B. Paolo VI Omelie 21163

Sabato, 2 novembre 1963: BASILICA DI SAN LORENZO AL VERANO

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La celebrazione di questa Santa Messa ci trova concordi in un duplice pensiero: quello del suffragio per i nostri Defunti, e quello della nostra fede nella vita futura. Se il primo pensiero ci ricorda la pietà che dobbiamo avere verso coloro che ci hanno preceduto "cum signo fidei et dormiunt in somno pacis", e ci rende solleciti del loro bene, il secondo pensiero risulta piuttosto rivolto al nostro bene, al conseguimento di quella saggezza che un cristiano sa derivare dal mistero della morte.

Abbiamo infatti pregato perché risplenda ai nostri Morti la luce della vita eterna, e preghiamo ora perché il riflesso di quella stessa luce rischiari la scena della vita presente, e ricordi a noi tutti l'immortalità di cui Iddio, concedendo a noi il dono dell'esistenza naturale, ha dotato la nostra anima. E questo un pensiero fondamentale della concezione cristiana della vita, pensiero che si annebbia e si oscura in coloro che non hanno la fortuna della fede, e che noi credenti dobbiamo invece tenere acceso nella nostra coscienza, e accettarne la chiarezza ch'esso vi porta, tremenda e consolante. Tremenda, perché la certezza della vita futura modifica i nostri giudizi sul valore delle cose e degli avvenimenti della nostra esperienza temporale, e ci ammonisce circa l'inevitabile responsabilità di ogni nostro atto rispetto al futuro giudizio di Dio. "Che cosa giova mai all'uomo, dice il Signore, guadagnare tutto il mondo, se poi perde l'anima sua?" (
Mt 16,26). Ed aggiunge: "Io vi dico che nel giorno del giudizio gli uomini dovranno rendere conto d'ogni parola oziosa, che avranno detta" (Mt 12,36). Consolante, perché la certezza della vita futura significa la vittoria sulla morte: questo fatale e pauroso avvenimento che mette fine al nostro soggiorno nel tempo non sopprime in realtà la nostra esistenza; esso non è che un suo penoso episodio, al quale succede, per noi cristiani, un'immensa, una dolcissima speranza, quella dell'incontro con Cristo e della nostra partecipazione alla pienezza beata ed eterna della sua vita divina.

Sono pensieri grandi, Fratelli e figli carissimi, ai quali oggi la Chiesa in modo particolare ci invita ed ai quali sempre ci educa, perché sono le verità supreme, che riguardano il nostro essere ed il nostro destino. Ora, che tali verità noi abbiamo ricordate a nostro spirituale vantaggio, possiamo derivarne i voti, con cui desideriamo rendere proficua e felice la vostra presenza a questa celebrazione. I nostri voti sono infatti rivolti al Signore perché renda sempre luminosa ed operante in noi la fede e l'attesa dell'eterna vita; perché ci renda capaci di bene usare delle cose e delle esperienze di questo mondo, tenendone libero il nostro cuore, che dev'essere piuttosto orientato al mondo futuro; e perché conforti di sicure e soavi speranze gli animi di coloro che piangono per la morte di qualche persona cara.

Siano i Nostri voti avvalorati dalla comune preghiera e resi efficaci dalla Nostra Apostolica Benedizione.

***

Durante la S. Messa celebrata al mattino nella Patriarcale Basilica di S. Lorenzo al Verano, il Sommo Pontefice esorta i fedeli che gremiscono il tempio a sentitissima cantata verso i defunti, e a compenetrarsi sempre più delle certezze e dei meriti della Comunione dei Santi.

Noi - così l'Augusto Pontefice - dovevamo questo atto di pietà verso i nostri defunti. Dico nostri, perché anche il Papa ha, nell'attiguo grande Cimitero, persone care, che Gli furono maestri, confratelli nel Sacerdozio, amici, conoscenti. Non li può, non li deve dimenticare.

Inoltre, e soprattutto, da quando il Signore Lo ha chiamato ad essere il Vescovo di questa Città, i defunti dell'Urbe sono diventati, in modo particolare, diletti al Supremo Pastore.

Possediamo - Egli prosegue - una comunione, che sarebbe tanto bello approfondire ed esplorare; abbiamo una comunione proprio con i nostri morti. Il Vescovo di Roma, quindi, sente il dovere di compiere questo atto di riverenza e di pietà verso coloro che hanno fatto parte della Santa Città; erano della popolazione di Roma; e perciò sono uniti al Papa dal vincolo pastorale, per cui Egli è, in modo speciale, il Vescovo di queste anime. In che cosa consiste il necessario atto di pietà? Esso rivela, dapprima, un moto di riconoscenza. Sentiamo l'obbligo di gratitudine ai nostri defunti, e va da noi ricordato che tutto abbiamo ricevuto da loro. Siamo degli eredi. Abbiamo ricevuto da loro il primo, il grande dono della vita naturale. Sono tra essi i nostri antenati, i trasmettitori dell'inestimabile dono della vita. Per di più, siamo a loro debitori di quanto ci circonda: la città, i monumenti, la storia, le case, la civiltà, la lingua, le arti. Non siamo stati noi ad inventare tutto questo; lo abbiamo trovato, ci è stato largito. Siamo, dunque, degli eredi.

E donde viene tutta questa ricchezza, questa straordinaria eredità? Proprio da coloro che ci hanno preceduti; da coloro che hanno vissuto, lavorato, operato, pensato e pregato prima di noi, e hanno lasciato così grandi tesori, che appunto sono divenuti il patrimonio di noi tutti, e, perciò, ne siamo, ben si può dire, i beneficiari. Abbiamo pertanto il dovere di tener presente lo sforzo, l'amore, il sacrificio, il dono, in una parola, che i nostri maggiori hanno fatto per noi, ponendo a nostra disposizione la vita, la cultura, il benessere.

Dopo questa premessa, il Santo Padre dichiara che un pensiero, singolarmente grato e commosso, sorge verso quelli che per noi hanno offerto la vita, hanno difeso la città, e sono morti per noi. Se ora siamo nella pace, nella libertà, se operiamo in una fratellanza sociale, così bene affermatasi nel presente momento storico, lo dobbiamo a delle vittime, a chi per noi si è sacrificato.

Come non rievocare, a questo proposito, quel tristissimo 19 luglio 1943, quando proprio il futuro Pontefice fu invitato, solo, ad accompagnare Pio XII nella visita a questa zona di Roma, colpita dalla devastazione bellica? E incancellabile la visione di quel che fu, in quel giorno, San Lorenzo, e di come si presentò la popolazione di questo rione. Una immane tragedia che non può certo essere obliata.

Lacrime, sangue, sacrificio di persone note e di sconosciuti segnarono quelle ore tremende. Eppure vi fu tanta dedizione anonima, compiuta appunto per il bene della società a cui noi apparteniamo, per la difesa della città di cui siamo membri e abitanti. A questi generosi nostri caduti va, dunque, un ricordo speciale; e il Papa è particolarmente grato e sensibile per il fatto che i magistrati stessi dell'Urbe, il Signor Sindaco e altri con lui, si sono uniti a rendere ai nostri morti l'atto di affettuoso amore che stiamo tributando. L'adempimento di un così sentito ufficio si impone, inoltre, tanto più in quanto proprio noi, figli del nostro tempo, siamo proclivi a dimenticare; siamo soliti a guardare avanti, spesso trascurando le benemerenze di ieri; non siamo facili alla gratitudine, alla memoria, alla coerenza con il nostro passato, all'ossequio, alla fedeltà dovuta alla storia, alle azioni che si succedono da una generazione all'altra degli uomini. Spesso si rivela assai diffuso un senso di distacco dal tempo trascorso: e ciò è causa di inquietudine, trepidazione, instabilità. Un popolo sano, un popolo cristiano è molto più aderente a quanti ci hanno preceduto; e mira alla logica delle vicende in cui deve formarsi la propria esperienza, mentre non esita di fronte al necessario tributo di riconoscimento e di giusta valutazione.

V'è poi altro e più solenne impegno. Per chi ha l'inestimabile sorte di possedere la fede, di essere cristiano si impone, verso i defunti, un atto di carità. Non solo la memoria, la riconoscenza, ma proprio una profonda, inesauribile carità. E un vincolo sacro, obbligante. Se noi sapessimo quanti ci furono cari e sono stati i nostri benefattori hanno ora bisogno di noi, di aiuto fraterno, chi resterebbe inerte, insensibile? Ebbene questa implorante, silenziosa, ma reale necessità viene quest'oggi, attraverso la Liturgia della Chiesa, a premere sopra le nostre anime, sopra i nostri cuori. Sono i nostri defunti a dirci che noi possiamo ancora fare qualche cosa per loro e che forse - come misterioso e grande e commovente è questo " forse "! essi sono nella attesa; hanno bisogno della nostra comunione di spirito, di generosa, ardente carità per entrare nella gloria del Signore. La Chiesa ci insegna la verità di uno stato di penosa e anelante vigilia dei trapassati. La luce di Dio non si è ancora accesa per loro, poiché devono ancora diventare degni di sì eccelso dono. Perciò la nostra carità e la ineffabile, arcana comunione, che tuttora ci avvince a quelle dilette anime, può far giungere ad esse il tributo della nostra misericordia, solidarietà e pietà. Negheremo noi questo dono? Il nostro spirito deve traboccare di sollecitudine, di sante industrie, ed elevare ininterrotta preghiera, specie se riflettiamo che i nostri morti possono, a loro volta, essere in qualche modo utili a noi proprio per la stessa circolazione di carità, di cui ci dà nozione e certezza la Chiesa. Di qui l'affetto per gli scomparsi, la cura delle tombe, dei cimiteri; soprattutto, il continuo e meritorio suffragio a vantaggio dei nostri cari, e di quanti altri attendono il premio eterno.

Infine occorre anche considerare un altro aspetto, che si manifesta evidente quando visitiamo questi luoghi di silenzio e di riposo. E cioè: i defunti ci insegnano l'alto valore della vita presente, e quel che di essa ci segue. Le loro spoglie parlano della fragilità e della precarietà del passaggio nel tempo, mentre il ricordo delle loro persone, dei meriti, della bontà dimostrataci, e segnatamente della loro anima immortale ci confermano quali sono i beni che noi anche nella vita di quaggiù dobbiamo, secondo la lezione e gli esempi dati, maggiormente apprezzare. E che faremo allora? che cosa daremo ai nostri defunti per soddisfare al debito di religiosa pietà, di misericordia e di solidarietà cristiana?

Lo sappiamo bene, e vi è stato già accennato. La preghiera innanzi tutto, che, quale arco sopra la vita nel tempo, arriva al Signore e ottiene ai nostri defunti la misericordia Sua.

Pregare, pregare per essi. Il Santo Sacrificio della Messa che ora il Santo Padre offrirà è la grande preghiera in cui Gesù Cristo stesso si fa intercessore, "semper vivens ad interpellandum pro nobis".

Ci soccorre, in ciò, anche la nostra tradizione pia e buona, senza dubbio ancora rigogliosa nelle famiglie cristiane. Bisogna fare opere buone per i nostri morti.

Nelle nostre case antiche vigeva una significativa usanza: offrire un pranzo, il 2 novembre, ai poveri che passavano per le vie della città, ed esso era appunto denominato "il bene dei morti". Molte forme può assumere questo dono. Nessuno rimanga chiuso ed insensibile; procuri ciascuno che la fraterna solidarietà esercitata giovi alla nostra anima innanzitutto, e sia di esempio per i nostri fratelli, ma soprattutto arrechi suffragio e consolazione e, Dio voglia, la gloria eterna per i nostri morti.

Adunque, - conclude Sua Santità - con questi sentimenti che diventano così naturali, vivi, commossi e nobili nei cuori cristiani, cerchiamo di trascorrere questo giorno dedicato alla commemorazione dei trapassati, proponendoci, inoltre, di tenerli di continuo presenti al nostro animo, di unire, a loro beneficio, la nostra preghiera costante alla superna Clemenza di Dio, datore dell'infinita beatitudine.




Domenica, 3 novembre 1963: BEATIFICAZIONE DEL SERVO DI DIO LEONARDO MURIALDO

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Abbiamo tributato gli onori del culto, e abbiamo chiesto l’ausilio della sua intercessione, ad un nuovo cittadino del Cielo, proclamando Beato un esemplare, zelante e provvido Sacerdote piemontese, Leonardo Murialdo, nato a Torino nel 1828 e a Torino morto nel 1900.

È istintiva ed è legittima, doverosa anche, la domanda che il solenne avvenimento della Beatificazione fa sorgere nello spirito di quanti lo contemplano nel quadro di gloria in cui lo colloca oggi la Chiesa: chi era?

Prima ancora di rispondere potremmo rivolgere a noi stessi un’altra tacita domanda, nella quale si esprime la caratteristica dell’agiografia moderna; e cioè: che cosa vogliamo sapere d’un Beato o d’un Santo? Se la nostra mentalità fosse quella della curiosità esteriore, o di certa ingenua devozione medioevale, ci potremmo proporre di ricercare nell’uomo esaltato in modo tanto straordinario i fatti straordinari: i favori singolari, di cui talora godono certi privilegiati Servi di Dio, i fenomeni mistici e i miracoli; ma oggi siamo meno avidi di queste manifestazioni eccezionali della vita cristiana; ne siamo, sì, sempre impressionati quando ci è dato d’averne notizia sicura; impressionatissimi, noi figli d’un secolo impegnato nello studio e nella scoperta delle stupende leggi naturali, quando abbiamo di tali miracolose manifestazioni qualche diretta osservazione, o addirittura qualche esperienza. Ma noi oggi siamo così predisposti a supporre inviolabile il meccanismo delle leggi naturali, da diventare eccessivamente prudenti e sospettosi davanti ai fenomeni carismatici e miracolosi, di cui talvolta la santità è rivestita. Questi fenomeni quasi più ci svegliano dubbi, che non ci diano certezze, quando tali fatti non siano veramente provati e dalla Chiesa approvati. In ogni modo, non sembra che sia di questo genere il segno che Leonardo Murialdo ci dà della sua santità.

La nostra domanda perciò si contenta di più facile risposta; vorrebbe cioè sapere la storia dell’uomo glorificato, la sua biografia; e volendo anche di questa domanda avvertire il lato caratteristico, che interessa l’agiografia moderna, diciamo che ci piace conoscere la figura umana, piuttosto che la figura mistica o ascetica di lui; vogliamo scoprire nei santi ciò che a noi li accomuna, piuttosto che ciò che da noi li distingue; li vogliamo portare al nostro livello di gente profana e immersa nell’esperienza non sempre edificante di questo mondo; li vogliamo trovare fratelli della nostra fatica e fors’anche della nostra miseria, per sentirci in confidenza con loro e partecipi d’una comune pesante condizione terrena. E a questo riguardo la nostra curiosità troverà nella narrazione della vita di Leonardo Murialdo facile e interessante risposta: la sua storia è semplice, non ha misteri, non ha avventure straordinarie; si svolge in un corso relativamente tranquillo, in mezzo a luoghi, a persone, a fatti ben conosciuti. I volumi pubblicati per questa circostanza lo dicono, e sembrano persuaderci che questo nuovo Beato non è un uomo lontano e difficile, non è un santo sequestrato dalla nostra conversazione; è un nostro fratello, è un nostro sacerdote, è un nostro compagno di viaggio. Il quale però, se davvero lo avviciniamo, non mancherà di provocare in noi quel senso di ammirazione dovuto alle anime grandi, quando ci accorgeremo di certa sua nascosta profondità interiore, di certa sua inflessibile costanza in tante non facili virtù, di tante sue finezze di giudizio, di tratto, di stile, che faranno dire a noi ciò che altri, lui vivente, dissero al suo incontro, come se si .trattasse d’una felice scoperta: è un santo! E se noi, dopo averla pronunciata, ci riprendiamo dallo stupore, che tale definizione genera nei nostri animi, ascoltiamo lui stesso, che, quasi a bassa voce, ci svela il buon fondamento di quella definizione e del nostro stesso stupore: «fare e tacere». La sua divisa, potremmo trovarla in queste due parole: fare e tacere. Ci dice quanto sia stato positivo, costruttivo l’impiego della sua vita, e quanto umile. Ci ricorda le parole estreme di Antonio Rosmini: «adorare, tacere e godere». Ed è perciò a lui bene riferito il giudizio d’un contemporaneo: «fu uomo straordinario nell’ordinario».

La nostra domanda, che vuol sapere: chi era?, si precisa così e si appaga, dirigendosi, secondo le aspirazioni ancor più semplificate, semplicistiche talvolta, della novissima agiografia, verso una visione comprensiva e riflessa dell’uomo in questione, quando si accontenta d’una nozione riassuntiva della sua vita, che può essere varia e ricchissima; quando si limita cioè ad esigere una definizione sintentica, che classifichi l’eletto secondo dati aspetti, sufficienti per avere di lui, più che una conoscenza completa, semplicemente un concetto, un’idea. È, ‘del resto, ciò che fa il panegirista, che concentra in uno o più punti focali il suo elogio; ed è ciò che torna opportuno per Noi, in questo momento obbligati a restringere in brevissimi termini la risposta alla domanda che ognuno si pone: il nuovo Beato Leonardo Murialdo, chi era?

Era un Sacerdote, potremmo dire, della scuola di santità torinese del secolo scorso, la quale ha dato alla Chiesa un tipo di ecclesiastico santo, fedelissimo alla dottrina ortodossa e al costume canonico, uomo di preghiera e di mortificazione, perfettamente aderente allo schema abituale della vita prescritta ad un sacerdote, il quale, però, proprio per questa generosa ed intima aderenza sente salire nella sua anima energie nuove e potenti, e si avvede che d’intorno a lui bisogni gravi e urgenti reclamano il suo intervento. Non cercheremo in lui novità di pensiero, troveremo invece in lui novità di opere. L’azione lo qualifica. Spinto dal di dentro del suo spirito, chiamato al di fuori da nuove vocazioni di carità, questo Sacerdote ideale si concede ai problemi pratici del bene a lui presente; e inizia così, senza altre previsioni che quella dell’abbandono alla Provvidenza, la impensata avventura, la novità, la fondazione cioè, d’un nuovo istituto, modellato secondo il genio di quella fedeltà iniziale, e secondo le indicazioni sperimentali delle necessità umane, che l’amore ha rese evidenti e imploranti. Così il Cottolengo, così il Cafasso, già dichiarati Santi, così il Lanteri, così l’Allamano che ne seguono le orme, così specialmente Don Bosco, di cui tutti conosciamo la grande e rappresentativa figura. E così il Murialdo.

Tanto che nessuno, appena ne conosca il disegno biografico, si sottrae ad una nuova domanda: ma perché una nuova fondazione, quando questa sembra simile a quella salesiana e ad altre non poche di eguale tipo e dello stesso periodo storico? E la nostra questione diventa tanto più motivata, quando si accorge che la Scuola torinese non è la sola a generare analoghe istituzioni: potremmo elencare una gloriosa serie di magnifici sacerdoti, i quali hanno illustrato la Chiesa cattolica nell’ottocento, e sembrano tra loro fratelli, e tutti obbedire ad un somigliante paradigma di perfezione personale e di operosità apostolica, tanto da formare tutti insieme una meravigliosa costellazione di sante figure attorniate da nuove, poderose istituzioni da loro fondate. Citiamo ad esempio, fra le istituzioni di coloro che hanno preceduto il Murialdo: gli Oblati di Maria Immacolata, gli Oblati di Maria Vergine, l’Istituto Cavanis, i Rosminiani, i Pavoniani, gli Stimatini, i Claretiani, i Betharramiti e così via; e fra coloro che gli sono contemporanei e successivi: i Padri di Timon David, i Giuseppini d’Asti, gli Oblati di S. Francesco di Sales, i figli di Kolping, di Chevalier, di Don Guanella, di Don Orione, di Don Calabria e di tanti altri.

Potremmo osservare eguale fenomeno, e con una serie assai copiosa di nomi benedetti, per quanto riguarda il campo femminile. Questa fioritura di istituzioni similari, anche se ben distinte le une dalle altre, Ci fa pensare ad un disegno provvidenziale: il Signore ha voluto che la sua Chiesa esprimesse la sua perenne vitalità in una forma, in uno stile particolarmente rispondente ai bisogni e alle tendenze del nostro tempo. .I bisogni infatti del nostro tempo, in ordine all’assistenza, all’educazione, alla qualificazione della gioventù, di quella lavoratrice in particolare, sono così pronunciati e così diffusi da convincerci che nessuna di quelle istituzioni è bastante, e perciò nessuna è superflua; anzi, esse non bastano mai; e se oggi più fossero, tutte avrebbero ragion d’essere, sia per l’originalità che distingue l’una dall’altra (la varietà è bellezza, è ricchezza, è indice di libertà e di fecondità), e sia perché tutte, quelle medesime istituzioni, ancor oggi sono così ricercate dallo sviluppo della scuola e della formazione professionale, da non riuscire a corrispondere a tutte le molteplici chiamate, che da ogni parte si contendono la loro provvidenziale presenza. E osiamo credere che questa crescente richiesta di educatori cattolici della gioventù popolare non diminuirà facilmente neppure quando l’organizzazione scolastica si sarà allargata, come possiamo sperare dai moderni programmi della società civile, perché proprio tale allargamento farà ancor più rilevare un’indeclinabile necessità, a cui la cooperazione di queste istituzioni sembra ed è assai propizia, come quella che offre il cosiddetto «personale», il quale del sacrificio diuturno, silenzioso, amoroso, totale, che solo rende efficace, umana e grande, come una spirituale maternità, l’opera educatrice, fa suo programma e suo intimo vanto. Il Murialdo lo nota in una sua lettera dalla Sicilia: «universale... il lamento delle difficoltà di trovare uomini di spirito...» per l’educazione della gioventù lavoratrice. «Manca solo - egli nota in altro scritto - chi dia... spirito e coraggio». E fu la visione di questo bisogno sociale, che fece di lui il modesto, ma ardito e saggio fondatore della Pia Società Torinese di S. Giuseppe: egli diede a tale bisogno sociale uomini di spirito e di coraggio.

Il fatto va prospettato nell’orizzonte storico dell’ottocento, che estende la sua giornata anche nel nostro secolo, perché una volta ancora ci fa vedere la carità sociale della Chiesa, la quale, davanti al sorgere dell’industria moderna, con la conseguente formazione d’una classe operaia e proletaria, non ha avuto manifesti clamorosi per promuovere un’emancipazione sovversiva dei lavoratori che siano nel bisogno e nella sofferenza, ma con intuizione vitale ha subito offerto, senza attendere né l’esempio né l’indicazione altrui, la sua amorosa, positiva, paziente, disinteressata assistenza ai figli del popolo; li ha circondati di comprensione, di affezione, di istruzione, di amore; ha loro spianato la via per la loro elevazione sociale; ed il lavoro moderno, tanto conclamato, ma tanto spesso artificiosamente pervaso di inquiete passioni, essa ha insegnato a compierlo con amore e con abilità, con dignità e coscienza di quanto esso valga per la vita temporale non solo, ma per quella spirituale altresì, se congiunto al respiro dell’anima, la fede e la preghiera, e se irradiato e benedetto dall’esempio di Cristo, e di colui che a Cristo fu padre putativo, custode provvido, l’umile e grande lavoratore, S. Giuseppe. La sociologia della Chiesa ha anche in questa luminosa schiera di Beati e di Santi votati al bene del popolo una sua eloquente e positiva manifestazione.

La beatificazione perciò con cui oggi la Chiesa solleva ad onore e ad esempio quest’uomo mite e gentile, questo sacerdote pio ed esemplare, questo fondatore saggio e laborioso, acquista un significato particolare: non solo le virtù personali di Leonardo Murialdo sono riconosciute ed esaltate, ma la forma e la forza sociale che tali virtù rivestirono sono così riconosciute e canonizzate. É la linea di santità propria dell’età nostra, che riceve conferma ed incoraggiamento; è la scuola di quelle medesime virtù che riceve pubblico plauso e premio ufficiale.

La Chiesa dunque, anche in questa luminosa circostanza, ci parla delle necessità, tuttora vive e insoddisfatte, della nostra società; ancora ci esorta a dare all’uomo, all’uomo della fatica materiale specialmente, una considerazione di primo grado nel complesso concorso dei coefficienti della produzione economica e del progresso sociale; ancora ci svela il suo cuore pieno di affezione e di stima per le categorie lavoratrici, ancora ci apre le riserve della sua operosa carità per la salvezza, la letizia, la formazione umana e cristiana della gioventù studentesca, agricola ed operaia. Il Murialdo, dall’alto, così c’insegna; e dall’alto lui ci renda capaci di seguirne gli esempi e di partecipare un giorno noi pure alla sua gloria.




Domenica, 10 novembre 1963: SOLENNE INGRESSO DEL VESCOVO DI ROMA NELLA SUA CATTEDRALE AL LATERANO

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Venerabili Fratelli!

Signori Magistrati dell'Urbe!

Diletti Figli!

Chi vive a Roma, e procura di tenere vigilante il suo spirito, è continuamente assediato da molteplici e forti impressioni, così da sentirsi al tempo stesso inebriato ed esaltato e poi quasi soverchiato ed oppresso, tante sono le voci che a lui vengono dalle memorie, dai luoghi, dalle persone, dagli avvenimenti, dai presagi che lo circondano. Così a Noi capita in questo momento; e ben a ragione.

Quando mai la storia, questa evocatrice di scene e di uomini che furono, diventa più vivace ed eloquente, se non in questo momento, il quale solleva dietro l'avvenimento grandioso, che la Chiesa Cattolica sta celebrando, vogliamo dire il Concilio Ecumenico Vaticano secondo i ricordi, l'uno sovrapposto all'altro, dei molti Concili, romani ed ecumenici, qui celebrati? E non vediamo noi profilarsi intorno a noi i panorami dei secoli, dei quali la tradizione di Roma, e possiamo quasi dire della Cristianità, ha segnato qui, come sopra il suo più espressivo quadrante, le ore più luminose e più fosche, e ha fatto ascoltare il procedere, talora impedito e sofferente, tal altra franco e vittorioso, del passo misterioso di Cristo nel tempo? Non risuona, ad esempio, ancora al nostro spirito lo squillo, come quello a noi più vicino, dell'ora faticosamente e silenziosamente arrivata, di quei Patti Lateranensi, che dovevano chiudere un'epoca della vita terrena della Chiesa, e non solo per Roma e per l'Italia, ed un'altra aprire, Dio voglia, nella pace e nella libertà per l'ordine civile e cristiano?

Dove mai troveremo luogo più sacro per i tesori di pietà e di arte di cui è ripieno, più augusto per la maestà religiosa che da esso rifulge, più religioso e più pio per il culto, che vi è celebrato, e per le potestà di santificazione e di governo ecclesiastico, che vi sono esercitate? Qui, dove "Imago Salvatoris infixa parietibus primum visibilis omni populo romano apparuit", qui, dove i pellegrini nordici, come osserva lo stesso Dante: "veggendo Roma e l'ardua sua opra stupefaceansi, quando Laterano alle cose mortali andò di sopra" (Par. 31, 34-36), qui, dove tutto il Medio Evo ebbe il suo cuore, la sua liturgia, il suo governo; qui, dove Francesco venne a sostenere con le umili spalle l'edificio di Cristo, e dove dall'incantevole affresco giottesco il fiero Bonifacio VIII annuncia al mondo il primo giubileo; qui veramente dove la definizione di Clemente XII, il grande costruttore della presente architettura borrominiana, sigilla nel marmo il primato di questa basilica "omnium Urbis et Orbis ecclesiarum mater et caput"; qui v'è ragione per mille argomenti di che tremare e godere!

E tanto più in questa circostanza in cui non guida i Nostri passi a Questo santissimo tempio distratta ed attratta curiosità di visitatori, o pietà silenziosa di pellegrini o cerimonia di consueta devozione oggi questa basilica accoglie, come non mai nei lunghi secoli della sua vicenda, tutto l'Episcopato del mondo, quasi al completo, e si apre splendida e solenne all'ultimo dei suoi Pontefici, il più piccolo e il più umile fra quanti l'hanno preceduto, che non ha alcun merito per qui incedere maestro e signore, se non quello irrefragabile d'essere stato canonicamente eletto Vescovo di Roma.

Vescovo di Roma: perciò successore di San Pietro, perciò Vicario di Cristo, Pastore della Chiesa Universale, Patriarca dell'Occidente e Primate d'Italia.

Fratelli e Fedeli: abbiate comprensione e compassione di Chi deve a voi, a Roma, alla Chiesa, al mondo così presentarsi, e riconoscete nella Nostra personale piccolezza la grandezza della Nostra somma e pontificale missione.

Non avevamo ragione Noi di palesarvi il Nostro stupore, quasi il senso di vertigine, che in questo luogo ed in questo momento Ci sorprende, e tanto maggiore quanto più chiara è la coscienza di ciò che Ci circonda e di ciò che stiamo compiendo?

Ma è pur doveroso vincere questo sbigottimento, e dare al Nostro animo una sua piena espressione. Sì, questo Noi vogliamo fare. La misericordia divina, la vostra bontà, il Nostro stesso ufficio Ci consentono di ritornare calmi e semplici, anche se nulla Ci sfugge delle proporzioni delle cose e degli avvenimenti circostanti. Ecco: Noi daremo lode al Signore per tutto quanto converge ora in questa basilica, sulla modesta Nostra persona e sul mistero formidabile delle chiavi, che qui Ci sono consegnate. Vorremmo, come San Pietro nella sua barca, all'atto della pesca miracolosa, gettarci ai piedi di Cristo, e gridare con l'Apostolo: "Exi a me, quia homo peccator sum". Allontànati da me, perché sono uomo peccatore! (
Lc 5,8). Ma poi con letizia immensa pensiamo che qui Noi possiamo a Lui, a Cristo Signore, tributare l'onore più ufficiale e più autentico che dalla terra, in consonanza col regno d'oltretomba, Gli possa da Noi essere offerto: "Degno è l'Agnello cioè Lui, la vittima che ha salvato il mondo degno è l'Agnello, che è stato ucciso, di, ricevere la potenza e la ricchezza e la sapienza e la forza e l'onore e la gloria e la benedizione" (Ap 5,12). La Cattedrale di Roma può ben risonare di questo corale e mistico inno!

Poi, Fratelli, daremo un saluto a voi. Come già sulle soglie della basilica abbiamo risposto venerando e benedicendo il Clero di S. Giovanni, così ora a voi, Signori Cardinali, a voi, veneratissimi Patriarchi, Arcivescovi, Vescovi e Prelati della Chiesa intera qua convenuti, Noi diamo il più cordiale, il più sincero, il più riverente omaggio della Nostra fraternità. Noi non vogliamo tacervi l'intima gioia di poter esprimere la comunione Nostra con ciascuno di voi e con voi tutti insieme. Quell'unità della Chiesa cattolica, che ora tanto interessa i Nostri pensieri e le Nostre aspirazioni, qui Noi possiamo proclamare e godere; qui, dove maggiore è l'autorità, maggiore sia la carità; qui l'agape, che Ci ha preceduti (cfr. S. Ign.), acquisti tutta la sua forza spirituale, qui tutti ci riempia della stessa fede, della stessa preghiera, dello stesso amore, dello stesso servizio, della stessa speranza. Fratelli, a Noi pare che nessuna sede al mondo, nessuna ora come questa Ci dà la fortuna di celebrare e quasi di sperimentare questa vivente carità, questa mistica presenza di Cristo nell'umanità: "Vobiscum sum"; Egli è qui, con noi e per noi.

E Ci sia poi concesso un istante per estendere il Nostro saluto alla Nostra diocesi, a Roma, grande e benedetta, al Nostro diletto e veneratissimo Cardinale Vicario, al Cardinale Pro Vicario, al Vice Gerente e ai due Vescovi Ausiliari, al clero carissimo di Roma, ai suoi religiosi e religiose, ai suoi fedeli tutti quanti!Possiamo Noi dimenticare, in una congiuntura così caratteristica, come questa, d'essere il Vescovo di questa città, il Pastore di questo Popolo? Noi Ci rendiamo conto che i Nostri rapporti con l'Urbe sono oggi diversi da quelli che furono per lunghi secoli; non abbiamo più sulla città la sovranità temporale, ma conserviamo quella spirituale; non per questo però è diminuito il Nostro amore per Roma, ché anzi l'amiamo con più libero cuore, con più evidente disinteresse, con più doveroso impegno: il Nostro rapporto pastorale con l'Urbe dovrà anzi manifestarsi più vigile ed operoso per gli accresciuti bisogni e per i nuovi problemi che la vita religiosa di questa immensa metropoli oggi presenta.

Ci è caro, così, rispondere alle nobili e deferenti espressioni che il Signor Sindaco di Roma Ci rivolgeva testé al Nostro passaggio accanto al Campidoglio; lo ringraziamo della sua cortesia e della collaborazione ch'essa Ci lascia sperare per dare possibilità al Nostro ministero di sovvenire prontamente ed efficacemente alle immense necessità pastorali e spirituali di Roma cattolica. A lui assicuriamo la Nostra paterna assistenza in quanto l'opera Nostra possa essere utile alla città. E con lui salutiamo i suoi Collaboratori; anzi il Nostro riverente pensiero si rivolge a tutte le Autorità, che in Roma svolgono le loro rispettive funzioni. Vada dapprima il Nostro particolare omaggio al Signor Presidente della Repubblica; e sia poi il Nostro ricordo alle Autorità governative e politiche, giudiziarie, scolastiche, sanitarie, militari della città; a tutte! Salutiamo con piacere e benediciamo quelle presenti; e volentieri portiamo nella memoria e nella preghiera i vari ceti, di cui si compone la cittadinanza e che sappiamo qui rappresentati: la nobiltà, la coltura, il lavoro, il commercio, la beneficenza, l'arte, la stampa, la radio televisione, lo sport, i trasporti, tutti! E le famiglie tutte; le famiglie cristiane, i papà, le mamme con i loro figliuoli d'intorno, le persone di casa tutte.

E tutti Ci pare di comprendere in questo spirituale e affettuoso interessamento, se pensiamo al Popolo, a questa grande, cara e buona comunità, che vogliamo considerare Nostra più d'ogni altra cosa: non enim quaero quae vestra sunt, sed vos! Non desidero nulla, desidero voi (2Co 12,14). Voi, Romani. Romani di ieri e di sempre Romani d'origine e di nascita: sapete che Noi abbiamo immensa stima e fiducia di voi ? Voi delle antiche vie di Roma, voi delle vecchie case, voi delle istituzioni tradizionali di Roma, voi di Trastevere! Noi conosciamo la bontà ch'è nei vostri animi e nei vostri costumi; Noi vi sappiamo fondamentalmente fedeli alla religione e alla Chiesa; Noi speriamo che vorrete sempre bene al Papa. Anzi Noi speriamo che Ci ascolterete e Ci obbedirete, se vi diremo che oggi occorre ravvivare il vostro patrimonio religioso e morale, e infondere nuovi entusiasmi e nuove virtù alla vostra vita. Noi non siamo del parere di quello storico, grande ma non cattolico, il quale scrisse in una sua celebre opera su Roma che "la massa (dei Romani) non comprese la dottrina di Cristo in verun tempo" (Gregorovius - cfr. Grisar 1, 58 n. 1). Voi l'avete compresa e meglio la comprenderete, se vorrete ascoltare ciò che v'insegnano Roma ed il suo e vostro Vescovo. E lo stesso diciamo ai Romani nuovi: a tutti quelli che la Capitale del Paese chiama a Roma, agli Uomini politici, agli Imprenditori, ai Funzionari ed agli Addetti agli uffici burocratici, ai turisti e agli studiosi; ma specialmente agli Immigrati e a tutta la gente di lavoro che abita nei quartieri operai e periferici della Città. Noi vi accogliamo, Noi vi salutiamo, Noi vi vogliamo bene, come a nuovi concittadini e nuovi fratelli. Non dovrete sentirvi forestieri a Roma, non dovrete rimanere estranei alla vita, anzi allo spirito della Città, Noi vi vogliamo conoscere. Noi vi assisteremo.

Sapete, figli tutti di Roma, qual è la forma principale, con cui Noi pensiamo di avvicinarvi e di introdurvi nel circuito ideale ed operante della vita cattolica romana? E la Parrocchia! Sì, l'antica e familiare istituzione religiosa e pastorale, che tutti conosciamo. La Parrocchia deve tutti raccogliervi, tutti assistervi, tutti unirvi nella preghiera e nella carità. Sarebbe grande Nostra aspirazione di dare alle singole Parrocchie di Roma nuova vitalità: a cominciare dalla coscienza che tutti dobbiamo avere di questo primo centro di unità, di amicizia, di culto e di formazione cristiana. Saremo grati a quanti Ci aiuteranno a dare onore, efficienza, pienezza organizzativa e caritativa alle singole Parrocchie.

Ecco che il Nostro discorso finisce col saluto ai Nostri Parroci, sia del Clero diocesano e sia Religiosi, ai Coadiutori, alle Associazioni cattoliche. Figli dilettissimi, siamo con voi! Pensiamo, se il Signore Ci aiuta, di fare a voi qualche visita pastorale, per incoraggiare le vostre fatiche e per dare a voi stessi un più profondo e confortante senso della comunità spirituale a cui rispettivamente appartenete. Operiamo insieme, in nomine Domini! Bisogna che diamo buona vita alle Parrocchie per dare, come ardentemente desideriamo, buona vita a Roma, alla Nostra Roma.

Ch'essa ora ascolti nel suo nobile idioma una nostra conclusiva parola!

Antequam oratio Nostra ad exitum vertit, suavi ad implendum officio tenemur. Te, Roma, honoris Nostri sedem, grato et effuso animi affectu salutamus.

Quibus te laudibus extollamus? Nescimus prorsus, utrum amore an admiratione dignior sis, cum utroque perquam sis digna. Tot gloriis et memoriis te inclitam, urbem aeternam, sacram, salutamus: et ad promendum mirantis animi Nostri intimum sensum, liceat Nobis uti verbis eorum, qui medio aevo Romam versus pia peregrinatione suscepta, cum eius pinnacula et muros cernebant, in has erumpehant consonas voces:

O Roma nobilis, orbis et domina,
Cunctarum gentium excellentissima.
Roseo Martyrum sanguine rubea,
Albis et virginum liliis candida;
Salutem dicimus tibi per omnia.
Te benedicimus, salve per saecula.

Tuam celsitatem tecum considerans, o quam oportet egregie de te sentias et regina cum sis, christianae dignitatis moribus exorneris. Oportet namque antecellas meritis pietatis, iustitiae et omnis humanitatis decore et eximiis exemplis, in ipsa apostolicae petrae soliditate fundata. Hic aequi et recti cultus, hic intemerata fides, de alienis necessitatibus sollicita caritas, pudicitiae modestia et nitor, praecipuo ornamento tibi sint, ita ut advenae, qui invisendi te causa huc proficiscuntur, abunde habeant, cur te laudent, in sino tuo largiter inveniant quae ad imitanda sibi proponant. Recognosce igitur dignitatem tuam: quapropterquidquid malesuada socordia fas et nefas evertit et caecam impietatem sapit ex moenibus tuis averruncetur.Nos autem pro officio Nostro universae Ecclesiae et tui ipsius pastores nervos viresque navitatis Nostrae intendemus nec ulli parcemus labori, ut cumprimismaiori usque spirituali bono et emolumento tuo consulamus. Et quamvis trepidi tam instans negotium cordis aggredi non dubitavimus nec dubitamus. "Quioneris est auctor, ipse est administrationis adiutor: et ne sub magnitudine gratiae succumbat infirmus, dabit virtutem, qui contulit dignitatem" (S. Leo Magnus, Sermo II, habito in anniversario ordinationis suae. Migne P.L. 54, 143).

Christus, humani generis Salvator, Ecclesiae caput et auctor, cuius gloriae hoc templum christiani orbis maximus dicatum est, gratiae Suae opes in te fundat largifluas; munimine Suo te protegat, radiante lumine veritatis, quae ipse est, magis magisque te collustret et imbuat, ut semper tu sis Jerusalem, de qua prophetico ore haec dicta sunt: "Surge illuminare, Jerusalem, quia venit lumen tuum et gloria Domini super te orta est" (Is 60,1).

Pios in te convertat oculos Deipara virgo Maria, Salus populi Romani, spes nostra columenque nostrum immotum et inconcussum. Sancti Apostoli Petrus et Paulus patrocinio suo te semper augeant et defendant; uterque Sanctus Ioannes cuius geminato honore haec sacra aula coruscat, sollertem tibi afferant opem; beati Caelites, quorum veneranda ossa hic conquiescunt; et universi, qui in sanctorum numero censiti sunt, a te altrice fortium parti vel aliti, benignissima tutela tibi adsint et ad virtutis fastigia appetenda exstimulent, ita ut sis almae religionis et pacis domicilium, civitas sancta perfecti decoris.

Haec flagrantibus votis ominati, elatis ad caelum manibus, prolixa cantate benedicimus huic Antistitum et sacerdotum honorabili praesentiae et coronae, in Urbe Roma omnibus sacram vel civilem potestatem gerentibus, christiano eius populo uniuscuiusque ordinis et coetus, nominatim infirmis, calamitosis et pueris, cuncto gregi Nostro, cui prodesse potius quam praeesse optamus. Benedictio, spes, Spiritus Sancti gaudium, superna tuitio, felicitas sint vobis, et in vobis perpetuo maneant. Amen.





B. Paolo VI Omelie 21163