GPII 1987 Insegnamenti - Recita dell'Angelus - Val Visdende (Belluno)

Recita dell'Angelus - Val Visdende (Belluno)

Titolo: La Regina delle Dolomiti protegga l'amata nazione italiana

Testo:

"Exaudivit me de monte sancto suo" (Ps 3,5).


1. La preghiera meridiana dell'"Angelus" viene oggi felicemente a collocarsi nel panorama incantevole di queste montagne cadorine, tra le cime i boschi del "verde Comelico", da cui in ogni stagione s'eleva con tacita potenza un coro di gloria al Creatore. In questa meravigliosa cornice di bellezza reca una sua nota peculiare di spirituale intimità la chiesetta dedicata alla "Madonna della Neve", che se ne sta qui umile e invitante.


2. La mente corre ai santuari mariani che popolano i monti e le colline di questa amata terra italiana. Sono innumerevoli, da un punto all'altro della penisola.

Molti di essi sono dovuti alla iniziativa della Vergine stessa, la quale ripercorrendo, per così dire, il "cammino del suo "fiat" filiale e materno" (RMA 14), che subito dopo l'annunciazione l'aveva portata "verso la montagna" (Lc 1,39), ha domandato che nella elevante solitudine dei monti le fosse costruito un santuario, un'oasi di preghiera e di culto, in cui il sacrificio eucaristico rinnovasse la reale presenza del Figlio suo divino.

La predilezione di Maria per le zone montane, protese per loro natura verso il cielo, assume un significato molto vivo, che ognuno di noi può condensare nella consolante certezza del Salmista: "Exaudivit me de monte sancto suo" (Ps 3,5).


3. Nello spirito dell'Anno mariano la corona di santuari che unisce in un medesimo slancio religioso i monti d'Italia assurge a speciale simbolo dell'itinerario delle anime, del quale è incomparabile esempio la Vergine di Nazaret: un itinerario che conduce alle insondabili altezze di Dio attraverso il Cristo Signore e Redentore.

Maria santissima, "Regina delle Dolomiti", "Madonna della Neve" e sotto ogni altro titolo con cui viene invocata nei santuari più celebri e nelle più romite cappelle, protegga l'amata nazione italiana.

E adesso al momento in cui si sentono specialmente in queste vallate le campane di tutte le chiese vogliamo recitare l'Angelus Domini. Ringrazio per questo suono delle campane. Ieri ho potuto ascoltare questo suono da diversi posti. Mentre sostavo sul monte Zovo dalle diverse vallate si univano in un coro delle campane per provocare, suscitare in noi un altro coro di preghiere per l'Angelus Domini.

Dopo la preghiera, agli operatori forestali Vada una rinnovata parola di plauso agli operatori forestali delle Regioni Veneto e Friuli e al Corpo Forestale dello Stato, insieme con l'incoraggiamento a perseverare nell'impegno di tutela dell'ambiente naturale, che l'uomo di oggi va riscoprendo in tutta la sua importanza per la propria sopravvivenza sulla terra. L'impegno per l'uomo passa attraverso l'impegno per l'ambiente nel quale Dio lo ha posto a vivere.

Mi è gradito rivolgere ancora un saluto ai numerosi pellegrini provenienti dai paesi circostanti, in particolare a quelli del Comelico e del Cadore, e a tutti i presenti. Carissimi, la fede che vi ha condotto fin qui divenga costante ispiratrice della vostra esistenza, grazie anche all'opera dei sacerdoti che nelle rispettive comunità parrocchiali vi guidano a Cristo mediante la preghiera, i sacramenti e la predicazione. A tutti sia di conforto la mia Benedizione.

Uno speciale accenno desidero riservare ai rappresentanti delle Regioni che fanno parte di "Alpe Adria", organismo che raggruppa tutte le Regioni dell'arco alpino orientale: il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia, il Trentino-Alto Adige, la Lombardia, l'Alta Austria, la Carinzia, Salisburgo, la Stiria, la Slovenia, la Baviera. Carissimi esorto voi e quanti aderiscono all'Organismo che qui rappresentate a dare con fiducia ogni contributo atto a favorire l'intesa e la collaborazione tra i vostri Paesi, per la promozione di quella solidarietà che affonda le sue radici nella natura dell'uomo e nella sua vocazione a far parte, in Cristo, dell'unica famiglia di Dio. A tutti la mia apostolica benedizione.

1987-07-12 Data estesa: Domenica 12 Luglio 1987




Nel cimitero di Fortogna - Longarone (Belluno)

Titolo: Dal mesto ricordo una luce rischiara la vita presente

Testo:

Cari fratelli e sorelle.


1. Alla luce della parola di Dio, che è stata ora proclamata e che ci ha richiamati alle certezze eterne della vita futura, vogliate accogliere il mio saluto e l'espressione della mia spirituale solidarietà con tutti voi, convenuti in questo cimitero per ricordare le tante e tante vittime, travolte dall'immane flagello provocato dalla frana di un'intera montagna nell'invaso della diga del Vajont.

Erano vostri parenti, amici e conoscenti coloro che perirono sotto l'impeto furioso di un'enorme massa d'acqua, abbattutasi improvvisamente nella vallata del Piave, distruggendo l'abitato di Longarone e delle frazioni di Rivalta, Pirago, Villanova, Faè e di altri paesi vicini.

Resta per voi e per tutti incancellabile la visione, quasi apocalittica, di quella sera del 9 ottobre 1963: lacrime, sangue, sacrificio di persone note e ignote segnarono quelle ore tremende! 2. La mia presenza vuole essere un atto di preghiera e di omaggio a quelle popolazioni, ma anche un gesto di riconoscimento e di gratitudine per quanti si prodigarono, in una così tragica vicenda, nel portare aiuto, nel consolare e nel farsi "prossimo" nel senso evangelico della parola. L'odierna cerimonia, pur nell'onda di mestizia che essa reca con sé, vuole essere anche attestazione significativa degli ideali di fede, di speranza e di carità che sostennero voi, abitanti di queste località, in quella durissima prova; e vuole essere altresi un appello a continuare sulla via della fedeltà al Signore Iddio, il quale umilia e consola, prova e sostiene con la sua provvida e misteriosa pedagogia del dolore; il quale, secondo un'espressione del libro di Giobbe: "fa la piaga e la fascia / ferisce e la sua mano risana (Gb 5,18).

Qualcuno si chiederà: "O Signore, perché? Perché tutto questo?". E' l'interrogativo perenne intorno al quale si sono affaticate le menti più elette, senza poter giungere a una spiegazione. Il problema del male in genere e delle calamità naturali in particolare resta un mistero fitto, addirittura assurdo per l'intelletto umano. L'unico appoggio a cui l'uomo può aggrapparsi è il pensiero che Dio non è mai indifferente al dolore dei suoi figli, ma vi si è coinvolto drammaticamente nel suo Unigenito, Gesù Cristo, che fu soggetto "alle nostre infermità, poiché fu messo alla prova in tutto come noi" (He 4,15).


3. Abbiamo pregato perché risplenda alle anime dei caduti la luce eterna e perché il riflesso di quella luce rischiari anche la nostra vita presente. Il ricordo dei defunti, che riposano in questo cimitero di Longarone, ci è di insegnamento.

Le loro spoglie ci parlano della fragilità e della precarietà del passaggio terreno, mentre la memoria delle loro persone, dei meriti, della bontà dimostrataci e il pensiero della loro anima immortale ci confermano quali sono i beni che noi nella vita di quaggiù dobbiamo maggiormente apprezzare. Soprattutto il pensiero dell'immortalità, di cui Dio ha dotato la nostra anima! E' una certezza consolante, perché significa la vittoria sulla morte: su questo fatale avvenimento che mette fine al nostro soggiorno terreno, ma che non distrugge la nostra esistenza. La fede ci dice che essa non è che un episodio, al quale succede la speranza dell'incontro con Cristo. In questo modo si esprime l'apostolo Paolo nella Lettera ai Romani, che abbiamo or ora ascoltato: "Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore" (Rm 14,8).


4. Vi affido all'intercessione della Madonna santissima, da voi tanto venerata nella immagine ritrovata sul greto del fiume limaccioso, dopo la catastrofe e la desolazione della valle. A lei, che allora vi sorresse nel superare pene e fatiche indicibili, offrite i vostri cuori, affinché vi mantenga sempre generosi e coerenti nella vostra vita di famiglia e di lavoro. Protegga, Ella, i vostri bambini e custodisca la vostra gioventù, che sono la speranza e la rinascita di questa terra tanto colpita e pur tanto suggestiva. Infonda in tutti il desiderio e l'impegno di conoscere e di amare sempre di più il Signore Gesù, frutto benedetto del suo seno.

Su tutti voi, sui vostri cari, soprattutto se malati o anziani, discenda ora la mia benedizione.

Da questo luogo che custodisce i resti delle duemila vittime della sciagura del Vajont il mio pensiero si rivolge agli abitanti della Val di Stava, anch'essi duramente provati da analoga calamità, nel luglio di due anni fa. Nella mente di tutti è ancora vivo il ricordo della tragedia che colpi abitanti e turisti di quella località alpina.

Alla cara popolazione di Stava, qui rappresentata dal parroco e dal sindaco, rinnovo l'espressione della mia solidarietà spirituale, assicurando ancora una preghiera per le vittime tragicamente perite e invocando l'assistenza divina su quanti recano ancora nell'anima le ferite causate dalla sciagura.

Benedico di cuore tutte le famiglie di quella comunità, e ogni sforzo volto a farla rinascere e rifiorire spiritualmente e materialmente.

1987-07-12 Data estesa: Domenica 12 Luglio 1987




Saluto alla popolazione - Lorenzago (Belluno)

Titolo: Sempre fedeli a Cristo, alla Chiesa, alla sede di Pietro

Testo:

Carissimi! 1. Ringrazio anzitutto il vostro parroco per le amabili parole che, anche a nome di tutti voi, ha voluto rivolgermi in questo nostro incontro: egli ha saputo dare forma ai molteplici sentimenti, che provate in questi momenti, attestando altresi quella fede che anima e dirige la vostra vita in tutti i ritmi e in tutte le sue manifestazioni.

Un deferente saluto porgo al signor sindaco, a tutte le autorità civili, politiche e militari e a voi tutti, abitanti di Lorenzago, questa ridente cittadina operosa e serena. Saluto le famiglie, i padri e le madri, e tutta la gioventù, che è la vostra e nostra speranza. Un particolare saluto desidero porgere agli anziani, che nella loro vita hanno dato un fattivo contributo di lavoro, di esempio, di onestà; e, inoltre, a tutte le persone inferme, che con la loro sofferenza sono unite a Cristo crocifisso, fortificando, con la loro debolezza fisica, la Chiesa di Dio.

A voi tutti il mio affettuoso pensiero! 2. La mia presenza qui oggi in mezzo a voi coincide con una celebrazione religiosa particolarmente importante per la vostra vita di cristiani: oggi 12 luglio è la festa solenne dei vostri patroni, i santi Ermagora, vescovo, e Fortunato, diacono, martirizzati per la fede in Cristo.

Come è noto, sant'Ermagora è stato il primo vescovo di Aquileia. Secondo una pia tradizione, san Marco, inviato da san Pietro a evangelizzare l'Italia settentrionale, giunto ad Aquileia incontro Ermagora e, convertitolo dal paganesimo al messaggio di Gesù, lo consacro vescovo, o - secondo un'altra tradizione - lo condusse a Roma, dove san Pietro personalmente lo ordino vescovo.

Ritornato ad Aquileia, Ermagora fu un instancabile pastore, converti molti pagani al cristianesimo e concluse la sua missione con il martirio, insieme al suo diacono Fortunato, durante la persecuzione di Nerone.

Le figure dei vostri patroni sono indubbiamente emblematiche per la vostra vita religiosa: attraverso le loro persone, la loro testimonianza di fede e di martirio, voi siete collegati agli inizi stessi della storia del cristianesimo e, in particolare, nella persona del vescovo Ermagora, voi siete uniti a Pietro, e mediante Pietro a Cristo: sant'Ermagora è uno degli anelli e dei più importanti che vi saldano in stretto vincolo con Gesù Cristo, Salvatore, Redentore, Figlio di Dio, Capo della Chiesa. In forza di questo speciale legame voi proclamate nel simbolo di fede: "Credo la Chiesa una, santa, cattolica, apostolica!".


3. Siate pertanto legittimamente fieri di essere figli spirituali di questi santi, che hanno dato a Cristo, alla sua opera, al suo messaggio un'adesione totale, portata fino alle estreme conseguenze: la donazione della propria vita e del proprio sangue! Siate quindi sempre degni di loro, del loro esempio, dei loro ideali! So quanto è viva e profonda la vostra fede cristiana! So con quanta cura conservate gelosamente questo straordinario tesoro, consegnatovi e tramandatovi dai Padri! So con quanto amore e delicatezza lo avete trasmesso e lo trasmettete ai vostri figli! Continuate con rinnovato impegno in questa limpida, serena e forte professione della fede cristiana, senza rispetto umano alcuno di fronte a tutte le ideologie che tentano di offuscarla! Siate sempre fedeli a Cristo! Fedeli alla Chiesa! Fedeli alla Sede di Pietro! E con queste parole vi auguro di essere sempre una Chiesa veramente apostolica, perché noi siamo la Chiesa apostolica non solamente grazie alla trasmissione, alla successione degli apostoli, - cosa tanto marcata nella vostra tradizione dell'antica chiesa di Aquileia -, ma noi siamo Chiesa apostolica quando viviamo lo spirito degli apostoli, sono i due significati di quella parola "apostolica": la successione e la vita. E questa vita apostolica, quell'apostolato della vita cristiana deve distinguere non solamente i successori degli apostoli che sono i vescovi, ma deve distinguere tutti i cristiani; non solamente i sacerdoti, non solamente religiosi e religiose, ma anche tutti i laici. Si parla tanto dell'apostolato dei laici. Il Concilio Vaticano II ci dice che la vocazione cristiana è sempre e dappertutto una vocazione all'apostolato. Cosa vuol dire essere apostolo? Essere un inviato da Cristo, portare in sé il suo messaggio e portare nella propria vita, nella propria consapevolezza, nelle proprie opere la responsabilità di quel messaggio, di quel tesoro che è la rivelazione, che è la fede, che è la grazia offertaci da Dio Padre nel suo Figlio e trasmessa, sempre in modo invisibile, dallo Spirito Santo che Gesù ci ha promesso: ha promesso agli apostoli, ha promesso alla Chiesa intera e a tutti noi in tutte le generazioni lo Spirito Santo che deve portare la prima, la divina testimonianza di Gesù Cristo quando noi, i successori degli apostoli, la Chiesa apostolica, dobbiamo portare la stessa testimonianza operando con la luce e nella forza dello Spirito Santo. Ecco questo vuol dire essere Chiesa apostolica, questo vuol dire apostolato dei vescovi, naturalmente apostolato dei sacerdoti, delle persone consacrate, apostolato dei laici, tutto quello vuol dire apostolato. Apostolato della Chiesa, la Chiesa deve essere apostolica perché devono fiorire nella Chiesa i diversi apostolati tutti uniti in un solo apostolato, quello della Chiesa apostolica.

Questo è l'augurio che voglio lasciare a voi tutti e soprattutto al vostro parroco che ha espresso quel suo più grande desiderio: quel desiderio non è di scalare ancora una volta una di queste vette dolomitiche, tante ne ha scalate, ma questo desiderio è portare al Signore, nella forza dello Spirito Santo, quella sua Chiesa, quella sua porzione della Chiesa bellunese, portare a Cristo, all'eterno Pastore. Questo è il suo desiderio e io auguro che esso possa essere realizzato nella sua vita qui sulla terra e poi rivelato nell'eternità.

Mi ha accompagnato durante il mio soggiorno qui a Lorenzago il suono delle vostre campana. Dalla vostra parrocchia e da tante altre chiese nei dintorni ieri ho potuto sentire quasi un concerto a mezzogiorno per l'Angelus Domini delle campane dolomitiche.

Voglio ringraziarvi anche per l'ospitalità che voi, la chiesa di Belluno e il vostro vescovo mons. Antonio Mistrorigo, vescovo di Treviso, avete offerto a un altro vescovo. Questa ospitalità si esprime nei boschi dove c'è il castello, dove vengono ospitati i seminaristi, si esprime anche in questa casa dove io ho trovato, per alcuni giorni, l'ospitalità dei due vescovi e delle due diocesi e specialmente della parrocchia di Lorenzago. Allora si può dire che il bene genera il bene, l'ospitalità genera ospitalità. E così io voglio anche augurare a questi miei carissimi fratelli nell'episcopato, a quello di Belluno-Feltre e a quello di Treviso, ogni bene per la loro missione e per la loro vocazione insieme col successore di Pietro. Sono molto grato per questo invito tanto cordiale, che esprime quella che si chiama, nel linguaggio postconciliare, collegialità affettiva. Ringrazio vivamente. E se qualcuno, forse a Roma o - non so dove, dirà al Papa: "Ma che cosa fai? Devi stare a Roma. Durante le vacanze se vuoi, puoi andare a Castel Gandolfo, ma non andare a Lorenzago!"; se mi diranno così io rispondero: "Non faccio altro che praticare la collegialità affettiva".

Ringrazio le persone qui convenute, tutti i partecipanti a quest'incontro, tutti gli abitanti della regione che mi hanno ospitato in questi giorni e per ancora qualche altro giorno. Con voi tutti ringrazio Iddio creatore per queste bellezze delle montagne e dei boschi, che portano in sé la visibilità dell'invisibile. Questo è il mistero della natura. E auguro a tutti di essere portati, come cantiamo in occasione del Santo Natale, tramite queste cose visibili, tanto splendide, a quello che è invisibile. Affido questi miei voti all'intercessione della Vergine santissima e dei vostri santi patroni, mentre a conferma del mio affetto vi imparto di cuore l'apostolica benedizione perché vi accompagni sempre!

1987-07-12 Data estesa: Domenica 12 Luglio 1987




Messaggio al vescovo di Eichstatt - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Per il 1200° anniversario della morte di san Willibaldo

Testo:

Al mio venerabile fratello Karl Braun, vescovo di Eichstatt.

"La gioia in Dio - nostra forza". Con questo motto, insieme ai tuoi confratelli nel servizio pastorale e ai fedeli della tua Chiesa locale, hai aperto l'anno giubilare per il 1200° anniversario della morte di san Willibaldo, fondatore della vostra diocesi. Il modello di questo esemplare testimone della fede, che ha proclamato nella vostra patria per 46 anni il messaggio salvifico di Cristo, è diventato per voi un particolare incentivo a rinnovare e approfondire la fede in Dio e nel suo piano di salvezza, per questo dovete maggiormente impegnarvi a diffondere fra i vostri compatrioti il prezioso dono della fede, a cui essi anelano consapevolmente o inconsapevolmente. L'anno giubilare raggiunge in questi giorni il suo culmine, perché celebrate la festa di san Willibaldo nel vostro duomo, presso la sua tomba, il 7 di luglio, giorno della sua morte 1200 anni orsono.

Willibaldo è giunto da voi come forestiero, come uno straniero dal sud, e come amico di san Bonifacio. Ha lasciato la sua patria con abnegazione e coraggio per portarvi in dono qualcosa: non ricchezze materiali o potere temporale, ma la fede nel vero Dio, Padre di nostro Signore Gesù Cristo. Per potere donarvi questa fede in tutta la sua pienezza e profondità, egli stesso ha voluto prima accostarsi alle grandi sorgenti della fede. A Roma egli ha cercato l'unione con la Chiesa degli apostoli Pietro e Paolo, per essere certo dell'autentica tradizione della fede da Cristo in poi. Quindi si è recato persino in Palestina, per accogliere nel suo cuore, vive e profonde, le parole e le azioni di Gesù percorrendo le sue stesse vie, per poter diventare il suo araldo più convincente ed entusiasta. Willibaldo si è recato anche a Costantinopoli, per attingere all'importante fonte della teologia greca, che nei primi Concili ecumenici ci ha trasmesso la fondamentale comprensione di Dio uno e trino. Infine, a Montecassino, il centro più importante della vita monastica occidentale, ha ricevuto la sua formazione definitiva quale araldo della fede e fondatore di Chiesa, si è dedicato alla preghiera e al lavoro, alla fede e alla cultura, alla gioia in Dio e alla condizione di questo mondo e ha compreso la piena dignità dell'uomo.

Si dice che san Willibaldo, nel monastero di Montecassino svolgesse mansioni di sagrestano e di portiere: questo elemento apparentemente secondario nella vita del santo, dovrebbe invece essere per noi un esempio da non dimenticare di due importanti dimensioni nella vita di ogni cristiano. così possiamo e dobbiamo rallegrarci di poter stare nella "casa di Dio", di saperci avvolti dalla sua divina provvidenza, di poterlo ringraziare ogni giorno e onorare nell'adorazione la sua infinita grandezza, amore e fedeltà. Ma accanto a questo servizio nella "casa del Signore" dobbiamo essere anche "portieri", dobbiamo aprire le porte e far entrare coloro che hanno sete dell'intera verità sull'uomo e della loro origine in Dio. La Chiesa non deve essere una fortezza sbarrata, ma una casa invitante, con porte e finestre, che rappresentano il legame con il mondo in tutte le sue dimensioni; la Chiesa deve quindi incoraggiare tutti gli uomini di buona volontà a percorrere con Cristo la via verso il Padre e a progredire, sempre più consapevoli e lieti, nella comunità ristoratrice dei fedeli.

Prego lo Spirito Santo, dono di Cristo ai suoi discepoli sulla terra che - in occasione delle celebrazioni giubilari in onore del grande patrono della vostra diocesi - doni i frutti dell'approfondimento della fede e di una rinnovata coscienza cristiana. Poiché "la gioia in Dio è la nostra forza".

Con gratitudine accolgo l'espressione del vostro fedele legame con il successore dell'apostolo Pietro, che tu, venerato confratello, mi hai trasmesso a nome dei fedeli della tua diocesi, e imparto di cuore a voi tutti, nell'amore del Buon Pastore e per intercessione di nostra Madre Maria, la mia speciale benedizione apostolica.

1987-07-15 Data estesa: Mercoledi 15 Luglio 1987




Udienza generale - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Gesù Cristo, Figlio che "vive per il Padre"

Testo:

1. Nella precedente catechesi abbiamo considerato Gesù Cristo come Figlio intimamente unito al Padre. Quest'unione gli permette e gli impone di dire: "il Padre è in me, e io sono nel Padre", non solo nella conversazione confidenziale del cenacolo, ma anche nella pubblica dichiarazione fatta durante la celebrazione della festa delle Capanne (cfr. Jn 7,28-29). E anzi, ancor più chiaramente Gesù giunge ad affermare: "Io e il Padre siamo una cosa sola" (Jn 10,30). Tali parole vengono ritenute blasfeme e provocano la violenta reazione degli ascoltatori: "Portarono delle pietre per lapidarlo" (cfr. Jn 10,31). Infatti secondo la legge di Mosè la bestemmia doveva essere punita con la morte (cfr. Dt 13,10-11).


2. Ora è importante riconoscere che esiste un legame organico tra la verità di questa intima unione del Figlio col Padre e il fatto che Gesù figlio vive totalmente "per il Padre". Sappiamo infatti che tutta la vita, tutta l'esistenza terrena di Gesù è rivolta costantemente verso il Padre, è donata al Padre senza riserve. Ancora dodicenne, Gesù, Figlio di Maria, ha una precisa coscienza della sua relazione col Padre e prende un atteggiamento coerente con la sua certezza interiore. perciò al rimprovero di sua Madre, quando insieme a Giuseppe lo trovano nel tempio dopo averlo cercato per tre giorni, risponde: "Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?" (Lc 2,49).


3. Anche nella presente catechesi facciamo riferimento anzitutto al testo del quarto Vangelo, perché la coscienza e l'atteggiamento manifestati da Gesù ancor dodicenne trovano la loro profonda radice in ciò che leggiamo all'inizio del grande discorso di addio che, secondo Giovanni, egli pronuncio durante l'ultima cena, al termine della sua vita, mentre stava per portare a compimento la sua missione messianica. L'evangelista dice di lui che "giunta la sua ora... (sapeva) che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava" (Jn 13,3).

La Lettera agli Ebrei mette in rilievo la stessa verità, riferendosi in certo modo alla stessa preesistenza di Gesù Figlio di Dio: "Entrando nel mondo Cristo dice: "Tu non hai voluto né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà"" (He 10,5-7).


4. "Fare la volontà" del Padre, nelle parole e nelle opere di Gesù, vuol dire: "vivere per" il Padre totalmente. "Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me... io vivo per il Padre" (Jn 6,57), dice Gesù nel contesto dell'annuncio dell'istituzione dell'Eucaristia. Che compiere la volontà del Padre sia per Cristo la sua stessa vita, lo manifesta lui stesso con le parole rivolte ai discepoli dopo l'incontro con la Samaritana: "Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera" (Jn 4,34). Gesù vive della volontà del Padre.

Questo è il suo "cibo".


5. Ed egli vive in questo modo - ossia totalmente rivolto verso il Padre - poiché è "uscito" dal Padre e al Padre "va", sapendo che il Padre "gli ha dato in mano ogni cosa". Lasciandosi guidare in tutto da questa coscienza, Gesù proclama davanti ai figli d'Israele: "Io pero ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni (cioè a quella che gli ha reso Giovanni il Battista): le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato". E nello stesso con

Testo:

"In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa". E aggiunge: "Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole" (Jn 3,35 Jn 3,36 Jn 3,19 Jn 3,21).


6. Il passo del discorso eucaristico (da Jn 6), che abbiamo riportato poco fa: "Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me... io vivo per il Padre", viene a volte tradotto in quest'altro modo: "Io vivo per mezzo del Padre" (Jn 6,57). Le parole di Jn 5 appena riferite si armonizzano con questa seconda interpretazione.

Gesù vive "per mezzo del Padre" - nel senso che tutto ciò che fa corrisponde pienamente ala volontà del Padre: è quello che il Padre stesso fa. Proprio per questo la vita umana del Figlio, il suo agire, la sua esistenza terrena, è in modo così completo rivolta verso il Padre - Gesù vive pienamente "per il Padre" - poiché in lui la fonte di tutto è la sua eterna unità col Padre: "Io e il Padre siamo una cosa sola" (Jn 10,30). Le sue opere sono la prova della stretta comunione delle divine Persone. In esse la stessa divinità si manifesta come unità del Padre e del Figlio: la verità che ha provocato tanta opposizione tra gli ascoltatori.


7. Quasi in previsione delle ulteriori conseguenze di quella opposizione, Gesù dice in un altro momento del suo conflitto con i Giudei: "Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora saprete che "Io Sono" e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo. Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite" (Jn 8,28-29).


8. Veramente Gesù ha compiuto la volontà del Padre sino alla fine. Con la passione e morte in croce ha confermato "di fare sempre le cose gradite al Padre": ha compiuto la volontà salvifica per la redenzione del mondo, nella quale il Padre e il Figlio sono uniti perché eternamente sono "una cosa sola" (Jn 10,30). Quando stava morendo sulla croce, Gesù "grido a gran voce: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito"" (cfr. Lc 23,46), queste sue ultime parole testimoniavano che sino alla fine tutta la sua esistenza terrena era rivolta al Padre. Vivendo - come Figlio - "per (mezzo del) Padre" viveva totalmente "per il Padre". E il Padre, come egli aveva predetto, "non lo lascio solo". Nel mistero pasquale della morte e della risurrezione si sono compiute le parole: "Quando avrete innalzato il figlio dell'uomo, allora saprete che Io Sono. "Io Sono": le stesse parole con le quali una volta il Signore - il Dio vivo - aveva risposto alla domanda di Mosè a proposito del suo nome (cfr. Ex 3,13-14).


9. Leggiamo nella Lettera agli Ebrei delle espressioni quanto mai confortanti: "perciò Gesù può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore" (He 7,25).

Colui che come Figlio "della stessa sostanza del Padre" vive "per (mezzo del) Padre", ha rivelato all'uomo la via della salvezza eterna. Prendiamo anche noi questa via e procediamo su di essa, partecipando a quella vita "per il Padre", la cui pienezza dura per sempre in Cristo.

1987-07-15 Data estesa: Mercoledi 15 Luglio 1987




Alla Messa per il personale delle Ville pontificie - Castel Gandolfo (Roma)

Domenica 19 Luglio 1987


Titolo: La vita ci è stata data nella prospettiva della felicità eterna

"Tu sei buono, o Signore, e ci perdoni!".


1. L'invocazione, che abbiamo ripetuto recitando il Salmo responsoriale, è per noi tutti di grande conforto e di profonda letizia: riconosciamo infatti la nostra fragilità e la nostra debolezza di creature insidiate dal male ma consideriamo anche la suprema bontà e misericordia di Dio che vede la nostra miseria e il nostro pentimento, e ci perdona: "Signore, Dio di pietà, compassionevole, Dio fedele, volgiti a me e abbi misericordia!" (Ps 85) Con questo sentimento di immensa fiducia in Dio, che ci ama e ci perdona, porgo a voi tutti, carissimi fratelli e sorelle, che prestate servizio nelle Ville pontificie, il mio saluto più cordiale, iniziando la mia consueta permanenza estiva: voi rendete possibile e confortevole il mio soggiorno e io vi ringrazio di cuore fin d'ora per tutto quello che fate per il Papa. Sono molto lieto di rivedervi e di celebrare con voi e per voi questa santa Messa: il Signore vi ricompensi lui stesso con la sua infinita bontà, mentre da parte mia vi assicuro il costante ricordo nella preghiera.


2. Le letture, che la Liturgia di questa domenica sedicesima durante l'anno propone alla nostra meditazione, contengono certamente il nucleo più profondo e illuminante di tutto il messaggio cristiano. Infatti ciò che tormenta di più l'intelligenza dell'uomo è la presenza del male nella storia, la sua origine e la sua finalità; solo dalla risposta a questi interrogativi l'uomo può trarre luce per la soluzione del problema della sua esistenza.

Gesù con la parabola del buon grano e della zizzania, da lui stesso poi interpretata e spiegata, rivela il motivo e il senso di questa tragica realtà.

Egli prima di tutto afferma chiaramente che il male c'è, è presente ed è dinamico nella storia degli uomini. Esso pero non può venire da Dio, il creatore, che per essenza è Bene infinito ed eterno.

Dio è il seminatore del buon grano; innanzitutto con la creazione stessa, che è radicalmente e metafisicamente positiva, e poi con la Redenzione, perché "colui che semina il buon seme è figlio dell'uomo. Il seme buono sono i figli del regno" 8Mt 13,37-38). Il male viene dal "nemico" e da coloro che lo seguono: "La zizzania sono i figli del maligno e il nemico che l'ha seminata è il diavolo" (Mt 13,38-39).

Ci troviamo qui di fronte alla libertà, che Dio ha dato alle creature razionali: questa e la realtà più sublime e più tragica perché, usata male, è la causa della germinazione della zizzania nella vita del singolo e nella storia dell'umanità.

Il dramma della storia consiste proprio in questa convivenza del buon grano con la zizzania fino al termine della storia, fino alla mietitura: non è possibile, oggi, pensare la storia umana senza zizzania; e cioè - come dice Gesù stesso - non è possibile sradicare totalmente la zizzania, perché essa è commista al bene. La zizzania vive e cresce nel campo del mondo; ma vive e prospera anche il buon grano; cresce e si sviluppa anche il grano di senape, che diventa un albero frondoso e ospitale; cresce e fermenta anche il lievito del bene nascosto nella posta dell'umanità.

Con estrema semplicità, ma con suprema autorità Gesù ci fa capire che l'intera storia umana, per quanto lunga e tribolata, ha come vertice la "mietitura" finale: ciò che conta veramente non è la storia che passa, ma l'eternità che ci attende.

Dalle letture liturgiche dobbiamo pertanto ricavare tre direttive fondamentali per la nostra vita:

1) dobbiamo impegnarci ad essere buon grano e a seminare continuamente buon grano, eliminando tutto ciò che può recare danno, confusione mentale, cattivo esempio, istigazione al male; anzi, dobbiamo impegnarci perché la zizzania, per quanto è possibile, si trasformi in buon grano.

Abbiamo tutti un grande ideale e una magnifica impresa da conseguire;

2) dobbiamo ascoltare con attenzione e scrupolo le ispirazioni che il Signore ci fa sentire circa la nostra vita, dataci unicamente nella prospettiva della felicità eterna.

E' facile, e naturale, nelle nostre preghiere insistere piuttosto su interessi temporali e terreni. Ma, come dice san Paolo nella seconda lettura della Messa, "lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare". E perciò "lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito" (Rm 8,26-27);

3) infine, dobbiamo mantenere sempre viva e fervida la fiducia nel Signore, perché - come dice il Libro della Sapienza - Dio giudica con mitezza e governa con molta indulgenza (cfr. Sg 12,16).

La Vergine santissima, alla quale raccomando tutti voi, specialmente in questo periodo estivo, vi assista e vi illumini così che possiate comprendere sempre più profondamente gli insegnamenti del Vangelo, nei quali sta la risposta appagante a tutti gli interrogativi del cuore. In ogni giorno di questo "Anno mariano" risplenda la vostra devozione alla nostra Madre del cielo.




GPII 1987 Insegnamenti - Recita dell'Angelus - Val Visdende (Belluno)