B. Paolo VI Omelie 8125

Mercoledì, 8 dicembre 1965: EPILOGO DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II

8125
Solennità dell'Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria

Piazza San Pietro

Signori Cardinali! Venerati Fratelli!

Rappresentanti dei Popoli! Signori della Città di Roma!

Autorità e Cittadini d’ogni parte del mondo!

Voi, Osservatori appartenenti a tante diverse denominazioni cristiane!

E voi, Fedeli e Figli qui presenti, e anche voi, sparsi sulla terra ed a Noi uniti nella fede e nella carità!

Ascolterete tra poco, al termine di questa Santa Messa, la lettura di alcuni messaggi, che il Concilio ecumenico, alla conclusione dei suoi lavori, rivolge a varie categorie di persone, intendendo in quelle considerare le innumerevoli forme in cui la vita umana si esprime; e ascolterete altresì la lettura del Nostro Decreto ufficiale, col quale dichiariamo finito e chiuso il Concilio ecumenico vaticano secondo. Questo è perciò il momento - un breve momento - dei saluti. Dopo, la Nostra voce tacerà. Il Concilio è del tutto terminato; questa immensa e straordinaria riunione si scioglie.

Il saluto perciò che Noi vi rivolgiamo acquista un particolare significato, che Ci permettiamo appena di indicare, non per distrarre dall’orazione, ma per meglio impegnare la vostra attenzione alla presente celebrazione.

Questo saluto è, innanzi tutto, universale. Si rivolge a voi tutti, qui assistenti e partecipanti a questo sacro rito; a voi, Venerati Fratelli nell’Episcopato, a voi Persone rappresentative, a voi, Popolo di Dio; e si estende, si allarga a tutti, al mondo intero. Come potrebbe essere altrimenti, se questo Concilio si è definito ed è stato ecumenico, cioè universale? Come un suono di campane si effonde nel cielo, e arriva a tutti ed a ciascuno nel raggio di espansione delle sue onde sonore, così il Nostro saluto, in questo momento, a tutti ed a ciascuno si rivolge. A quelli che lo accolgono, ed a quelli che non lo accolgono: risuona ed urge all’orecchio d’ogni uomo. Da questo centro cattolico romano nessuno è, in via di principio, irraggiungibile; in linea di principio tutti possono e debbono essere raggiunti. Per la Chiesa cattolica nessuno è estraneo, nessuno è escluso, nessuno è lontano. Ognuno, a cui è diretto il Nostro saluto, è un chiamato, un invitato; è, in certo senso, un presente. Lo dica il cuore di chi ama: ogni amato è presente! E Noi, specialmente in questo momento, in virtù del Nostro universale mandato pastorale ed apostolico, tutti, tutti Noi amiamo! Diciamo perciò questo a voi, anime buone e fedeli, che, assenti di, persona da questo foro dei credenti e delle genti, siete qui presenti col vostro spirito, con la vostra preghiera: anche a voi pensa il Papa, e con voi celebra questo istante sublime di comunione universale.

Diciamo questo a voi, sofferenti, quasi prigionieri della vostra infermità, e che, se a voi mancasse il conforto di questo Nostro intenzionale saluto, sentireste raddoppiare, a causa della spirituale solitudine, il vostro dolore.

E questo diciamo specialmente a voi, Fratelli nell’Episcopato, che non per vostra colpa mancaste al Concilio e ora lasciate nelle file dei Confratelli ed ancor più nel loro cuore e nel Nostro un vuoto, che Ci fa tanto soffrire e che denuncia il torto che vincola la vostra libertà; e fosse soltanto quella che vi mancò per venire al nostro Concilio! Saluto a voi, Fratelli, tuttora ingiustamente trattenuti nel silenzio, nell’oppressione e nella privazione dei legittimi e sacri diritti, dovuti ad ogni uomo onesto, e tanto più a voi, di null’altro operatori che di bene, di pietà e di pace! La Chiesa, o Fratelli impediti e umiliati, è con voi! è con i vostri fedeli e con quanti vi sono associati nella vostra penosa condizione! e così lo sia la coscienza civile del mondo! E infine questo Nostro universale saluto rivolgiamo anche a voi, uomini che non Ci conoscete; uomini, che non Ci comprendete; uomini, che non Ci credete a voi utili, necessari, ed amici; e anche a voi, uomini, che, forse pensando di far bene, Ci avversate! Un saluto sincero, un saluto discreto, ma pieno di speranza; ed oggi, credetelo, pieno di stima e di amore.

Questo il Nostro saluto. Ma fate attenzione quanti Ci ascoltate. Vi preghiamo di considerare come il Nostro saluto, a differenza di quanto comunemente avviene per i saluti della conversazione profana, i quali servono a mettere fine ad un rapporto di vicinanza, o di discorso, il Nostro saluto tende a rafforzare, a produrre se necessario, il rapporto spirituale, donde trae il suo senso e la sua voce. Il Nostro è un saluto non di congedo che distacca, ma di amicizia che rimane, e che, se del caso, ora vuol nascere. Anzi è proprio in questo suo pronunciamento estremo, che esso, il Nostro saluto, vorrebbe, da un lato, arrivare al cuore d’ognuno, entrarvi come un ospite cordiale e dire nel silenzio interiore dei vostri singoli spiriti la parola, consueta e ineffabile del Signore: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace, ma non come la dà il mondo» (
Jn 14,27); (Cristo ha un suo modo unico e originale di parlare nel segreto dei cuori); dall’altro, il Nostro saluto tende ad un altro e superiore rapporto, perché non è solo scambio di voci bilaterale, tra noi, gente di questa terra, ma esso chiama in causa un altro Presente, il Signore stesso, invisibile sì, ma operante nel tessuto dei rapporti umani; e lo invita, lo prega a suscitare in chi saluta e in chi è salutato dei beni nuovi, di cui primo e sommo è la carità.

Ecco, questo è il Nostro saluto: possa esso accendere questa nuova scintilla della divina carità nei nostri cuori; una scintilla, la quale può dar fuoco ai principii, alle dottrine e ai propositi, che il Concilio ha predisposti, e che, così infiammati di carità, possono davvero operare nella Chiesa e nel mondo quel rinnovamento di pensieri, di attività, di costumi, e di forza morale e di gaudio e di speranza, ch’è stato lo scopo stesso del Concilio.

Il Nostro saluto perciò si fa ideale. Si fa sogno? si fa poesia? si fa iperbole convenzionale e vacua, come spesso avviene nelle nostre abituali effusioni augurali? No. Si fa ideale, ma non irreale. Un istante ancora della vostra attenzione. Quando noi uomini spingiamo i nostri pensieri, i nostri desideri verso una concezione ideale della vita, ci troviamo subito o nell’utopia, o nella caricatura retorica, o nell’illusione, o nella delusione. L’uomo conserva l’aspirazione inestinguibile verso la perfezione ideale e totale, ma non arriva da sé a raggiungerla, né forse col concetto, né tanto meno con l’esperienza e con la realtà. Lo sappiamo; è il dramma dell’uomo, del re decaduto. Ma. osservate che cosa si verifica questa mattina: mentre chiudiamo il Concilio ecumenico noi festeggiamo Maria Santissima, la Madre di Cristo, e perciò, come altra volta dicemmo, la Madre di Dio e la Madre nostra spirituale. Maria santissima, diciamo immacolata! cioè innocente, cioè stupenda, cioè perfetta; cioè la Donna, la vera Donna ideale e reale insieme; la creatura nella quale l’immagine di Dio si rispecchia con limpidezza assoluta, senza alcun turbamento, come avviene invece in ogni creatura umana.

Non è forse fissando il nostro sguardo in questa Donna umile, nostra Sorella e insieme celeste nostra Madre e Regina, specchio nitido e sacro dell’infinita Bellezza, che può terminare la nostra spirituale ascensione conciliare e questo saluto finale? e che può cominciare il nostro lavoro Post-conciliare? Questa bellezza di Maria Immacolata non diventa per noi un modello ispiratore? una speranza confortatrice?

Noi, o Fratelli e Figli e Signori, che Ci ascoltate, Noi lo pensiamo; per Noi e per voi; ed è questo il Nostro saluto più alto e, Dio voglia, il più valido!





Noël 24 décembre 1965: MESSE DE MINUIT

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Cette sainte nuit ramène devant nos esprits la méditation toujours nouvelle, toujours suggestive, et à vrai dire inépuisable, du mystère fondamental de tout le christianisme: Dieu s’est fait homme! «Si quelqu’un, assure S. Thomas, d’Aquin, considère avec attention et piété le mystère de l’Incarnation, il y trouvera une profondeur de sagesse telle, qu’elle dépasse toute connaissance humaine» («Si quis diligenter et pie incarnationis mysteria consideret, inveniet tantam sapientiae profunditatem quod omnem humanam cognitionem excedat» [Summa contra Gentiles, 4, 54]).

En effet, dire: Dieu, c’est dire la grandeur, la puissance, la sainteté infinie. Dire: l’homme, c’est dire la petitesse, la faiblesse, la misère. Entre ces deux termes, la distance semble impossible à franchir, le fossé impossible à combler. Et voici que dans le Christ ces deux ne font plus qu’un. La même personne vit à la fois dans la nature divine et dans la nature humaine du Christ. Le Père du Ciel peut dire: «Celui-ci est mon fils bien-aimé» (
Mt 17,5), comme le peut dire à son tour la Vierge Mère, en s’adressant à l’Enfant de la crèche, qu’elle vient de mettre au monde.

Ineffable mystère d’union : ce qui était séparé est réuni, ce qui semblait incompatible se rapproche, les extrêmes se fondent en un: deux natures distinctes - l’humaine et la divine - en une seule personne, celle de l’Homme-Dieu. Voilà toute la théologie de l’incarnation, le fondement et la synthèse de tout le Christianisme.

Le prodige initial réalisé dans le Christ, a sa continuation mystérieuse dans ce qui est ici-bas, jusqu’à la fin des temps, le «Corps mystique» du Christ, la grande famille de tous ceux qui croient en lui. Car c’est chaque homme qui doit être uni à Dieu: «Dieu s’est fait homme, dit magnifiquement S. Augustin, afin que l’homme devînt Dieu». Tel est bien le dessein divin, révélé dans le mystère de Noël. Et l’histoire de l’Eglise à travers les siècles, est l’histoire de la réalisation de ce dessein.

Dans l’Incarnation, Dieu s’est attaché l’homme par des liens si forts, qu’ils vont se révéler capables de dépasser tous les autres, même ceux qu’ont formés la chair et le sang, même ceux qui rattachent l’homme à ce qu’il a de plus précieux en ce monde: la vie. Tout ne nous parle-t-il pas, ici à Rome, du courage des martyrs chrétiens des premiers siècles? Des hommes, des femmes, jusqu’à des enfants témoignent devant le bourreau que se séparer de Dieu par une abjuration serait pour eux un bien plus grand malheur que de perdre la vie. Ils la sacrifient, pour rester unis à Dieu.

Quand le glaive du persécuteur romain a cessé de sévir, c’est dans la solitude que de grandes âmes chrétiennes vont chercher Dieu. On quitte sa famille, on renonce à en fonder une, pour mieux s’unir à Dieu. L’auréole de la virginité est ambitionnée avec la même ferveur que l’était celle du martyre. L’offrande quotidienne de soi-même dans la vie monastique est venue prendre le relai du sacrifice sanglant offert en une fois. Et dans les mille formes de la vie consacrée, cette union de l’homme à Dieu, aimé par-dessus toute chose, continuera à se manifester à travers les siècles et jusqu’à nos jours. L’Eglise suscitera aussi des légions de saints dans le monde; à côté de ses martyrs, de ses vierges, docteurs, pontifes et confesseurs, elle aura l’immense famille de ses saintes femmes, mères de famille et veuves; à toutes les époques et dans tous les pays, elle suscitera nombre de fidèles exemplaires, et tant de foyers chrétiens qui tous témoigneront de ce que peut faire l’homme pour s’unir à Dieu, quand il a compris ce qu’a fait Dieu pour s’unir à l’homme.

Modèle sublime et principe de l’union de l’homme à Dieu, l’incarnation s’est révélée aussi un merveilleux facteur de civilisation. Qui plus que les apôtres du Dieu incarné, a contribué au cours des âges à élever les peuples, et à leur révéler, outre la grandeur de Dieu, leur propre dignité?

La société où pénètre le ferment chrétien voit peu à peu s’élever son niveau moral, et son horizon s’élargir aux dimensions du monde: car ce qui semblait ne devoir concerner que les rapports de l’homme avec Dieu se révèle le plus puissant facteur d’union entre les hommes eux-mêmes. La vertu unifiante de la foi chrétienne agit au sein des familles, et des peuples. Elle abat les barrières de castes, de races, de nations. La foi qui unit l’homme à Dieu unit l’homme à l’homme dans un commun idéal, un commun effort, une commune espérance. La foi au Dieu incarné pénétrant, au long des siècles, les différentes cultures, les purifiant, les enrichissant, les transformant, quel sujet de méditations sans fin! C’est l’intelligence humaine élevée au-dessus d’elle-même, c’est la philosophie humaine recevant le complément des lumières divines comme une plus vive lumière sur son chemin. Et n’est-ce pas la foi, elle aussi, qui a inspiré à Michel-Ange les chefs d’oeuvre inscrits au plafond de cette chapelle, et qui font l’admiration des hommes, de génération en génération?

Or cet enrichissement de la culture est en même temps un étonnant principe d’union : une civilisation chrétienne qui mûrit dans un pays, c’est l’entrée de ce pays dans la grande famille où une même foi fait communier les intelligences, les coeurs et les volontés. On n’en finirait pas si l’on voulait détailler ces merveilleux développements qui jalonnent l’histoire de la civilisation. Et qu’est-ce que tout cela, en définitive, sinon la conséquence de l’Incarnation?

De ces vastes fresques que pourrait évoquer à l’esprit l’histoire de l’Eglise, il faut revenir à l’homme, qui en est le sujet et l’artisan. C’est au dedans de l’homme, dans son âme, dans sa psychologie, qu’il faut essayer de saisir les harmonies de la foi et de l’intelligence.

L’Incarnation peut sembler d’abord un poids trop lourd à porter pour l’intelligence humaine. Saint Thomas le dit sans ambages: de toutes les oeuvres divines, c’est celle qui dépasse le plus la raison humaine: car on ne peut, dit-il, rien imaginer de plus admirable («Incarnationis mysterium inter divina opera maxime rationem excedit : nihil enim mirabilius excogitari potest» [Summa contra Gentiles, 4, 27]). A qui en effet serait-il venu à l’idée, que Dieu pût un jour se faire homme?

Mais cette vérité sublime n’éblouit pas l’esprit qui l’accueille humblement; elle l’éclaire d’une lumière nouvelle et supérieure. Dans cette lumière, l’homme comprend son destin, il voit la raison de son existence, la possibilité de sortir de sa misère, d’atteindre le but de ses efforts. Il voit aussi la valeur des créatures, l’aide ou l’obstacle qu’elles peuvent constituer pour lui dans sa marche vers Dieu. Ici aussi, ici d’abord, le mystère de Noël exerce son action unifiante. Et, en le scrutant plus profondément, le croyant y trouve, non pas une explication entre d’autres du destin de l’homme, mais l’explication définitive: il n’y a qu’un Christ, il n’y a qu’un salut! Et ce salut, loin d’être réservé à une nation privilégiée, est proposé à tous. L’âme du croyant se sent alors pénétrée par un sentiment de fraternité universelle; elle comprend en quoi réside la véritable unité de destin de l’humanité, telle qu’elle est dans le dessein de Dieu que nous manifeste l’Incarnation. Elle saisit le principe fondamental d’union de l’homme avec Dieu et des hommes entre eux; Noël est devenu pour elle ce qu’il est: plus que mystère d’union, mystère d’unité.

Et ce mystère, d’où procède-t-il, où a-t-il sa source? Disons-le d’un mot qui explique tout: il est l’effet de l’amour. Ce moyen divin d’unifier l’homme en lui-même et d’unifier le genre humain autour du Dieu fait homme, ce n’est pas, ce ne peut pas être une détermination imposée par la force, à laquelle on ne pourrait se soustraire. Aussi la foi est-elle proposée, et non imposée. Dieu respecte trop sa créature, qu’il a faite libre, et non esclave. Si la foi et l’intelligence sont amies, combien plus la foi et la liberté! Que pourrait valoir un amour qui serait de contrainte et non de choix?

Ainsi l’Enfant de la crèche-nous révèle le dernier mot du mystère: Dieu s’est incarné parce qu’il a aimé l’homme et qu’il a voulu le sauver. On peut accepter ou refuser l’amour. Mais si on l’accepte, il apporte au coeur une paix et une joie indescriptibles: Pax hominibus bonae voluntatis! Daigne le Dieu fait homme ouvrir en cette nuit nos esprits et nos coeurs, afin que «connaissant Dieu visiblement, nous soyons par lui entraînés à l’amour des choses invisibles»: ut dum visibiliter Deum cognoscimus, per hunc in invisibilium amorem rapiamur!» (Missel Romain, Préface de Noël). Amen.





OMELIE 1966



Mercoledì, 2 febbraio 1966: CERIMONIA DI OFFERTA DEI CERI

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Festa della Presentazione di Gesù al Tempio



Venerati Fratelli!

Diletti Figli e Figlie!

Salutiamo il corteo delle corporazioni ecclesiastiche romane, che fedeli alla tradizione vengono a festeggiare con Noi la duplice solennità della Presentazione di Gesù al Tempio e della Purificazione legale di Maria Santissima; e vengono portando ciascuna il loro cero, simbolo dalle molte voci, che dicono culto e pietà verso il Signore, dicono devozione e gentilezza verso la Madonna, dicono venerazione e affezione verso la Chiesa e verso chi le è ministro, dicono oblazione e carità verso quanti di questi sacri doni avranno edificazione e godimento. Siate i benvenuti, o Fratelli e Figli carissimi! Goda la Chiesa di Roma di questo gesto pio e fedele! Si esprime in esso la costanza che vince il tempo, gli anni lunghi e rapidi insieme, le vicende varie, propizie le une al sentimento religioso, avverse le altre: e scrive così, umile e silenziosa, ma nobile e forte una riga di storia, che fa dei secoli ghirlanda sempre verde! Goda il Nostro cuore di Pastore e di Padre, che trova conforto da codesta testimonianza della vostra presenza comunitaria, come quella di figli devoti e fermi, che oggi Gli dicono: noi siamo qui, come sempre! E goda la vostra schiera, in cui il Popolo di Dio di quest’Urbe fatidica si esprime nelle istituzioni religiose, non solo, che lo ingemmano e lo intessono, ma nei sentimenti altresì, nei propositi, onde esso e romano si dice e cattolico. Siate i benvenuti e tutti siate benedetti!

E lasciate che fra i tanti pensieri che l’odierno incontro suscita nel Nostro spirito, e nel vostro certamente, due ne scegliamo, come fiori dal serto opulento, che la festa odierna reca con sé.

Il primo è quello del culto a Maria Santissima, il quale come forma una nota caratteristica della religiosità cattolica, così costituisce un punto dell’educazione spirituale, a cui la cura pastorale del Vescovo di Roma e quella apostolica del Vicario di Cristo deve attendere con sempre vigilante ed esortatrice premura. Ecco: Noi prendiamo occasione di questa bella cerimonia per raccomandare a voi, venerati Fratelli e carissimi Figli, di tenere viva la fiamma della devozione alla Madonna. Codesta visita, resa più gradita ed espressiva dal dono che Ci portate, già Ci assicura che tale devozione è perseverante ed ardente. Ma non è mai superfluo per chi ama l’esortazione ad amare di più.

Anche perché l’omaggio reso a Maria dal recente Concilio Ecumenico, e inserito nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa, ci obbliga a rivedere le ragioni e le forme del nostro culto mariano. Oserà mai un fedele cattolico dubitare della sua ragion d’essere? Potrà mai qualcuno pensare ch’esso si separa e si contrappone al culto unico e sommo che tributiamo a Cristo e, mediante Cristo, nello Spirito Santo, a Dio Padre nostro? Potrà dirlo superfluo, quando riflette un disegno divino su la Madre di Cristo, e quando le grandi verità basilari di tutta l’economia della salvezza hanno in Maria una luminosa espressione? Siamo indubbiamente tutti convinti che il culto alla Madonna è collegato essenzialmente a quello di Cristo, da quello deriva, a quello conduce, e che alla sua fede, come alla sua Chiesa ci garantisce una fermezza convinta, un’adesione vitale, che senza l’onore pio e ragionevole reso a Maria sarebbero impoverite e compromesse.

Occorre pertanto che ravviviamo la nostra devozione alla Madonna, cercandone nelle origini bibliche e nella secolare e genuina meditazione della Chiesa, le verità generatrici. Non è, ad esempio, biblica la festa odierna, che da una stupenda pagina evangelica deriva la sua profondità messianica, teologica e spirituale? E con le verità, dobbiamo purificare ed abbellire le forme della nostra pietà mariana, non mai consentendo che essa si distacchi dalle sue fonti dottrinali, ma che trovi in esse la norma e lo stimolo per effondersi in espressioni genuine, dove anche il sentimento del cuore e la genialità dell’arte confermano la verità, donde il culto trae radice, e la dicono in Maria, come in nessun’altra creatura, viva e sublime.

L’altro pensiero si riferisce alla destinazione che quest’anno vogliamo dare ai ceri che Ci sono offerti. Come d’abitudine, alcuni di essi saranno da Noi mandati a persone e a luoghi, a cui Ci obbliga particolare intenzione di osservanza o di affetto. Ma la maggior parte di essi manderemo alle case religiose - monasteri, conventi, santuari, comunità - consacrate alla preghiera, alla vita contemplativa, e assorte nel loro silenzio, nella loro continua orazione, nella loro conversazione con Dio, in un raccoglimento e in un’intensità di vita interiore, che sembra sequestrare le anime consacrate ivi adunate dalla società domestica e civile, non solo, ma pure da quella ecclesiastica. Nessuno Ci muova rimprovero se fra le innumerevoli possibili destinazioni di questa categoria della vita religiosa Noi, dovendo scegliere, daremo qualche preferenza alle famiglie religiose da Noi personalmente conosciute nel corso del Nostro ministero sacerdotale. Ma se il cero va a poche, il pensiero, il cuore va a tutte! Vogliamo che queste isole di nascondimento, di penitenza e di meditazione sappiano, anche mediante questo Nostro segno simbolico, che esse non sono né dimenticate, né staccate dalla comunione della Chiesa di Dio, ché anzi ne costituiscono il cuore, ne alimentano la ricchezza spirituale, ne sublimano la preghiera, ne sostengono la carità, ne condividono le sofferenze, le fatiche, l’apostolato, le speranze, ne accrescono i meriti (cfr. Decretum de accommodata renovatione vitae religiosae, n. 7). E vogliamo che questo Nostro conforto alle anime e alle comunità di vita contemplativa giunga ad esse nella festa di Maria Santissima, modello e maestra di interiorità spirituale; ce lo dice il Vangelo due volte: «Maria conservava tutte queste cose (relative alla nascita di Gesù) meditandole nel suo cuore» (
Lc 2,19); «e la madre di Lui (di Gesù) custodiva in sé tutte queste cose», accadute nella fanciullezza del Figlio divino (Lc 2,51). Potremmo riferire a questa angelica e unica creatura, l’elogio che Dante riserva a S. Pier Damiano, nel suo Paradiso: «contento ne’ pensier contemplativi» (21, 117); come dobbiamo a ciascuno di noi riferire la lezione che da così alta e dolce Maestra ci viene. Tutti dobbiamo essere, in qualche misura, contemplativi; tutti dobbiamo imitare la Madonna nel ripensare Gesù e le sue parole ed i suoi esempi; tutti dobbiamo essere anime allenate al raccoglimento e alla preghiera; tutti dobbiamo essere ceri accesi e non spenti, che la propria vita esprimono nella fiamma dell’orazione e dell’amore. A tanto vi sproni e vi conforti la Benedizione Apostolica che ora a tutti impartiamo.





Mercoledì delle Ceneri, 23 febbraio 1966: INIZIO DELLE STAZIONI PENITENZIALI A SANTA SABINA

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Il Santo Padre ricorda, dapprima, un pensiero che deve imporsi alla attenzione comune nel concludere questa cerimonia, di preghiera e di penitenza; il periodo quaresimale che oggi si è inaugurato è un periodo di mortificazione, di dominio di sé, di rinunzia.

Tale disciplina della Chiesa ci dice una cosa molto semplice, molto grave e importante: la vita cristiana non è facile. Sappiamo tutti che la nostra esistenza passa attraverso una valle di lacrime; perciò la nostra vita è intessuta di molte prove, sofferenze, dolori da tramutarsi in un’aspirazione continua verso la felicità e, si potrebbe aggiungere, in una delusione continua perché questa felicità non si raggiunge, e quando si crede di ottenerla è così breve, così incompleta che sembra quasi un preludio, un anticipo di ben altro gaudio, sostanzialmente diverso. Questa è la condizione umana e di tutti, cristiani o no.


CARATTERISTICHE DELLA VITA CRISTIANA

L’uomo vive su questa terra percorrendo una strada piena di amarezze, di triboli, di sofferenze, che si concludono con il maggior dolore: la morte.

La vita cristiana poi, al programma normale di sofferenza preparata, in misura diversa, per tutti, aggiunge due note importanti: la rassegnazione, l’accettazione di questa nostra sorte. Non che ci si inibisca di fare il possibile per alleggerire le sofferenze suscettibili di essere attenuate e per combattere le malattie, la miseria, la fame, le sventure, L’essere cristiani, infatti, non ci priva dei conforti che la Provvidenza mette a nostra disposizione; anzi, il Cristianesimo ci insegna che l’intera carità è volta ad alleviare il dolore; ma è pur vero che un buon cristiano vede sempre nelle vicende della propria esistenza la mano di Dio, la Provvidenza, e dice, rivolto al Signore, «sia fatta la tua volontà».

Questo atteggiamento dà uno stile alla vita cristiana. Essa non è quella del ribelle querulo, irato, il quale chiede al Signore il perché.

La Sacra Scrittura ci presenta un esempio eloquente nel libro di Giobbe: esso si conclude proprio insegnando a rimettere a Dio la rassegnazione, la consegna della nostra volontà; e finisce con porre in risalto la letizia per tale adesione al volere di Dio.

Il cristiano è un combattente che non fugge e non cerca la vita comoda, facile; non è il vile che rifiuta le angustie del tempo; le accetta perché il Signore le manda e le affronta con animo forte, sicuro di non sbagliare.

E c’è di più. Alla necessaria rassegnazione la vita cristiana aggiunge di suo la mortificazione, la penitenza: altro elemento di difficoltà e di prova.


SEGUIRE IL DIVINO MAESTRO CON LA PROPRIA CROCE

Chi volesse seguire Nostro Signore in una vita molle, priva di dolore, tutta cosparsa di poesia irenica e gioiosa, non sarebbe un buon discepolo.

Come non ricordare le parole del Signore nel grande discorso delle Beatitudini? Egli esorta ad entrare per la porta stretta, per la via aspra; e quanto esiguo è il numero di coloro che la sanno accettare!

Il rilievo ci lascia perplessi e quasi tristi. Il Signore dice che sono pochi i veri discepoli che accolgono questo suo programma; mentre, al contrario, molti sono gli altri, i quali imboccano la via larga, comoda, della rovina e della perdizione!

Una verità da non dimenticare mai: il Vangelo, il Signore traccia i programmi della nostra vita e ci esorta a scegliere il cammino arduo, difficile, perché è quello giusto e buono. «Chi vuol venire dietro di me, prenda la sua croce e mi segua».

Per noi questa parola è chiara giacché siamo nella luce piena della Redenzione: ma quanti vivevano allora che cosa potevano capire di questa allusione al supplizio più ignobile, più doloroso da Gesù proposto, in certo qual modo, ad ognuno come retaggio necessario? Più tardi dirà, quasi congedandosi dai suoi discepoli nell’ultima Cena: Voi piangerete, voi sarete tristi, e il mondo godrà.

Esistono ancora altre documentazioni del concetto che il Signore ha della nostra vita: difficile, sofferente, combattente, protesa verso un continuo sforzo di superare ogni ostacolo. L’essenza spirituale per noi non è possibile senza il dispendio di una energia che può rendere fastidioso il nostro vivere quotidiano.

Mettendo a confronto l’insegnamento del Signore con l’indole della nostra educazione moderna, vediamo una grande diversità. L’edonismo che domina la vita presente sembra essere quasi un piano superiore offerto dal mondo all’umanità sottoposta al lavoro con il miraggio del divertimento, del piacere.

Questa trama, questo paradigma della vita presentato dal mondo ai suoi seguaci non è quello del Signore. Noi siamo qui per dircelo, per persuaderci: se vogliamo essere veramente discepoli, seguaci fedeli del nostro Maestro, dobbiamo rimetterci alla sua scuola di mortificazione, di penitenza, di rinuncia, accettando, sempre, le avversità della nostra vita.

Siamo qui per rinnovare, dinanzi alla Chiesa, alle nostre comunità, al secolo in cui viviamo, il proposito di restare fedeli all’insegnamento e all’invito di Cristo. Non intendiamo costruirci un programma diverso da quello del Vangelo; ma essere seguaci autentici, discepoli aderenti al pensiero e alle norme del Salvatore.


VALORE E NECESSITÀ DELLA ABNEGAZIONE

Beati voi, ci ripete il Divino Maestro, se ascoltate e se agite. Non chi dirà «Signore, Signore» entrerà nel regno dei cieli. Gesù vuole, esige compiutezza e realismo nella esecuzione dei suoi comandamenti. Tra essi è questo della penitenza.

Il Santo Padre ricorda quello che ha ricordato nei giorni scorsi, dando alla Chiesa un documento che vorrebbe rimettere allo studio l’alto argomento: «bisogna fare penitenza» pur sapendo tutti come la Chiesa sia moderna, e non chieda grandi penitenze fisiche.

La penitenza però deve essere nella persuasione, nella mentalità, nel modo di pensare, nella considerazione dei valori della nostra vita, nel programma stabilito, scegliendo con la grazia del Signore la vita severa, dura e militante.

E allora un po’ di penitenza interiore, di mortificazione, non sarà difficile, ma anzi logica e quasi soccorrevole per dimostrare che si è coerenti, che si sa esercitare il dominio dello spirito sulle passioni, su quanto piace. Allora anche la mortificazione esteriore diventa opportuna.

Il Santo Padre conclude esortando i religiosi e religiose e quindi i fedeli a dare una espressione sincera a questo spirito di vita cristiana vigilante; ad accettare le difficoltà che la vita cristiana pone dinanzi a noi, a dare forza al cuore, a non essere timidi, o insinceri verso noi stessi, ma ad operare con impegno per compiere ognuno la propria parte nel sacrificio bene accettato e sostenuto.


IL SACRIFICIO ALIMENTA E DIFFONDE LA CARITÀ

E, per prima cosa, adesione a quella che è la regola, ai precetti e comandamenti sia speciali di una data comunità, sia ordinari, dalla Chiesa proposti all’intera famiglia dei fedeli, accettandoli generosamente e cercando di renderli attuali.

Troveremo saggi , graditi, elevanti, utili tali precetti, e conosceremo i doni del modo cristiano di vivere.

Le virtù morali danno ali alla contemplazione, all’esercizio superiore dell’intelligenza; ci rendono idonei a svolgere qualcosa di grande e di bello nella vita; danno alla nostra esistenza un sapore, una fisionomia che si distacca dal diffuso conformismo mirante alla ricerca delle grandi e piccole comodità.

E finalmente si potrebbe tessere l’elogio della penitenza in rapporto alla regina delle virtù: la carità. Per amare bisogna avere la capacità di soffrire; chi non ha spirito di sacrificio non può amare veramente. Se, invece, vogliamo amare il Signore e il nostro prossimo, se apprezziamo le opere di aiuto e di soccorso, dobbiamo infondere nell’anima lo spirito di sacrificio, che diventa spirito di carità.

Allora il velo pesante e triste della penitenza si aprirà attorno a noi come un grande nimbo luminoso e ci innalzerà dalla terra al Cielo.





Domenica, 27 febbraio 1966: I DOMENICA DI QUARESIMA NELLA CHIESA PARROCCHIALE DI SAN PANCRAZIO

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L'Omelia del Santo Padre si inizia con un affabile saluto al Signor Cardinale Vicario, nei cui sentieri di apostolato, gli stessi del Papa, avviene l’incontro. Altri saluti cordiali il Papa dà a Monsignor Vicegerente ed agli ecclesiastici che l’accompagnano; al Parroco della basilica, per il quale fa voti speciali di successi nella santa attività, con la piena adesione dei fedeli; ai sacerdoti che risiedono in questa zona di Roma e che, o nella parrocchia o in altre chiese, sicuramente svolgono efficace ministero a vantaggio di tante anime; all’Ordine Carmelitano; a tutte le altre comunità religiose sia maschili che femminili, che in multiforme apostolato svolgono encomiabile rispondenza alla loro vocazione santa; e infine alle associazioni di Azione Cattolica; agli altri sodalizi ed a tutti i fedeli, con l’incarico, a questi, di recare il ricordo e la benedizione del Padre ad ogni singola famiglia e casa.

I MOTIVI DELLA VISITA DEL PAPA

Ed ora il Santo Padre desidera che i cari ascoltatori pongano mente al perché della sua venuta. Egli non è a San Pancrazio per una festa o speciale celebrazione: lo scopo della sua iniziativa sono gli stessi fedeli; è la parrocchia, la comunità spirituale e religiosa qui raccolta - ed alla quale la Chiesa riconosce una ben determinata figura giuridica - che il Papa viene a salutare e a benedire.

Egli infatti ritiene suo dovere, come Vescovo, incaricato perciò del bene spirituale e responsabile della salvezza del mistico gregge, di dimostrare in quale modo tutti sono presenti alla sua mente e nelle sue preghiere, nelle ansie per il bene generale e quello singolo di ognuno. Devono sentirsi amati. Sanno benissimo che il Signore li ama: chi non ripete e non sente la sublime verità: «dilexit me»? Inoltre il Signore si è degnato di dimostrare questa sua carità, di renderla palese e tangibile in linguaggio umano, attraverso il ministero della Chiesa, la Gerarchia, la Parrocchia. Adunque il Papa è venuto per dare ancor più l’evidenza e quasi la sensazione dell’infinita carità di Dio, che null’altro chiede se non di salvare; per rinvigorire in quanti lo ascoltano la consapevolezza di essere Chiesa; e affinché ognuno rinsaldi la propria responsabilità mediante un cristianesimo vivente e attivo.

Non è un mistero per alcuno il notare che tale coscienza, attraverso le abitudini e trasformazioni dell’età contemporanea, in tanta parte si è come diluita, addormentata, giungendo a compromessi con altre idee, sì che sovente si incontrano coloro che non fanno differenza tra l’essere cristiani e il non esserlo; tra l’appartenere a questo mondo e il considerarsi figli di Dio; tra l’essere cittadini della società civile - alla quale va tutto il nostro rispetto e il nostro aiuto morale e pratico - e sentirsi altresì cittadini di un’alta società religiosa, denominata la Chiesa, la quale è appunto il veicolo della nostra salvezza presente e futura.

Pertanto la presenza del Papa non sta a ricordare un elemento complementare, decorativo nella vita di ciascuno, ma sì invece il supremo destino d’ogni uomo: il doversi congiungere, un giorno, con Dio e salvarsi. La Chiesa, la parrocchia, è la nave che trasporta alla riva della salute eterna. Di qui, dunque, la necessità di più forte e sentito impegno per la vocazione cristiana.


SUPERNI DONI DEL CONCILIO

Dopo un amabile invito a tutti i sacerdoti e religiosi di voler confortare, con solerzia e con l’esempio, questo senso della comunità, la rinascita della parrocchia, la gioia di sentirsi fratelli e figli di Dio, favorendo, almeno una volta alla settimana, la meravigliosa armonia che sale da una folla eterogenea e fervidamente unita nella lode all’Altissimo «una voce dicentes: sanctus, sanctus, sanctus», l’Augusto Pontefice estende l’esortazione a tutti gli altri e cioè ai fedeli invitandoli a lavorare concordi nella fede e nella carità.

A tale mèta sublime ci esorta il Concilio. Ora che così grande avvenimento s’è concluso, bisogna trarne il succo, il valore, il senso. Perché è stato indetto e celebrato? per quale motivo concerne ciascuno di noi? Proprio perché la coscienza di essere cristiani e la generosa adesione alla nostra fede sia più coerente, sentita, operante, esemplare; più ricca di opere e di meriti. All’idea del Concilio va congiunta quella del Giubileo, che i partecipanti al sacro Rito tra poco acquisteranno, bene assistendo alla Santa Messa. Nel Giubileo sono le braccia maternamente aperte della Chiesa, con la indulgenza verso le colpe, le insufficienze, le manchevolezze e l’invito a tornare ad essere «un cuor solo ed un’anima sola» come l’antica comunità dei cristiani. Venite - Ella dice - ché letizia è questo momento della vostra vita, nella riconciliazione piena con Dio.

Si avverte, quindi, nitido e forte l’eco del Vangelo. A tale proposito va ricordato che la Messa che oggi qui si celebra è quella appositamente composta per il Giubileo. Essa ci ripresenta il brano del Vangelo che può definirsi principe nel Grande Libro: quello delle Beatitudini. L’abbiamo riudito, or ora, dalla voce del diacono che ha ripetuto la voce stessa del Signore. Come non rilevare anche questo prodigio storico: le parole di Cristo, da Lui pronunciate, passano di età in età, di labbro in labbro e vengono a risonare tra noi? Siamo abituati alle meravigliose comunicazioni che la tecnica ci offre: basta un filo, un’onda, per parlarsi a enormi distanze. Non trascuriamo l’altro prodigio. Il Signore ha inventato questa trafila di comunicazioni - appunto la Gerarchia, la tradizione cristiana - che da secolo a secolo, da ministro a ministro, porta, vivida e intatta, la parola stessa di Gesù.

Eccola nel suo Discorso-programma: dove è la sintesi del suo messaggio al mondo, ove si attinge una bellezza e potenza lirica che nessuno ha mai eguagliato. Nessuno ha detto verità così elette e piene, così potenti come quelle riascoltate poco fa.


IL SIGNORE MI HA DETTO . . .

Beati i poveri, gli umili, i miti; beati coloro che piangono e soffrono, coloro che hanno fame e sete di perfezione e di giustizia. Saranno consolati, esauditi; avranno il Regno dei Cieli!

Ed ora: questo medesimo Discorso, riletto nella circostanza della visita del Papa, ognuno voglia avere la pazienza, anzi la sapienza di rileggere e di meditare. Avvertirà, senza dubbio, che la grande parola attinge, in pieno, la coscienza dell’umanità. È il messaggio alla vita, all’uomo, all’intera famiglia umana quale è. Esso non si misura col tempo: è sopra la storia e gli avvenimenti. Non è circoscritto da alcun limite geografico e terreno. È la Voce di Dio fatto Uomo; si propaga nel mondo e arriva alle anime, ad ogni singola anima.

Ognuno, perciò, rileggendo, riascoltando, potrà esclamare: il Signore ha detto; anzi mi ha detto.

E qui andrebbe spiegato qualche cosa che aiuti l’ascolto, la ricettività del divino insegnamento.

Il Vangelo, come ha elevatissima forma di presentarsi, con la semplicità, e una limpidezza incomparabile, presenta pure ardui problemi per l’uomo. A volte il povero mortale ritiene di capirlo bene, ritiene molto facile l’attuarlo. Non è così. Il Signore usa parole semplici per farci acquisire verità immense. Basta essere un po’ più attenti e si scorgerà che espressioni in apparenza dimesse posseggono incalcolabile vigore espressivo, ricchezza di contenuto, larghezza di applicazioni, profondità teologica ed umana, una Verità che realmente si manifesta in tutta la sua essenza: divina.



LA VERA E GENUINA BEATITUDINE

Allora, se noi stiamo attenti, se desideriamo davvero compenetrarci di tanta grandezza e unirci a così sublime verità, sentiamo in modo naturale ricorrere la parola: Beati. E tali ci sentiremo nel riascoltare e rivivere ogni parola di Cristo, secondo quanto Egli stesso ha dichiarato: Beati qui audiunt verbum Dei et custodiunt illud.

Per tornare al Messaggio della Beatitudine, la prima nota che si avverte è un grido quasi polemico, contraddittorio: non indica affatto quel concetto piuttosto comune di ritenere il Vangelo come un balsamo lenitivo di ogni afflizione. Infatti il Vangelo non va considerato come un miele disteso sulla vita. È ben altro. Ha sì tutta la dolcezza e la capacità di confortarci: ma il Vangelo è fuoco, il Vangelo è ardimento, è la forza di Dio. E allora: se viene a contatto con noi attraverso le sillabe che ascoltiamo e rileggiamo, è naturale che questo ci sconvolga e quasi colpisca i modi consuetudinari e irriflessi della nostra abituale mentalità. Il Vangelo ci dice cose che sembrano irreali: Beati i poveri, beati i piangenti, i perseguitati; coloro che rinunciano alla vendetta, all’uso della forza . . . Ecco come il Vangelo sgombra dai nostri cuori la congerie degli pseudo fondamenti delle nostre speranze terrene.

Conseguenza logica: per essere cristiani, occorre togliere dalla nostra anima quel senso di facilità che tante volte dà l’illusione di essere bene avviati. La vita cristiana incomincia con un gesto di forza, con una vittoria sulle difficoltà. L’odierna cerimonia s’è iniziata con il rinnovamento delle Promesse Battesimali, cioè con un atto di energia, con una scelta: io lascio, io rinuncio, io voglio. E scelgo per la mia esistenza i veri beni, quelli che danno pienezza alla mia persona. Il cristianesimo esige dunque adamantina volontà risolutiva; non è fatto per le anime vili, per quelle che si illudono; non per le superficiali o ipocrite; non è indicato per coloro i quali vogliono combinare le due cose: stare bene in questo mondo e meglio nell’altro. Per rimediare a tutte le disfunzioni e miserie causate dal peccato originale occorre usare risolutezza e agire con il cuore, essere convinti, operare con fermezza e slancio.



LA NATURA E I MODI DELLA FELICITÀ

Tutto ciò - si noti bene - non significa che il Vangelo renda tristi o tolga le speranze di una perfezione nella vita. Tutt’altro: esso non solo non spegne la felicità, ma la proclama. Tutte le ripresentate voci di Cristo incominciano con la grande parola «Beati», cioè essere felici; avere gioia e pienezza dell’essere. Il Vangelo garantisce la felicità. Ma con due clausole.

La prima è che esso cambia la natura della felicità. Questa consiste non nei beni effimeri, ma nel Regno di Dio: nella comunicazione vitale con Lui. Quindi: Quaerite primum Regnum Dei . . . et haec omnia adjicientur vobis.

La seconda novità introdotta da Gesù è quella che cambia i modi per raggiungere la felicità. Niente bramosia di ricchezze, niente egoismo, odio, cupidigie. Bisogna invece contraddire queste tendenze o passioni, istinti, tentazioni. Si deve andare contro corrente, incominciando a rendere degno, paziente e sacro il dolore.

E allora? Nel rileggere e meditare il Discorso delle Beatitudini si comprenderà appieno come esso sia il codice della vita cristiana; il principio per dimostrarsi autentici, veramente fedeli, effettivi seguaci di Cristo. Abbiate tutti voi, figli carissimi, - conclude il Santo Padre - la ispirazione, la forza per dire: Sì, o Signore, ancora oggi, 1966, non si è consumato il cristianesimo, non si è spenta la tua voce; né il mondo ha potuto estinguere la tua carità. Ancor oggi noi vogliamo Te, o Signore; essere tuoi, e fedeli discepoli. Noi crediamo in Te, speriamo in Te, amiamo Te. Questo il Papa è venuto a dire; ed aggiunge la esortazione per ognuno di far tesoro di così prezioso e supremo bene.






B. Paolo VI Omelie 8125