GPII 1988 Insegnamenti - Ad un gruppo di Magistrati italiani - Città del Vaticano (Roma)

Ad un gruppo di Magistrati italiani - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Il ricordo della luminosa figura di Vittorio Bachelet ispiri la costruzione del bene comune senza conflitti

Testo:

Illustri componenti del Consiglio Superiore della Magistratura italiana.


1. Ringrazio il professore Cesare Mirabelli per le nobili parole, con le quali ha interpretato i sentimenti che vi animano nel vostro quotidiano impegno, e mi ha espresso il vostro saluto e quello dei vostri familiari, convenuti qui oggi per un momento di incontro e di comune preghiera.

Mi è caro dimostrarvi, in questa occasione - tanto significativa perché è il primo incontro che ho con voi - la profonda attenzione che dedico alle vostre funzioni, nonché il mio apprezzamento ed incoraggiamento per l'attività intensa e di grande responsabilità, nella quale profondete le vostre energie.


2. La Costituzione italiana attribuisce al Consiglio Superiore della Magistratura un ruolo di grande complessità; e voi pertanto avete un grande lavoro da svolgere collegialmente ogni giorno, lavoro che certamente vi sforzate di compiere con sincero spirito di servizio verso le istituzioni.

Provenendo da esperienze diverse, voi siete giunti a far parte di questo alto consesso per elezione della Magistratura o del Parlamento, ed ora nel vostro mandato quadriennale siete chiamati a garantire, con i vostri atti, l'indipendenza dell'ordine giudiziario da ogni altro potere, consentendo ed assicurando che ciascun giudice possa rispondere unicamente al dettato delle leggi, rettamente interpretate, ed alla coscienza che, ancorata alle radici della fede, illumina e deve ispirare ogni atto dell'uomo.

Vi sono vicino in queste non certo facili responsabilità; e vi auguro perciò di trovare, nel vostro impegno, la via che il Signore traccia per i passi di ciascun uomo. Con i vostri atti, dovete essere voi stessi una testimonianza vivente di giustizia per coloro che amministrate, come per tutti i magistrati che ogni giorno devono fare, essi pure, opera concreta di giustizia a servizio dell'uomo ed a garanzia dei suoi diritti fondamentali.

Sappiate vivere questo non breve arco di tempo di comune ed intenso lavoro con generoso entusiasmo e solidale fraternità, offrendo, nel cuore delle istituzioni, l'esempio di un saggio, competente e duraturo sforzo per costruire senza conflitti il bene comune.

Sappiate anche far crescere tra di voi un' amicizia, che va oltre le occasioni e le ragioni di una comune esperienza.


3. In tutto questo non siete privi di ammaestramenti e di esempi. Mi è infatti caro ricordare oggi, insieme con voi, la luminosa figura di Vittorio Bachelet, che ha presieduto al Consiglio Superiore della Magistratura in tempi di grandi difficoltà, sacrificando la vita alle istituzioni. Egli ha offerto una testimonianza esemplare dello stile propri del laico cristiano.

Nell'Eucaristia, celebrata in suo suffragio il 23 febbraio 1980, sottolineavo appunto che "l'eloquenza di questa morte consiste nella testimonianza. Il morto può dare ancora una testimonianza? Si, la dà mediante ciò che egli era, il modo in cui è vissuto, il come ha operato" (Insegnamenti, III, 1 [1980] 477). Avevo appunto conosciuto il prof. Bachelet nell'ambito del consiglio per i laici. E ora, dopo la celebrazione del Sinodo dei Vescovi sul laicato, si comprende di più quale dono ci faccia il Signore quando concede figure di laici così amabili, così umani, così completi, nei quali l'amore alla Chiesa, il servizio alla societa e la fedeltà alle leggi si fondono in un tutt'uno armonioso.

Non dubito che un tale esempio, ancora vivo nella memoria di tutti, ispiri sempre anche la vostra vita sul versante della professionalità come su quello delle convinzioni ideali; e vi auguro che, di conseguenza, il vostro comportamento sia improntato a grande senso di responsabilità, di misura, di discrezione, nel solidale e concorde impegno per la soluzione dei molti problemi che si presentano al vostro esame ogni giorno.

Siano i vostri atti testimonianza trasparente e discreta della vostra fede.

Con questi voti, che accompagnano con la mia preghiera per ciascuno di voi, e per le vostre famiglie, di cuore invoco su tutto il Consiglio Superiore della Magistratura le continue benedizioni del Signore.


Data: 1988-02-15 Data estesa: Lunedi 15 Febbraio 1988




Catechesi all'udienza generale - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Colui che "spoglio se stesso"

Testo:


1. "Ecco l'uomo!" (Jn 19,5). Abbiamo ricordato nella catechesi precedente queste parole pronunziate da Pilato nel presentare Gesù ai sommi sacerdoti e alle guardie, dopo averlo fatto flagellare e prima di pronunciare la condanna definitiva alla morte di croce. Gesù, piagato, coronato di spine, con un mantello di porpora addosso, schernito e schiaffeggiato dai soldati, vicino ormai alla morte, è l'emblema dell'umanità sofferente.

"Ecco l'uomo!". Questa espressione contiene in un certo senso tutta la verità su Cristo vero uomo: su colui che si è fatto "in tutto simile a noi fuorché nel peccato"; su colui che "si è unito in certo modo ad ogni uomo"; (cfr. GS 22). L'hanno chiamato "amico dei pubblicani e dei peccatori". Proprio come vittima per il peccato divenne solidale con tutti anche con i "peccatori", fino alla morte di croce. Ma proprio in questa condizione di vittima, a cui Gesù è ridotto, risalta un ultimo aspetto della sua umanità, che dev'essere accettato e meditato fino in fondo alla luce del mistero del suo "spogliamento" ("kenosis").

Secondo san Paolo, egli, "pur essendo di natura divina, non considero un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spoglio se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini,; apparso in forma umana, umilio se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Ph 2,6-8).


2. Il testo paolino della lettera ai Filippesi ci introduce nel mistero della "kenosis" di Cristo. Per esprimere questo mistero, l' Apostolo usa prima la parola "spoglio", ed essa si riferisce soprattutto alla realtà dell'incarnazione "Il Verbo si fece carne" (Jn 1,14). Dio-Figlio ha assunto la natura umana, l'umanità, è diventato vero uomo, rimanendo Dio! La verità su Cristo-uomo deve essere considerata sempre in relazione a Dio-Figlio. Proprio questo riferimento permanente è indicato dal testo di Paolo. "Spoglio se stesso" non significa in alcun modo che cesso di essere Dio: sarebbe un assurdo! Significa invece, come si esprime in modo perspicace l'Apostolo, che "non considero un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio" ma, "pur essendo di natura divina" ("in forma Dei") - come vero Dio-Figlio - egli assunse una natura umana priva di gloria, soggetta alla sofferenza e alla morte, nella quale poter vivere l'obbedienza al Padre fino all'estremo sacrificio.


3. In tale contesto, il farsi simile agli uomini comporto una rinuncia volontaria, che si estese perfino ai "privilegi" che egli avrebbe potuto godere come uomo.

Infatti assunse "la condizione di servo". Non ha voluto appartenere alle categorie dei potenti, ha voluto essere come colui che serve: "Il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito, ma per servire" (Mc 10,45).


4. Di fatto, vediamo nei Vangeli che la vita terrena di Cristo fu segnata sin dall'inizio con il marchio della povertà. Ciò è messo in rilievo già nella narrazione della nascita, quando l'evangelista Luca fa notare che "non c'era posto per loro (Maria e Giuseppe) nell'albergo" e che Gesù è stato dato alla luce in una stalla e deposto in una mangiatoia (cfr. Lc 2,7). Da Matteo sappiamo che già nei primi mesi della sua vita provo la sorte del profugo (cfr. Mt 2,13-15). La vita nascosta a Nazaret si svolse in condizioni estremamente modeste, quelle di una famiglia il cui capo era un carpentiere (cfr. Mt 13,55), e lo stesso Gesù lavorava col suo padre putativo (cfr. Mc 6,3). E quando diede inizio al suo insegnamento, un'estrema povertà continuo ad accompagnarlo, come attesta in qualche modo lui stesso riferendosi alla precarietà delle sue condizioni di vita, imposte dal suo ministero di evangelizzazione. "Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo" (Lc 9,58).


5. La missione messianica di Gesù incontro sin dall'inizio obiezioni e incomprensioni, malgrado i "segni" che operava. Era sotto osservazione e perseguitato da parte di quelli che esercitavano il potere e avevano l'influenza sul suo popolo. Infine venne accusato, condannato e messo a morte in croce: la più infamante tra tutte le specie di pene di morte, che era applicata soltanto nei casi di crimini di estrema gravità, specialmente nei confronti di coloro che non erano cittadini romani e degli schiavi. Anche per questo si può dire con l'Apostolo che Cristo assunse, letteralmente, "la condizione di servo" (Ph 2,7).


6. In questo "spogliamento di se stesso" che caratterizza profondamente la verità su Cristo vero uomo, possiamo dire che si ristabilisce la verità dell'uomo universale: la si ristabilisce e la si "ripara". Infatti, quando leggiamo che il Figlio "non considero un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio", non possiamo non cogliere in queste parole una allusione a quella prima e originaria tentazione alla quale l'uomo e la donna cedettero "in principio": "Diventerete (cioè sarete) come Dio, conoscendo il bene e il male" (Gn 3,5). L'uomo aveva ceduto alla tentazione per essere "uguale a Dio", benché fosse soltanto una creatura. Colui che è Dio-Figlio "non considero un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio". E facendosi uomo "spoglio sè stesso", riabilitando con tale scelta ogni uomo, per quanto povero e spogliato, nella sua dignità originaria.


7. Ma per esprimere questo mistero della "kenosis" di Cristo, san Paolo usa anche un'altra parola: "Umilio se stesso". Questa parola è da lui inserita nel contesto della realtà della redenzione. Scrive infatti che Gesù Cristo "umilio se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Ph 2,8). Qui la "kenosis" di Cristo è descritta nella sua dimensione definitiva. Dal punto di vista umano è la dimensione dello spogliamento mediante la passione e la morte infamante. Dal punto di vista divino è la redenzione operata dall'amore misericordioso del Padre per mezzo del Figlio che volontariamente ubbidi per amore al Padre e agli uomini da salvare. E in quel momento si ebbe un nuovo inizio della gloria di Dio nella storia dell'uomo: la gloria di Cristo, suo Figlio fatto uomo.

Infatti il testo paolino dice: "Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome" (Ph 2,9).


8. Ecco come sant'Atanasio commenta questo testo della lettera ai Filippesi: "Tale espressione lo ha esaltato, non intende significare che sia stata esaltata la natura del Verbo: quest'ultimo, infatti, è stato e sarà sempre uguale a Dio. Essa vuole indicare, invece, l'esaltazione della natura umana. Queste parole, pertanto, non sono state pronunciate se non dopo l'incarnazione del Verbo, perché apparisse chiaro che termini come umiliato ed esaltato vanno riferiti unicamente alla dimensione umana. Soltanto ciò che è umile, infatti, è suscettibile di essere innalzato" (S. Athanasii "Adversus Arianos", Oratio I, 41). Qui aggiungeremo soltanto che tutta la natura umana - tutta l'umanità - umiliata nella condizione penosa a cui l'ha ridotta il peccato, trova nella esaltazione di Cristo-uomo la fonte della sua nuova gloria.


9. Non possiamo concludere senza un ultimo accenno al fatto che Gesù per lo più ha parlato di se stesso come del "Figlio dell'uomo" (Mc 2,10 Mc 2, 28;14,62; Mt 8,20;16,27;24,27; Lc 9,22;11,30; Jn 1,51;8,28;13,31, etc). Questa espressione secondo la sensibilità del linguaggio comune d'allora poteva anche indicare che egli è vero uomo così come tutti gli altri esseri umani, e senza dubbio contiene il riferimento alla sua reale umanità.

Tuttavia il significato strettamente biblico, anche in questo caso, va stabilito tenendo conto del contesto storico risultante dalla tradizione di Israele, espressa e influenzata dalla profezia di Daniele che dà origine a quella formulazione di un concetto messianico (cfr. Da 7,13-14). "Figlio dell'uomo" in tale contesto non significa soltanto un comune uomo appartenente al genere umano, ma si riferisce a un personaggio che riceverà da Dio una dominazione universale e trascendente i singoli tempi storici, nell'era escatologica.

Sulla bocca di Gesù e nei testi degli evangelisti la formula è pertanto carica di un senso pieno che abbraccia divino e umano, cielo e terra, storia ed escatologia, come lo stesso Gesù ci fa intendere quando, testimoniando davanti a Caifa di essere il Figlio di Dio, predice con forza: "D'ora innanzi vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra di Dio, venire sulle nubi del cielo" (Mt 26,64). Nel Figlio dell'uomo è dunque immanente la potenza e la gloria di Dio.

Siamo di nuovo di fronte all'unico Uomo-Dio, vero Uomo e vero Dio. La catechesi ci riporta continuamente a lui, perché crediamo e, credendo, preghiamo e adoriamo.


[Omissis. Seguono saluti nelle varie lingue]


Data: 1988-02-17 Data estesa: Mercoledi 17 Febbraio 1988




Omelia del Mercoledi delle ceneri - Roma

Titolo: La verità sul peccato svela all'uomo d'oggi la dimensione fondamentale della sua identità

Testo:


1. "Rendimi la gioia di essere salvato" (Ps 51[50],14).

Così prega oggi la Chiesa insieme col salmista. All'inizio della Quaresima essa impone sulle nostre teste le ceneri e ripete a ciascuno: "Ricordati che sei polvere, e in polvere tornerai", chiedendo nello stesso tempo la gioia della salvezza.

Nell'intero arco dell'anno liturgico la Chiesa aspira costantemente alla gioia della salvezza divina. Ma nel periodo della Quaresima questa aspirazione si fa particolarmente intensa: "Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza" (2Co 6,2).

La Chiesa accoglie dalle labbra di Cristo le prime parole del messaggio evangelico: "Covertitevi e credete al Vangelo" (Mc 1,15) e le pronunzia pure mentre cosparge le nostre teste con le ceneri.


2. "Rendimi la gioia di essere salvato".

Il salmista è pienamente consapevole che la "gioia di essere salvato" scaturisce dalla liberazione dal peccato: "Riconosco la mia colpa, / il mio peccato mi sta sempre dinanzi" (Ps 51[50],5).

Il peccato è una macchia. Esso contamina l'uomo nella sua più intima vita spirituale. perciò il salmista grida: "Lavami da tutte le mie colpe, / mondami dal mio peccato" (Ps 51[50],4).

Egli è pienamente consapevole che il peccato è un male che ingombra l'anima dell'uomo, e grava sulla sua coscienza. perciò dice: "Riconosco la mia colpa, / il mio peccato mi sta sempre dinanzi".

Egli sa anche che il peccato, questo male che grava interiormente e ingombra l'anima dell'uomo è un ostacolo frapposto tra l'uomo e Dio:"Contro di te, contro te solo ho peccato, / quello che è male ai tuoi occhi / io l'ho fatto" (Ps 51[50],6).


3. L'immagine così offerta del peccato è pienamente espressiva. In essa s'incontrano tutte e due le dimensioni, che determinano la misura della colpa. Da un lato l'essere umano con la sua coscienza sensibile al bene e al male.

Dall'altro lato, la grandezza e la santità di Dio. L'uomo vive dinanzi a lui. Dio è sin dall'inizio colui che interroga l'uomo sulla verità della sua coscienza: Adamo, "dove sei?" (Gn 3,9). Egli è anche l'unico al quale l'uomo può svelare la verità tutta intera, per confessargliela.

Ma Dio non è soltanto il giudice che conosce tutto. Egli è contemporaneamente quell'unico al quale l'uomo può gridare "Cancella il mio peccato"... nella tua grande bontà cancella! (cfr. Ps 51[50],3).

"Cancella" significa: "Fà si che sia annientato ciò che ingombra la mia anima, che grava sulla mia coscienza: questo male! Soltanto tu puoi farlo.

Soltanto tu!".

Soltanto tu puoi "annientare", perché soltanto tu puoi creare. In me, uomo, il peccato non può sparire se tu non mi creerai di nuovo.

Ecco, dunque, come grida il salmista: "Crea in me, o Dio, un cuore puro, / rinnova in me uno spirito saldo" (Ps 51[50],12).

"Rendimi la gioia"! 4. Occorre che ciascuno di noi, ogni uomo della società contemporanea rilegga queste parole dell'antico salmo. Esse sono semplici, profonde, penetranti. Sono capaci di svelare sempre di nuovo il mondo particolare che l'uomo porta in se stesso e che l'uomo contemporaneo, - specialmente forse quello dell'Occidente con la sua civiltà unidimensionale - ha, in certo senso, allontanato da sè. Ne ha smarrito il senso.

E con questo ha perso anche la dimensione fondamentale della sua identità umana; della sua identità cristiana.

Cercando a ogni costo di "cancellare" dalla sua coscienza il peccato - la verità sul peccato - egli ha smarrito anche i grandi beni ai quali questa verità apre l'accesso: la piena dimensione del suo "io" umano, la vera sensibilità della coscienza e in definitiva quella dignità unica che deriva dall'essere dinanzi a Dio, dall'essere nel raggio della luce che promana dal suo "volto".

Quanto eloquenti sono le parole del Salmista: "Non respingermi dalla tua presenza / e non privarmi del tuo santo spirito" (Ps 51[50],13).


5. "Rendimi la gioia di essere salvato". Bisogna aggiungere che l'uomo contemporaneo ha perso anche la gioia, quella dimensione della gioia che gli è stata destinata da Dio.

La Quaresima ci apre la via a una tale gioia. Aiuta a ritrovarla oppure ad approfondirla. Questa via ci fa avanzare attraverso le parole ispirate del Salmista. Più ancora, ci fa avanzare attraverso il mistero pasquale di Cristo.

San Paolo scrive in proposito queste parole sconvolgenti: "Lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo tratto da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio" (2Co 5,20-21).

Egli è la pienezza della grazia salvifica. Non accoglietela invano! Collaborate con lui (cfr. 2Co 6,1).


6. Oggi, mercoledi delle Ceneri, preghiamo affinché la Quaresima diventi per ciascuno e per tutti il tempo della riscoperta del mistero penetrante di Cristo, a cui si riferisce l'Apostolo. Il tempo di una particolare collaborazione con lui, crocifisso e risorto.

Si: la croce e la risurrezione.

A conclusione della Quaresima - nel giorno della solennità pasquale, la solennità più grande - Dio, anno dopo anno, dà compimento alle parole del Salmista: "Rendimi la gioia di essere salvato". E' la gioia della Pasqua di Cristo.


Data: 1988-02-17 Data estesa: Mercoledi 17 Febbraio 1988




Messaggio per la Campagna quaresimale di fraternità in Brasile - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Nessuno sia escluso dal benessere a motivo della razza o del colore

Testo:

Amati fratelli e sorelle in Cristo Gesù.

Carissimi brasiliani.


1. Vi saluto cordialmente, in questo incontro ormai tradizionale all'inizio della Quaresima, esortandovi alla penitenza, perché produca in tutti i frutti di una vita più cristiana e di una carità più efficace.

La Quaresima deve segnare la vita personale di ogni battezzato e delle comunità, attraverso l'ascolto della parola, la riflessione, la preghiera e il sacrificio, per una risposta generosa all'appello di Dio, espresso in Isaia: "Non è piuttosto questo il digiuno che voglio?... Dividere il pane con l'affamato, introdurre in casa i miseri, senza tetto... Allora invocherai il Signore ed egli ti risponderà" (Is 58,6 Is 58,7 Is 58,9). Questa Quaresima, nell'anno mariano, si svolgerà sotto lo sguardo materno della Madonna, Madre della Misericordia, Madre di Gesù, il Salvatore. Lui è venuto per annunciare il Regno di Dio, a chiamare gli uomini alla conversione e proclamare il "comandamento nuovo"; lui ha voluto essere identificato con i poveri e con coloro che soffrono o sono perseguitati (cfr. Mt 25,40).

In Cristo sono diventati visibili la misericordia di Dio e il suo disegno, e cioè che tutti gli uomini fossero una sola famiglia, trattandosi a vicenda con amore fraterno: "Voi siete tutti fratelli" (cfr. Mt 23,8). Per cui è per tutti la forza del mistero pasquale. La Quaresima è la via verso la Pasqua, verso la libertà dei figli di Dio. Essa può essere raggiunta attraverso la liberazione dal peccato e la giustificazione, la grazia della fede e dei sacramenti della Chiesa.


2. Inizia oggi un'altra Campagna di fraternità nella Chiesa del Brasile, impegnata nella sua missione di evangelizzazione, contribuendo così alla promozione umana, attraverso vie convergenti, guidata dai suoi pastori, come maestri ed educatori della fede del popolo, segni e costruttori dell'unità nella carità. La Campagna di fraternità riguarda l'animazione pastorale della Quaresima, centralizzata sul tema: "La Chiesa e il negro". Si tratta di un'ampia area della popolazione brasiliana, infatti quest'anno si celebra la cosiddetta "Legge Aurea" e presenta una problematica reale che merita la sollecitudine pastorale ispirata da criteri evangelici, aderente e fedele alla dottrina della Chiesa riguardo la dignità della persona umana e la promozione dei suoi diritti, tenendo in vista il bene comune.

In questo campo, la Chiesa ha ripetuto la sua solita dottrina nel Concilio Vaticano II, denunciando, tra un'infinità di "cose infami", la schiavitù, contraria al Vangelo, che annuncia e proclama la libertà per tutti gli uomini, senza esclusione; e spiega che la schiavitù ha la sua radice ultima nel peccato ed il lievito dell'odio e della divisione hanno la stessa origine, poiché nutrono i preconcetti razziali e proliferano in situazioni di conflitto e in discriminazioni e marginalizzazioni (cfr. GS 27 GS 29).

Quindi, tutto ciò contraddice i diritti e i doveri imprescrittibili della persona umana; e non lascia che gli individui, le famiglie ed i gruppi siano dimenticati, abbandonati ai margini della strada che porta allo sviluppo e al benessere, per motivi di razza o colore. Come ho fatto ovunque, vorrei dire anche qui: dappertutto, e ancor più nella stessa patria comune, tutti gli uomini e donne sono uguali in dignità dinanzi a Dio, e nelle strutture devono disporre del medesimo accesso alla vita economica, culturale e sociale, partecipando veramente al bene comune.

Tutti coloro che cercano sinceramente e cristianamente di concorrere a risolvere i problemi suscitati in questo campo, sia gli interessati direttamente, sia gli altri, devono dialogare faccia a faccia; e, così riconciliati, devono impegnarsi, con solidarietà e fraternità, nell'opera pacifica della giustizia e dello sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini nel progresso. Quest'ultimo non si riferisce alla ricchezza amata in se stessa, sfruttata soltanto da alcuni; ma all'economia al servizio dell'uomo, al pane quotidiano, da tutti preparato e a tutti distribuito "come fonte di fraternità e segno della divina Provvidenza" (Pauli VI "Popolorum Progressio", 86).


3. L'"immagine" del Creatore, riflessa in tutti, la dignità umana e la condizione di figli di Dio offerta a tutti, insieme all'amore evangelico, hanno per conseguenza ed esigenza diretta e imperativa il rispetto verso ogni essere umano, nonché dei suoi diritti. E non esiste distanza e tanto meno opposizione tra il desiderio di giustizia e l'amore al prossimo, e l'amore a Dio sopra tutte le cose.

L'importante è non guardare mai indietro, anzi in avanti, e stringere la mano del prossimo (cfr. Lc 10,25), per camminare insieme, come fratelli, in comunione verso la stessa direzione; nella direzione della costruzione di una società più giusta e più fraterna, dove ci sia posto per tutti. "Siate misericordiosi, come il vostro Padre celeste è misericordioso" (cfr. Lc 6,36).

Vi esorto, quindi, fratelli e sorelle, a lasciarvi condurre dallo Spirito di Dio, a rompere le catene del peccato e dell'egoismo. Condividete e date, con spirito di solidarietà e generosamente, perché brilli la vostra carità; e "vedendo le vostre opere buone, tutti possano glorificare il vostro Padre che è nei cieli" (cfr. Mt 5,16).

Che questa Quaresima, seguendo l'esempio e l'intercessione di Maria "Nostra Signora Aparecida", fortifichi la nostra fedeltà al Signore e che la nostra vita testimoni l'ubbidienza ai suoi disegni: "Voi siete tutti fratelli!".

Con questa preghiera per la comunità multirazziale del Brasile, unendo l'uguale stima verso tutti, vi benedico: Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen!


Data: 1988-02-18 Data estesa: Giovedi 18 Febbraio 1988




Al Clero romano - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Coinvolgere nel Sinodo tutto il Popolo di Dio nelle parrocchie e al di là delle parrocchie

Testo:


1. E' molto prezioso per me questo incontro, questa udienza in un certo senso unica nel corso dell'anno, durante la quale posso sentire le voci dei parroci, dei Pastori di Roma: della diocesi, delle parrocchie, delle comunità. Se si tratta del Sinodo romano penso che sia arrivato il momento giusto per cominciarlo. Forse la spinta decisiva a celebrarlo ci è stata data dalla sessione straordinaria del Sinodo dei Vescovi del 1985, nella quale parlando, a venti anni dal Vaticano II, della problematica conciliare, il Sinodo ha sottolineato anche l'importanza dei Sinodi o regionali o diocesani per far progredire il rinnovamento conciliare.

Questo,per quanto concerne il tempo. Per quanto attiene invece la tematica e la struttura organizzativa, esse, in un Sinodo postconciliare, devono andare insieme. Questo non è tanto determinato dalle prescrizioni giuridiche, quanto piuttosto dal magistero conciliare. Possiamo dire che il Concilio è già molto conosciuto, ma rimane sempre da studiare, da conoscere meglio. In questo Concilio c'è una grande novità, ci sono molte novità: qualche volta queste novità del Concilio appaiono quasi troppo pesanti, troppo difficili, per alcuni o di spirito conservatore o anche di spirito progressista. Allora si deve sempre studiare il Concilio per sapere cosa veramente lo Spirito Santo ci dice attraverso questa assemblea privilegiata, in cui si esprime il supremo magistero della Chiesa. Il Sinodo deve quindi uscire dal Concilio come magistero, ma anche come evento. Le due cose vanno insieme.


2. Tra le diverse svolte che si sono operate in questo Concilio Vaticano II, forse una delle più importanti è stata la decisione, nel progetto della costituzione dogmatica sulla Chiesa, di trattare, dopo il mistero della Chiesa, del Popolo di Dio e poi della struttura gerarchica della Chiesa. Questa è stata una svolta importante, anzi decisiva; direi soprattutto decisiva per il modo di vedere e di organizzare i diversi Sinodi locali, diocesani, regionali. Se ci domandiamo dove è il punto nodale della pastoralità del Vaticano II, io penso che lo troviamo in questa svolta, in questo momento del magistero conciliare. Dopo una tale sistemazione della problematica ecclesiologica, il Concilio non poteva non essere pastorale, come non poteva non essere ecumenico, aperto alle altre confessioni cristiane ed a tutte le altre religioni del mondo, aperto al mondo. Il grande padre del Vaticano II, Giovanni XXIII, ancora negli ultimi momenti della sua vita insisteva perché si trattasse questo problema: Chiesa e mondo.

Tutto questo ci porta verso la caratteristica pastorale anche dei nostri Sinodi. Questo comporta una certa difficoltà organizzativa, ma porta con sè anche una prevedibile ricchezza di risultati. Certamente era più facile un Sinodo a tempi brevi, come quelli di un tempo, dove tutto era prestabilito sulla base del Diritto Canonico e, nell'ambito dei principi di questo Diritto, era unilateralmente clericale: gli unici agenti di tale Sinodo tradizionale erano i chierici, il clero, una rappresentanza del clero - forse qualche volta era convocato anche un laico per essere consultato. Invece, dopo il Vaticano II, con quella svolta di fondo che si trova soprattutto nell "Lumen Gentium" e poi nella "Gaudium et Spes" ed in altri documenti, non si può fare altrimenti. Si deve fare così, come prevede di fare il Sinodo romano. Il problema è che questo Sinodo romano è, naturalmente, già in cammino, ma finora i lavori si sono svolti nel centro organizzativo e giuridico della diocesi. E' previsto, come ha detto il Cardinale Vicario all'inizio, che il Sinodo ora scenda a livello delle parrocchie.

Vuol dire che deve essere coinvolta in questo processo sinodale la grande comunità, la comunità del Popolo di Dio, che ha certamente i suoi diritti, i suoi doveri, ma che ha soprattutto la sua missione. Ha la sua missione ed essa è indicata con la parola apostolato: parola molto alta, che forse, in precedenza, era riferita troppo esclusivamente ai sacerdoti, ai Vescovi, al clero, Invece, evangelicamente,se studiamo il comportamento di Gesù e, dopo, il modo di procedere degli apostoli, si vede che, fin dall'inizio, la comunità aveva la sua responsabilità apostolica attorno agli apostoli. Questo si ripete sempre nella Chiesa, da un secolo all'altro. Anche nei tempi in cui la Chiesa sembrava essere troppo clericale, si realizzava sempre questo apostolato. Ma il Vaticano II ha dato più rilievo, possiamo dire anche più pubblicità, a questo aspetto. Ma esso indipendentemente dalla pubblicità, è una realtà.


3. Allora il Sinodo romano deve scendere al livello del Popolo di Dio che vive soprattutto nelle parrocchie, ma non esclusivamente nelle parrocchie. Qui io vedo un problema, non un problema dottrinale, perché questo è stato già spiegato - non poteva essere altrimenti dal punto di vista dottrinale, dal punto di vista del magistero del Vaticano II -, ma vedo un problema dal punto di vista pastorale, pratico. Se dobbiamo fare questo Sinodo negli ambienti parrocchiali, con tutti i nostri carissimi fratelli e sorelle che compongono ogni parrocchia, dobbiamo prevedere una giusta metodologia per questo lavoro. Questa metodologia deve essere studiata nelle sue linee generali, insieme, al centro; ma deve essere studiata poi particolareggiatamente in ogni ambiente, in ogni parrocchia, perché ogni parrocchia ha le proprie caratteristiche e, forse, anche i metodi, che si devono prevedere per fare questo passo nell'insieme del processo sinodale, possono essere simili, ma non necessariamente identici. Porrei una sottolineatura su questa necessità.

Si deve pensare alla metodologia, a come fare adesso il Sinodo nei diversi ambienti, nelle parrocchie. Ma qui si deve ancora osservare che la Chiesa di Roma è molto ricca. Questa sua ricchezza proviene non solamente dal fatto che è la Chiesa di Roma, la Chiesa apostolica, ma proviene anche dal fatto che la Sede di Pietro, il ministero petrino, è, in un senso specifico ed unico, universale.

Allora vi sono a Roma diversi istituti, diverse comunità a causa del ministero petrino, della sua caratteristica universale. Pensiamo, per esempio, a tutte le case generalizie delle congregazioni, degli ordini; pensiamo alle università romane. Dobbiamo allora porci una domanda: queste comunità, legate più all'universalità della Chiesa di Roma che alla sua dimensione locale, devono entrare nel Sinodo o no? Penso che debbano entrare, a modo loro. Devono essere coinvolte, perché, anche se lavorano nella prospettiva di tutto il mondo, si trovano a Roma e fanno parte della Chiesa di Roma. In qualche modo devono essere coinvolte e qui ci vuole ancora un'altra metodologia.


4. Se parliamo di metodologia, secondo me, il problema principale, che ho anche trovato in molti interventi dei carissimi confratelli, è quello della civiltà moderna, della mentalità dell'uomo contemporaneo, tutto ciò che viene abbracciato sotto il termine "mondo". Sappiamo che questa categoria, il mondo, ha nella Bibbia stessa, nella Sacra Scrittura, due significati diversi. Un significato è che il mondo è tutto ciò che è stato creato da Dio e redento da Cristo. così, possiamo dire, tutto è abbracciato dalla categoria Popolo di Dio - in qualche misura lo vediamo ancora studiando la "Lumen Gentium", specialmente il secondo capitolo, e studiando poi i diversi altri decreti e documenti del Concilio. Ma c'è ancora un altro significato della parola mondo: il mondo alienato dal divino, indifferente o ostile, quello che tante volte viene definito con la parola "secolarizzazione". La secolarizzazione è soprattutto qualche cosa che s'avvicina all'indifferenza: non negare l'esistenza di Dio, non negare neanche il valore della religione, della Chiesa, ma vivere, piuttosto, come se Dio non esistesse, non vivere nella Chiesa pur essendo battezzati, appartenere al Popolo di Dio in senso sacramentale, in senso formale - possiamo dire -, vivendo pero praticamente come se Dio non esistesse, come se non esistesse tutta quella realtà rivelata, tutto quell'altro mondo, in cui si trovano i nostri destini. Vivere quindi un po fuori da questa dimensione degli ultimi destini dell'uomo, dei destini escatologici. Qui entrano, naturalmente, le diverse ideologie, i diversi programmi culturali, filosofici, politici che servono a portare avanti questo progetto. La realtà della città di Roma, e, a causa sua, anche la realtà della Chiesa di Roma e, finalmente, del Sinodo romano è questa. Qui ci vuole ancora una metodologia. Si deve prevedere una metodologia. Come andare incontro a questo mondo secolarizzato, mondanizzato, ma non del tutto sradicato dal contesto cristiano. Certamente ci sono anche elementi ed ambienti totalmente sradicati, ma questa non è la media. La media non è sradicata, ma è senza interesse, cerca semplicemente una vita più facile senza pensare all'aldilà.


5. Tutto quello che ho detto penso che rispecchi anche le preoccupazioni dei presenti. Lo si è potuto sentire già nei vostri interventi.

Per terminare: il Sinodo è certamente un'espressione della comunione della Chiesa, della comunione già esistente, già realizzata e di quella che si vuole realizzare e che si vede come una grande possibilità, come una sfida da realizzare. Il Vaticano II è stato veramente un'espressione di genio dottrinale e pastorale insieme, quando ci ha lasciato questa categoria centrale della comunione, dando ad essa significati diversi, perché sono diverse le dimensioni di quella comunione che esemplarmente si trova in Dio stesso. Nella realtà umana, nella realtà ecclesiale si trova in modi diversi, alcuni già realizzati, alcuni realizzabili, che si devono cercare. Nell'apostolato della Chiesa c'è una ricerca della comunione sempre maggiore, comunione anche con coloro che sono fuori - fuori o in senso formale, perché non battezzati, o perché non cattolici, o fuori perché non credenti, perché indifferenti, perché ostili alla Chiesa -.

Se posso aggiungere ancora una dimensione all'aspetto metodologico, non dobbiamo dimenticare che Roma è una grande città, è una città con tutte le sue specifiche componenti di capitale, di centro culturale: vi sono le università, i diversi ambienti dal punto di vista umano, professionale. Allora, forse, basandoci sempre sulla realtà principale che è la parrocchia, si deve prevedere anche una certa metodologia per entrare in questo mondo, che si ritrova anche, certamente, nelle parrocchie. Nelle parrocchie possiamo incontrare un po tutti, anche i grandi pensatori, i grandi artisti, i grandi professori, gli intellettuali, gli uomini politici, ma possiamo dire che per loro il luogo proprio dell'incontro non è tanto la parrocchia. La parrocchia deve cercare se stessa fuori di se stessa. E la Chiesa di Roma deve cercare se stessa un po fuori di se stessa.

Così uno degli elementi principali dell'eredità del Vaticano II è la seconda parte della "Gaudium et Spes", nella quale vengono indicati i principali problemi, i problemi più urgenti: cioè le dimensioni più urgenti della vita, cominciando dalla famiglia - matrimonio e famiglia -, poi dalla cultura, fino a tutta la dimensione delle relazioni sociali, politiche, internazionali.

Tutto questo per quanto riguarda la metodologia nella tappa che ora deve essere iniziata, cioè nella tappa ulteriore, la tappa in cui tutta la Chiesa di Roma, non solamente il suo centro, diventa il Sinodo e tutti sono, in una qualche misura, chiamati, autorizzati a far parte di questo Sinodo, a portare qualche consiglio. Forse anche coloro che non si sentono cattolici possono darci qualche volta un consiglio, un consiglio non sempre cattivo.

Allora, certamente non si vedono tempi brevi. Piuttosto si vedono tempi lunghi. Ma, penso che la metodologia debba essere anche riferita ai tempi, perché se dobbiamo entrare un po dappertutto nell'autoricerca della nostra Chiesa romana, se dobbiamo entrare un po dappertutto, dobbiamo prevedere anche i modi ed i tempi per non lasciarci coinvolgere totalmente, perdendo la visione dell'insieme, del piano generale del Sinodo.


6. Un'ultima cosa. Avevo già annunciato l'ultima cosa, ma poi sono caduto nella penultima. Allora ritorno all'ultima e questa volta spero che non mi verrà un'altra tentazione. Se noi leggiamo gli Atti degli Apostoli, della primitiva comunità cristiana, vediamo che essa era assidua nell'ascolto della parola degli apostoli e della Parola di Dio attraverso gli apostoli, nella "fractio panis" e nella preghiera. Non si può andare avanti col Sinodo, con la grande opera di autoricerca della Chiesa romana, senza la preghiera sistematica. Si deve prevedere anche un sistema di preghiera col Sinodo e per il Sinodo, per i suoi frutti. Ci sono tante persone che forse non potrebbero darci tanti consigli, ma che sono pronte a pregare; aspettano solamente una domanda. Questo si deve anche prevedere; e tra le tante possibilità metodologiche che si devono prevedere, questa è la più importante.

Il Cardinale Vicario si è mostrato, come dire, molto comprensivo verso di me. Non ha suonato. Forse doveva farlo. Ma c'era un altro sistema di segnalazione, meno ufficiale: gli applausi. Anche quel sistema, pero, non ha funzionato. così se sono stato troppo loquace e troppo lungo, anche il campanello e gli applausi hanno la loro parte di responsabilità.


Data: 1988-02-18 Data estesa: Giovedi 18 Febbraio 1988





GPII 1988 Insegnamenti - Ad un gruppo di Magistrati italiani - Città del Vaticano (Roma)