GPII Omelie 1996-2005 269

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1. "Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli" (
Ap 7,12).

In atteggiamento di profonda adorazione della Santissima Trinità, ci uniamo a tutti i Santi che celebrano perennemente la liturgia celeste per ripetere con loro il ringraziamento al nostro Dio per le meraviglie da lui operate nella storia della salvezza.

Lode e azione di grazie a Dio per aver suscitato nella Chiesa una moltitudine immensa di Santi, che nessuno può contare (cfr Ap 7,9). Una moltitudine immensa: non solo i Santi e i Beati che festeggiamo durante l'anno liturgico, ma anche i Santi anonimi, conosciuti solo da Lui. Madri e padri di famiglia, che nella quotidiana dedizione ai figli hanno contribuito efficacemente alla crescita della Chiesa e all'edificazione della società; sacerdoti, suore e laici che, come candele accese dinanzi all'altare del Signore, si sono consumati nel servizio al prossimo bisognoso di aiuto materiale e spirituale; missionari e missionarie, che hanno lasciato tutto per portare l'annuncio evangelico in ogni parte del mondo. E l'elenco potrebbe continuare.

2. Lode e azione di grazie a Dio, in modo particolare, per la più santa tra le creature, Maria, amata dal Padre, benedetta a motivo di Gesù, frutto del suo grembo, santificata e resa nuova creatura dallo Spirito Santo. Modello di santità per aver messo la propria vita a disposizione dell'Altissimo, Ella "brilla ora innanzi al peregrinante popolo di Dio quale segno di sicura speranza e di consolazione" (Lumen gentium LG 68).

Proprio oggi ricorre il cinquantesimo anniversario dell'atto solenne con cui il mio venerato predecessore Papa Pio XII, in questa stessa Piazza, definì il dogma dell'Assunzione di Maria al cielo in anima e corpo. Lodiamo il Signore per aver glorificato la Madre sua, associandola alla sua vittoria sul peccato e sulla morte.

Alla nostra lode hanno voluto unirsi oggi, in modo speciale, i fedeli di Pompei, che sono venuti numerosi in pellegrinaggio, guidati dall'Arcivescovo Prelato del Santuario, Mons. Francesco Saverio Toppi, e accompagnati dal Sindaco della città. La loro presenza ricorda che fu proprio il Beato Bartolo Longo, fondatore della nuova Pompei, ad avviare, nel 1900, il movimento promotore della definizione del dogma dell'Assunzione.

3. L'odierna liturgia parla tutta di santità. Per sapere però quale sia la strada della santità, dobbiamo salire con gli Apostoli sul monte delle Beatitudini, avvicinarci a Gesù e metterci in ascolto delle parole di vita che escono dalle sue labbra. Anche oggi Egli ripete per noi:

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli! Il divin Maestro proclama "beati" e, potremmo dire, "canonizza" innanzitutto i poveri in spirito, cioè coloro che hanno il cuore sgombro da pregiudizi e condizionamenti, e sono perciò totalmente disponibili al volere divino. L'adesione totale e fiduciosa a Dio suppone lo spogliamento ed il coerente distacco da se stessi.

Beati gli afflitti! E' la beatitudine non solo di coloro che soffrono per le tante miserie insite nella condizione umana mortale, ma anche di quanti accettano con coraggio le sofferenze derivanti dalla professione sincera della morale evangelica.

Beati i puri di cuore! Sono proclamati beati coloro che non si contentano di purezza esteriore o rituale, ma cercano quell'assoluta rettitudine interiore che esclude ogni menzogna e doppiezza.

Beati gli affamati e assetati di giustizia! La giustizia umana è già una meta altissima, che nobilita l'animo di chi la persegue, ma il pensiero di Gesù va a quella giustizia più grande che sta nella ricerca della volontà salvifica di Dio: beato è soprattutto chi ha fame e sete di questa giustizia. Dice infatti Gesù: "Entrerà nel regno dei cieli chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli" (Mt 7,21).

Beati i misericordiosi! Felici sono quanti vincono la durezza di cuore e l'indifferenza, per riconoscere in concreto il primato dell'amore compassionevole, sull'esempio del buon Samaritano e, in ultima analisi, del Padre "ricco di misericordia" (Ep 2,4).

Beati gli operatori di pace! La pace, sintesi dei beni messianici, è un compito esigente. In un mondo, che presenta tremendi antagonismi e preclusioni, occorre promuovere una convivenza fraterna ispirata all'amore e alla condivisione, superando inimicizie e contrasti. Beati coloro che si impegnano in questa nobilissima impresa!

4. I Santi hanno preso sul serio queste parole di Gesù. Hanno creduto che la "felicità" sarebbe venuta loro dal tradurle nel concreto della loro esistenza. E ne hanno sperimentato la verità nel confronto quotidiano con l'esperienza: nonostante le prove, le oscurità, gli insuccessi, hanno gustato già quaggiù la gioia profonda della comunione con Cristo. In Lui hanno scoperto, presente nel tempo, il germe iniziale della futura gloria del Regno di Dio.

Questo scoprì, in particolare, Maria Santissima che col Verbo incarnato visse una comunione unica, affidandosi senza riserve al suo disegno salvifico. Per questo le fu dato di ascoltare, in anticipo rispetto al "discorso della montagna", la beatitudine che riassume tutte le altre: "Beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore" (Lc 1,45).

5. Quanto profonda sia stata la fede della Vergine nella parola di Dio traspare con nitidezza dal cantico del Magnificat: "L'anima mia magnifica il Signore, / e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, / perché ha guardato l'umiltà della sua serva" (Lc 1,46-48).

Con questo canto Maria mostra ciò che ha costituito il fondamento della sua santità: la profonda umiltà. Ci si può domandare in che cosa consistesse questa sua umiltà. Molto dice al riguardo il "turbamento" suscitato in Lei dal saluto dell'Angelo: "Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te" (Lc 1,28). Di fronte al mistero della grazia, all'esperienza di una particolare presenza di Dio che ha posato su di Lei il suo sguardo, Maria prova un naturale impulso di umiltà (letteralmente di "abbassamento"). E' la reazione della persona che ha la piena consapevolezza della propria piccolezza di fronte alla grandezza di Dio. Maria contempla nella verità se stessa, gli altri, il mondo.

Non fu forse segno di umiltà la domanda: "Come avverrà questo? Non conosco uomo!" (Lc 1,34).

Aveva appena udito di dover concepire e dare alla luce un Bimbo, che avrebbe regnato sul trono di Davide come Figlio dell'Altissimo. Certamente non comprese pienamente il mistero di quella divina disposizione, ma capì che essa significava un totale cambiamento nella realtà della sua vita. Tuttavia non domandò: sarà davvero così? deve accadere questo? Disse semplicemente: Come avverrà? Senza dubbi e senza riserve accettò l'intervento divino che cambiava la sua esistenza. La sua domanda esprimeva l'umiltà della fede, la disponibilità a porre la propria vita al servizio del mistero divino, pur nella incapacità di comprendere il come del suo avverarsi.

Questa umiltà dello spirito, questa piena sottomissione nella fede si espresse in modo particolare nel suo "fiat": "Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto" (Lc 1,38). Grazie all'umiltà di Maria poté compiersi quello che Ella avrebbe in seguito cantato nel Magnificat: "D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. / Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente / e Santo è il suo nome" (Lc 1,48-49).

Alla profondità dell'umiltà corrisponde la grandezza del dono. L'Onnipotente operò per Lei "grandi cose" (cfr Lc 1,49) ed Ella seppe accettarle con gratitudine e trasmetterle a tutte le generazioni dei credenti. Ecco il cammino verso il cielo che ha seguito Maria, Madre del Salvatore, precedendo su questa via tutti i Santi e i Beati della Chiesa.

6. Beata sei tu, Maria, assunta in cielo in anima e corpo! Pio XII definì questa verità "a gloria di Dio onnipotente..., a onore del suo Figlio, re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della Madre sua, a gioia ed esultanza di tutta la Chiesa" (Cost. Ap. Munificentissimus Deus, AAS 42 [1950], 770).

E noi esultiamo, o Maria Assunta, nella contemplazione della tua persona glorificata e resa, in Cristo risorto, collaboratrice con lo Spirito per la comunicazione della vita divina agli uomini. In Te vediamo il traguardo della santità cui Dio chiama tutti i membri della Chiesa. Nella tua vita di fede scorgiamo la chiara indicazione della strada verso la maturità spirituale e la santità cristiana.

Con Te e con tutti i Santi glorifichiamo Dio Trinità, che sostiene il nostro pellegrinaggio terreno e vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.



GIUBILEO DEI GOVERNANTI E DEI PARLAMENTARI

Domenica, 5 Novembre 2000

51100
1. "Ascolta, Israele!" (
Dt 6,3 Dt 6,4).

La parola di Dio, in forma solenne e nello stesso tempo amorevole, ci ha rivolto poc'anzi l'invito ad «ascoltare». Ad ascoltare «oggi», «ora»; e a farlo non singolarmente o privatamente, ma insieme: "Ascolta, Israele!".

Questo appello giunge stamani in modo particolare a voi, Governanti, Parlamentari, Politici, Amministratori, convenuti a Roma per celebrare il vostro Giubileo. Tutti saluto cordialmente, con uno speciale pensiero per i Capi di Stato presenti tra noi.

Nella celebrazione liturgica si attualizza, qui ed ora, l'evento dell'Alleanza con Dio. Quale risposta Dio s'attende da noi? L'indicazione or ora ricevuta nella proclamazione del testo biblico è perentoria: occorre innanzitutto mettersi in ascolto. Non un ascolto passivo e disimpegnato. Gli Israeliti compresero bene che Dio attendeva da loro una risposta attiva e responsabile. Per questo promisero a Mosè: "Ci riferirai tutto ciò che ti avrà detto il Signore nostro Dio e noi lo ascolteremo e lo faremo" (Dt 5,27).

Nell'assumere questo impegno, essi sapevano di aver a che fare con un Dio di cui potevano fidarsi. Dio amava il suo popolo e ne voleva la felicità. In cambio, Egli chiedeva l'amore. Nello "Shema Israel", che abbiamo ascoltato nella prima Lettura, accanto alla richiesta della fede nell'unico Dio, è espresso il comando fondamentale, quello dell'amore per Lui: "Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze" (Dt 6,5).

2. Il rapporto dell'uomo con Dio non è un rapporto di paura, di schiavitù o di oppressione; al contrario, è un rapporto di sereno affidamento, che scaturisce da una libera scelta motivata dall'amore. L'amore che Dio attende dal suo popolo è la risposta a quello fedele e premuroso che Egli per primo gli ha manifestato attraverso le varie tappe della storia della salvezza.

Proprio per questo i Comandamenti, prima che come un codice legale e un regolamento giuridico, sono stati compresi dal popolo eletto come un evento di grazia, come un segno della propria appartenenza privilegiata al Signore. E' significativo che Israele non parli mai della Legge come di un fardello, di un'imposizione, ma come di un dono e di un favore: "Beati noi, o Israele, - esclama il profeta - perché ciò che piace a Dio ci è stato rivelato" (Ba 4,4).

Il popolo sa che il Decalogo è un impegno vincolante, ma sa anche che è la condizione per la vita: Ecco, dice il Signore, io pongo dinanzi a te la vita e la morte, cioè il bene e il male; ti comando di osservare i miei comandi, perché tu abbia la vita (cfr Dt 30,15). Con la sua Legge Dio non intende coartare la volontà dell'uomo, bensì liberarlo da tutto ciò che può comprometterne l'autentica dignità e la piena realizzazione.

3. Mi sono soffermato, illustri Governanti, Parlamentari e Politici, a riflettere sul senso e sul valore della Legge divina, perché questo è un argomento che vi tocca da vicino. Non è forse, la vostra quotidiana fatica, quella di elaborare leggi giuste e di farle accettare ed applicare? Nel fare ciò voi siete convinti di rendere un importante servizio all'uomo, alla società, alla stessa libertà. E a buon diritto. La legge umana infatti, se giusta, non è mai contro, ma a servizio della libertà. Questo aveva intuito già il saggio pagano, che sentenziava: "Legum servi sumus, ut liberi esse possimus" - "Siamo servi delle leggi, per poter essere liberi" (Cic., De legibus, II,13).

La libertà a cui fa riferimento Cicerone, tuttavia, si situa principalmente a livello dei rapporti esterni tra cittadini. Come tale, essa rischia di ridursi ad un congruo bilanciamento dei rispettivi interessi, e magari dei contrapposti egoismi. La libertà a cui fa appello la parola di Dio, invece, affonda le proprie radici nel cuore dell'uomo, un cuore che Dio può liberare dall'egoismo, rendendolo capace di aprirsi all'amore disinteressato.

Non a caso, nella pagina evangelica poc'anzi ascoltata, allo scriba che gli chiede quale sia il primo di tutti i comandamenti, Gesù risponde citando lo "Shema": "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutta la tua forza" (Mc 12,30). L'accento è posto sul «tutto»: l'amore di Dio non può che essere "totalitario". Ma solo Dio è in grado di purificare il cuore umano dall'egoismo e di «liberarlo» alla piena capacità di amare.

Un uomo dal cuore così «bonificato» può aprirsi al fratello e farsi carico di lui con la stessa premura con cui si preoccupa di se stesso. Per questo Gesù aggiunge: "Il secondo (comandamento) è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Mc 12,31). Chi ama Dio con tutto il cuore e lo riconosce come «unico Dio», e perciò come Padre di tutti, non può guardare a quanti incontra sul suo cammino che come ad altrettanti fratelli.

4. Amare il prossimo come se stessi. Questa parola trova sicuramente eco nei vostri animi, cari Governanti, Parlamentari, Politici e Amministratori. Essa pone oggi a ciascuno di voi, in occasione del vostro Giubileo, una questione centrale: in che modo, nel vostro delicato e impegnativo servizio allo Stato e ai cittadini, potete dare adempimento a questo comandamento? La risposta è chiara: vivendo l'impegno politico come un servizio.Prospettiva luminosa quanto esigente! Essa non può, infatti, ridursi a una riaffermazione generica di principi o alla dichiarazione di buone intenzioni. Il servizio politico passa attraverso un preciso e quotidiano impegno, che esige una grande competenza nello svolgimento del proprio dovere e una moralità a tutta prova nella gestione disinteressata e trasparente del potere.

D'altra parte, la coerenza personale del politico ha bisogno di esprimersi anche in una corretta concezione della vita sociale e politica che egli è chiamato a servire. Sotto questo profilo, un politico cristiano non può non fare costante riferimento a quei principi che la dottrina sociale della Chiesa ha sviluppato nel corso del tempo. Essi, com'è noto, non costituiscono un'"ideologia" e nemmeno un "programma politico", ma offrono le linee fondamentali per una comprensione dell'uomo e della società alla luce della legge etica universale presente nel cuore di ogni uomo e approfondita dalla rivelazione evangelica (cfr Sollicitudo rei socialis SRS 41). Tocca a voi, carissimi Fratelli e Sorelle impegnati in politica, farvene interpreti convinti e operosi.

Certo, nell'applicazione di questi principi alla complessa realtà politica, sarà spesso inevitabile incontrarsi con ambiti, problemi e circostanze che possono dare legittimamente adito a diverse valutazioni concrete. Al tempo stesso, però, non può giustificarsi un pragmatismo che, anche rispetto ai valori essenziali e fondanti della vita sociale, riduca la politica a pura mediazione degli interessi o, ancor peggio, a una questione di demagogia o di calcoli elettorali. Se il diritto non può e non deve coprire l'intero ambito della legge morale, va anche ricordato che esso non può andare "contro" la legge morale.

5. Ciò assume particolare rilevanza in questa fase di intense trasformazioni, che vede emergere una nuova dimensione della politica. Il declino delle ideologie s'accompagna ad una crisi delle formazioni partitiche, che spinge ad intendere in modo nuovo la rappresentanza politica e il ruolo delle istituzioni. Occorre riscoprire il senso della partecipazione, coinvolgendo maggiormente i cittadini nella ricerca delle vie opportune per avanzare verso una realizzazione sempre più soddisfacente del bene comune.

In tale impegno il cristiano si guarderà dal cedere alla tentazione della contrapposizione violenta, fonte spesso di grandi sofferenze per la comunità. Il dialogo resta lo strumento insostituibile per ogni confronto costruttivo, sia all'interno degli Stati che nei rapporti internazionali. E chi potrebbe assumere questa «fatica» del dialogo meglio del politico cristiano, che ogni giorno deve confrontarsi con quello che Cristo ha qualificato come «il primo» dei comandamenti, il comandamento cioè dell'amore?

6. Illustri Governanti, Parlamentari, Politici, Amministratori, numerosi ed esigenti sono i compiti che attendono, all'inizio del nuovo secolo e del nuovo millennio, i responsabili della vita pubblica. E' proprio pensando a questo che, nel contesto del Grande Giubileo, ho voluto, come sapete, offrirvi il sostegno di uno speciale Patrono: il santo martire Tommaso Moro.

La sua figura è veramente esemplare per chiunque sia chiamato a servire l'uomo e la società nell'ambito civile e politico. L'eloquente testimonianza da lui resa è quanto mai attuale in un momento storico che presenta sfide cruciali per la coscienza di chi ha responsabilità dirette nella gestione della cosa pubblica. Come statista, egli si pose sempre al servizio della persona, specialmente se debole e povera; gli onori e le ricchezze non ebbero presa su di lui, guidato com'era da uno spiccato senso dell'equità. Soprattutto, egli non scese mai a compromessi con la propria coscienza, giungendo fino al sacrificio supremo pur di non disattenderne la voce. Invocatelo, seguitelo, imitatelo! La sua intercessione non mancherà di ottenervi, anche nelle situazioni più ardue, fortezza, buon umore, pazienza e perseveranza.

È l'auspicio che vogliamo corroborare con la forza del sacrificio eucaristico, nel quale ancora una volta Cristo si fa nutrimento e orientamento della nostra vita. Vi conceda il Signore di essere politici secondo il suo Cuore, emuli di san Tommaso Moro, coraggioso testimone di Cristo e integerrimo servitore dello Stato.



CELEBRAZIONE ECUMENICA PRESIEDUTA DAL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II E DAL CATHOLICOS KAREKIN II

Venerdì, 10 Novembre 2000

10110

"Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore" (
Jn 10,11)

1. Nel 2001, la Chiesa Armena celebrerà il diciassettesimo centenario del Battesimo dell’Armenia ad opera del ministero di san Gregorio l’Illuminatore. Ad immagine del Buon Pastore, san Gregorio donò la propria vita per le pecore. Per la sua fede in Cristo, egli trascorse molti anni prigioniero in un pozzo oscuro per ordine del re Tiridate. Soltanto dopo tali crudeli sofferenze Gregorio fu finalmente liberato per dare pubblica testimonianza alla propria vocazione battesimale in tutta la sua pienezza e proclamare il Vangelo agli uomini e alle donne del suo tempo.

La vita di san Gregorio fu presagio del cammino della Chiesa armena nei secoli. Quanto spesso essa fu cacciata nel buio antro della persecuzione, della violenza e dell’oblio! Quante volte i suoi figli nell’oscurità della prigione hanno echeggiato le parole del profeta Michea: "Ma io volgo lo sguardo al Signore, spero nel Dio della mia salvezza, il mio Dio m’esaudirà. Non gioire della mia sventura, o mia nemica! Se son caduta, mi rialzerò; se siedo nelle tenebre, il Signore sarà la mia luce" (7, 7-8). E ciò non solo nel lontano passato, poiché anche il ventesimo secolo è stato uno dei più tormentati nella storia della Chiesa Armena, che ha sofferto ogni sorta di terribili avversità. Ora, grazie a Dio, vi sono chiari segni di una nuova primavera.

2. Nella celebrazione odierna, sono lieto di restituire a Vostra Santità una reliquia di san Gregorio l’Illuminatore, che è stata custodita nel Convento di san Gregorio Armeno a Napoli, e lì venerata per molti secoli. Essa sarà posta nella nuova Cattedrale ora in costruzione a Yerevan, come simbolo di speranza e della missione della Chiesa in Armenia dopo tanti anni di oppressione e di silenzio. Nel cuore di una città in rapido sviluppo un luogo, nel quale lodare Dio, udire la Sacra Scrittura e celebrare l’Eucaristia sarà un fattore essenziale di evangelizzazione. Prego affinché lo Spirito Santo riempia quel sacro luogo della sua amorevole presenza, della sua luce gloriosa e della sua grazia santificante. Auspico che la nuova Cattedrale possa adornare con ancora maggiore bellezza la Sposa di Cristo in Armenia, dove il Popolo di Dio è vissuto per secoli all’ombra del Monte Ararat. Per l’intercessione della Madre di Dio e di san Gregorio l’Illuminatore, possano i fedeli armeni trarre nuovo coraggio e nuova fiducia dalla loro Cattedrale. E possano i pellegrini provenienti da ogni dove sperimentare la potenza della luce di Dio che promana da quel luogo santo, nel proseguire il loro pellegrinaggio di fede.

3. Nella Cattedrale di Yerevan, come in tutte le altre, vi sarà l’Altare dell’Eucaristia e la Sede del Patriarca. La Sede e l’Altare parlano della comunione che già esiste tra noi. Come ha dichiarato il Concilio Vaticano II: "È noto a tutti con quanto amore i Cristiani orientali compiano le sacre azioni liturgiche, soprattutto la celebrazione eucaristica, fonte della vita della Chiesa e pegno della gloria futura, con la quale i fedeli uniti col Vescovo hanno accesso a Dio Padre per mezzo del Figlio, Verbo incarnato, morto e glorificato, nell’effusione dello Spirito Santo". I Padri conciliari hanno inoltre affermato che le Chiese Orientali, "sebbene separate, hanno veri Sacramenti, e soprattutto, in forza della successione apostolica, il Sacerdozio e l’Eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora unite con noi da strettissimi vincoli" (Decr. sull’ecumenismo Unitatis redintegratio UR 15).

Lungo la storia vi sono stati molti contatti tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Apostolica Armena, come pure si sono verificati vari tentativi per ristabilire la piena comunione. Ora dobbiamo pregare ed operare fervorosamente affinché possa presto giungere il giorno in cui le nostre Sedi ed i Vescovi saranno in piena comunione ancora una volta, così che si possa celebrare insieme, al medesimo Altare, l’Eucaristia, supremo segno e sorgente di unità in Cristo. Fino all’alba di quel giorno, ognuna delle nostre celebrazioni eucaristiche soffrirà dell’assenza del fratello che non è ancora lì.

4. Caro e venerabile Fratello in Cristo, san Paolo ci parla nelle espressioni che abbiamo udito dagli Atti degli Apostoli: "Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue" (Ac 20,28). La nostra è una grande responsabilità. Cristo ha affidato alla nostra cura pastorale ciò che egli ha di più prezioso sulla terra: "la Chiesa che egli si è acquistata con il suo sangue".

Prego il Signore, per intercessione di san Gregorio l’Illuminatore, di effondere le sue abbondanti benedizioni su di Lei, sui Fratelli nell’Episcopato, e su tutti i Pastori della Chiesa Apostolica Armena. Lo Spirito La ispiri e La guidi nel Suo ministero pastorale nei confronti del popolo armeno, sia nella terra natia che in tutto il mondo. Alla Sua fraterna preghiera affido in mio ministero di Vescovo di Roma: possa io essere capace di esercitare questo ministero vieppiù come "un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri" (Lett. enc. Ut unum sint UUS 95), così che tutti finalmente possano essere uno (cfr Jn 17,21).

5. Mi permetta di concludere con la fervente preghiera che ho fatto alla Madre di Dio tredici anni fa, durante l’Anno Mariano, e che sgorga anche oggi dal mio cuore:

"Santa Madre di Dio… volgi il tuo sguardo sulla terra d’Armenia, sulle sue montagne, ove vissero schiere immense di monaci santi e sapienti, sulle sue chiese, rocce che sorgono dalla roccia, penetrate dal raggio della Trinità; sulle sue croci di pietra, ricordo del tuo Figlio, la cui passione continua in quella dei martiri; sopra i suoi figli e le sue figlie nel mondo… Ispira i desideri e le speranze dei giovani, perché restino fieri della loro origine. Fa’ che, dovunque vadano, ascoltino il loro cuore armeno, perché in fondo ad esso ci sarà sempre una preghiera rivolta al loro Signore e un palpito di abbandono a te, che li copri col tuo manto di protezione. O Vergine dolcissima, o Madre di Cristo e Madre nostra, Maria!" (Omelia durante la Divina Liturgia in rito armeno, 21 novembre 1987).

Amen.

GIUBILEO DEL MONDO AGRICOLO

Domenica, 12 Novembre 2000

12110



1. "Il Signore è fedele per sempre" (
Ps 146,6).

E' appunto per cantare questa fedeltà del Signore, or ora evocata dal Salmo responsoriale, che voi, carissimi Fratelli e Sorelle, siete oggi qui per il vostro Giubileo. Godo per questa vostra bella testimonianza, interpretata ed espressa poc'anzi dal Vescovo Mons. Fernando Charrier, che ringrazio di cuore. Un saluto deferente va anche alle personalità che hanno voluto manifestare la loro adesione, in rappresentanza di diversi Stati e soprattutto delle Organizzazioni e Organismi delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura.

Il pensiero si volge poi ai dirigenti e membri della Coldiretti e delle altre organizzazioni di agricoltori qui presenti, come pure ai membri delle federazioni di panificatori, delle cooperative agroalimentari e dell'Unione Forestale d'Italia. La vostra molteplice presenza, carissimi Fratelli e Sorelle, ci fa sentire vivamente l'unità della famiglia umana e la dimensione universale della nostra preghiera, rivolta all'unico Dio, creatore dell'universo e fedele all'uomo.

2. La fedeltà di Dio! Per voi, uomini del mondo agricolo, essa è un'esperienza quotidiana, costantemente ripetuta nell'osservazione della natura. Voi conoscete il linguaggio delle zolle e dei semi, dell'erba e degli alberi, della frutta e dei fiori. Nei più diversi paesaggi, dalle asprezze montuose alle pianure irrigate, sotto i più diversi cieli, questo linguaggio ha il suo fascino, a voi tanto familiare. In questo linguaggio, voi scorgete la fedeltà di Dio alle parole che Egli disse nel terzo giorno della creazione: "La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto" (Gn 1,11). Dentro il movimento pacato e silenzioso ma ricco di vita della natura, continua a palpitare il compiacimento originario del Creatore: "E Dio vide che era cosa buona"! (Gn 1,12).

Sì, il Signore è fedele per sempre. E voi, esperti di questo linguaggio di fedeltà ‘linguaggio antico e sempre nuovo’, siete naturalmente gli uomini del ‘grazie’. Il vostro prolungato contatto con la meraviglia dei prodotti della terra, ve li fa percepire come un dono inesauribile della Provvidenza divina. Per questo la vostra giornata annuale è, per antonomasia, la ‘giornata del ringraziamento’. Quest'anno poi essa acquista un più alto valore spirituale, innestandosi nel Giubileo che celebra i duemila anni dalla nascita di Cristo. Siete venuti a ringraziare per i frutti della terra, ma innanzitutto siete venuti a riconoscere in Lui il Creatore e insieme il frutto più bello di questa nostra terra, il ‘frutto’ del grembo di Maria, il Salvatore dell'umanità e, in certo senso, del ‘cosmo’ stesso. La creazione, infatti, come dice Paolo "geme e soffre nelle doglie del parto", e nutre la speranza di essere liberata "dalla schiavitù della corruzione" (Rm 8,21-22).

3. Il ‘gemito’ della terra ci porta col pensiero al vostro lavoro, carissimi uomini e donne dell'agricoltura, lavoro così importante e pur non privo di disagi e durezze. Nel brano che abbiamo ascoltato dal Libro dei Re, si evoca appunto una tipica situazione di sofferenza dovuta alla siccità. Il profeta Elia, provato dalla fame e dalla sete, è protagonista e insieme beneficiario di un miracolo della generosità. Tocca a una povera vedova soccorrerlo, dividendo con lui l'ultimo pugno di farina e le ultime gocce del suo olio; la sua generosità apre il cuore di Dio, al punto che il profeta può annunciare: "La farina della giara non si esaurirà e l'orcio dell'olio non si svuoterà, finché il Signore non farà piovere sulla terra".

La cultura del mondo agricolo è, da sempre, segnata dal senso del rischio che incombe sui raccolti per le imprevedibili avversità atmosferiche. Ma oggi, ai pesi tradizionali, se ne aggiungono spesso altri dovuti all'incuria dell'uomo. L'attività agricola dei nostri tempi ha dovuto fare i conti con le conseguenze dell'industrializzazione e lo sviluppo non sempre ordinato delle aree urbane, con il fenomeno dell'inquinamento atmosferico e il dissesto ecologico, con le discariche di rifiuti tossici, con il disboscamento delle foreste. Il cristiano, pur confidando sempre nell'aiuto della Provvidenza, non può non assumere iniziative responsabili per far sì che il valore della terra venga rispettato e promosso. E' necessario che il lavoro agricolo sia sempre meglio organizzato e sostenuto da provvidenze sociali che lo ripaghino pienamente della fatica che comporta e dell'utilità veramente grande che lo contraddistingue. Se il mondo della tecnica più raffinata non si riconcilia con il linguaggio semplice della natura in un salutare equilibrio, la vita dell'uomo correrà rischi sempre maggiori di cui già ora vediamo avvisaglie preoccupanti.

4. Siate dunque, carissimi Fratelli e Sorelle, grati al Signore, ma insieme fieri del compito che il vostro lavoro vi assegna. Operate in modo da resistere alle tentazioni di una produttività e di un guadagno che vadano a discapito del rispetto della natura. Da Dio la terra è stata affidata all'uomo "perché la coltivasse e la custodisse" (cfr Gn 2,15). Quando si dimentica questo principio, facendosi tiranni e non custodi della natura, questa prima o poi si ribellerà.

Ma voi comprendete bene, carissimi, che questo principio di ordine, che vale per il lavoro agricolo come per ogni altro settore dell'attività umana, si radica nel cuore dell'uomo. E' dunque proprio il ‘cuore’ il primo terreno da coltivare. Non a caso, quando Gesù vuole spiegare l'opera della parola di Dio, si serve, con la parabola del seminatore, di un illuminante esempio tratto dal mondo agricolo. La parola di Dio è seme destinato a portare frutto abbondante, ma purtroppo cade spesso su un terreno poco adatto, dove i sassi o le erbacce e le spine - espressioni molteplici del nostro peccato - le impediscono di radicarsi e di svilupparsi (cfr Mt 13,3-23 par.). Ammonisce, pertanto, un Padre della Chiesa, proprio rivolgendosi ad un agricoltore: "Quando dunque sei nel campo e contempli il tuo podere, considera che anche tu stesso sei campo di Cristo e presta attenzione anche a te come al tuo campo. Quella stessa bellezza che esigi che il tuo contadino renda al tuo campo, rendila anche tu al Signore Iddio nella coltivazione del tuo cuore.. " (San Paolino di Nola, Lettera 39, 3 ad Apro e Amanda).

E' in funzione di questa "coltivazione dello spirito" che voi siete oggi qui a celebrare il Giubileo. Voi presentate al Signore, prima ancora del vostro impegno professionale, il lavoro quotidiano della purificazione del vostro cuore: opera esigente, che mai riusciremmo a compiere da soli. La nostra forza è Cristo, del quale la Lettera agli Ebrei ci ricordava, poc'anzi, che "nella pienezza dei tempi, è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso" (He 9,26).

5. Questo sacrificio, compiuto una volta per tutte sul Golgotha, si attualizza per noi ogni volta che celebriamo l'Eucaristia. Qui Cristo si rende presente, col suo corpo e il suo sangue, per farsi nostro nutrimento.

Quanto deve essere significativo per voi, uomini del mondo agricolo, contemplare sull'altare questo miracolo, che corona e sublima le meraviglie stesse della natura. Non è forse un miracolo quotidiano quello che si compie quando un seme si fa spiga, e da essa tanti chicchi di grano maturano per essere macinati e diventare pane? Non è forse un miracolo della natura il grappolo d'uva che pende dai tralci della vite? Già tutto questo porta, misteriosamente, il segno di Cristo, giacché "tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste" (Jn 1,3). Ma ancor più grande è l'evento di grazia, con cui la Parola e lo Spirito di Dio rendono il pane e il vino, "frutto della terra e del lavoro dell'uomo", corpo e sangue del Redentore. La grazia giubilare che siete venuti ad implorare non è che sovrabbondanza di grazia eucaristica, forza che ci risolleva e ci risana dal profondo, innestandoci in Cristo.

6. Di fronte a questa grazia, l'atteggiamento da assumere ci viene suggerito dal Vangelo con l'esempio della povera vedova, che nel tesoro mette solo pochi spiccioli, ma in realtà dona più di tutti, perché non dona il superfluo, ma "tutto ciò che aveva per vivere" (Mc 12,44). Questa donna sconosciuta si mette così sulle orme della vedova di Zarepta che aveva aperto la sua casa e la sua mensa ad Elia. Ambedue sono sostenute dalla fiducia nel Signore. Ambedue, dalla fede, traggono la forza di una carità eroica.

Esse ci invitano a spalancare la nostra celebrazione giubilare sugli orizzonti della carità, guardando a tutti i poveri e bisognosi del mondo. Ciò che avremo fatto al più piccolo di essi, lo avremo fatto a Cristo (cfr Mt 25,40).

E come dimenticare che proprio l'ambito del lavoro agricolo conosce situazioni umane che ci interpellano profondamente? Interi popoli, che vivono soprattutto del lavoro agricolo nelle regioni economicamente meno sviluppate, versano in condizioni di indigenza. Vaste regioni sono devastate dalle frequenti calamità naturali. E talvolta a queste disgrazie si aggiungono le conseguenze di guerre, che, oltre a provocare vittime, seminano distruzione, spopolano territori fertili e magari li lasciano infestati da ordigni bellici e sostanze nocive.

7. Il Giubileo nacque in Israele come un grande tempo di riconciliazione e di ridistribuzione dei beni. Accogliere oggi questo messaggio non può certo significare limitarsi ad un piccolo obolo. Occorre contribuire ad una cultura della solidarietà che, anche sul piano politico ed economico, sia nazionale che internazionale, spinga verso iniziative generose ed efficaci a vantaggio dei popoli meno fortunati.

Di tutti questi fratelli vogliamo oggi ricordarci nella nostra preghiera, ripromettendoci di tradurre il nostro amore per loro in operosa solidarietà, perché tutti, senza eccezione, possano godere dei frutti della ‘madre terra’ e vivere una vita degna dei figli di Dio.




GPII Omelie 1996-2005 269