B. Paolo VI Omelie 17564

Domenica, 17 maggio 1964: FESTIVITÀ DI PENTECOSTE

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Venerati Fratelli e diletti Figli!

Per celebrare insieme la festa di Pentecoste, fonte di ogni altra festa cristiana, per rievocare insieme l’avvento in pienezza dello Spirito Santo e per dare a questa divina Persona un atto di culto (amore per Amore) quanto più alto e più vivo, per gustare con la presenza assorbente del divino invisibile Ospite, nel canto unanime e nel silenzio unanime, un momento di genuina ebbrezza spirituale, per afferrare con uno sguardo, un istante, come nel bagliore d’un lampo, l’effetto visibile, storico, umano della venuta del Paraclito nel mondo, la Chiesa cioè, noi, l’umanità assunta nel flusso autentico ed operante della redenzione, la Chiesa vivente e peregrinante, da quel giorno ad oggi e via lanciata verso i suoi escatologici destini, per sentirci e saperci avvolti dalla corrente di grazia, - luce, forza, dolcezza, profezia e speranza -, emanante da Cristo ed a Cristo trascinante, soprannaturale carisma e virile virtù, così da attualizzare in noi un inverosimile fenomeno di santità, e da trovare in noi la semplicità e l’audacia di farci testimoni, noi, di Cristo nella realtà formidabile del nostro secolo, per meditare, pregare, godere insieme un giorno, fra i tanti della nostra vita stanca e prosaica, pieno e benedetto, Noi vi abbiamo invitati a questo santissimo rito.

Sì, è a voi specialmente, dilettissimi fra i diletti, Figli e Fedeli, quali siete, Alunni e Ospiti dei nostri Seminari, dei nostri Convitti e Collegi ecclesiastici, Allievi dei nostri Istituti di Studi superiori, di educazione e di istruzione ecclesiastica, dei Noviziati religiosi e delle Case di formazione, voi Studiosi e Studenti ecclesiastici di questa nostra Roma cattolica, e perciò eterna e fatidica, è a voi che si è rivolto il Nostro invito, perché abbiamo a celebrare tutti insieme, come «un Cuor solo ed un’anima sola» (
Ac 4,32), la santa festività della Pentecoste; e se ben volentieri vediamo presenti in questa Basilica, cenacolo delle genti, tanti altri Fratelli e Figli, Pellegrini e Viaggiatori d’ogni parte del mondo, e tutti di cuore accogliamo, salutiamo e benediciamo, a voi specialmente, Candidati al sacerdozio di Cristo, o di tanta dignità e potestà già insigniti per l’ordinazione sacramentale, si rivolge ora la Nostra parola, semplice e breve, reticente, ahimè, sul punto focale del mistero che commemoriamo (troppo infatti richiederebbe di studio e di poesia), e parola impari a esprimere degnamente alcun che sulla luce che da quel punto si effonde, ma tutta pervasa, Figli carissimi, dall’ansia affettuosa di imprimersi nelle vostre anime, come vivo ed operante ricordo.

Vi vogliamo parlare, un istante, della Chiesa; sì, di quel Corpo mistico, che ebbe la sua gestazione nella storia evangelica, e nacque, vivo di Spirito Santo, appunto come oggi, nel Cenacolo, a Gerusalemme; appunto là dove Noi stessi, mesi or sono, Ci siamo inginocchiati, tremanti di commozione, quasi chinandoci sulla culla della Chiesa di Dio. Voi sapete tutto di essa, Noi pensiamo; e perciò, tutto lasciando alla vostra meditante pietà, vi proponiamo di dare ora uno sguardo a quella sua nativa proprietà, che sfolgora fin dal primo giorno come nota caratteristica meravigliosa, e che chiamiamo cattolicità, cioè universalità, cioè destinazione a tutte le genti, apertura a tutte le anime, offerta a tutte le lingue, invito a tutte le civiltà, presenza a tutta la terra, istanza a tutta la storia.

C’invita a questa considerazione, come sempre in questo giorno beato, il ricordo del primo prodigio compiutosi in virtù dell’avvenimento stesso della Pentecoste, ancor più che per intenzione e per potestà di coloro in cui tale avvenimento si produsse, il prodigio cioè delle lingue. Il racconto degli Atti degli Apostoli si fa preciso, con una prolissa enumerazione di popoli che Ci sembra intenzionalmente ecumenica: «Tra i Giudei residenti a Gerusalemme, vi erano uomini pii d’ogni nazione che si trova sotto il cielo; e quando fu udito quel tuono la moltitudine si radunò, e rimase confusa, perché ciascuno li udiva parlare nel proprio linguaggio. E si stupivano tutti, chiedendosi con meraviglia: oh, quelli che parlano non sono forse Galilei? e come mai noi li udiamo parlare ciascuno nel nostro idioma nativo? Noi Parti, Medi, Elamiti, della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto, delle parti della Libia Cirenaica, pellegrini Romani, sia Ebrei che Proseliti, Cretesi ed Arabi . . .» (Ac 2,5-11). Cioè rappresentanti del mondo colà allora conosciuto. E quale magnifica consonanza a questo elenco di popoli avrebbe la lista delle nazionalità a cui voi, uditori, oggi appartenete. Il nome cattolico continua la sua affermazione, la sua celebrazione.

L’uso abituale delle parole svigorisce spesso la forza e la meraviglia del loro significato. Noi usiamo con estrema facilità questo termine «cattolico», senza quasi avvertire la pienezza, a cui esso si riferisce, il dinamismo che da esso emana, la bellezza ch’esso prospetta, l’impegno ch’esso impone. Spesso diventa nel comune linguaggio un termine che definisce, e cioè tenta di circoscrivere e di limitare la Chiesa unica e vera, ch’è appunto quella cattolica, per distinguerla da altre frazioni, rispettabili e dotate ancora d’immensi tesori cristiani, ma tuttora separate dalla pienezza cattolica; e talora preferiamo al termine di cattolico quello di cristiano, quasi dimenticando che, nel concetto e nella realtà, il primo vuol contenere tutto il secondo, e non sempre viceversa.

Bisogna avere caro e chiaro questo nome cattolico, che dice la trascendenza di quel regno di Dio, che Cristo è venuto a inaugurare sulla terra, che la sua Chiesa va instaurando nel mondo, e che mentre penetra come fermento, come energia soprannaturale, in ogni anima, in ogni cultura che lo accolga, non si appropria nulla del regno terreno, e si libra sopra il piano temporale non per dominarlo, ma per illuminarlo e per comporlo in un panorama di rinascente e universale armonia. Bisogna ascoltare in esso l’eco mai spento della vocazione misteriosa e amorosa di Dio che chiama tutti, tutti gli uomini all’incontro con la sua misericordia e che con questa chiamata forma il popolo nuovo, il popolo suo, definito appunto il popolo convocato, la congregatio fidelium, la Chiesa. Togliere alla Chiesa la sua qualifica di cattolica significa alterare il suo volto, quale il Signore volle ed amò, significa offendere l’intenzione ineffabile di Dio che volle far della Chiesa l’espressione del suo amore senza confini per l’umanità.

E bisogna capire la novità psicologica e morale che un tal nome porta con sé: calato nel cuore degli uomini, il nome cattolico vi trova, sì, una naturale capacità d’espansione, un profondo ma vago istinto di dilatazione universale: «homo sum, et nil humani a me alienum puto». Ma vi trova soprattutto una terribile angustia, una ristrettezza che non lo lascia entrare; il cuore dell’uomo è piccolo, è egoista, non ha posto che per sé e per poche persone, quelle della propria famiglia e della propria casta; e quando, dopo nobili sforzi lunghi e faticosi, si allarga un po’, arriva a comprendere la propria patria e la propria classe sociale, ma sempre cerca barriere e confini, entro cui misurarsi e rifugiarsi. Ancor oggi il cuore dell’uomo moderno dura fatica a valicare questi interiori confini; e all’invito che il progresso civile gli rivolge di allargare le capacità dell’amore verso il mondo risponde con incertezza e a condizione, tuttora egoista, di avere in ciò il proprio vantaggio. L’utilità, il prestigio, quando ancora non sia la smania di dominare e di asservire gli altri a sé, governano il cuore dell’uomo. Ma se il nome di cattolico vi penetra davvero, ogni egoismo è superato, ogni classismo è elevato a piena solidarietà sociale, ogni nazionalismo è compaginato nel bene della comunità mondiale, ogni razzismo è condannato, come ogni totalitarismo è svelato nella sua inumanità; il cuore piccolo si spezza; o meglio, acquista una sconosciuta capacità di dilatazione. Parola di S. Agostino: «Dilatentur spatia caritatis». Cuore cattolico vuol dire cuore dalle dimensioni universali. Cuore che ha vinto l’egoismo, l’angustia radicale, che esclude l’uomo dalla vocazione dell’Amore supremo. Vuol dire cuore magnanimo, cuore ecumenico, cuore capace di accogliere il mondo intero dentro di sé. Non per questo sarà cuore indifferente alla verità delle cose e alla sincerità delle parole; non confonderà la debolezza con la bontà, non collocherà la pace nella viltà e nell’apatia. Ma saprà pulsare nella mirabile sintesi di S. Paolo: «Veritatem facientes in caritate» (Ep 4,15).

Figli carissimi, comprendete che cosa vuol dire essere cattolici? comprendete a quale pedagogia, a quale sforzo d’amore questo nome vi sottoponga? comprendete come nessuno meglio di voi può andare incontro alle aspirazioni universalistiche del mondo moderno, e nessuno meglio di voi può offrirgli l’esempio ed il segreto del sentimento dell’amore all’uomo perché uomo? perché figlio di Dio?

Comprendete anche un altro aspetto della formazione al senso cattolico, anche questo a voi ben noto, ma oggi degno d’essere qui proclamato. La nota di cattolicità è già in atto nella intrinseca struttura della Chiesa; è un suo diritto nativo; la Chiesa nasce cattolica, nasce regina della salvezza per tutti. Ma nella sua estrinseca realtà tale nota è ben lungi dal pareggiare in estensione i confini del mondo. Essa è sempre in fieri, essa è sempre nello sforzo del suo concreto e storico dispiegamento. Anzi nella realtà concreta la cattolicità della Chiesa è tuttora enormemente deficiente. Popoli innumerevoli, continenti interi sono ancora fuori dell’evangelizzazione cristiana. La cattolicità è insufficiente, e sofferente. La maggior parte dell’umanità non ha ancora ricevuto il messaggio di Pentecoste. Il mondo ancora non è cattolico. Quanti di voi, per non dire tutti voi, sperimentano lo strano dolore che tale condizione del nostro mondo infligge ad un cuore veramente cattolico! E non è forse vero che una delle più decisive spinte verso la direzione della vostra scelta di diventare apostoli di Cristo e sacerdoti della sua Chiesa è data da questa scoperta della necessità che il mondo ha di chi lo evangelizzi nel nome di Cristo? Il dinamismo missionario nasce dalla cattolicità potenziale e tuttora non effettiva della Chiesa, nasce dalla investitura di Pentecoste data alla piccola Chiesa di diventare universale. Dall’apostolicità della Chiesa sgorga la sua vocazione alla cattolicità. Il missionario riceve alle spalle il mandato di apostolo, che lo spinge in avanti sui sentieri che devono rendere cattolico il mondo.

Sentite voi, carissimi, Figli, questa spinta? guardate voi davanti ai vostri passi le vie interminabili che vi condurranno in tutte le parti del mondo per portare il messaggio che Roma cattolica vi consegna? Quale meraviglioso spettacolo, quale tremenda avventura, quale perenne Pentecoste!

Vi diremo che l’urgenza di rispondere a questo dovere di cattolicità soffia con impeto nelle vele della Chiesa. Guardate l’apostolato del Clero e dei Laici, oggi. Guardate le Missioni. Guardate il Concilio ecumenico. Guardate la sollecitudine che spinge la Chiesa a venire a leale e rispettoso dialogo con tutte le anime, con tutte le forme della vita moderna, con tutte le espressioni sociali e politiche che lo vogliono accogliere sopra un piano di assoluta sincerità e di vera umanità. Guardate lo studio che la Chiesa pone per riavvicinarsi ai fratelli cristiani ancora da noi separati. Guardate lo sforzo che la Chiesa fa per accostare, anche con semplici contatti umani, gli appartenenti ad altre religioni.

Vi daremo un annuncio a questo proposito, affinché esso abbia voce e valore di Pentecoste; ed è questo: come tempo fa annunciammo, Noi istituiremo, e proprio in questi giorni, qui a Roma il «Segretariato per i non-Cristiani», organo che avrà funzioni ben diverse, ma analoga struttura a quello per i Cristiani separati. Lo affideremo al Signor Cardinale Arciprete di questa Basilica, che alla saggezza e alla virtù, che lo fanno caro e venerato alla Chiesa romana, aggiunge una rara competenza dell’etnografia religiosa.

Nessun pellegrino, per lontano che sia, religiosamente e geograficamente, il Paese donde viene, sarà più del tutto forestiero in questa Roma, fedele ancor oggi al programma storico che la fede cattolica le conserva di «patria communis».

Donde due conclusioni, carissimi Figli, ci sarà facile e solenne derivare da questa nostra sacra celebrazione; due ovvie scoperte, che Noi trarremo in propositi degni di memoria e di fedeltà; e son queste: prima, non vi può essere vera cattolicità se non correlativa all’unità della Chiesa, all’unicità della Chiesa; e seconda, né vi può essere cattolicità operante ed edificante che non nasca dalla interiorità d’una vita spirituale alimentata dal silenzio, dalla preghiera, dall’amore, dalla grazia. Pensate e vedrete che così è.

Oh, venga allora lo Spirito Santo a istruirci su queste verità, a infonderci queste virtù, a darci il gaudio della sua vivificante presenza. A tanto aspira la S. Messa che ora celebriamo, e tanto vi ottenga alla fine la Nostra Benedizione Apostolica.




Domenica, 28 giugno 1964: CONSACRAZIONE DI CINQUE NUOVI VESCOVI

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Signori Cardinali!

Venerati Confratelli! e diletti figli!

Sostiamo un momento. Come il viandante, arrivato con fatica sopra un’altura, si ferma, respira e contempla. Qui potremmo rimanere a lungo; e tale è l’ampiezza e la ricchezza di ciò che si offre al nostro sguardo, che potremmo far nostre le aspirazioni degli Apostoli sul Tabor: «Bonum est nos hic esse» (
Mt 17,4); potremmo rimanere nella riflessione dell’avvenimento testé compiuto, senza provare sazietà e stanchezza, ma piuttosto gaudio e quasi ansia di più comprendere e di più godere.

Basti a noi ora un momento, per tradurre in pensiero l’esperienza spirituale unica e sublime di questo rito, per onorare con un atto di piena coscienza il Signore di cui abbiamo così intimamente celebrato i misteri, per scegliere fra tanta ricchezza di atti e di testi un dono di grazia e di verità, che ci sia di ricordo speciale, con tanti altri non meno preziosi, nei giorni venturi, per rendere sempre perseverante e attuale il beneficio di quest’ora benedetta.

Quale scegliamo? L’Episcopato, di cui ora questi Nostri Fratelli sono stati rivestiti, presenta alcuni aspetti di chiara evidenza, nei quali possiamo riassumere l’immensa dottrina che lo riguarda. Scegliamo il primo: la dignità del Vescovo. Sappiamo che di solito la considerazione circa l’Episcopato, specialmente oggi, e specialmente nella circostanza che ora Ci riguarda, quella del commento sul rito compiuto, preferisce rivolgersi ad altri aspetti dell’Episcopato: alla potestà, ad esempio, che è conferita con la consacrazione; alla inserzione del consacrato nel corpo episcopale; al ministero e al servizio, a cui il Vescovo è deputato, di Sacerdote, di maestro, di pastore; alla santità, di cui egli deve fare professione e dare esempio

Noi fermiamo un istante il pensiero sul primo aspetto che dicevamo essere quello della dignità episcopale. Ne possiamo avere qualche nozione cercando di rispondere ad una domanda molto ovvia: che cosa sono diventati questi nuovi eletti, questi nuovi consacrati? La domanda può essere formulata anche in modo più semplice: chi è un Vescovo? Chi è, innanzi tutto, di fronte a Dio, chi è in se stesso, prima ancora che noi pensiamo alla sua funzione in seno alla Chiesa, funzione che certamente ha ragione di fine nella consacrazione d’un Vescovo: l’Episcopato non è un onore che sta a sé; è il carattere d’un particolare ministero, cioè è una dignità che accompagna e sostiene un servizio a vantaggio altrui; sappiamo bene che non è una elevazione fine a se stessa, ma per il bene della Chiesa; l’Episcopato, dirà S. Agostino «nomen est operis, non honoris»; e Vescovo non è chi «praeesse dilexerit, sed prodesse», cioè non lo è chi ama l’onore più dell’onere, chi desidera precedere più ,che giovare (De civ. Dei, 19, 19; P.L. 41, 647); e S. Gregorio Magno, con S. Benedetto (Reg. RB 64,8), ripeterà: «Oportet magis prodesse, quam praeesse» (Reg. Past. 11, 6).

Ma sta il fatto che il .Vescovo, ancor prima d’essere ministro del culto, pastore dei fedeli, maestro della comunità, è un uomo chiamato e assunto fra gli altri uomini (cfr. He 5,1), un eletto, un preferito. La grande maggioranza dei teologi moderni ci assicura, e forse tra poco la voce del Concilio ecumenico lo confermerà, che, secondo la più ampia e antica tradizione, l’ordinazione episcopale ha valore di sacramento; è perciò una fonte di grazia, è un dono divino, è una ricchezza spirituale, è una santificazione superiore. Il rito ora compiuto non è, per quanto solennemente celebrato, una semplice trasmissione di poteri liturgici, didattici e giuridici; è una perfezione conferita all’anima d’ogni consacrato; il quale, prima d’essere un santificatore degli altri, è lui stesso un santificato. Anzi l’opera dello Spirito Santo, noi sappiamo, nel sacramento dell’ordine non consiste solamente nel conferimento della grazia a colui che lo riceve, ma nell’impressione altresì d’un carattere, che assimila l’anima del consacrato al sacerdozio di Cristo, in grado sommo, in vera pienezza per chi dell’Ordine sacro è assunto al grado episcopale. E se, per disavventura dell’umana fragilità, si può dare il caso che quella grazia si spenga, non si cancella invece il sigillo sacramentale, non viene meno la attitudine a fungere da strumento di Cristo, così che la validità del ministero sarà indipendente dalla santità del ministro, perché ormai Cristo ha così associato a sé il ministro stesso da sostituire in lui ogni effettiva causalità. Ricordiamo ancora S. Agostino: «Pietro battezza, ma è Cristo che battezza; Paolo battezza, ma è Cristo che battezza; Giuda battezza, ma è Cristo che battezza» (cfr. in Io. tract. 6, 1 - P.L. 35, 1428). Ma anche questa assoluta prevalenza dell’azione di Cristo nel ministro, che ha ricevuto il carattere sacramentale dell’Ordine sacro, non è senza splendore di dignità, di potenza, di mistero; nell’uomo consacrato si sovrappone una veste rappresentativa che non indarno lo tende alter Christus; egli agisce, come insegna S. Tommaso; «in persona Christi, cuius vicem . . . gerit per ordinis potestatem» (III 82,7, ad 3), egli opera cioè in persona di Cristo, di cui fa le veci mediante la potestà dell’Ordine.

Queste stesse verità annunciava, in questa medesima Basilica Vaticana, il Nostro venerato Predecessore di felice memoria, Giovanni XXIII, quando, nel maggio 1960, dopo aver consacrato quattordici nuovi Vescovi, diceva: «L’umile successore di Pietro, circondato dai seniori della Chiesa, ripete, sia pur con diversa formula, l’invocazione primitiva, ripete il gesto della trasmissione del carattere episcopale e della grazia» (A.A.S. 1960, 466).

Non dobbiamo noi fermare lo sguardo su questa trasfigurazione dell’uomo, e ammirare nell’uomo trasfigurato l’opera di Dio? Se il Sacerdozio cattolico non sostituisce Cristo, ma lo personifica; se non introduce una nuova mediazione fra Dio e l’umanità, ma mette in esercizio l’unica mediazione di Cristo; se non solo trasmette ad altri la santificazione, ma ne rende partecipe il veicolo che la distribuisce, non dobbiamo noi meditare e celebrare la dignità, l’eccellenza, la sublimità dell’uomo così invaso dallo Spirito Santo?, non chiedevamo Noi a Dio, un momento fa, all’atto preciso della consacrazione, di santificare questi eletti, forniti degli ornamenti di ogni glorificazione? (Pont. Rom.). Non si compiono forse davanti a noi, in questi nuovi Vescovi, le parole di S. Paolo, riferite appunto ai ministri del Vangelo: «Noi tutti... riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, ci trasformiamo nella stessa immagine, di gloria in gloria, come per opera dello Spirito del Signore»? (2Co 3,18).

Ecco una parola che pronunciamo con fatica, noi moderni, la parola «gloria» riferita ad esseri umani. Ne abbiamo timore come d’un termine orgoglioso e vanitoso, attribuito a qualche eroe, a qualche sapiente, a qualche campione per stimolare e saziare il nostro inestinguibile bisogno di riferirci al concetto dell’uomo perfetto, al tipo reale dell’uomo ideale; perché subito dopo d’aver esaltato a gloria l’uomo eccezionale ne avvertiamo la misura limitata, la miseria, il vuoto, la maschera; non crediamo più all’uomo grande, all’uomo glorioso; perfino il santo noi abbassiamo spesso al livello della nostra mediocrità.

Ed è invece la parola «gloria» un termine che la Sacra Scrittura ci fa continuamente pronunciare, e non solo riferita a Dio, ma all’uomo altresì. Ma non all’uomo per se stesso, sì bene all’uomo su cui splende la luce di Dio: «Signaturn est super nos lumen vultus tui, Domine; dedisti laetitiam in corde meo»; si è dispiegata su di noi la luce della tua faccia, o Signore!, hai riempito di gaudio il mio cuore» (Ps 4,7), diremo col Salmista.

Lo diremo per godere di questo avvenimento come d’uno dei più belli, dei più grandi, dei più benefici della nostra umana vicenda: avvenimento di grazia e di letizia è questo; benediciamo il Signore! «Haec est dies quam fecit Dominus!», questo è un giorno proprio fatto dal Signore!

Lo diremo per ravvivare in noi tutti il concetto del Sacerdozio di Cristo, concetto che non può non essere espresso che in termini di sublimità, di dignità e di letizia. Lo diremo infine per riferire a Cristo ogni senso del rito compiuto, ogni riflesso, che ne viene a chi nella Chiesa assume titolo e funzione episcopale, ogni speranza che alla Chiesa è concessa nella celebrazione vivente della successione apostolica; memori ancora una volta della sublime e sintetica parola di S. Paolo: Sono apostoli delle Chiese, sono gloria di Cristo!, «Apostoli ecclesiarum, gloria Christi!» (2Co 8,23).

E questa acclamazione Noi rivolgiamo ora ai cinque nuovi Vescovi che abbiamo testè consacrati e che siamo lieti ed onorati di presentare alla comunità dei fedeli e di salutare Fratelli, nell’ordine episcopale.

Possano i nuovi Vescovi, che raccolgono con la successione apostolica la grande missione di essere i testimoni qualificati della fede, i maestri, i santificatori e i pastori del popolo di Dio, gli edificatori della santa Chiesa, possano essere la gloria di Cristo! È il Nostro incoraggiamento per voi, Fratelli nell’Episcopato, ad assumere con umiltà, con coraggio, con fiducia il peso formidabile della responsabilità episcopale: siete, Fratelli, nelle vostre persone consacrate, la gloria di Cristo; siate, Fratelli, anche nella missione che vi at-tende, la gloria di Cristo!: è il Nostro gaudio, è il Nostro voto, è la Nostra speranza; è il gaudio, è il voto, è la speranza delle persone venerate e care che fanno corona ai nuovi Consacrati; è il gaudio, è il voto, è la speranza della Chiesa di Dio: siate la gloria di Cristo!

Noi proferiamo questo grido di lode e d’augurio per te, diletto Fratello Nostro Angelo Palmas, destinato a rappresentare questa Sede Apostolica nell’estremo Oriente, nella remota Indocina, quale Nostro Delegato Apostolico: possa la tua missione recare pace, prosperità a quelle terre stupende e tribolate, lontane nello spazio, ma a Noi vicine nello spirito, e con tanta fecondità e tante promesse aperte alla gloria di Cristo!

Per te ripetiamo la biblica acclamazione, caro e venerato Fratello Ernesto Camagni, Cancelliere dei Brevi Apostolici, per lunghi anni Nostro fedele collaboratore, affinché il tuo servizio alla Sezione della Nostra Segreteria di Stato e le cure del tuo apostolato possano rendersi fruttuose, a gloria di Cristo, anche nel settore delle pie Confraternite romane.

Lo rivolgeremo a te, Giovanni Fallani, che, presiedendo agli organi tutori e promotori dell’arte sacra in Italia, nuova gloria a Cristo potrai procurare, a Lui dirigendo opere ed animi, che nel decoro della bellezza e delle virtù artistiche possono celebrarla.

Poi lo rivolgeremo a te, Giovanni Willebrands, caro Fratello in cerca di fratelli cristiani ancora da Noi separati, ma a Noi già uniti nella speranza, affinché sia gloria a Cristo e gioia per tutta la Chiesa, il tuo ministero, intento ad appianare le vie per l’auspicata riconciliazione.

E finalmente al venerato ed illustre Abate Pietro Salmon esprimeremo l’augurio Nostro che la dignità vescovile, a lui conferita; rifulga a gloria di Cristo nel cenacolo della sua comunità, nel laboratorio della revisione della Volgata, a cui da tanti anni ha dedicato assidue e sapienti fatiche, e nel più vasto cerchio di tutta la piissima famiglia monastica benedettina.

E con questi nuovi Fratelli nella dignità e nell’ufficio episcopale, con voi, Figli e Fedeli, che con loro e con Noi condividete il gaudio di quest’ora felice, ripeteremo con l’Apostolo: «A Dio, unico e sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, sia la gloria per i secoli dei secoli!». Così sia!




Domenica, 15 luglio 1964: SANTA MESSA NELLA BASILICA MARIANA DI TRASTEVERE

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Il Santo Padre saluta i cari figli di Trastevere, tutti i Sacerdoti e i Religiosi, i confratelli; e ricorda loro di esser venuto per due motivi. Il primo e il più importante è quello di venerare la Madonna, in onore della quale essi celebrano una grande solennità, quella che chiamano «de noantri». Il Papa vuole unire il tributo della sua devozione e la sua preghiera alla loro in questa bellissima basilica, uno dei santuari della Madonna più antichi e celebri, più belli e degni di essere frequentati e di accogliere gli atti della devozione specialmente dei Romani, perché, non appena la Chiesa ha potuto lasciare le catacombe, ha abbellito questo tempio, che è poi divenuto così ricco di marmi, di affreschi e mosaici. In esso Gregorio IV eresse la Cappella del Presepio per onorare la Maternità della Madonna e dare una singolare caratteristica alle festività del Natale e del primo dell’anno, in questa parte di Roma.

Qui si custodisce una insigne Immagine Mariana dal bellissimo titolo: quello della Clemenza. Ora si è aggiunta la devozione, nel rione, alla Vergine Santissima del Carmelo, venerata da tutto il popolo, e ben giustamente, perché Maria appartiene come noi al genere umano; ma è l’Immacolata, l’Innocente, la Piena di Grazia.

Noi onoriamo in Lei la Madre di Gesù, e Madre nostra, perché in Gesù Cristo siamo tutti fratelli. E vogliamo rendere alla Madonna questo nostro tributo di amore, di devozione, di fedeltà, di culto, di suppliche, perché in Maria il Signore ha racchiuso tanti privilegi e misteri e l’ha legata alla storia della nostra salvezza e a tutta la vita cristiana rigenerata nel Signore, che in Lei ha la Madre, mentre tutti abbiamo in Maria il modello e la potentissima Interceditrice.

La seconda ragione della odierna visita del Papa è chiarissima. Egli è venuto per salutare i suoi figli, soprattutto quelli di Trastevere, per conoscerli da vicino, per benedirli e dir loro i motivi di questa predilezione. Ha voluto dare ad essi questa preferenza perché celebrano una festa tanto bella, alla quale desidera associarsi e perché sono popolo di Roma, e rappresentano la Città con qualche cosa di così genuino, tradizionale, che commuove e affeziona e obbliga ad onorare l’Urbe là dove si presenta più caratteristica e più fedele a se stessa.

Quanti, infatti, vengono a Roma dicono che per conoscerla bisogna passare per Trastevere. Il Papa, quindi, vuole onorare in coloro che ora lo circondano l’intero Popolo Romano; e perciò i Suoi saluti vanno anzitutto agli ecclesiastici: i Signori Cardinali, il Vicegerente, i Vescovi Ausiliari del Cardinale Vicario, gli Officiali del Vicariato, che è espressione del governo pastorale di Roma, ed al quale desidera tributare pubblicamente l’assicurazione della propria stima, del desiderio di renderlo sempre più onorando ed efficiente, di essere sempre vicino alle sue cure, fatiche, difficoltà; e, ringraziando per tutte le premure pastorali, invoca sulle persone che lo compongono e sui programmi di apostolato una particolare benedizione.

Trastevere è pure un giardino di comunità religiose e di istituzioni sacre, di scuole che anche il Papa ben conosce per aver celebrato in anni trascorsi, la Messa domenicale in piazza Mastai. A tutti i Sodalizi cattolici, dunque, un pensiero e una benedizione speciale. Egli, inoltre, vuole salutare le autorità civili, e gli altri enti. C’è nel rione il Ministero della Pubblica Istruzione - sul quale invoca l’assistenza dello Spirito Santo. Ringrazia, poi, i bambini per il loro saluto e benedice in essi tutti i loro coetanei di famiglia, di scuola, di speranza, tutta la gioventù di Trastevere.

Con la fanciullezza e la gioventù, i lavoratori che si guadagnano la vita con le proprie fatiche. Portino essi alle loro case questa benedizione, si sentano presenti al pensiero del Papa, che li ama, e formula fervidi auguri per la loro prosperità anche materiale e temporale. Il Santo Padre vorrebbe che tutta l’opera di bonifica che si sta facendo per le case fosse completata. Come sarebbe ancor più attraente Trastevere il giorno in cui le sue vie ponessero in evidenza i monumenti storici, di arte e di pietà, dei quali è ricco e che rendono questa zona preziosa, splendida e degna di chi studia la storia e la vita del popolo romano!

Tale restauro prosegua a comune vantaggio in modo da poter dare a tutti una delle cose più indispensabili e più provvide per la vita: la casa, dove la famiglia possa crescere unita, sana e onesta, nella comunione di sentimenti e di azione resa possibile da fiorenti centri di virtù domestiche.

Che cosa può augurare ancora il Papa? Che gli ascoltatori siano Romani, nell’accezione più alta del termine. Se alcuni di essi, forse molti, non lo sono, augura loro di diventarlo; sappiano cioè vivere le tradizioni grandi, gloriose, nobili, umane del Popolo Romano, anche nelle sue virtù naturali, e sappiano incarnare l’intera grandezza e maestà dell’Urbe.

Un romano, un vero romano non può non essere cristiano, cattolico, e il Papa augura che tutti abbiano la propria fede in grande considerazione, superando ogni difficoltà dei tempi. Raccomanda perciò ai carissimi figliuoli di conservare questo tesoro: il più prezioso e necessario alla vita.

Con un pensiero alla Madonna Santissima, esempio e modello anche per la vita di casa, di lavoro, e con l’esortazione ad imitarla nei dolori e nelle gioie per arrivare alla sua stessa mèta, poiché non è solo maestra, ma aiuto nostro, il Santo Padre conclude le sue parole benedicendo tutti i presenti.




Sabato, 15 agosto 1964: FESTIVITÀ DELL’ASSUNTA CON LA POPOLAZIONE DI CASTEL GANDOLFO

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Al Vangelo, il Santo Padre intrattiene il devoto uditorio sulla sacra festività del 15 agosto, l’Assunzione di Maria Santissima al Cielo, e sugli insegnamenti che ne derivano per la vita cristiana.

Dapprima, però, Egli saluta affabilmente i Signori Cardinali Pizzarda, Vescovo della Diocesi di Albano - nel cui territorio è Castel Gandolfo -, e di Jorio, che presiede alla Città del Vaticano; il Clero; le Congregazioni religiose, di residenza sia permanente, sia temporanea; i Collegi; l’intera popolazione. A questa esprime il Suo gradimento di poter celebrare la S. Messa, non più nella cripta della parrocchiale, come lo scorso anno, ma nell’artistico tempio degnamente restaurato ed abbellito. Ciò deve essere simbolo anche di rinnovamento spirituale in tutti, sì che sempre più vasta divenga quella corrente di adesione al Padre delle anime, la quale, già assicurata dalla comune dimora, deve esserla pure nel pensiero, nelle opere, nella preghiera.


SALUTI E VOTI DEL PASTORE SUPREMO

Altro particolare saluto il Sommo Pontefice dà al Sindaco e alla compagine municipale: al Direttore ed ai componenti l’amministrazione delle Ville Pontificie, a cui tanto deve la tranquillità e il benessere del suo soggiorno; e, dopo un affettuoso pensiero al parroco da poco defunto, Don Dino Sella, - che per tanti anni profuse cure ed assistenze -, l’augurio al nuovo Pastore della parrocchia, che ha assunto quale dovere e proposito il rinnovamento religioso, morale, organizzativo dei fedeli. Perciò il fervente voto per lui ed una benedizione affinché le sue fatiche possano divenire feconde, mercé i buoni sentimenti e lo zelo di tutti i Castellani. Ma il godimento spirituale maggiore è quello di celebrare insieme la festa di Maria SS.ma Assunta in Cielo. È una solennità che obbliga a letizia. Le altre ricorrenze sacre dedicate alla Madonna suscitano in noi raccolta meditazione sui vari momenti della sua vita terrena e sui misteri del Divino suo Figlio Gesù: per cui La seguiamo da Nazareth e Betlemme fin sul Calvario, sotto la Croce, e consideriamo le sue ansie, le pene, i dolori, intimamente compresi di vederla associata ai giorni e alle sofferenze del Redentore.

Oggi, invece, siamo obbligati ad esultare, poiché nella letizia più alta ci si presenta la conclusione d’una esistenza eccezionale e privilegiata, con i fulgori di gloria, beatitudine e trionfo che il Signore ha voluto dare a questa Creatura elettissima. Siamo dunque invitati ad onorare la Madonna echeggiando il suo: Fecit mihi magna qui potens est, come chiamati anche noi alla immensa lode, che, in Paradiso, Angeli e Santi Le tributano, osannando ad una pienezza di comunione con Dio quale nessun’altra creatura ha mai conseguito.


«TUTTE LE GENTI MI CHIAMERANNO BEATA»

Ed eccoci, con questa sentita, ineffabile partecipazione, ad attuare una profezia appunto della Madonna: l’avveramento cioè di una parola che Ella, con previsione antiveggente, ha potuto esprimere, dando alla storia cristiana una sua direzione e un suo lume. È contenuta nel Magnificat, la pagina del Vangelo oggi propostaci.

«. . . Beatam me dicent omnes generationes». Tutte le genti mi chiameranno beata. Con che slancio ci uniamo alle processioni umane di tutti i secoli per cantare, con Maria, il suo privilegio e la sua incomparabile vocazione!

Si pone, quindi, davanti a noi, il duplice quesito sul perché e sul come dobbiamo chiamare Beata Maria SS.ma. Occorre cioè studiare il culto dovuto alla Madonna, che ha acquisito una fioritura provvida, consolante, sì da costituire una delle forme più caratteristiche della nostra devozione. Perché - possiamo chiederci - devo onorare la Madonna così? La risposta è facile. È il Signore ad onorarla per primo; Maria è la Madre di Cristo; i disegni di Dio sono passati attraverso di Lei; la Provvidenza ha concentrato in questa Donna elettissima il cardine del suo piano per la salvezza del mondo. Noi non approfondiremo mai abbastanza così stupenda realtà: ciò che Iddio ha compiuto in Maria! Nel riflettere al modo prescelto dal Signore per redimere l’intera famiglia umana, ci troviamo subito a fare recapito e riferimento a Maria Santissima. Sarà davvero una deliziosa meditazione soffermarci a scoprire il pensiero di Dio su questa umile e grande Vergine di Nazareth, che in sé contiene luci e doni e merito talmente cospicui, che la nostra facoltà di comprendere si esaurirà prima di poter misurare ciò che si presenta al nostro intelletto e al nostro cuore.

Basta questa premessa per farci rispondere con esattezza al secondo quesito: come onorare la Madonna? La risposta - ecco un primo fondamento - è connessa essenzialmente con il mirabile rapporto di luce e di grazia fra l’Onnipotente e l’Immacolata. L’ingente numero e varietà di omaggi che sgorgano dal cuore della Chiesa per celebrare degnamente Maria indicano molto bene le linee che devono guidarci e che, sicuramente, non sminuiscono ma avviveranno ognor più la nostra pietà.

Tutti riconosciamo - e proprio oggi dobbiamo in maniera accentuata proclamarlo a noi e agli altri - che a Maria si deve un culto eccezionale, singolare. Iperdulia, lo definisce il Catechismo. Questo termine spiega qualche cosa che va molto al di là delle misure ordinarie, per cui noi non potremo mai soddisfare appieno il nostro dovere di venerazione a Maria, il cui diritto a tali onori oltrepassa i nostri confini ed ogni nostra possibilità. Siamo perciò di fronte al precetto religioso, che ci impegna in maniera tutta particolare.


«AD IESUM PER MARIAM»

Il secondo criterio, che distingue ed avvalora questa devozione, emana dal fondamentale principio: noi non dobbiamo mai disgiungere il culto a Maria da quello che devesi rendere al Suo Figlio Divino, Gesù Signor nostro. Nel caso contrario, sarebbe come voler osservare una lampada prescindendo dal lume che porta con sé. La lampada è bella se ha la sua luce; e la luce di Maria è il Cristo, che Ella ha portato e generato per noi. Se dissociassimo Maria da Cristo, il culto a Maria perderebbe la sua ragion d’essere. E come non dobbiamo mai dividere Maria da Gesù, ma vedere la dignità di Lei emanare da Cristo medesimo, e scorgerne i motivi che la rendono così singolare precisamente nel sublime onore d’essere la Madre di Cristo, congiunta a Lui con rapporti vitali, mediante, cioè, la Incarnazione, il Mistero augusto ch’è principio di tutta la nostra fede, così, nello stesso tempo, non dovremmo mai eguagliarla a Cristo nelle espressioni del nostro ossequio.

Da qualche ingenua mentalità si ritiene la Madonna più misericordiosa del Signore; con giudizio infantile si arriva a definire il Signore più severo di Lei; e che bisogna ricorrere alla Madonna giacché, altrimenti, il Signore ci castiga. Certo: alla Madonna è affidato un preclaro ufficio di intercessione, ma la sorgente d’ogni bontà è il Signore. Cristo è l’unico Mediatore, l’unica fonte di grazia. La Madonna stessa è tributaria a Cristo di tutto quanto possiede. È la Mater divinae gratiae perché la riceve dal Signore. Risulta, dunque indispensabile saper armonizzare i due concetti: l’unione di Maria con Cristo, unione eccezionale, fecondissima, bellissima; e la trascendenza di Cristo anche rispetto a Maria. È quanto Ella stessa ha proclamato nel suo canto sempiterno: «Fecit mihi magna qui potens est, et sanctum Nomen eius». Colui che è potente ha guardato l’umiltà della sua Ancella: per questo tutte le genti mi chiameranno Beata. La Madonna ci è maestra di umiltà anche e proprio nella esaltazione della sua gloria.

ILLIMITATA FIDUCIA PER LA MADRE

Da ciò consegue che la nostra pietà dovrà essere sancita e diretta dalla teologia, cioè dalla verità; non da un qualsiasi sentimento, bensì da quanto Iddio ha stabilito. Vedremo allora che anche la nostra devozione a Maria diviene grande, mirabile, e, nello stesso tempo, ordinata, posta com’è sulla intera armonia delle verità e realtà che la nostra religione presenta.

È facile questo? Senza dubbio lo è, specie per chi è docile e segue il cammino dalla Chiesa prescritto per onorare Maria.

A tanto eccelsa Madre ricorreremo perciò con l’intero slancio ed amore filiale di cui siamo capaci, manifestandole, anzitutto, la nostra fiducia. Avete fiducia in Maria? - interroga amabilmente il Santo Padre - confidate in Lei? le dite i vostri affanni, le presentate le vostre attese, le vostre speranze? guardate a Lei davvero come a dispensatrice di bontà, di assistenza, di gentilezza, di amicizia cristiana?

Pensiamo alla indicibile fortuna di poterla chiamare Madre: all’essere imparentati con Lei. Tra Maria e noi non c’è distanza; v’è la consuetudine che porta i figli a rivolgersi in ogni istante alla mamma, e a dire a lei tutte le cose.

Inoltre ci sarà agevole onorare così la Madonna; e vivo sentiremo il desiderio di coordinare il più possibile la nostra vita al suo esempio.

Maria è il modello più perfetto per noi, è la più santa. Se l’avviciniamo con fede e tenerezza, quasi scorgeremo i raggi della sua bellezza e santità riverberarsi sopra di noi. Accanto a Lei sapremo essere puri, buoni, umani, mansueti, pazienti: tutta una possente lezione evangelica di vita cristiana viene a porsi dinanzi a noi se tale sarà il nostro intento di onorare la Madonna.


COLLOQUIO QUOTIDIANO: LA PREGHIERA

Infine il colloquio, cioè la preghiera. Dobbiamo pregare la Madonna. Beati noi se siamo fedeli a recitare bene la prece così popolare e splendida del Santo Rosario, che è come scandire il nostro respiro affettuoso nella invocazione: Ave, Maria, ave, Maria, ave Maria . . .! Fortunata la nostra esistenza se si intreccia a questo serto di rose, a questa ghirlanda di lodi a Maria, e ai misteri del suo Divin Figlio! Inoltre, insieme con il Rosario, altre preghiere Mariane la Chiesa pone sulle nostre labbra. Non dovrebbe perciò mai passare una giornata senza che, da parte di tutti i fedeli, si rivolga un saluto, un pensiero alla Madonna; per attrarre, in tal modo, un raggio di sole e di speranza sulla nostra vita. Risoluti ed infervorati a pregare, avvertiremo, proprio in questa necessità di invocazione, la estesa indigenza che abbiamo; e sapendo di fare appello a un Cuore di inesauribile bontà e misericordia qual è quello di Maria, esporremo a Lei tutte le nostre necessità, prendendone, si direbbe, cognizione proprio nella speranza che si accende dal materno soccorso. Molta gente non si conosce perché ignora la possibilità di poter guarire dei propri malanni. Quando, al contrario, vediamo dinanzi a noi la mirabile sorgente di fiducia, la Mater spei et mater veniae, allora affidiamo a Lei non solo i nostri personali desideri, ma quelli pure dei fratelli, del mondo, della Chiesa stessa, del popolo, che tanto sta faticando e lavorando, in questi anni, per tradurre la sua espressione anche civile nelle forme più adeguate.


LA CHIESA IL RINNOVAMENTO L'UNITÀ LA PACE

Preghiamo la Madonna che ci aiuti, - aggiunge Sua Santità - che ci sia Madre; che sia Madre del popolo cristiano, delle nostre famiglie, di questa parrocchia, dei nostri fanciulli e giovani, di quelli che piangono e soffrono. Cerchino tutti di uniformare alla supplica la propria esistenza spesso umile e povera, forse tribolata, difficile, talvolta aberrante: otterranno dalla Madonna SS.ma la gioia, la luce, la fiducia, giacché per mezzo di Lei ritroveranno il Cristo.

Vi sono, inoltre, intenzioni particolari per più insistente preghiera? Tante, certo: i diletti ascoltatori possono leggerle nell’animo del Papa e diventare, così, suoi soci nell’appello alla celeste Regina. Anzitutto la Chiesa: la grande famiglia dei cristiani, il Corpo mistico di Cristo, la famiglia stessa di Maria. È d’uopo ottenere grandi aiuti per la Chiesa, specie nel presente periodo conciliare, affinché siano illuminati coloro che la governano ed anche il popolo cristiano con agilità, prontezza e generoso fervore risponda, per rendere operanti le deliberazioni del Concilio.

Ancora e sempre pregare per la pace. Si noti quanti sussulti abbia ancora la vita della umanità e come non di rado ci si trovi alla vigilia di qualche possibile incendio, che potrebbe divampare a totale rovina e distruzione! Occorre essere giustamente trepidi e vigilanti in preghiera, fortezza, speranza.

Desideriamo - conclude il Santo Padre - affidare a voi un’altra intenzione. Sapete che la scorsa notte il Signor Presidente della Repubblica Italiana si è molto e di nuovo aggravato e che le sue condizioni destano viva apprensione. Ebbene innalziamo anche per lui una preghiera speciale. Imploriamo dalla Madonna che, dal Paradiso, assista questa persona così buona e così degna; e, col Presidente, assista e protegga tutto il popolo italiano.

Raccomandiamo poi alla Madonna le singole famiglie, quanti sono nel pensiero e nel cuore di ognuno, con la certezza che giammai si cercheranno invano lo sguardo e l’aiuto di Maria se, in conformità alla voce della Chiesa ed a quanto essa dispone, avremo sempre seguita così incomparabile Madre, l’avremo pregata, amata e onorata.





B. Paolo VI Omelie 17564