica, ma solamente un pensiero per prepararci meglio alla celebrazione eucaristica, in primo luogo all'offertorio. Ringrazio di cuore il card. vicario per il suo indirizzo iniziale. Speriamo, con la grazia di Dio e con l'aiuto delle preghiere di tutta la Chiesa specialmente della Chiesa di Roma, di poter camminare, di poter continuare su questo cammino, che la Provvidenza ci ha fatto iniziare nove anni fa.

Nell'odierna circostanza, in cui la memoria di questa inaugurazione coincide con l'inaugurazione del nuovo anno del Seminario Romano, vorrei rievocare qui la presenza del Sinodo dei vescovi che in questo stesso mese di ottobre è riunito qui a Roma. Il Sinodo sta lavorando intorno al tema: vocazione dei laici nella Chiesa e nel mondo. Sappiamo bene che è un tema conciliare. Ma io voglio citare qui solamente alcune osservazioni e alcuni suggerimenti dei partecipanti, specialmente dei partecipanti laici. Molte volte è stato detto che noi abbiamo bisogno dei sacerdoti. Anzi, qualcuno lo ha sottolineato come il problema-chiave dell'apostolato dei laici, quello cioè di avere buoni sacerdoti, avere sacerdoti capaci di essere vicini alla vocazione, ai carismi propri dei laici nella Chiesa.

A me sembra, carissimi, che questa voce del Sinodo sia molto opportuna nel momento in cui dobbiamo inaugurare il nuovo anno del Seminario Romano. E specialmente in questo momento, in cui vogliamo farlo partecipando alla santissima Eucaristia, nel momento dell'offertorio. L'offertorio è un momento privilegiato di tutte le vocazioni nella Chiesa. Tutti partecipano all'offertorio attuando le loro vocazioni e inserendo queste vocazioni nell'insieme del corpo di Cristo, sotto la specie del pane e sotto la specie del vino. Ecco il momento in cui noi dobbiamo pensare a questo dono, quale è per ciascuno di noi la vocazione sacerdotale, di essere cioè "ex hominibus assumptus, pro hominibus constitutus" (He 5,1).

Consideriamo questo dono che, essendo un dono del Signore per la nostra persona, per ciascuno di noi, nello stesso tempo deve diventare un dono per la Chiesa, per gli altri. Questo è profondamente iscritto nel mistero del sacerdozio, sacerdozio dei fedeli, sacerdozio ministeriale, di noi tutti. E' profondamente iscritto questo legame tra il dono del Signore per ciascuno di noi e il dono di ciascuno di noi per il Signore nella sua Chiesa, per gli altri.

Avvicinandoci a questo altare con i doni simbolici del pane e del vino, viviamo profondamente questo mistero ecclesiale della nostra vocazione. E imploriamo con tutto il cuore la fecondità della nostra vocazione, fecondità spirituale per la Chiesa, per gli altri, per tutti coloro verso i quali saremo inviati, e, in fondo, per noi stessi. Prima per gli altri, poi per noi stessi, perché ci troviamo come Cristo nella condizione di un "servo". Ci prepariamo ad essere servitori.

Si, ci prepariamo a guidare le comunità cristiane, a guidare le persone.

Per questo hanno tanto bisogno di noi. Ma con tutto questo, tramite tutto questo, ci prepariamo a servire, ad essere servitori, come Cristo ci ha mostrato mentre si preparava a celebrare la prima Eucaristia. Noi ci troviamo in un momento analogo, la preparazione della nostra Eucaristia, che è sempre Eucaristia di Cristo, ma è anche la nostra. Allora suscitiamo nei nostri spiriti, nei nostri cuori questa profonda consapevolezza. Suscitiamo anche questo grande desiderio di servire bene, di essere un servo buono, quel servo al quale il Signore potrà dire anche un giorno: sei stato fedele nelle cose quotidiane, nelle cose piccole sei stato fedele, ti daro autorità sulle cose grandi (cfr. Mt 25,21-23).

Perché, carissimi, l'Eucaristia è un'apertura tremenda delle cose grandi, della cosa più grande che possiamo immaginare, pensare, presentire.

L'Eucaristia è apertura del mistero di Dio, del mistero della creazione e della redenzione, del mistero del Padre nel Figlio e del Figlio nel Padre; del mistero del Figlio nel Padre e del Padre nel Figlio nello Spirito Santo. Ecco, stiamo davanti a questo mistero. L'Eucaristia ci apre questo mistero.

Dobbiamo prepararci bene portando i nostri doni, il dono della nostra vocazione a questo altare del Signore. Amen.

1987-10-22 Data estesa: Giovedi 22 Ottobre 1987




Al concerto offerto dalla Rai - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Invito alla meditazione sui temi della salvezza

Testo:

Reputo doveroso ringraziare sinceramente - a nome anche di tutti i presenti - la RAI-Televisione Italiana, il suo presidente Enrico Manca e il suo direttore generale Biagio Agnes, per il concerto sinfonico, offerto in omaggio al Sinodo dei vescovi e anche in occasione del 25° anniversario dell'apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II.

Il ringraziamento, unito a un vivo plauso, va pure al direttore maestro Rafael Fruehbeck de Burgos, ai maestri dei cori, ai solisti, ai cori e all'orchestra che, con la loro splendida esecuzione della "Missa in tempore belli" di Franz Joseph Haydn e del "Te Deum" di Giuseppe Verdi, ci hanno trasportato nel mondo della grande musica, la quale ci ha afferrati fin nel profondo del nostro essere.

Sono stati momenti di forte invito alla meditazione sui grandi temi della storia della salvezza, ma soprattutto sono stati un accorato appello alla preghiera, come dialogo e apertura verso l'Essere Assoluto, che la fede cristiana riconosce e adora come Padre, Figlio e Spirito Santo.

Che quanto abbiamo ascoltato con intensa emozione estetica in questa sera, continui a risonare a lungo nel nostro spirito assetato di verità, e di bellezza! La mia benedizione apostolica vi accompagni sempre!

1987-10-24 Data estesa: Sabato 24 Ottobre 1987




Omelia per la canonizzazione di Giuseppe Moscati - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Non la scienza ma la carità trasforma il mondo

Testo:

1. "Venite, benedetti del Padre mio" (Mt 25,34). Oggi ultima domenica collegata col Sinodo dei vescovi, parla a noi Cristo, rivolgendoci questo medesimo invito.

Parla il Figlio Eterno, al quale il Padre ha dato "ogni giudizio".

Di fatto, le suddette parole sono tratte dalla pagina evangelica sul giudizio finale, a cui tutti saremo convocati alla fine dei tempi: "E saranno riunite (davanti al Figlio dell'uomo) tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri" (Mt 25,32).

Il brano evangelico, che è stato oggi proclamato, abbraccia soltanto la prima parte della descrizione del giudizio. Essa parla insieme del definitivo compimento della vocazione dell'uomo in Dio e della piena realizzazione del senso della vita umana: "Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo"! (Mt 25,34).

Nell'ultima domenica del Sinodo, il cui tema è la vocazione e missione dei laici nella Chiesa, questa desidera ripetere - quasi dal cuore stesso della liturgia odierna - all'intero popolo di Dio, e in particolare ai nostri fratelli e sorelle laici, questo invito: "Ricevete il regno" (cfr. Mt 25,34).


2. Questo invito è, in pari tempo, una chiamata alla santità. Che cos'è la santità? La santità è unione dell'uomo con Dio nella potenza del mistero pasquale di Cristo. Nella potenza dello Spirito di Verità e d'Amore. Proprio di ciò parla il Vangelo di oggi. L'amore ha la forza di unire l'uomo a Dio. E questo amore definitivo matura attraverso le molteplici opere di carità che l'uomo compie nel corso della sua vita: "Mi avete dato da mangiare... mi avete dato da bere... mi avete ospitato... mi avete vestito... mi avete visitato.. siete venuti a trovarmi" (Mt 25,35-36).

Quando? Come? "In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Mt 25,40).

In questa domanda: "quando... come?", noi avvertiamo come un senso di sorpresa. Nella risposta di Cristo c'è la rivelazione dell'ammirabile misura dell'amore. L'Amore ha sempre e dappertutto la possibilità di raggiungere Gesù Cristo in persona. Esso ha la capacità sempre e dappertutto di unire l'uomo col cuore stesso di Dio. E in questo cuore, come in un perenne fuoco, l'amore "umano" - l'amore a misura delle quotidiane opere dell'uomo - supera se stesso. Partecipa di colui che solo è in pienezza l'Amore.


3. Le note parole dell'Apostolo tratte dalla Lettera ai Corinzi - a quel capitolo 13 che è conosciuto come "inno alla carità" - sono in un certo senso un commento alle parole di Cristo nell'odierno Vangelo. L'Apostolo prima "descrive", nei suoi tratti essenziali, l'amore che nasce nel cuore dell'uomo e matura fino alla sua piena dimensione: quella propria di Dio. Egli dunque scrive: "La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità.

Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta" (1Co 13,4-7).

E poi San Paolo insegna che proprio questo amore "non avrà mai fine" (1Co 13,8). Esso cammina con ciascuno di noi fino al cospetto del Dio Vivente, quando ci sarà dato vederlo "a faccia a faccia" (1Co 13,12). L'amore ci permetterà di ritrovare noi stessi dinanzi all'infinita maestà di Dio che è santità perché è amore. Solo l'amore ci permetterà di guardare "in faccia" a colui che "è l'amore" (1Jn 4,8) 4. Oggi la Chiesa ci invita alla mensa della parola di Dio, per rileggere, alla sua luce, la più grande e definitiva vocazione di ciascuno di noi. In particolare di ciascuno e ciascuna di voi, cari fratelli e sorelle, che nel corso dei giorni e delle settimane passati siete stati in un certo senso protagonisti del grande lavoro del Sinodo.

La Chiesa pone dinanzi ai vostri occhi la figura di un Uomo, che elevato alla gloria degli altari in questa solenne canonizzazione, dice a tutti i laici nella Chiesa: considerate... la vostra vocazione!" (1Co 1,26).

L'uomo che da oggi invocheremo come santo della Chiesa universale, si presenta a noi come un'attuazione concreta dell'ideale del cristiano laico.

Giuseppe Moscati, medico primario ospedaliero, insigne ricercatore, docente universitario di fisiologia umana e di chimica fisiologica, visse i suoi molteplici compiti con tutto l'impegno e la serietà che l'esercizio di queste delicate professioni laicali richiede. Da questo punto di vista il Moscati costituisce un esempio non soltanto da ammirare, ma da imitare, soprattutto da parte degli operatori sanitari: medici, infermieri e infermiere, volontari, e quanti, direttamente a indirettamente, sono impegnati nell'assistenza agli infermi e nel vastissimo mondo della sanità e della salute. Egli si pone come esempio anche per chi non condivide la sua fede.


5. Tuttavia fu proprio questa fede a conferire al suo impegno dimensioni e qualità nuove, quelle tipiche del laico autenticamente cristiano. Grazie ad esse gli aspetti professionali, nella sua vita, si integravano armoniosamente fra loro, si sostenevano l'un l'altro, per essere vissuti come una risposta a una vocazione, e quindi come una collaborazione al piano creatore e redentivo di Dio.

Per indole e vocazione il Moscati fu innanzitutto e soprattutto il medico che cura: il rispondere alle necessità degli uomini e alle loro sofferenze, fu per lui un bisogno imperioso e imprescindibile. Il dolore di chi è malato giungeva a lui come il grido di un fratello a cui un altro fratello, il medico, doveva accorrere con l'ardore dell'amore. Il movente della sua attività come medico non fu dunque il solo dovere professionale, ma la consapevolezza di essere stato posto da Dio nel mondo per operare secondo i suoi piani, per apportare quindi, con amore, il sollievo che la scienza medica offre nel lenire il dolore e ridare la salute.


6. Memore delle parole del Signore: "Ero malato e mi avete visitato" (Mt 25,36), il Moscati vedeva Cristo stesso nel malato, che, nella sua debolezza, nella sua miseria, nella sua fragilità e insicurezza, a lui si rivolgeva invocando aiuto; vedeva chi gli stava innanzi come una persona, un essere in cui c'era un corpo bisognoso di cura, ma anche un essere in cui albergava uno spirito pur esso bisognoso di aiuto e di conforto.

"Ricordatevi - egli scriveva a un giovane dottore, suo alunno - che non solo del corpo vi dovete occupare, ma delle anime con il consiglio, e scendendo allo spirito, anziché con le fredde prescrizioni da inviare al farmacista".

Infatti - sono ancora parole sue - "il medico si trova tanto spesso al cospetto di anime che stanno li li per capitolare e far ritorno ai principi ereditari degli avi, stanno li ansiose di trovare un conforto, assillate dal dolore. Beato quel medico che sa comprendere il mistero di questi cuori e infiammarli di nuovo. Beati noi medici, tanto spesso incapaci ad allontanare una malattia, beati noi se ci ricordiamo che oltre i corpi abbiamo di fronte delle anime immortali, per le quali urge il precetto evangelico di amarle come noi stessi".

Per questo, il calore umano con cui il Moscati visitava premurosamente i malati, specie i più poveri e abbandonati, avvicinandoli in ospedale e nelle loro stesse abitazioni, era tale che la gente lo cercava; il suo tratto era ricco di quella bontà rispettosa e delicata, che Gesù Cristo diffondeva intorno a sé quando andava per le strade della Palestina facendo del bene e sanando tutti (cfr. Ac 10,38). Fu quindi anticipatore e protagonista di quella umanizzazione della medicina, avvertita oggi come condizione necessaria per una rinnovata attenzione e assistenza a chi soffre.


7. Nel costante rapporto con Dio, il Moscati trovava la luce per meglio comprendere e diagnosticare le malattie e il calore per poter essere vicino a coloro che, soffrendo, attendevano dal medico chi li servisse con partecipazione sincera. Da questo profondo e costante riferimento a Dio, egli traeva la forza che lo sosteneva e che gli permetteva di vivere con integra onestà e assoluta rettitudine nel proprio delicato e complesso ambiente, senza addivenire ad alcuna forma di compromesso. Egli era il maestro, il primario di ospedale che non ambiva a posizioni: se queste gli venivano attribuite, era perché i suoi meriti non potevano essere negati, e quando le occupo, seppe esercitarle con assoluta dirittura e per il bene degli altri.

Uomo integro e cristiano coerente, non esitava a denunziare gli abusi, adoperandosi per demolire prassi e sistemi che andavano a danno della vera professionalità e della scienza, a danno degli infermi come pure degli studenti ai quali sentiva di dover trasmettere il meglio delle proprie cognizioni. Gli studenti sono i medici del domani. Conscio di ciò, il Moscati pensava alla qualità dei futuri medici, prendendo anche pubblicamente posizione affinché non venisse in alcun modo mortificata la loro preparazione e formazione. Preparazione e formazione che seppe incarnare con l'esempio. Anche la morte lo colse, mentre stava visitando una inferma.

Veramente, ogni aspetto della vita di questo laico medico ci appare animato da quella nota che è la più tipica del cristianesimo: l'amore, che Cristo ha lasciato ai suoi seguaci come il suo "comandamento". Di questa sua personale esperienza del valore centrale del cristianesimo egli ha lasciato numerose tracce nei suoi scritti. Sono parole che a noi, oggi, suonano quasi come un testamento: "Non la scienza, ma la carità ha trasformato il mondo, egli osservava; solo pochissimi uomini sono passati alla storia per la scienza; ma tutti potranno rimanere imperituri, simbolo dell'eternità della vita, in cui la morte non è che una tappa, una metamorfosi per un più alto ascenso, se si dedicheranno al bene".


8. Come non avvertire in queste parole quasi un'eco della pagina evangelica, che abbiamo oggi ascoltato? "Mi avete dato da mangiare, mi avete dato da bere... mi avete ospitato... mi avete vestito... mi avete visitato...". Quando? Come? Auguro a tutti, amati fratelli e sorelle - qui convenuti in piazza San Pietro o sparsi nelle varie parti del mondo - auguro a tutti che al termine della vostra vita possiate ripetere queste domande... e ricevere la stessa risposta di Cristo! Allora "la tua luce sorgerà come l'aurora (dice il profeta)... e la gloria del Signore ti seguirà..." (Is 58,8).

La carità "non avrà mai fine... la più grande è la carità" (1Co 13,8 1Co 13,14). Amen!

1987-10-25 Data estesa: Domenica 25 Ottobre 1987




Recita dell'Angelus - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Apriamo il cuore alla Madonna per dirle "le cose come sono"

Testo:

Cari fratelli e sorelle, 1. Il nostro pensiero si volge oggi al santuario della beata Vergine del Rosario in Pompei, santuario molto caro al dottor Moscati, che stamane ho avuto la gioia di proclamare Santo. Egli vi sostava frequentemente nei suoi viaggi ad Amalfi, Salerno, Campobasso, per visitare qualche infermo o in altre circostanze. "Quanta dolcezza provo - confidava ad una persona di sua conoscenza - nel comunicarmi nel Santuario di Pompei! Ai piedi della Madonna mi sembra di diventare più piccolo, e le dico le cose come sono".

Vogliamo anche noi, oggi, recarci spiritualmente in quel Centro di devozione mariana, per aprire il nostro cuore alla Madonna e dirle "le cose come sono". Il Santuario di Pompei con la sua vasta risonanza a livello internazionale, con le moltitudini di pellegrini che vi confluiscono, col grande complesso di opere che lo attorniano, sta a testimoniare le potenti energie che il culto a Maria è in grado di suscitare, energie che si traducono in definitiva, in un amore appassionato per l'uomo, tutto l'uomo, nella sua dimensione spirituale come in quella sociale e temporale.

Alle origini dell'opera di Bartolo Longo c'è, com'è noto, l'amore per l'uomo, l'uomo sofferente della Valle di Pompei di fine Ottocento, degradato da una vita di stenti e di ignoranza. Bartolo Longo capi che ciò di cui quella povera gente aveva sommamente bisogno era la catechesi e la presenza materna e misericordiosa di Maria, resa più sensibile attraverso un umile quadro della Madonna del Rosario, collocato nella chiesetta di Valle di Pompei il 13 novembre del 1875.


2. Questo stesso quadro diventerà ben presto come il fulcro del movimento di culto e di carità a livello internazionale. Secondo l'illuminata intuizione di Bartolo Longo, la devozione mariana e il pio esercizio del Rosario dovevano essere, non soltanto per i poveri contadini della Valle di Pompei, ma per tutta la Chiesa e l'intera società, mezzi straordinariamente efficaci di promozione dell'uomo e di pacificazione universale. Vogliamo oggi raccogliere l'invito, che ci viene dal beato Bartolo Longo e dal novello santo, il dottore Giuseppe Moscati, a un rinnovato impegno di devozione a Maria. La Madonna di Pompei, venerata sotto il titolo di "Vergine del Rosario", ci indica un mezzo privilegiato per progredire nella devozione verso di lei e per approfondire il nostro rapporto di fede e di amore verso il Figlio suo Gesù: la corona del Rosario.

La contemplazione dei misteri in cui si snoda la storia della nostra salvezza, l'invocazione a Dio Padre con le parole stesse che Gesù ci ha insegnato, il fluire ritmico delle "Ave Maria", quasi ghirlanda di rose intrecciata intorno alla più pura, alla più bella, alla più santa di tutte le donne, la finale dossologia a glorificazione della Trinità divina, fanno del Rosario una preghiera straordinariamente ricca di contenuto, pur nella semplicità di una struttura che ne consente la recita nelle circostanze più diverse.

Riprendiamo in mano, carissimi fratelli e sorelle, la corona del Rosario per esprimere la nostra venerazione a Maria, per apprendere da lei ad essere discepoli diligenti del Maestro divino, per implorare la sua celeste assistenza tanto nelle nostre quotidiane necessità quanto nei grandi problemi che angustiano la Chiesa e l'intera umanità.

[Al termine della preghiera mariana:] Saluto tutti i vescovi, i sacerdoti e i fedeli della Campania, specialmente quelli della città di Napoli, insieme con il card. Corrado Ursi e con il suo successore nella sede arcivescovile napoletana. Nello stesso tempo abbracciamo in questa preghiera tutti gli operatori sanitari: medici, infermieri, infermiere e tutti gli altri che assistono i nostri carissimi fratelli e sorelle ammalati. Ci portiamo in spirito in tutti gli ambienti dell'opera sanitaria, in tutte le cliniche e gli ospedali dell'Italia e del mondo. Che siano sempre i luoghi privilegiati della carità, del servizio all'uomo sofferente, del servizio alla vita, dall'inizio del suo concepimento nel grembo materno. E così ci troviamo di nuovo davanti al nostro carissimo santo Giuseppe Moscati per pregare insieme con lui come lui pregava il suo rosario, il suo "Angelus Domini" nel santuario di Pompei nella sua città di Napoli e dappertutto in Italia e fuori Italia.

1987-10-25 Data estesa: Domenica 25 Ottobre 1987










GPII 1987 Insegnamenti - Udienza generale - Città del Vaticano (Roma)