B. Paolo VI Omelie 8114

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La prima impressione, leggendo il Vangelo di questa domenica, è la brevità e semplicità - sono sette versetti - della parabola che il Signore ci presenta: narrazione famosa e a tutti nota, del buon frumento e della zizzania. Nel riascoltarla siamo pure colpiti dalla vivida ricchezza e dalla vastità di dottrina che il brano contiene; dalla quantità di questioni a cui risponde, sì che, ben può dirsi, esso sembra condensare in visione sintetica, lineare, nientemeno che l’intero panorama del mondo.

Questa parabola, infatti, non tratta forse della storia delle singole anime, della storia della società, della grande famiglia umana; e non presenta il misterioso, sconcertante problema dell’esistenza del male? Chi crede in Dio, chi ha fiducia in Lui, chi cerca di seguire i suoi precetti, si imbatte, a un dato momento, in una tentazione, che deve essere certamente la più grave, se, nella storia delle conversioni, sempre è inclusa questa tappa come un punto obbligato.


IL MISTERO DEL MALE

È l’interrogativo: se Dio c’è, perché ci deve essere il male? perché le cose debbono andare tanto alla rovescia? perché c’è questa tolleranza di offese, di bestemmie, di peccati? perché le vicende umane non sono meglio regolate?

La tentazione, assai comune, si manifesta così acuta, che gli ingegni più eletti, a cominciare da Sant’Agostino, hanno provato l’urto, l’inciampo nel considerare questa scena del mondo, che sorprende e sgomenta. Ci sono stati coloro i quali hanno detto che Dio ha creato un mondo perfetto, ma essi sembrano smentiti dalla realtà; e così non pochi si chiedono che deve pensarsi di un Dio il quale crea e tollera delle cose imperfette. D’altra parte sappiamo come molta letteratura, divulgata dopo la guerra, imputi nientemeno che a Dio tutte le nostre disgrazie, le nostre mancanze; e rovesci contro di Lui, con sacrilega protervia, l’insieme del male inesplicabile che troviamo nel mondo.

Sorge, allora, un altro quesito: quale contegno tenere? Dobbiamo combattere il male, fare una crociata, per sradicarlo da questo mondo, sino ad usare anche le forze esteriori materiali, il potere della spada? Leggiamo il Vangelo e troveremo una immensa luce. Dio stesso è il protagonista della parabola oggi rievocata. È lui, il padrone del campo, a dirci: No; non strappate ora la zizzania poiché c’è il rischio che sradichiate anche il grano; non agite in questa maniera, perché altrimenti ne andrebbe di mezzo anche il bene; non dovete combattere il male in modo violento, perché sarebbe proprio rendere male per male. Invece la sapiente regola è che bisogna vincere il male col bene, e allora ecco un aspetto del vasto, modernissimo problema: l’atteggiamento degli uomini, definito, a seconda dei diversi casi, degli individui, delle ideologie : tolleranza, convivenza, transigenza, indifferenza, pluralismo. Insomma, come ci si deve comportare dinanzi all’irrompere e alla molteplicità, alla aggressività del male? Si deve rimanere impassibili, lasciar che le cose vadano per la loro china, od opporsi in qualche maniera? si deve forse attenuare la fede nella giustizia, sottostare, a proposito del mondo, allo scetticismo che sembra ormai guadagnare i magni intelletti del nostro tempo, secondo cui bisogna essere indifferenti, perché la morale è un’entità sui generis, anch’essa mobile come tutte le altre cose, e perciò occorre adattarsi?

Ecco spiegazioni, che equivalgono a transigere, a ripiegare su compromessi. Si tratta di adattamenti, vili in fondo, poiché si rimane sconfitti dalla incapacità di spiegare e di vincere il male.


PERICOLI GRAVI PER I GIOVANI

La parabola offre un’ulteriore alta lezione. La giustizia esiste: se adesso non ha il suo trionfo e la sua piena applicazione, l’avrà in un giorno tremendo, e nulla passerà senza subire il giudizio. Verrà il giorno della messe e allora la separazione tra il bene e il male sarà visibile, tangibile e storica. Il male avrà la sua punizione; il bene il suo premio. Questo è l’insegnamento del Vangelo; ed è molto ampio, tanto che verrebbe voglia di spiegarlo a capitoli. Ma basterà prenderne una parte sola, e soffermarvisi per un ristoro delle nostre anime, per edificarci un istante, e far ritorno dalla Messa festiva più decisi e più confortati. L’ammaestramento più semplice è questo: non dobbiamo scandalizzarci né scoraggiarci; non dobbiamo lasciare che la vista, l’esperienza del male - parliamo di quello morale specialmente - abbiano influsso dannoso sopra di noi. Perché (ed ecco un’altra ricchezza della parabola, che meriterebbe una approfondita analisi), il male è contagioso, è pervicace, impressionante; ha un suo impeto di propagazione, che purtroppo tante volte il bene non ha; si diffonde con una facilità simile a quella di un’epidemia; sembra una pestilenza che si dilata con estrema facilità: in una parola, il cattivo esempio è una delle maggiori disgrazie della nostra povera umanità. Chi ha pratica di gioventù specialmente, sa come in essa esista, alcune volte, una spiccata bramosia non solo di conoscere il male, ma di sperimentarlo, fino a simpatizzare con esso.

NECESSARIA FERMEZZA DI FRONTE AD APPARENTI CONTRADDIZIONI

Ciò indica una evidente contraddizione. A un certo punto, determinate circostanze sembrano rendere condiscendente e vinto il giovane sino ad allora animato da tanti buoni propositi, ricco di tante belle promesse, vero cavaliere dell’ideale. All’improvviso cede a uno spirito di gregarismo (altra parola moderna), o alla facilità di arrendersi al deteriore esempio, di irreggimentarsi con quanti osano le peggiori spavalderie e le più riprovevoli azioni. Ecco un altro argomento e motivo da meditare con dolore: il potere del cattivo esempio. E allora qual è il contegno da osservare? Forse quello di non scandalizzarsi, diventare passivi, rimanere indifferenti, incapaci di impressionarsi; essere gente a cui nulla importa, perché ammette che il mondo è sempre andato così e non occorre prendersela troppo, e quindi non resta se non tirare avanti alla buona, lasciar svigorire il senso morale e il desiderio del bene, giacché il male esiste e sembra più attraente dello stesso bene? O dobbiamo reagire con mezzi radicali, violenti? Quale, insomma, dev’essere il nostro contegno da cristiani e da discepoli di Nostro Signore?

IL LIMPIDO GIUDIZIO DEL CRISTIANO

Ecco una mirabile lezione di questo Vangelo. Qualunque sia l’esperienza, il quadro che abbiamo davanti agli occhi, delle condizioni morali del nostro tempo, della società, degli esempi che ci si offrono, giammai dobbiamo perdere il senso del bene e del male; né devono esistere confusioni nella nostra anima; il nostro giudizio sia sempre preciso, nettissimo: sì, si; no, no.

Il bene è una cosa, il male è un’altra. Non si possono mescolare; anche se la realtà li mostra come in convivenza, frammisti l’uno all’altro.

Il giudizio morale, per un cristiano, ha da essere severo, rettilineo, costante, limpido e, in un certo senso, intransigente. Bisogna dare alle cose il loro proprio nome: questo si chiama bene, quello si chiama male. E cioè: la coscienza non dev’essere mai indebolita e alterata, o resa indifferente, impassibile, poiché non è lecito applicare indistintamente i criteri del bene e del male alla realtà sociale che ci circonda.

La seconda attitudine che il Vangelo ci raccomanda è quella di immunizzarci a vicenda; di conservarci buoni anche se siamo in una società o in un ambiente contrari al bene; di non lasciare che l’infezione ci raggiunga e si propaghi in noi; ma di essere pronti ad anestetizzare, a immunizzare, ad applicare la profilassi morale, la disinfezione fin dove è possibile: nelle nostre case, nei nostri ambienti, nella nostra anima, e particolarmente nel nostro cuore. Soprattutto occorre tenere puro il nostro abitacolo interiore. Il Vangelo offre ulteriori lezioni proprio su questa custodia gelosa che dobbiamo avere non tanto dell’ambiente esterno quanto dell’intimo del nostro cuore. Nel recondito segreto dei nostri pensieri ha da risplendere la purezza, devono albergare la luce, la rettitudine, l’amore; non è consentita alcuna forma di male nemmeno nei desideri: il cuore deve essere salvato dal contagio di perversità che ci circonda.

Infine - è sempre la parabola ad insegnare - cerchiamo di far crescere egualmente questo rigoglioso frumento, cioè il bene. Se il male è vistoso, rendiamo potente a maggior ragione il bene. Atteniamoci a quanto acutamente indica San Paolo: «vince in bono malum».

Accresciamo in ogni momento la sostanza e il vigore del bene. Tutte le storture che vediamo intorno a noi e che lamentiamo, dipendono, in realtà, a guardarle bene, da una certa viltà dei buoni, dalla loro debolezza. Il Pontefice Pio XII di v.m. asseriva che la fiacchezza dei buoni è la grande causa o almeno la grande occasione delle cose cattive che sono nella nostra società, nel nostro tempo. Con questa inefficienza il giusto può tramutarsi in individuo imbelle, inerte, codardo, egoista, incapace di agire: in tal modo lascia trionfare il male nel mondo.



L’APOSTOLATO SAPIENTE

Al contrario, cerchiamo - conclude il Santo Padre - di evitare tante critiche e di non maledire, o di lasciarci soverchiare da timori e tristi presagi. Diamo, invece, al bene il suo rigoglio e la sua testimonianza; offriamo alle buone iniziative il nostro conforto. Occorre praticare, anche nella piccola cerchia della esistenza di ognuno, il saggio apostolato e cercare di far progredire la statistica delle opere buone: in tal modo la vita di tutti sarà certo migliorata.

Comunque ogni particolare finirà per svolgersi secondo il piano evangelico: il grano seminato da Cristo, seminato da Dio nel mondo, giungerà a maturazione, e cioè nessuna egregia impresa, verun desiderio o sforzo per dare al bene la sua energia ed espansione andrà perduto: giacché il premio eterno è assicurato a coloro che porteranno il buon frumento nei granai celesti.





Venerdì, 25 dicembre 1964: «MISSA IN AURORA» NELLA PARROCCHIA ROMANA DI SAN RAFFAELE ARCANGELO

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[...] Ed ora gli auguri natalizi.

Una sola espressione li raccoglie ed enuncia tutti: carissimi, buon Natale! Festa grande, festa bella, ed io sono venuto a celebrarla con voi.

E qui richiamo per alcuni istanti la vostra attenzione. Che faremo per celebrare bene il Natale? È semplice: dovremo ripresentarci quel che è avvenuto in quella mirabile notte di Betlemme. Dovremo ripetere, siccome nostri, i sentimenti, i gesti, gli atti che hanno composto quella sublime scena evangelica.

L’avete presente? Certo; anzi, avete fatto il presepio nelle vostre case: segno indubbio che conoscete bene i particolari narratici dal Vangelo.

[...]

A chi parlarono i messaggeri celesti? A gente umile, a lavoratori. A questi è dato udire la voce angelica: vi reco una grande e lieta notizia. È nato il Salvatore: andate a vedere; troverete un bambino in una mangiatoia. Ed ecco il canto eccelso: Gloria a Dio nel più alto dei cieli!

Questa è la cosa che, per prima, deve interessare la nostra anima. Vogliamo ripetere il Natale? Vogliamo rinnovare in noi la grazia dell’incontro con Cristo? Ebbene occorre subito ascoltare la voce del Cielo, la voce che ci annuncia i principi e le norme della fede. Perciò: se desideriamo incontrare Cristo, e che la grazia e il gaudio del Natale si rinnovellino in noi, il primo nostro dovere - ch’è poi la prima fortuna - è quello di accogliere la parola del Signore. In termini più semplici: bisogna istruirsi. Ecco un ricordo concreto della visita del Papa. Ognuno di voi rammenti sempre quanto Egli ha detto: se volete essere bravi cristiani e dare alla vostra vita il senso e il valore che essa merita, anzitutto la fede: credete; e, per credere, ascoltate, istruitevi. A tale importante ufficio attende il vostro Parroco: poiché se i fedeli non si curano di essere i discepoli di Cristo, non lo potranno né conoscere, né seguire. Fondamentale dovere, dunque: ascoltare.

Ed eccoci al secondo insegnamento del Vangelo odierno. Dopo l’apparizione e l’annunzio degli Angeli in una luce improvvisa, è tornato il silenzio e l’oscurità fonda della notte. I pastori avrebbero potuto discorrere, riflettere, indugiare nella curiosità e meraviglia o nel riposo. Invece, dopo, aver ascoltato, si pongono immediatamente in cammino. Muoversi, quindi, andare, cioè agire secondo la fede. I pastori non avevano una precisa indicazione del luogo ove erano felici di recarsi. E perciò si avviano sollecitamente - «festinantes» - e riescono senz’altro ad arrivare. Così il Presepio si accresce d’un nuovo elemento. Ecco Maria che tiene fra le braccia il Bambino avvolto in poveri panni : dappresso è Giuseppe, il padre putativo, che sta contemplando e adorando. Adesso si aggiungono i pastori.

Questo loro andare, cioè il tradurre in pratica gli insegnamenti della fede è il secondo punto del nostro programma. Non basta aver letto il catechismo o aver sentito qualche predica o possedere questo e quell’elemento sulle verità della fede. Bisogna che la religione diventi vita; diventi la legge del nostro operare; diventi la luce dei nostri passi; e sia la nota determinante nei nostri atti; la coerenza della nostra vita comune. Dobbiamo comportarci secondo la fede; applicare alla nostra condotta le nozioni apprese; tradurre in pratica quanto abbiamo imparato. In caso contrario, saremmo colpevoli di non aver applicato la legge di Dio pur conoscendola; e saremmo ben più responsabili di quanti sono lontani e non hanno ancora ricevuto il messaggio beato della venuta di Cristo.

Noi sappiamo che Nostro Signore è venuto: dobbiamo muovere i nostri passi; cioè l’anima, la volontà, il cuore, i propositi, secondo questa fede che abbiamo da Lui accolta. E allora: agire Fare la volontà di Dio, sempre.

Terzo elemento e ricordo. Giunti alla Grotta santa, i pastori vedono il Pargolo annunciato; non si stupiscono per tanta povertà, e subito si prostrano in preghiera. Sicuramente il Signore ha infuso nel loro cuore un fascino, una commozione, une certezza; il Vangelo lo dice: cognoverunt de verbo. Hanno conosciuto che la parola era vera. Erano dunque riboccanti di entusiasmo e di gioia interiore: vale a dire hanno tradotto in sentimenti religiosi tutto quello che avevano imparato e compiuto. Siamo all’epilogo, al coronamento della vita cristiana.

Bisogna prima credere, quindi operare, infine pregare. È necessario saper trovare il Signore là ove Egli si offre a noi. Se è piccolo, nascosto, povero, non importa: se la religione nostra si presenta velata di misteri, di elementi che soverchiano la nostra mente, e ci invita alla Casa di Dio, ai Sacramenti, dobbiamo avere la coerenza e la virtù di dire: Signore, io credo; e prostrarci a pregare e adorare.

In una parola: occorre la pratica religiosa.

Riassumendo: istruirsi nella fede; praticare la nostra vita cristiana; essere costanti nella unione con Dio. In tal modo si risponderà adeguatamente ai richiami del Signore, nel fervente colloquio con Lui, nel ricorso fiducioso alla sua bontà ed onnipotenza.

E, infine, una considerazione che riguarda da vicino l’uditorio.

Chi sono stati i primi a incontrare Gesù? A chi ha riservato Egli il primato, la preferenza della sua amicizia, del suo incontro, della sua comunicazione? Alla gente povera, alla gente del lavoro, alla gente umile. Non è andato a chiamare i grandi, i filosofi, i potenti, i ricchi, benché pur essi invitati; ma i primi sono gli uomini semplici, comuni, il popolo.

Vogliamo tradurre in linguaggio nostro questo episodio evangelico? Diremo allora: attenti, o carissimi. Guardate che anche ora i primi a essere chiamati siete voi. Voi avete forse l’impressione di essere fuori della città, fuori della società, di essere un po’ in disparte, di non avere un posto eguale agli altri, di essere obbligati a tante cose pesanti: lavorare con fatica, preoccuparsi per la casa e per altre necessità. Ebbene voi, proprio perché siete in queste condizioni difficili e non avete un posto distinto nella società, e non avete chi si curi di voi quanto meritereste e vorreste, ricordate: siete da Cristo i più amati, i preferiti. Gesù è venuto proprio per voi; siete i privilegiati, quelli che davvero possono avvicinarlo di più; siete gli invitati; avete il primo posto nel Regno di Dio. Dovete essere, di conseguenza, coloro che Lo amano di più, Gli sono più fedeli, e maggiormente godono di Lui.

Per voi è venuto il Signore; e quando Egli volle lanciare il suo programma al mondo e spiegare che cosa era accaduto nell’umanità, nella storia, e quale trasformazione profonda stava per compiersi, che ha detto Gesù nell’atto più grande del suo Magistero? Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno dei Cieli.

Venendo fra voi, io ripeto ed echeggio le parole di Cristo, nostro Maestro e nostro Salvatore, e vi dico, carissimi: Beati voi, se saprete conoscere Cristo!

Voi, questa mattina, fate festa al Papa; e vi commovete tutti e lo circondate della vostra cordialità e con questa vostra accoglienza. Io vi dico che, di fronte al Signore, sono ben poca cosa, ma sono l’umile suo Rappresentante e Vicario. E vi dichiaro: potete avere una fortuna anche più grande di quella di ricevere il Papa; avete la sorte di incontrare e ricevere Cristo, se volete.

E certamente lo vorrete. E farete perciò, a conclusione e conferma di questa giornata singolare, una promessa.

La raccolgo: sarete bravi cristiani, fedeli, che vorrete bene a Cristo, ed imprimerete nella vostra esistenza questo sigillo, questo stile della vita cristiana.

Se tale vostra promessa sale adesso dai vostri cuori e circonda l’altare, io credo che il Divino Maestro sarà molto contento di voi; ed io sono felice di ricevere, da questo lembo della città di Roma, una espressione così viva e cordiale per me, così bella ed importante: e sono lieto di offrirla a Gesù, sicuro che Egli l’accetta, la premia.

Con l’augurio e con la benedizione del «Buon Natale».




Venerdì, 25 dicembre 1964: SANTA MESSA NATALIZIA

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Figli carissimi!

Vi daremo ora la benedizione; a voi qui presenti, ai vostri cari, alle vostre famiglie, a quanti avete nel cuore, vicini e lontani. La daremo a questo Nostra Città, sede della Nostra Diocesi e centro della Chiesa cattolica; alla Chiesa intera vuol giungere questa Nostra benedizione, a tutti i popoli della terra, a questa Italia, patria Nostra terrena; e a tutti la benedizione vuole oggi recare l’augurio, lieto ed efficace, del buon Natale. Buon Natale!, buon Natale!

Come può essere davvero buono e felice questo santo giorno, che porta, si, tante cose liete con sé: gli auguri, i doni, gli incontri familiari, la poesia dei ricordi e delle speranze, ma non cambia il corso della vita, ch’è pur piena di affanni e di malanni? Noi pensiamo che tutti coloro, i quali si lasciano invadere dallo spirito dolce e penetrante del Natale, avvertiranno in fondo al cuore una nota di tristezza, come se l’incanto soave di questo giorno singolare fosse subito per dileguarsi, come un sogno illusorio e passeggero. Come può essere veramente buono il Natale, se non porta qualche consolante novità, qualche speranza migliore, qualche gioia sincera?

Vi diremo ora due brevi pensieri, che voi già conoscete, ma che qui ricordati possono insegnare qualche cosa sulla vera bontà del Natale. Il primo è l’interiorità del Natale. Il Natale è buono se è interiore, se è celebrato, non fosse che per qualche momento, nel silenzio del cuore, dentro, nella coscienza fatta attenta e pensosa. Ed è interiore e rinnovatore, se ci fa cogliere il discorso che Gesù, entrando nella scena del mondo, non con le parole, ma con i fatti ha pronunciato. Quale discorso? Quello dell’umiltà; è questa la lezione fondamentale del mistero di Dio fatto uomo, ed è questa la medicina prima di cui abbiamo bisogno (cfr. S. Agostino, de Trin. 8, 5, 7; P.L. 42, 952). È da questa radice che può rinascere la vita buona. E il secondo pensiero si riferisce all’umanità del Natale: siamo in adorazione d’una nascita, d’un bambino, d’un presepio; la vita umana è celebrata nella sua più sacra espressione: ogni culla, ogni creatura umana, ogni infanzia oggi è irradiata dalla luce soavissima di Maria e di Gesù. L’invito è forte e incantevole: bisogna evangelicamente ritornare bambini: «Se non vi farete piccoli come bambini, dirà poi Gesù Maestro, non potrete entrare nel Regno dei cieli» (
Mt 18,2). Bisogna avere il culto della vita nelle sue forme più deboli, più innocenti, più essenziali. Bisogna ridestare nel cuore di carta, di ferro e di cemento dell’uomo moderno il palpito della simpatia umana, dell’affetto semplice, puro e generoso. della poesia delle cose native e vive, dell’amore.

Figli e Fratelli: volete che il Natale sia buono davvero? Dategli il suo autentico valore spirituale e riconoscetegli la sua profonda esigenza umana. Rendetelo pio e affettuoso, e lo renderete buono. Sappiate quest’oggi curvarvi amorosi sui vostri bimbi; sappiate quest’oggi associare, con qualche più generosa carità, i poveri, i sofferenti, i derelitti, i piccoli, in una parola; e avrete un Natale sincero, un Natale rigeneratore, un Natale felice. Quello che ora con la Nostra Benedizione a voi tutti di gran cuore auguriamo.



OMELIE 1965



Domenica, 3 gennaio 1965: SANTA MESSA PER I LAUREATI CATTOLICI D'ITALIA

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Cari Figli e cari Amici!

Noi godiamo di questo incontro; e siamo grati a voi che Ce lo procurate, portandovi ricordi, sentimenti, idee e propositi, che lo rendono a Noi prezioso, e Ce lo fanno godere nel modo migliore, quello della comunione degli animi, nell’amicizia, nella preghiera, nella speranza. Ringraziamo il Signore, che ci concede un’ora felice; e vediamo di profittarne a comune conforto.

L’aspetto migliore del nostro presente momento è quello della facilità della conversazione, come avviene appunto fra persone che si conoscono, che si capiscono, che si vogliono bene. Le parole possono essere poche e semplici; ma ciò che conta è la comprensione. A Noi sembra facile comprendere voi e accogliere la voce della vostra presenza. È una voce composita, ma è già un piacere gustarne l’unisono; composita, diciamo, dalla testimonianza degli anziani, che con commovente fedeltà, rinunciando al riposo e allo svago di questi giorni festivi, sono venuti all’annuale convegno, come ad un appuntamento d’onore, come ad un richiamo cordiale, per dire a sé, per dire agli amici: siamo qui; non possiamo dimenticare, non vogliamo mancare. Quale valore affettivo, quale) vigore morale, quale vittoria ideale in cotesto silenzioso, ma eloquente attestato di costante adesione a quei vincoli associativi ed a quei principi spirituali, che hanno costituito la bellezza e il vigore dei lontani anni decisivi e che hanno resistito all’usura della vita pratica, formando allora, in seguito e adesso l’impegno qualificante della vostra esistenza, l’impegno cattolico! È magnifica codesta lineare continuità, codesta interiore unità, codesta persistente giovinezza d’anima! E come bene la nota grave, ma sempre squillante, dei veterani si fonde con quella dei più giovani e dei nuovi amici, che sono entrati, senza esitazione propria e senza ostacoli altrui, nella fila gloriosa, subito facendone proprio lo stile, ma subito imprimendovi il proprio, com’è bisogno e dovere per ogni successiva generazione! Salutiamo anche questi rappresentanti dei tempi nuovi, e diciamo subito a loro di mettersi in movimento; purché la linea dei loro passi sia diritta, cioè avverta l’obbligo e la spinta della continuità coerente e fedele di una tradizione, non formale, ma sostanziale di principi morali e cristiani, nessuno, Noi pensiamo, contesterà loro il posto di avanguardia.

Inoltre, sembra a Noi di comprendervi in tanti vostri problemi, e specialmente nello stato d’animo che caratterizza il nostro tempo, e che porta un segno di sofferenza e di attesa in coloro i quali hanno la fortuna di possedere un patrimonio di verità, un castello di idee solide e sacre; vogliamo dire lo stato d’animo della problematicità: tutto oggi è diventato problema; e non già per una virtuosa esercitazione scolastica; ma per un cambiamento reale di dati obbiettivi; tutto dev’essere ripensato, analizzato, quasi disintegrato nei suoi elementi essenziali e accidentali, per essere ricomposto trascurando questi ultimi, gli accidentali, per impiegare i primi, quelli essenziali, in costruzioni nuove atte ad assorbire l’apporto delle nuove esperienze.

Vi comprendiamo, carissimi; e comprendiamo anche come i grandi avvenimenti rinnovatori che stanno maturando nel campo stesso della vita cattolica possano aver accresciuto questa incertezza pratica di pensiero e questa fatica di ricuperare formule mentali sicure e indiscutibili. Vi comprendiamo, e vi esortiamo a non temere, a non abbandonarvi allo scetticismo pratico, che può insinuarsi anche negli animi dei fedeli e che lascia sospettare che oramai una idea vale l’altra, che non porta la spesa di battersi per alcuna affermazione ideale, che bisogna prendere le cose come sono e come vengono maturando, quasi per fatale determinismo, per necessità, a cui si dà il titolo solenne di storica, per non avere rimorso d’aver rinunciato a contenerla, a modificarla, e per aver cercato d’inserirsi meno male nel gioco delle circostanze con qualche profitto e con qualche onore. Vorremmo confortarvi; vorremmo incoraggiarvi a ben vivere il momento di crisi, cioè di passaggio, in cui versa il nostro tempo, con la fiducia di chi sa di possedere verità vitali, le quali non muoiono, le quali anzi? nel cimento delle nuove esperienze, possono dar prova della loro magnifica intangibilità e della loro inesauribile e provvidenziale fecondità; e insieme con l’umiltà, vogliamo dire, l’attenzione, la premura, l’abilità di scoprire e di accogliere quei nuovi valori, di pensiero e di azione, che il mondo moderno mette in evidenza e in efficienza.

E qui siamo Noi che speriamo d’essere compresi da voi. Quale desiderio, quale speranza Ci leggete nel cuore a vostro riguardo? Che cosa pensate che Noi possiamo attenderCi da voi? La risposta è facile; e voi celebrate appunto cotesto convegno per darle da pari vostri, stupendamente, una delle sue principali formulazioni. Noi desideriamo, Noi speriamo, Noi preghiamo che voi sappiate portare nella vostra vita personale, familiare, professionale, sociale, degnamente il nome cattolico, il nome cristiano (si equivalgono, nella presente considerazione, i due termini cattolico e cristiano).

Questo richiamo al nome che ci definisce porta il nostro pensiero al rito religioso, che stiamo celebrando in onore del nome di Gesù Cristo, il quale nome benedetto diede a noi la fortuna d’individuare, di chiamare, di esprimere Colui ch’è il nostro Salvatore e il nostro Maestro; non solo, ma diede altresì a noi la fortuna e la responsabilità d’individuare, di chiamare, di esprimere noi stessi; di qualificarci cioè quelli che siamo: cristiani.

Il pensiero risale allora a quella prima volta, quando questo appellativo fu dato, forse in senso dispregiativo, agli adepti della nuova fede nel Messia, nel Signore Gesù: fu ad Antiochia, alla prima e grande predicazione di Barnaba e di Paolo (
Ac 11,26); e il pensiero percorre poi l’itinerario tragico che subito questo titolo dovette subire nei primi tempi: «Non è lecito essere cristiani!» (cfr. Tertullian., Apol. 3); si arresta il pensiero un attimo per chiedere che cosa finalmente comporti un titolo simile. Che cosa vuol dire essere cristiani? Lo domanderemo al piccolo catechismo, da cui sapremo che un tale titolo non è un’etichetta esteriore, puramente anagrafica, ma dice assai di più, penetra nell’intimo del nostro essere di credenti e di battezzati per scoprire una nuova vita soprannaturale, che s’inserisce su quella umana, naturale, per fare di noi dei figli di Dio, dei fratelli di Cristo, dei membri anzi del suo corpo mistico, la Chiesa, e che ci apre la via a un destino superiore ed eterno; non ci rende estranei alla vita temporale, ma ci obbliga e insieme ci abilita ad un’arte superiore di vivere (cfr. Ep. Diognetum, V).

Formidabile cosa, figli carissimi, che mette, sì, tutto in questione, e con instancabile urgenza: essere cristiani è ineffabile fortuna, mistero a noi stessi, dignità incomparabile, esigenza implacabile, conforto inestinguibile, stile inconfondibile, nobiltà pericolosa, umanità originale, umanità, sì, autentica, semplicissima, felicissima; vita vera, personale e sociale. Dare a questo titolo di «cristiani» il suo. vero significato, accettare l’esaltazione spirituale ch’esso comporta: «Agnosce, o christiane, dignitatem tuam»: riconosci, o cristiano, la tua dignità, esclama San Leone Magno (serm. I de Nativ.); ricercarne. l’interiore potenzialità e tradurla in coscienza, la coscienza cristiana; affrontare il rischio, la scelta, che ne deriva; comporre intorno ad essa il proprio equilibrio spirituale, la propria personalità; professare esteriormente la coerenza, la testimonianza ch’essa reclama; ecco il comune dovere dei fedeli, sempre, ma specialmente nell’ora presente, e tanto più da parte dei cattolici che vogliono vivere in sincerità e in semplicità la loro fede. Questo per un duplice essenziale motivo: per dare alla propria persona il profilo e la statura, a cui un essenziale diritto-dovere la chiama, la perfezione cioè, vittoriosa dei facili infingimenti e delle comuni viltà, la santità, potremmo dire, nel senso a tutti accessibile di questo termine così esigente: e, secondo, per dare alla comunità circostante il contributo di servizio e di amore, a cui la legge del nome cristiano tutti ci invita e ci astringe: «In questo conosceranno tutti che siete miei discepoli - disse Gesù nella notte estrema del suo testamento - (cioè che siete cristiani), se vi amerete scambievolmente» (Jn 13,35).

Vi ripetiamo cose notissime; ma di queste cose principalmente si alimenta la fedeltà a quel nome cristiano, a cui oggi dedichiamo la Nostra riflessione. E a volerla proseguire nelle sue più semplici conclusioni ricorderemo che la professione del nome cristiano non ci esonera dalla professione di quelle virtù elementari e naturali, che sembrano prescindere dalla religione, ma che definiscono l’uomo nelle sue linee fondamentali, propriamente umane, le virtù morali, primissima l’onestà del pensiero e della parola, la veracità, la lealtà, l’est-est, non-non caratteristico di chi attribuisce alla verità e alla giustizia il loro carattere assoluto; e poi quindi la purità della vita, il disinteresse e la rettitudine nell’esercizio dei pubblici uffici, lo spirito di dedizione, di civismo, di concordia, e così via. Non ci esonera: «Se la vostra giustizia - dice il Signore - non sarà superiore a quella dei formalisti, degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (cfr. Matth. Mt 5,20); non ci permette di accontentarci della moralità corrente, ambientale, così detta «della situazione», anche se suffragata da autorevoli consensi e da forme abituali; ci obbliga a dire: non basta, e a dirlo a noi stessi, facendo sorgere un inquieto e continuo proposito interiore di miglioramento, di indipendenza, di coraggio, caratteristico in chi segue il Vangelo. Non ci esonera, ripetiamo; ché anzi doppiamente ci obbliga, e come uomini e come cristiani; a tal punto che potremmo dire essere il contributo di questi basilari valori morali l’apporto più caratteristico del cristiano alla vita sociale, l’apporto più atteso dal pubblico, che da tale apporto spontaneo, generoso, perseverante, giudica se la nostra religiosità sia sincera, o ipocrita, e se il titolo di cristiano sia per noi titolo d’onore, o di condanna.

ComprendeteCi, dicevamo, o amici: una cosa Ci preme e attendiamo da voi, che diate pieno significato al nome cristiano, e che ne sappiate documentare la misteriosa bontà con l’irradiazione di virile e gentile senso morale, e con l’esercizio di quelle primissime virtù umane, su cui si fonda l’ordine della vita presente, e che perciò cardinali si chiamano, e di cui il cristiano dev’essere alunno e modello, se vuole meritare d’essere assunto alla sfera delle virtù superiori, quelle teologali, che a Dio lo uniscono.

E una cosa vi auguriamo: che dando al nome cristiano questa sua morale pienezza siate voi stessi i primi a sperimentare e a godere ciò che è detto oggi del nome di Cristo: non est in alio aliquo salus; non vi è salvezza che in questo nome (Ac 4,12). Era così che affermava San Pietro agli inizi dell’evangelizzazione dell’umanità: è così che vi ripete l’ultimo umile suo successore e vostro amico: non v’è altro nome che quello di Cristo, che ci possa salvare.


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