GPII 1983 Insegnamenti - A esponenti delle Chiese britanniche - Città del Vaticano (Roma)


1,19). "A lui sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen" (He 13,21).

Data: 1983-04-29 Data estesa: Venerdi 29 Aprile 1983

A Vescovi dello Zaïre in visita "ad limina" - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Non si può delegare il Magistero della Chiesa

Cari fratelli nell'Episcopato.

Questa riunione fraterna segna uno dei punti culminanti della vostra visita "ad limina". Da parte mia, sono molto felice di accogliervi tutti insieme.

Ringrazio Monsignor Kabanga Songasonga per i sentimenti di fiducia che mi ha espresso, facendosi interprete di tutti voi, e vi ringrazio tutti dei dialoghi franchi e aperti che avete già avuto con me e, spero, con i Dicasteri, durante queste giornate romane.

Cerco di aver presente allo spirito i segni di speranza e i problemi delle vostre sedici diocesi delle province di Lubumbashi e di Kananga. Ne ho già affrontato un certo numero con i vostri confratelli che vi hanno preceduto. Oggi, mi sembra opportuno consacrare una riflessione più approfondita a uno dei problemi chiave che la vostra Conferenza mi ha del resto sottomesso come prioritario: quello della "teologia africana" cioè del contributo africano alla ricerca teologica.


2. Nei suoi aspetti generali, del resto, questo problema non è nuovo per la Chiesa. I primi capitoli del libro degli Atti mostrano bene come Pietro e gli altri apostoli abbiano per prima cosa vissuto in simbiosi con l'atmosfera ebraica di Gerusalemme. Ma ben presto si pose loro la questione degli ellenisti, cioè dei discepoli - ebrei o pagani - che erano di cultura greca. Due secoli non erano ancora passati che nasceva una terza forma di "cristianità", le Chiese latine.

Durante i secoli hanno così coabitato Chiese giudeo-cristiane, Chiese orientali e Chiese latine. Questa diversità si è talvolta accentuata fino a tensioni e scismi.

Questo non impedisce che la coesistenza di queste diverse Chiese rimanga la manifestazione più tipica e per molti aspetti la più esemplare di un legittimo pluralismo nel culto, nella disciplina, nelle espressioni teologiche, così come indica il decreto "Unitatis Redintegratio" del Concilio Vaticano II (UR 14-18).


3. Due tratti caratterizzano l'unità delle Chiese locali sparse per il mondo: la loro fedeltà al Cristo Fondatore, e la loro struttura gerarchica, che assicurano sia la continuità con Cristo, sia la comunicazione tra le Chiese particolari.

Quando si pensa ai legami delle nostre assemblee cristiane con il Signore Gesù, si ritorna sempre alle parole essenziali del Vangelo. In qualunque rito essi celebrino l'Eucaristia, i Vescovi e i sacerdoti richiamano, dopo la consacrazione, le parole di Gesù durante l'ultima Cena: "Hoc facite in meam commemorationem" (Lc 22,19). E in modo più generale, la missione della Chiesa si riassume nelle ultime direttive di Cristo agli undici: "Euntes ergo docete omnes gentes, baptizantes eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti, docentes eos servare omnia quaecumque mandavi vobis" (Mt 28,19-20). Troviamo qui le tre condizioni essenziali della presenza perpetua del Signore ("et ecce ego vobiscum sum omnibus diebus..."): una fede comune, una vita sacramentale inaugurata dal battesimo, un programma di vita centrato sulle esigenze della fede.

Qui incontriamo nello stesso tempo i dati che vengono dalla fede, dalla cultura e dalla storia. La distinzione di questi tre livelli è certamente necessaria a chi vuole studiare da vicino l'inculturazione della vita cristiana.

Questo non toglie che, nelle sue origini, il cristianesimo dipenda da questi tre elementi strettamente congiunti.


4. E' ancora nella prospettiva dell'apostolicità che vorrei insistere su di un'altra condizione del legittimo pluralismo: quello del carattere gerarchico della Chiesa di Cristo, da cui deriva il ruolo fondamentale della gerarchia nella sua duplice missione di magistero e di sacerdozio. E' evidente che tutti i cristiani d'Africa non partecipano nella stessa maniera all'elaborazione di una teologia. E anche, bisogna scartare vigorosamente l'idea che di fronte al ministeri e ai sacramenti, tutti i membri delle comunità cristiane abbiano le medesime responsabilità e gli stessi problemi. Dall'epoca apostolica, la Chiesa appare strutturata; accanto ai fedeli, vi sono gli "apostoli", i "viri apostolici", con i loro successori i Vescovi, i sacerdoti, i diaconi. Sia nella predicazione e nella pastorale così come nel servizio eucaristico, le funzioni sono diverse. Non si tratta di dominio, ma di servizio, di una missione del tutto particolare che assicura la presenza del Signore Gesù vicino a un gruppo di fedeli, ma anche che fonda la comunità di tutte le Chiese locali nella Chiesa unica e perfetta che è la Sposa di Cristo.

Vi fu forse un tempo in cui alcuni hanno insistito troppo esclusivamente sull'autorità del Magistero nell'organismo della vita della fede. Il Concilio Vaticano II ha messo giustamente in evidenza il fatto che la comprensione della Rivelazione si accresce non solamente attraverso "la predicazione di coloro che, con la successione episcopale, hanno ricevuto un carisma che certifica la verità", ma anche attraverso "la contemplazione e lo studio dei credenti, e "l'intima intelligenza delle realtà spirituali di cui essi fanno esperienza" (DV 8). Da parte loro, i teologi si sono visti riconoscere un posto importante nella Chiesa. Essi sono i "coadiutori" formali del Magistero in particolare nell'accostamento a questioni nuove, nell'approfondimento tecnico dello studio delle origini della fede. Ciò non toglie che solo il Papa e il Collegio episcopale siano gli organi del magistero e che questo Magistero non può essere delegato (cfr. Paolo VI, Discorso alla Commissione teologica internazionale, 6 ottobre



1969: AAS LXI (1969) 714).

Nell'esplosione della vita, nel ribollimento della ricerca intellettuale come nelle riflessioni sociologiche sull'inculturazione della fede, molte idee possono venir espresse, molte esperienze possono essere tentate. Ma non dimenticate che spetta a voi, Vescovi, in unione con il successore di Pietro, giudicare in ultima analisi sull'autenticità cristiana delle idee e delle esperienze. Il carisma della nostra ordinazione entra qui in gioco, perché siamo Dottori e Padri nella fede. Uno dei criteri del vostro giudizio sarà del resto la possibilità di comunicare con le altre Chiese locali: legittimamente fieri della vostra specificità africana, voi non avete pero meno il dovere di scambiare le vostre espressioni e i vostri modi di vita con le altre comunità cristiane. Ciò facendo, siete i garanti dell'unità della Chiesa, e contribuite ad un arricchimento reciproco.


5. Se determinati modi di comprendere il "sensus fidelium" ricordato dal Concilio Vaticano II sono stati abusivi, è successo così anche per il sacerdozio comune dei fedeli. Riprendendo i termini della prima Lettera di Pietro, il Concilio ha dichiarato che il popolo di Dio forma una comunità sacerdotale e reale. Viene anche ben definita la differenza tra il sacerdozio ministeriale e il sacerdozio comune. Per celebrare l'Eucaristia, per rimettere i peccati, per assicurare la pienezza della vita sacramentale, le ordinazioni sono necessarie. Cristo ha scelto i Dodici e ha dato loro specifici poteri. L'ho ricordato ancora nella lettera indirizzata per il Giovedi Santo di quest'anno a tutti i sacerdoti. Seguendo le direttive di Cristo, gli apostoli hanno organizzato dei ministeri con responsabilità e poteri ben precisi. Alcuni hanno sfortunatamente dimenticato questi elementi indispensabili della fede negli anni che seguirono il Concilio.

Ben presto alcuni teologi hanno preteso di "rimodellare" i ministeri. Ma, chi non lo vede? Un ministro designato dalla comunità, o come talvolta si dice dalla "base", non può essere il legittimo collaboratore dei Vescovi e dei sacerdoti. Non si ricollega alla venerabile tradizione apostolica che da noi ai Dodici poi al Signore caratterizza la persistenza storica dell'imposizione delle mani per la comunicazione dello Spirito di Cristo.


6. Tutte queste osservazioni non vogliono avere niente di negativo. Si tratta di porre i fondamenti validi di un autentico contributo africano alla ricerca teologica, di ricercare le condizioni per le quali l'inculturazione africana del cristianesimo - di cui voi siete legittimamente preoccupati - sarà fruttuosa e benefica. Non è in gioco solamente la vita cristiana dell'Africa, si tratta anche di arricchire la Chiesa tutta intera con nuovi approcci dei misteri di Dio come attraverso un progresso spirituale e morale che mostra tutte le esigenze cristiane nell'azione.

Quali sono dunque i grandi compiti che attendono la "teologia africana"? Quando si esaminano i libri e gli articoli già pubblicati su questo tema, o ancora le mozioni di questa o di quella riunione, si percepisce che sono aperte due grandi vie di riflessione: una riflessione dottrinale sull'identità africana, e una lettura dei dati fondamentali del cristianesimo.

Per quanto concerne il problema dell'identità africana, sono già apparse opere documentate sull'essere, la personalità, la libertà, la concezione del mondo nelle differenti etnie. Questi libri sottolineano ciò che c'è di specifico in ciascuna di queste etnie e ciò che è loro comune. Questo aspetto di sintesi si rafforza ancora quando si accostano quelle opere che concernono la "filosofia dell'Africa". Il rischio in questo campo è quello di rinchiudersi su se stessi. Ma l'episcopato dello Zaïre ha saputo guidare i suoi teologi, sacerdoti e laici, sulle strade di una giusta collaborazione con i centri di studio di altri Paesi.

E' a partire da questo tipo di sintesi che vi state ritrovando, voi e i vostri fedeli, nella situazione di tutte le culture. Vi è posto qui per molte posizioni dottrinali diverse e più o meno legittime. Siete certamente coscienti di un pericolo: di lasciare che si costituisca una filosofia e una teologia dell'"africanità" che sarebbe unicamente autoctona e priva di un legame reale e profondo con Cristo; e in questo caso, il cristianesimo non sarebbe più che un riferimento verbale, un elemento artificialmente introdotto in aggiunta. L'Europa medioevale ha anch'essa conosciuto degli Aristotelici che di cristiano non avevano che il nome, come per esempio gli Averroisti che san Tommaso d'Aquino e san Bonaventura hanno dovuto combattere con vigore. Nell'epoca attuale, si può percepire il medesimo pericolo nei tentativi fatti per costituire un hegelismo o un marxismo sedicenti cristiani.

E' ben vero che "al pluralismo di ricerca e di pensiero, che esplora ed espone il dogma in vari modi, ma senza privarlo nell'identico significato oggettivo", è riconosciuto "un diritto di legittima cittadinanza nella Chiesa, in quanto componente naturale della sua cattolicità, e segno della ricchezza culturale e dell'impegno personale di tutti coloro che ne fanno parte" (Paolo VI, Esortazione apostolica sulla riconciliazione all'interno della Chiesa: AAS LXVII (1975) 13). Ma visto lo stretto rapporto tra la teologia e la fede, un pluralismo teologico che non tenesse conto del patrimonio comune della fede e delle basi comuni del pensiero umano che fondano una reciproca possibilità di comprensione diventerebbe pericoloso per l'unità stessa della fede: "Ceterum nos omnes fidem accepimus per continuatam planeque constantem traditionem" (Paolo VI, Discorso di conclusione del Sinodo dei Vescovi: AAS LXVI (1974) 636-637). D'altra parte, come anch'io ho già ricordato ai professori e studenti dell'Università Pontificia Gregoriana, la ricerca teologica deve essere condotta con il necessario discernimento: "Vi sono infatti ottiche, scopi, linguaggi filosofici veramente limitati; vi sono sistemi scientifici talmente poveri e chiusi che rendono possibile una traduzione e un'interpretazione soddisfacente della Parola di Dio" (AAS LXXI (1979) 1543).


7. Ma altra cosa è trasformare il cristianesimo in "culturalismo", altra cosa è servirsi di una cultura per ritradurre in parole nuove e in prospettive nuove il dato biblico tradizionale. In questo compito, l'opera teologica realizzata in Africa può sicuramente offrire molti servizi, a condizione che alla base della lettura che essa intraprende vi sia la Bibbia, i Concili, i documenti del Magistero conosciuti nella loro autenticità e nella loro integralità. E' in questo senso che alla fine del II secolo, sant'Ireneo sottolineava con forza questa origine comune e il fine dell'unità: "Questa predicazione che ha ricevuto e questa fede che abbiamo esposto, la Chiesa, diffusa nel mondo intero, la mantiene scrupolosamente come se vivesse in un'unica casa... Né le Chiese che sono state fondate in Germania, o in Iberia, o presso i Celti, né quelle dell'Oriente, dell'Egitto o della Libia, o quelle che sono al centro del mondo (a Gerusalemme) non differiscono per quanto riguarda la fede o la tradizione" (cfr. "Adversus haereses", PG 7, 550-554). E' questa fedeltà che io raccomandavo nel mio discorso alla Facoltà di teologia di Kinshasa come condizione per promuovere validamente la ricerca e l'insegnamento teologico nel vostro Paese. Ho già saputo con gioia che, attualmente, molti colloqui teologici organizzati in una prospettiva africana riservano un posto importante alla Rivelazione, nelle sue espressioni bibliche ed ecclesiali.


8. Alla luce di queste riflessioni generali, molti altri problemi concreti possono ancora attirare la nostra riflessione, come ad esempio quelli della famiglia cristiana, della giustizia a livello delle strutture comunitarie, dello sviluppo e del progresso economico. Penso anche all'evangelizzazione e alla fedeltà cristiana degli ambienti intellettuali e dirigenti che giustamente vi preoccupa. E del resto voi mi parlate spesso di sette che intaccano qui e là l'unità cattolica, la qual cosa sembrerebbe sottolineare, tra le altre, la necessità di una fede più matura, più ragionata, più viva e soprattutto più cosciente del necessario riferimento apostolico.

Tutta questa opera pastorale richiede una grande unità tra tutti i Vescovi dello Zaïre. Per parte mia, sappiate che incoraggio di cuore gli sforzi meritori e concertati che mettete quotidianamente in opera per istruire il popolo di Dio e guidarlo verso la santità, per sostenere lo zelo pastorale, il discernimento e la vita spirituale dei vostri sacerdoti. Essi si consacrino totalmente a ciò che è specifico del loro ministero sacerdotale, senza partecipare direttamente alla politica che è competenza dei laici. Con loro, continuate a formare i laici alle loro diverse responsabilità ecclesiali e sociali; trascinate gli uni e gli altri nel cammino di conversione e di penitenza messo in rilievo dall'Anno Santo della Redenzione, e fortificateli tutti nella speranza che il mistero di Pasqua ci ha aperto. Continuero a ricordare le vostre intenzioni al Signore e alla sua santa Madre. E raccomando alla vostra preghiera il ministero che mi è stato affidato per l'unità e la fedeltà di tutta la Chiesa. Di tutto cuore, vi benedico e vi domando di trasmettere la mia cordiale benedizione apostolica a tutte le vostre comunità cristiane.

Data: 1983-04-30 Data estesa: Sabato 30 Aprile 1983

Alla Segreteria del Sinodo dei Vescovi - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Questo Sinodo è servizio di unità nella dinamica della Chiesa

Fratelli carissimi.


1. Nella vostra ultima riunione del Consiglio della Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi, nella quale avete gettato le linee dell'"Instrumentum laboris", avete voluto proporre una speciale sessione per dedicarla in maniera particolare ai problemi interni di questa giovane eppur già ben sperimentata istituzione ecclesiale. Vi siete imposti una fatica supplementare ai lavori ordinari. Ed ora state per portarla alla fine. Ringrazio di cuore tutti voi e con voi ringrazio gli officiali della Segreteria e gli esperti che con i loro studi approfonditi hanno fornito un'ampia base per la vostra riflessione sulla funzione e sul funzionamento del Sinodo dei Vescovi.

Questa vostra riunione è stata come la sosta dell'operaio che dopo aver compiuto una parte dell'opera si ferma un momento per riconsiderare le motivazioni che lo hanno spinto e rinnovare il coraggio verso l'ulteriore lavoro. Il Sinodo dei Vescovi è germogliato nel fertile terreno del Concilio Vaticano II, ha potuto vedere il sole grazie alla sensibile mente del mio predecessore, Paolo VI, e ha cominciato a portare i suoi frutti sin dalla prima assemblea ordinaria del 1967, svoltasi in questo stesso ambiente dove ora ci troviamo. Da quel tempo, radunatosi a scadenze fisse, ma sperimentando pure qualche volta un altro tipo di assemblea, il Sinodo dei Vescovi ha contribuito in maniera notevolissima all'attuazione degli insegnamenti e degli orientamenti dottrinali e pastorali del Concilio Vaticano II nella vita della Chiesa universale. La chiave sinodale di lettura del Concilio è diventata quasi un luogo di interpretazione, di applicazione e di sviluppo del Vaticano II. Il ricco elenco dei temi trattati nei diversi Sinodi rivela da solo l'importanza delle sue assemblee per la Chiesa e per l'attuazione delle riforme volute dal Concilio.

Di fronte a questa ricchezza di frutti già prodotti e di potenzialità ancora non dispiegate dell'ancor giovane istituzione sinodale, è giusto anzitutto rendere grazie a Dio perché ha voluto ispirare la sua fondazione e guidare la sua opera. Ma era pure giusto, a distanza di questi anni, fermarsi in una riflessione basata sull'esperienza acquisita.


2. Il Sinodo dei Vescovi ha reso quindi grandi servizi al Concilio Vaticano II e li può rendere ancora nell'applicazione e nello sviluppo degli orientamenti conciliari. L'esperienza del periodo postconciliare mostra chiaramente in quale notevole misura l'attività sinodale scandisca il ritmo della vita pastorale nella Chiesa universale.

Nelle assemblee sinodali vengono rappresentate dai rispettivi pastori delegati le singole Chiese locali di tutti i continenti. Già durante la fase preparatoria esse vengono consultate e la loro esperienza della vita di fede viene poi portata dai Vescovi all'assemblea. Nell'assemblea avviene lo scambio delle notizie e dei suggerimenti; e alla luce del Vangelo e della dottrina della Chiesa vengono delineati orientamenti comuni che, una volta sigillati con l'approvazione del successore di Pietro, vengono riversati a beneficio delle stesse Chiese locali perché la Chiesa intera possa mantenere la comunione nella pluralità delle culture e delle situazioni. In tale maniera, anche il Sinodo dei Vescovi è una magnifica conferma della realtà della Chiesa nella quale il collegio episcopale "in quanto composto da molti, esprime la varietà e l'universalità del Popolo di Dio, in quanto poi è raccolto sotto un solo capo, significa l'unità del gregge di Cristo" (LG 22).

Certo, il Sinodo è lo strumento della collegialità ed un potente fattore della comunione in misura diversa da un Concilio Ecumenico. Si tratta pero sempre di uno strumento efficace, agile, tempestivo, puntuale servizio di tutte le Chiese locali e della loro reciproca comunione. Questa finalità, che accompagna sempre questo "speciale consiglio permanente di sacri Pastori", vi è stata presente fin dalla sua istituzione; come ha detto Paolo VI nella Lettera apostolica "Apostolica sollicitudo", "affinché anche dopo il Concilio continuasse a giungere al popolo cristiano quella larga abbondanza di benefici che durante il Concilio felicemente si ebbe dalla viva unione nostra con i Vescovi". Perché il Sinodo possa portare sempre di più questi benefici, molto dipende dalla applicazione concreta che viene data alle conclusioni sinodali, sotto la guida dei Pastori e delle Conferenze episcopali, nelle singole Chiese locali. Questa fase post-sinodale richiede quindi molta attenzione e particolare cura.


3. La forza dinamica del Sinodo dei Vescovi affonda le sue radici - come avete ben rilevato - nella giusta comprensione e nella vita della collegialità dei Vescovi.

Il Sinodo è infatti un'espressione particolarmente fruttuosa e lo strumento validissimo della collegialità episcopale, cioè della particolare responsabilità dei Vescovi attorno al Vescovo di Roma.

Il Sinodo è una forma per esprimere la collegialità dei Vescovi. Tutti i Vescovi della Chiesa con a capo il Vescovo di Roma, successore di Pietro, "perpetuo e visibile principio e fondamento dell'unità" (LG 23) dell'episcopato formano il collegio che succede a quello apostolico con a capo Pietro. La solidarietà che li lega e la sollecitudine per l'intera Chiesa si manifestano in sommo grado quando tutti i Vescovi sono radunati "cum Petro et sub Petro" nel Concilio ecumenico. Tra il Concilio e il Sinodo esiste evidentemente una differenza qualitativa ma, ciò nonostante, il Sinodo esprime la collegialità in maniera altamente intensa seppur non uguale a quella realizzata dal Concilio.

Tale collegialità si manifesta principalmente nel modo collegiale di pronunciarsi da parte dei Pastori delle Chiese locali. Quando essi, specialmente dopo una buona preparazione comunitaria nelle proprie Chiese e collegiale nelle proprie Conferenze episcopali, con la responsabilità per le proprie Chiese particolari ma assieme con la sollecitudine per la Chiesa intera, testimoniano in comune la fede e la vita di fede, il loro voto, se moralmente unanime, ha un peso qualitativo ecclesiale che supera l'aspetto semplicemente formale del voto consultivo.

La vitalità di un Sinodo dipende infatti dall'intensità della sua preparazione a livello delle comunità ecclesiali e delle Conferenze episcopali; quanto meglio funziona in concreto la collegialità tra i Vescovi che esprime la comunione nelle singole Chiese, tanto più ricco può essere il contributo che essi portano all'assemblea sinodale. L'esercizio della collegialità dei Pastori al Sinodo diventa un reciproco scambio che serve anche alla comunione sia dei Vescovi che dei fedeli e, in definitiva, all'unità sempre più profonda e organica della Chiesa. Il Sinodo è quindi al servizio della comunione ecclesiale, la quale non è altro che la stessa unità della Chiesa, nella dimensione dinamica.

Nel mistero della Chiesa tutti gli elementi trovano il loro posto e la loro funzione. E così la funzione del Vescovo di Roma lo inserisce profondamente nel corpo dei Vescovi quale centro e cardine della comunione episcopale; il suo primato, che è un servizio per il bene di tutta la Chiesa, lo pone in rapporto di unione e collaborazione più intensa. Il Sinodo stesso fa risaltare il nesso intimo tra la collegialità e il primato: l'incarico del successore di Pietro è anche servizio alla collegialità dei Vescovi e per converso la collegialità effettiva ed affettiva dei Vescovi è un importante aiuto al servizio primaziale petrino.


4. Come ogni istituzione umana, anche il Sinodo dei Vescovi sta crescendo e potrà ancora crescere e sviluppare le sue potenzialità, come l'ha del resto previsto il mio predecessore nella Lettera "Apostolica Sollicitudo". Alcune forme sinodali, pur essendo già previste, non sono state finora adeguatamente realizzate. Voi stessi avete fatto l'esame di varie possibilità procedurali e metodologiche e di varie proposte avanzate nel corso dell'esistenza di questo istituto. Da parte mia potete essere sicuri dell'altissima considerazione per la funzione del Sinodo dei Vescovi nella Chiesa e di piena fiducia che ripongo nella sua attività al servizio della Chiesa universale.

Ed è in questo contesto che rinnovo l'apprezzamento e il ringraziamento per i vostri lavori; invocando sopra la vostra fatica la benedizione di Dio e la protezione della Madre della Chiesa.

Data: 1983-04-30 Data estesa: Sabato 30 Aprile 1983


Ad educatori e alunni del Collegio "Gallio" di Como - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Siate testimoni della luce di cristo

Carissimi alunni ed educatori del Collegio Gallio"!


1. Il vostro incontro col Papa avviene in una circostanza molto significativa, cioè nel quarto centenario del vostro Collegio-convitto, che, il 15 ottobre 1583, il mio predecessore Gregorio XIII erigeva nella città di Como con la Bolla "Immensa Dei Providentia", affidandolo ai Padri Somaschi.

Sono perciò molto lieto di accogliervi in questa occasione così singolare e di porgere il mio cordiale saluto al Rettore, Padre Gabriele Scotti, ai suoi Confratelli, a tutti i vari collaboratori ed educatori e specialmente a voi, giovani e ragazzi, che in numero di ben mille e duecento ne siete ospiti e ai vostri genitori e parenti. Vi ringrazio della vostra visita, da voi tanto desiderata e sperata, che mi reca gioia e conforto, ed auspico di cuore che questo vostro fervoroso pellegrinaggio durante l'Anno Santo sia fecondo di frutti spirituali e di santi propositi sia per la vostra vita personale sia per l'andamento dello stesso Collegio.

Quattrocento anni di vita! Gettare uno sguardo al lungo periodo di tempo trascorso significa quasi smarrirsi davanti alle molteplici e turbinose vicende che si sono susseguite in tanti anni sia nella storia civile come in quella della Chiesa! Ebbene, pur tra tante vicissitudini e contrarietà, il Collegio Gallio, con una sorprendente continuità, ha mantenuto ferma e salda la propria fisionomia di Istituto di seria ed esigente formazione cristiana e cattolica: un indirizzo voluto dal fondatore, il celebre Cardinale Tolomeo Gallio, Segretario di Stato di Gregorio XIII, e indicato nella menzionata Bolla, ove è detto che i giovani devono essere educati nel "timor di Dio, nella scuola dei buoni costumi e delle lettere", formati "alla religione e alla pietà" e istruiti "nei buoni costumi, nelle scienze e nelle discipline a seconda della capacità di ognuno".

Lungo quattro secoli il Collegio è rimasto un centro di autentica formazione e promozione culturale e religiosa non solo per la città di Como, ma anche per tutta la diocesi, per la vicina Svizzera e per ampie zone del milanese.

Sono molti gli alunni illustri per meriti culturali, sociali ed ecclesiali che si formarono nel Collegio Gallio. E' doveroso ricordare almeno il Beato Luigi Guanella che vi entro nell'ottobre del 1854, per diventare, dopo sei anni, alunno del Seminario diocesano, profondamente riconoscente per l'ambiente in cui si era trovato e per la grande cultura impartitagli. Per tutto l'immenso lavoro compiuto e per il bene fatto alla Chiesa e alla società ringraziamo insieme il Signore, che nei contrastanti avvenimenti della storia umana fa sempre sorgere i suoi ministri e i suoi santi affinché la verità perduri indefettibile, si realizzi la salvezza e non prevarichino mai né il male né l'errore. Le vicende attraversate dal Collegio Gallio ci fanno riflettere come in realtà, nel corso del tempo, bisogna sempre vincere il male facendo il bene, con tenacia, con fiducia, con coraggio. E' questo l'augurio che esprimo a tutti voi, giovani ed educatori, affinché ognuno perseveri con fervore nel suo compito di formazione cristiana e civile.


2. Desidero ora lasciarvi un pensiero, che rimanga come ricordo di questa udienza, e come proposito per la vostra vita. Mi riferisco alle parole pronunciate un giorno da Gesù: "Chi crede in me, non crede in me, ma in Colui che mi ha mandato; chi vede me, vede Colui che mi ha mandato. Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me, non rimanga nelle tenebre (Jn 12,45-46).

L'Evangelista Giovanni così commenta nel Prologo del suo Vangelo: "In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. La luce splende nelle tenebre"; ma poi soggiunge con stupore ed amarezza: "Ma le tenebre non l'hanno accolta" (Jn 1,4-5).

Il significato e il valore di queste parole sono perenni; esse valgono anche per i nostri tempi! Gesù voleva dire che l'intelligenza umana, pur con tutte le sue mirabili capacità e le sue stupende conquiste, rimane sempre nelle tenebre circa il senso primo e ultimo dell'esistenza, circa il motivo autentico del vivere e del morire dell'uomo. La scienza porta alla filosofia, la filosofia introduce alla religione e la religione fa incontrare Cristo e sfocia nella fede in lui, che è venuto per recare la luce nella nostra notte. Purtroppo molti non vogliono lasciare diradare la notte dalla luce di Cristo! Eppure se, purtroppo, le tenebre permangono, rimane sempre anche il bisogno della luce, di Cristo! Voi, Padri Somaschi, e voi educatori e genitori, siete responsabili della luce: portate sempre la luce di Cristo ai vostri giovani! E voi, giovani e ragazzi, di tutte le età e di tutte le classi, siate felici di vivere in un ambiente che vi fa conoscere ed amare Gesù, "luce del mondo" e che vi prepara ad essere suoi testimoni durante la vita! Gesù cammina con voi, per essere continuamente luce di verità e di salvezza: vi auguro di cuore di sentire sempre la gioia e la consolazione della sua presenza luminosa e corroborante.


3. Mentre auspico per voi e per il vostro Collegio ogni bene nella fraternità, nell'amicizia e nella reciproca comprensione, sento il bisogno di affidarvi in modo particolare a Maria santissima, di cui fu teneramente devoto san Girolamo Emiliani, il vostro celeste protettore: a lei egli consacro la sua vita, quando fu liberato dalla prigionia (1511), e con lei egli sempre percorse il suo itinerario di eroica carità. Sia così anche per voi, con la preghiera, la confidenza e l'imitazione, in modo che la Madre del cielo regni sempre nella vostra vita e nel vostro Collegio.

Con questi voti, vi imparto la propiziatrice benedizione apostolica, che estendo a tutte le persone care.

Data: 1983-04-30 Data estesa: Sabato 30 Aprile 1983

Lettera ai Vescovi di Tarnow, Nitra, Pécs - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Per il IX centenario della canonizzazione di Andrea Zoerardo

Ai venerabili fratelli Jerzy Ablevicz, Vescovo di Tarnow, Jan Pasztor, Vescovo di Nitra, e Jozef Cserhati Vescovo di Pécs.

L'opinione che già era degli antichi, che nessun uomo nasce per sé solo, ma anche per il suo prossimo, trova una conferma ancor più valida nella vita dei santi, mandati da Dio per adempiere a questa legge di natura, consolidata dalla verità evangelica, nel modo più sublime e perfetto e per indicare poi agli altri la via da seguire. Tra di essi non pochi ebbero grande importanza nelle loro città, o perché le generarono a Cristo, o perché in esse lasciarono vaste impronte della loro opera in vari modi. Nel numero di costoro è da inscrivere certamente Andrea Zoerardo, che i popoli della Polonia, della Cecoslovacchia e dell'Ungheria conoscono e venerano con ammirazione e devozione.

Quest'anno ricorre il nono centenario del riconoscimento canonico della sua santità, e con opportuna solennità si celebrerà questo evento nel prossimo mese di luglio; tale evento noi siamo lieti di ricordare ed esaltare con questa Lettera, proponendo pubblicamente tale uomo come esempio di dedizione alla Chiesa e alla società civile. Nel far questo seguiamo l'esempio del nostro predecessore Gregorio VII, che nell'anno 1083, su richiesta del re di Ungheria Vladislao, approvo il culto di Andrea Zoerardo: tale decisione fu annunciata nel Sinodo di Ungheria, alla presenza del Legato pontificio.

Zoerardo era nato in Polonia in una modesta famiglia di contadini, circa nel 980, e fu chiamato da Dio alla solitudine, così da poter più attentamente ascoltare la sua voce nelle parole del profeta Osea (2,16): "La condurro nella solitudine e parlero al suo cuore". Fondo poi nella città di Tropie, che allora faceva parte del territorio della diocesi di Cracovia, un eremo, tra la fine del X e l'inizio dell'XI secolo e, lasciato l'eremo nell'anno 1022, entro nel monastero benedettino di Sant'Ippolito sul monte Zobor in Slovacchia; preso, come religioso, il nome di Andrea, qui condusse vita monastica. Poi, superati già i quaranta anni; con il consenso dell'abate del monastero, Filippo, si ritiro in una grotta presso Skalita sulla riva del fiume Wag e riprese la vita di eremita, che già aveva sperimentato in Polonia.

Passo la vita in continua e severa penitenza: di giorno si percuoteva e tormentava la carne, di notte vegliava in preghiera stando su un tronco di quercia circondato di spine e aculei per non essere sopraffatto dal sonno; in quaresima si contentava di una sola noce, per cui spesso svenne per la fame. Sul suo corpo, dopo la morte, fu trovato un cilicio fatto di una catena di ferro che era profondamente conficcata nelle sue carni. Mori intorno al 1034 e fu sepolto a Nitra nella Basilica di Sant'Emmerano; molti miracoli ottenuti in quel luogo dai suoi devoti manifestarono chiaramente la sua santità.

Sant'Andrea Zoerardo fu un uomo totalmente dedito a Dio. Ricorrendo proprio in questo Anno di Giubileo straordinario della Redenzione, il nono centenario del riconoscimento canonico della sua santità, vogliamo osservare che egli mise in atto integralmente il monito: "Aprite le porte al Redentore", che è l'inizio della Lettera apostolica, con la quale abbiamo voluto richiamare alla memoria del popolo cristiano quel supremo evento. Apri infatti le sue porte a Cristo e costantemente con l'imitazione si sforzo di raggiungere quello che è il proposito di tutti i Santi e che disse di sé l'apostolo Paolo: "Non son più io che vivo ma è Cristo che vive in me" (Ga 2,20); ma oltre a ciò, apri al Redentore le porte anche delle Nazioni che abbiamo ricordato prima, certamente più con le preghiere, con l'ascesi mistica, con la sopportazione delle fatiche, con il lavoro manuale che con le parole. In questo modo efficacissimo fu insieme annunciatore di Cristo e benefattore del prossimo; in questo modo consolido le fondamenta della religione cristiana poste in quelle regioni e sparse il seme della vita sociale e civile. Questo modo di vita, nato dalla radice cristiana e romana, comune al resto dell'Europa, lo trasmise al popoli slavi; e parimenti, proseguendo l'opera dei santi Cirillo e Metodio, uni più strettamente queste popolazioni tra di loro e con tutta l'Europa, comunicando la loro vita e la loro indole. perciò anch'egli contribui alla costituzione della nuova Europa, con san Benedetto e con questi apostoli degli Slavi, essendo anche lui in certo qual modo partecipe di questa gloria.

Questi meriti del santo Andrea Zoerardo furono messi in luce dalle celebrazioni del millenario della conversione a Cristo della Polonia, che furono fatte a Tropie nel 1966. Noi, che partecipammo a quelle celebrazioni come Arcivescovo Metropolita di Cracovia, tenemmo il discorso nel quale enunciammo i meriti del Santo; dicemmo infatti, in sintesi, che sant'Andrea Zoerardo per la vita che condusse e le preghiere, l'ascesi e le opere spese interamente per i fratelli, fu uno dei virgulti da cui germoglio la forza millenaria della religione cristiana in Polonia.

Per lo strettissimo vincolo con la diocesi nella quale inizio la sua vita d'eremita e dove c'è la sede principale del suo culto, giacché li vengono conservate le sue reliquie e li si trovano l'eremo e il santuario dedicatogli, sant'Andrea Zoerardo è stato eletto con il martire san Benedetto, che fu suo discepolo, secondo patrono della diocesi di Tarnow. In quella chiesa i fedeli possono ottenere le indulgenze del Giubileo straordinario. Parimenti, per simili legami, i medesimi santi sono stati costituiti patroni principali della diocesi di Nitra e sono venerati dal popolo.

Infine, che sant'Andrea Zoerardo, alla fine del XIX secolo, sia stato proclamato patrono della gioventù della Slovacchia, è segno singolare della sua fama e della venerazione di cui gode.

Dalle celebrazioni che si faranno risulterà ancora più chiaro che sant'Andrea Zoerardo, nove secoli dopo aver ricevuto gli onori dei santi, vive negli animi e nella devozione dei Polacchi, degli Slovacchi, dei Boemi e degli Ungheresi, i quali soprattutto godono del beneficio della sua santità; tuttavia si vedrà anche che fu un uomo tanto grande che può insegnare molto a tutto il popolo cristiano. Innanzitutto con il suo disprezzo per le cose esteriori insegna agli uomini della nostra epoca, così inclini ai piaceri e ai beni terreni, che Dio è il solo Bene, il Sommo Bene, che si deve cercare con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze, e che noi qui siamo pellegrini giacché "non abbiamo qui una città stabile, ma cerchiamo quella futura" (He 13,14); insegna inoltre che si deve servire il prossimo, non solo con opere esteriori di carità, ma anche con la testimonianza del Vangelo, secondo le parole di Nostro Signore Gesù Cristo rivolte a tutti i discepoli: "Voi siete il sale della terra... Voi siete la luce del mondo... così la vostra luce splenda davanti agli uomini, perché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli" (Mt 5,13-16).

La vita e l'esempio di sant'Andrea Zoerardo sono di esempio per tutti; ma soprattutto per coloro che si consacrano a Dio come religiosi. Costoro devono imparare da lui che, nella solitudine, non si separano dal corpo della Chiesa, ma anzi con le loro preghiere, la loro penitenza, le loro pratiche ascetiche, l'amore per Dio, devono essere tali membra del suo Corpo Mistico, da cui più sano e più rigoglioso fluisca il sangue per la salute di tutte le membra.

Di cuore dunque, venerabili fratelli, desideriamo associarci a voi nella celebrazione del IX centenario della santificazione di sant'Andrea Zoerardo, e rallegrarci con voi poiché Dio allora ha dato a codeste regioni un tale uomo, testimone della fede cattolica, ora patrono nei cieli.

E confidando che il popolo di Dio abbia a trarre un nutrimento per la sua vita da queste celebrazioni, impartiamo con tutto il nostro amore, la benedizione apostolica a voi, ai vostri ascoltatori, ai sacerdoti, ai religiosi e a tutti i fedeli affidati alla vostra cura.

Dal Vaticano, il 30 aprile del 1983, anno quinto del nostro pontificato

Data: 1983-04-30 Data estesa: Sabato 30 Aprile 1983




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