B. Paolo VI Omelie 10869

Kololo (Uganda), 1° agosto 1969: ORDINAZIONE DI DODICI VESCOVI

10869


Venerati Fratelli!

Figli carissimi!

Il Nostro discorso, inserito in questo solenne rito nel quale la Liturgia della parola è già così piena ed eloquente, non pub essere the molto breve. Ma Noi non vogliamo rinunciare al dovere di rivolgere a questa assemblea straordinaria, ai Vescovi specialmente ora consacrati, una Nostra parola, quale Ci nasce dal cuore.

La Nostra parola è estremamente semplice: ed è la parola «coscienza».

L’avvenimento, ora compiuto, è cosi grande e misterioso che esige un atto riflesso dei nostri spiriti; un atto, che potrà essere prolungato ben oltre questa cerimonia, per tutta la vita, un atto di coscienza. Anche nell’allocuzione liturgica, testé pronunciata, Noi abbiamo esortato tutti i presenti: «sedulo attendite», pensate attentamente, riflettete.

Ora, volendo restringere quasi «in nuce», in concetti brevi e densi come semi, l’immenso significato dell’ordinazione episcopale, Noi ripetiamo una consueta e duplice considerazione; una, che si svolge in senso sacramentale, teologico, ineffabile e interiore, possiamo dire (secondo la fraseologia moderna) in direzione verticale; l’altra invece, in direzione orizzontale, cioè in senso ecclesiale, pastorale, esteriore e sociale.

Che cosa è avvenuto mediante la imposizione delle mani e la formola consacratoria? È avvenuto che questi nuovi eletti sono stati investiti da una straordinaria effusione dello Spirito Santo. Una dignità incomparabile (oh! ben più interiore, che esteriore) li ha trasfigurati. Una formidabile potestà è stata loro conferita; una virtù, che viene dall’alto e che in cielo è ratificata (cfr.
Lc 24,49 Jn 20,23) è stata loro comunicata; una nuova e più profonda assimilazione a Cristo ha impresso in loro una superiore personalità (cfr. Lc 10,16 Ga 2,20, Lumen Gentium, LG 21). Come abbiamo ora letto nel Libro Pontificale Romano: nel Vescovo si trova in mezzo a noi il Signor nostro Gesù Cristo. Insomma: è questa comunicata pienezza dell’unico e sommo Sacerdozio di Cristo stesso, ormai propria del Vescovo, che deve trattenere la nostra attenzione, la nostra ammirazione, la nostra esultanza. È una grandezza, che confonde, perché Dio solo ne è la causa (cfr. Lc 1,48), e perché Dio dà a chi vuole, e sceglie di solito i più umili (1Co 1,27). Ma è grandezza che incute riverenza, e che nessuno può impunemente disprezzare (cfr. Tt 2,15 Lc 10,16). Riconosciamo Cristo nel Vescovo e lodiamo il Signore.

Ma perché questa preferenza è data da Cristo al Vescovo? Noi lo sappiamo (ed è questa la nostra seconda considerazione): Cristo ha così favorito il Vescovo per farne un Apostolo. I Vescovi, è noto, sono i successori degli Apostoli. E gli Apostoli, chi sono? Sono coloro che il Signore ha scelto, ha separato, segregato in ordine ad una missione in favore del popolo (He 5,1). Sono coloro, che Egli manda (cfr. Jn 15,16 Mt 19,29 Lc 18,29 Ga 1,15 Rm 1,1 Ac 13,2). Apostolo vuol dire mandato. Gli Apostoli, e perciò i Vescovi loro successori, sono i rappresentanti, o meglio i veicoli, gli strumenti della carità di Cristo verso gli uomini. Il ministero episcopale è segno e strumento di salvezza (cfr. Mt 9,38 Lc 6,13 Jn 20,21). Gli uomini nell’economia ordinaria e divina della salvezza non si salvano da soli. La Chiesa è il sacramento visibile dell’amore salvifico di Dio (cfr. Lumen Gentium, LG 9). E il sacerdozio ministeriale è indispensabile (ib. LG 10), ed ha nell’Episcopato la sua piena espressione. Occorre infatti chi porta agli uomini la parola di Dio (Dei Verbum, DV 10); occorre chi distribuisce ad essi i misteri della grazia (cfr. 1Co 4,1-2); occorre chi guida sulle vie del Signore (cfr. Jn 21,15; Lumen Gentium, LG 19-20); occorre chi riunisce in Cristo mediante il Vangelo (Rm 10,8 1Co 4,1-2 Tt 1,7 1P 4,10 ecc.). Cioè i Vescovi sono ministri, sono servitori; essi non sono per sé; sono per gli altri. Sono vostri, sono per voi, Fedeli che Ci ascoltate! (cfr. Lc 22,26 Rm 1,14 Lumen Gentium, LG 20). Essi sono per la Chiesa. Per la Chiesa i Vescovi hanno diritto e dovere di esercitare le funzioni di Maestri, di Sacerdoti, di Pastori (cfr. 1P 4,11; Pont. Rom. n. 18; Decr. Christus Dominus, CD 12-16). Sono per la Chiesa, e alla Chiesa offrono tutta la loro vita (2Co 12,15).

Questo secondo aspetto dell’Episcopato, cioè la sua destinazione al bene degli altri, la sua funzione pastorale, caritativa, comunitaria, assume oggi una grande importanza. Perché questo aspetto è visibile e sociale, e tutti lo vogliono vedere e giudicare. Perché a voi, Fratelli, carissimi, Vescovi di Chiese giovani e nascenti, la carità pastorale è domandata in grado superiore, che non altrove. Voi dovete, si può dire, fondare le vostre Chiese locali; voi dovete edificarle in modo analogo a quello che Gesù ha detto a Pietro (Mt 16,16). Voi dovete cercare e chiamare alla fede i nuovi cristiani, grande impresa, che incontra grandi difficoltà di ogni genere, le quali esigono dal Vescovo, e dai suoi collaboratori abnegazione, coraggio, costanza, sapienza, sacrificio. E voi lavorate nella povertà, e spesso nella contrarietà. E voi avete inesauribile cuore per i fanciulli, per i giovani, per i poveri, per ogni sofferente.

Ed è con questa fatica pastorale che voi sperimentate le tre fasi dell’apostolato missionario: l’evangelizzazione, o piantagione (cfr. 1Co 3,6 ad Gentes, AGD 6); la formazione e la sua crescita (ib. nn. AGD 15 AGD 18 AGD 19); e lo sviluppo del suo carattere autoctono, cioè africano (ib. nn. AGD 16 AGD 22); con l’aspirazione non solo ad una sua propria autosufficienza (ib. n. AGD 15), ma altresì ad una sua capacità espansiva e missionaria (ib. n. AGD 20; cfr. art. di P. Masson, nel vol. L’Evêque dans l’Eglise du Christ, p. 173).

Ed ecco allora sulle vostre spalle il peso d’innumerevoli doveri, di responsabilità, di dolori! Voi dovete, Noi dicevamo, costruire la Chiesa; ma possiamo aggiungere che, quasi per la natura del vostro ministero, voi dovete anche prestare il vostro servizio per aiutare la costruzione della società civile, sebbene liberi da impegni politici e da interessi temporali. Perché voi dovete grandemente contribuire all’educazione del Popolo, all’onestà dei suoi costumi, alla sua istruzione progrediente, al suo lavoro secondo giusti criteri sociali, al rispetto delle Autorità, alla fratellanza, alla pace; alla nuova civiltà; come ieri dicevamo: africana e cristiana.

Grande ufficio! Confratelli carissimi e venerati, grande ufficio vi è destinato; grande croce! è la croce salvatrice di Cristo. Oh! portatela con immensa fiducia e immenso coraggio! Ve lo insegnano i vostri Martiri! Ve ne dànno l’esempio i vostri grandi santi Vescovi Africani, come Cipriano ed Agostino! Sono con voi i valorosi Missionari, di ieri e di oggi, che hanno riaperto l’Africa al Vangelo, e ne hanno fatto una nuova patria di Cristo; e siete assistiti dalla solidarietà collegiale dei Fratelli Vescovi di questo continente e della Chiesa cattolica intera! (cfr. 1P 5,9).

E sappiate che è con voi la Nostra carità, con la Nostra Benedizione Apostolica.





Uganda, 2 agosto 1969: VISITA AL SANTUARIO DI NAMUGONGO

20869


Figli carissimi, Gioventù cristiana dell’Uganda!

E voi, venerati Fratelli Vescovi e Sacerdoti!

Voi, Religiosi e Religiose, Catechisti e Laici di Azione Cattolica!

Voi, Fratelli Cristiani d’ogni denominazione!

Voi, Autorità civili qui presenti, che particolarmente ringraziamo della cortese accoglienza e della vostra onorifica assistenza!

Siate tutti salutati e benedetti!

Sappiate tutti che vi teniamo presenti nella nostra preghiera in questo santo rito!

E tutta l’Africa noi consideriamo in questo momento simbolicamente partecipe alla sacra cerimonia, perché tutta l’Africa noi la vogliamo offrire a Cristo, per la sua prosperità, per la sua pace, per la sua salvezza!

A questi giovani, a questi catecumeni, a questi fanciulli, come segni dell’Africa nuova, noi rivolgiamo ora, in modo speciale, questo breve discorso.

A voi, figli carissimi, ora io domando:

- Perché sono venuto in Africa, nell’Uganda, fino qua a Namugongo?

Sono venuto per rendere onore ai vostri martiri. Qui sorge un Santuario a gloria del Signore in loro memoria; e io ho voluto venire da Roma per benedire l’altare di questo Santuario. La mia intenzione è di venerare, con questo atto, anche tutti gli altri cristiani che hanno dato la loro vita per la fede cattolica in Africa, qui e dappertutto.

- Ma perché, voi mi domanderete, si devono onorare i Martiri?

Vi rispondo: perché essi hanno compiuto l’azione più eroica, e quindi più grande e più bella; essi hanno dato, come vi dicevo, la loro vita per la loro fede, e cioè per la loro religione e per la libertà della loro coscienza. Essi sono così i nostri campioni, i nostri eroi, i nostri maestri. Essi ci insegnano come devono essere i cristiani. Ascoltatemi: un cristiano deve essere vile? deve avere paura ? deve tradire la propria fede? No! non è vero? I vostri Martiri c’insegnano come devono essere i veri cristiani, quelli giovani specialmente, quelli Africani. I cristiani devono essere coraggiosi, devono essere forti, devono essere, come scriveva San Pietro, «forti nella fede» (1 Pt. 5, 9).

I vostri Martiri ci insegnano quanto vale la fede!

- La fede, voi mi domandate, vale più della vita?

Sì, la fede vale più della nostra vita presente, che è una vita mortale, mentre la fede è il principio della vita immortale e felice, cioè della vita di Dio in noi. Sapete voi questa importantissima verità? Sì, voi mi rispondete, perché avete imparato che la fede è l’adesione alla Parola di Dio; e chi accetta la Parola di Dio comincia a vivere di Dio stesso.

- Basta la fede per essere vivi in Dio e per essere salvati? voi mi potreste chiedere.

Ma voi conoscete il vostro catechismo: la fede è necessaria, ma non sufficiente; con la fede occorre la grazia, occorre lo Spirito Santo, occorre il sacramento, il grande sacramento che ci fa cristiani, il battesimo; e poi occorrono anche gli altri sacramenti, che ci fanno vivere come figli di Dio, come fratelli di Cristo, come tabernacoli dello Spirito Santo; ci fanno buoni e santi, ci fanno membri della Chiesa, ci fanno meritevoli del Paradiso. Il sacramento dell’Eucaristia, fra tutti i Sacramenti il più misterioso, ma anche il più santo, il più vivificante, ci dà Gesù Cristo stesso: sacrificandosi per noi, si è fatto pane vivo per le nostre anime.

- Dunque, voi potete dire, è molto bello essere cristiani?

Sì, figli carissimi, è molto, molto bello. Io vorrei che questo pensiero restasse impresso nella vostra memoria, anzi nella vostra coscienza, per sempre: è molto bello essere cristiani. Ma fate attenzione. È molto bello, ma non è sempre facile. Guardate i vostri Martiri. Per la loro fedeltà a Cristo essi hanno dovuto soffrire. Chi è cristiano deve vivere secondo la propria fede; e allora può capitare che questa coerenza alla fede esiga sacrificio; alcune volte esige grandi sacrifici, ma più spesso esige solo tanti sacrifici piccoli e frequenti, ma sacrifici cari e pieni di vigore nobile e virile che rendono forte e virtuosa la vita, la conservano pura e onesta, la rendono sempre rivolta all’amore; all’amore di Dio, ch’è la prima cosa che dobbiamo fare; e poi all’amore degli altri uomini, di quelli che ci sono più vicini specialmente, e sono il nostro prossimo, e all’amore poi di tutte le persone umane, buone e cattive, vicine o lontane.

- Allora, voi ancora mi chiedete, essere cristiano è importante anche per la vita presente, perché ci obbliga a voler bene a tutti, e a far del bene a tutta la società?

roprio tosi, vi rispondo. La vita cristiana ha una grande importanza anche per questa vita terrena; ha importanza per tutta l’attività umana, per tutta la convivenza sociale: per la famiglia, per la scuola, per il lavoro, per la pace fra tutte le classi sociali, fra le tribù, fra le nazioni; e promuove il bene dappertutto: vuole la libertà, vuole la giustizia; si occupa dei deboli, dei poveri, dei sofferenti, e anche dei nemici, anche dei defunti; la vita cristiana, quando davvero porta Cristo nel cuore è come una fontana di bontà e di amore, che diffonde il bene d’intorno a sé (cf.
Jn 4,14).

Mi fate forse un’ultima domanda, che è questa:

- Come si fa a vivere bene la nostra fede cristiana?

Ecco, io riassumo così le tante cose che vorrei dirvi:

Primo: amate molto Gesù Cristo; cercate di conoscerlo bene, state uniti a Lui, abbiate in Lui molta fede e molta fiducia. Secondo: siate fedeli alla Chiesa, pregate con lei, amatela, diffondetela, siate sempre pronti, come i nostri Martiri, a darle franca testimonianza. Terzo: siate forti e coraggiosi; siate contenti, siate lieti e siate allegri, sempre! Perché la vita cristiana, ricordatelo, è molto bella! (cf. Phil. Ph 4,4).





Venerdì, 15 agosto 1969: FESTIVITÀ DELL’ASSUNTA

15869

Questo incontro, questo momento di unità spirituale, non è fine a se stesso, giacché pone sulle labbra di tutti la domanda: perché siamo qui? che cosa vogliamo fare questa mattina? Desideriamo tutti rivolgere un pensiero, un atto di omaggio e di devozione particolare a Maria Santissima, per onorare il mistero della sua Assunzione al Cielo.

È una cosa tanto bella che esige una certa tensione di spirito. Allorché celebriamo le feste della Madonna, notiamo come le pagine del Vangelo ci fanno vedere e sentire Maria più vicina a noi. Si tratta di incontri familiari: ad esempio l’Annunciazione, la Nascita del Signore, la visita ad Elisabetta (ricordato proprio nel Vangelo di questo giorno), che rendono facile la nostra conversazione con la Madre di Dio, una conversazione che si svolge con linguaggio umano. Ne è conferma l’«Ave Maria», poiché Ella è nostra, nostra sorella nella umanità.



L’EPILOGO MERAVIGLIOSO D’UNA VITA ECCELSA

I vari misteri della Madonna, anche quelli dolorosi, sono quadri di vita ai quali ci è facile accedere almeno in parte, pur rimanendo noi sempre attoniti di fronte alla loro grandezza e sublimità. Ma il ricordo degli ultimi punti del Santo Rosario: l’Assunzione e la Gloria di Maria, invece, ce la portano lontano. La Madonna esce dalla ,sfera della nostra vita umana; sale, scompare, entra in quell’al di là che conosciamo solo per fede ed anche per una certa intuizione in fondo al nostro spirito, predisposto a tale avvenire meraviglioso. Intuiamo qualche cosa di questo al di là, ma ci manca ogni esperienza. Allora bisogna affidarsi alla immaginazione; bisogna rendere superlativi ed assoluti i termini da noi usati nel linguaggio terreno, temporale, per figurarci in piccola dimensione l’eterno.

Oggi noi celebriamo proprio l’al di là della Madonna, e possiamo considerarlo in due momenti: l’istante della sua resurrezione e quello della sua «entrata» e dimora nel Paradiso, che durerà per tutti i secoli nella gloria del Signore.

Che cosa stiamo guardando?

L’epilogo della storia di Maria. Ci sarebbe più facile trovarne le ragioni che dirne l’essenza: Maria era senza macchia di peccato: il peccato è la causa della morte e quindi è chiaro che la Madonna non doveva subire la pena della morte anche se Ella ne ha subito la sorte: la «dormitio Virginis», come si dice nell’antica liturgia, specialmente in quella orientale. Ma poi quelle membra santissime, innocenti, ,si sono rianimate: hanno ripreso una vita nuova, leggera, trasparente, trasfigurante, e la Madonna è passata da questo nostro piano di vita temporale, terrena, a quell’altro per cui noi restiamo senza parole. Guardiamo, però, e siamo abbagliati, come quando si guarda il sole e ,si vede che è sorgente di luce e vince la forza della nostra capacità visiva. Restiamo confusi a tanta luce e allora avviene il fatto comune di quando si guarda la luce: si accende un lume: il primo sguardo è al lume, il secondo alle cose circostanti che ne sono illuminate. Così avviene nella celebrazione del mistero dell’Assunzione : vediamo Maria diventare una stella del Cielo: la stella più bella; diventare, dice sempre la Scrittura adattata alla figura della Vergine, splendida come il sole, bella come la luna, cioè un astro che illumina l’universo, il nostro panorama terreno.



I PERFETTI RAGGI D’UN GRANDE SOLE

E quale luce ci dà in modo speciale questo mistero di Maria?

Ce ne dà molte, di luci. Ma quella che ci sembra specifica, essenziale, caratteristica è che ci ricorda che la sorte di Maria sarà la nostra; che anche noi siamo dei «resurrecturi», siamo vite che il Signore così ha creato da rendere immortali, da destinare a una vita che trapassa i confini del tempo e gli anni trascorsi quaggiù, così labili, così fugaci, così logoranti, per darci, invece, una vita piena, perfetta, santa e soprattutto, fuori del tempo: non ha orologio, limiti, non ha calendario, non si esaurisce nella sua durata, ma resta assorbita nella sempre fresca, viva, nuova visione di Dio; è la vita eterna. La Madonna ha avuto il privilegio di anticipare questa sorte e di goderla in una pienezza, in una perfezione che noi non raggiungeremo, sia pure se noi avremo la stessa sorte, cioé di riprendere dopo la lunga stagione del nostro sonno nel sepolcro questa nostra stessa carne, queste stesse nostre membra, la nostra stessa persona fisica nel tempo.

Vorremmo domandare, alla luce di tali verità, che il Credo ci fa ripetere ogni giorno - . . . carnis resurrectionem, vitam aeternam - se siamo veramente convinti che sarà così; se siamo sicuri, se crediamo e avvertiamo la meraviglia stupenda che tale verità colloca nella nostra maniera di valutare l’esistenza presente, la quale ha sì una importanza grandissima, ma è fugace, effimera e destinata all’altra esistenza, quella garantita dalla parola del Signore e della quale, nell’odierna festa, abbiamo splendida conferma.



LA VITA UMANA È DESTINATA ALLA BEATITUDINE

Come la gente comune, come noi cristiani, valutiamo il destino a noi preparato? Naturalmente ci crediamo, magari in penombra, per sentimento ed abitudine, magari perché sarebbe troppo doloroso il pensare che tutto diventi cenere e sia distrutto dopo la morte. Tuttavia, appunto perché cristiani, e possessori di questa fede nella resurrezione dei corpi e nell’immortalità dell’anima, vogliamo domandarci, oggi, se tale realtà è presente sia per la indicibile consolazione che offre, sia per la -dignità altissima e l’importanza senza paragone che essa imprime all’esistenza umana. Per siffatta realtà la Chiesa è così gelosa nella difesa della vita che nasce, della vita sofferente, della vita che muore. Tutto concorre ad un atto che Iddio compie per l’eternità, e perciò la dignità della vita umana diviene qualificata con statura incommensurabile, bellissima, grandissima. È la sorte di beatitudine che esige da tutti vicendevole amore.

Una seconda domanda, più pratica ma non meno importante: che rapporto c’è tra la vita presente e quella futura? le cose avvengono automaticamente? si nasce cioè, si muore e un giorno si risorgerà tranquillamente, siccome fatti naturali, insopprimibili? No. Esistono condizioni precise. La resurrezione esige il presupposto, da parte nostra, di essere buoni, veri cristiani, di conoscere la sorte d’essere veramente inseriti nella sorgente della vita che è Cristo, di essere sin da ora attratti e compaginati nella sua misteriosa esistenza. Cristo è la vita: non vi sono su ciò dubbi o riserve; noi dobbiamo essere cristiani, dobbiamo essere uniti a Cristo, giacché se vogliamo davvero che il prodigio della sua vita risorta sia pure nostro, dobbiamo agire in modo di credere ed operare secondo la unione indispensabile con Lui. È la cosa più importante del nostro tempo presente: o cristiani, o falliti; e il fallimento sarebbe di una portata incalcolabile, Dio mio!, perché eterno.


SE UNITI A CRISTO ASCENDEREMO CON LA MADRE CELESTE

Ed ecco che la Madonna, con la sua Assunzione al Cielo, ci garantisce la possibilità di ascendere anche noi, se siamo, come Lei, uniti al Cristo. Con tanta Madre, la distanza fra noi e Cristo è abbreviata, annullata; e il Signore ci viene incontro e ci ripete «Mangia di questo Pane e avrai la vita eterna». In tal modo si raggiunge l’immortalità, cioè l’inserimento della vita nuova nella nostra povera giornata terrena, che da sé sarebbe enigmatica e forse tormentata e inghiottita dal dubbio. Siamo esseri mortali che devono rinunciare al grande sogno della vita perfetta e della vita eterna? No, di certo. Il Signore ci dice: Io ti prometto, se tu credi, se rimani unito a me, se accetti di vivere così, che la tua vita sarà un giorno come quella della Madonna: nella unione eterna con Cristo SI da formare con Lui quella luminosa società ed unità del Corpo Mistico, che è il segreto dell’intera creazione, e d’ogni opera di bontà del genio cristiano.

Celebriamo perciò l’odierna festa nella fede della vita eterna, cercando di raggiungere le supreme conseguenze di tale fede.

Se sono eterno, come devo vivere? e basta forse pensare a tale eternità, quasi che essa annulli i valori, gli interessi della vita vissuta nel tempo? Affatto. Tanto più noi abbiamo la fiducia, la sicurezza, il dovere di raggiungere la vita eterna, tanto maggiore è l’obbligo di vivere bene là dove il Signore ci ha posti; di impegnare le nostre facoltà, di ben trafficare, come ci insegna il Vangelo, i talenti datici da Dio per accumulare un vero capitale assicuratoci nella vita eterna.

E il fatto che la Madonna, dall’alto del suo seggio di gloria, ci tende le braccia fa sì che noi sentiamo ancor meglio l’invito, e la certezza della sua protezione, l’esempio e il flusso della sua intercessione. Ella viene sempre in nostro soccorso.

È bello vivere, con questa agilità e levitazione spirituale, la vita presente: i dolori, le fatiche, le delusioni, i pesi, le responsabilità cambiano di gravità; e invece di essere ostacoli diventano i gradini per raggiungere il traguardo, la vetta a cui siamo indirizzati.

Che la Madonna ci aiuti: confidiamo in Lei. La visione, la realtà del suo mistero illumini la nostra vita di speranza, di gaudio anticipato, di forza morale, di gioia cristiana; e ripetiamo così con Lei; quanto è grande il Signore! Magnificat anima mea Dominum. Perché Egli ha fatto cose grandi a Maria e anche a noi che siamo, per divina adozione, fratelli di Cristo e fratelli, nella umanità, di Maria Santissima.





Mercoledì, 10 settembre 1969: SANTA MESSA AL VENERATO SANTUARIO DI NEMI

10969

Il Santo Padre si dice innanzi tutto lieto di accompagnare la preghiera della comunità parrocchiale di Nemi, inaugurando le celebrazioni a cui essa dà inizio in onore del Crocifisso e le sacre Missioni che vogliono risvegliare la vita cristiana di tutta la popolazione.

Sua Santità desidera aprire l’incontro con un saluto alla popolazione di Nemi ivi convenuta insieme con tanti altri rappresentanti della diocesi di Albano e della regione dei Castelli Romani; alle autorità civili; al Vescovo Mons. Macario; al Parroco P. Fortunato Ferdinando dei Mercedari, che ha preparato con tanto amore e zelo le celebrazioni centenarie; ai Sindaci di Nemi e di tutte le altre cittadine laziali che gli fanno corona.

Il primo pensiero suggerito dall’incontro è di invitare tutti a guardare il Crocifisso, non solo nell’effigie di Nemi, oggetto di secolare venerazione, ma quello che vediamo in tutti i luoghi pubblici e privati; un’immagine che è familiare, consueta agli sguardi dell’animo cristiano, ma che, purtroppo, spesso non risveglia i sentimenti che dovrebbero essere appropriati all’incontro di Gesù Crocifisso con i cuori umani.

Oggi, invece - nota il Santo Padre, - guardiamo il Crocifisso nella sua realtà veritiera, come la figura di Gesù sofferente, del Figlio di Dio e del Figlio dell’uomo. Alla visione del Figlio di Dio - vien da pensare - dovrebbero essere associati non il dolore, ma la felicità, la pienezza della vita, il trionfo dell’esistenza. Invece, il Signore ci si presenta in sembianze di crudeltà e di abiezione: Egli è stato crocifisso e così abbiamo dinanzi a noi l’immagine del dolore portato al suo vertice nel Rappresentante più alto dell’umanità, nel quale il dolore si è incentrato facendo di Lui crocifisso l’uomo del dolore.

A questo punto Paolo VI osserva che la ripulsa umana al dolore dinanzi al Cristo sofferente è vinta; per un nuovo prodigio di amore nell’animo umano sgorgano non più sentimenti di insofferenza, ma di compassione; e invece di essere respinti dalla paura e dalla naturale ritrosia al patire, ci sentiamo attratti, quasi incantati dalla sua presenza. Nasce così un sentimento che un cuore non cristiano o non conosce o non sa coltivare: quello, appunto, della compassione, della «simpatia» verso il dolore umano, addirittura della dignità del dolore di chi soffre, di chi è nella miseria, di chi è in condizioni tristi. Invece di respingere tutto questo, come faceva il mondo pagano, il mondo cristiano va in cerca di chi soffre; e ciò è dovuto proprio all’attrazione che la Croce esercita sui seguaci del Vangelo e di Gesù, che ci si è presentato così, sanguinante, morente, straziato nell’onore e nelle membra.

In tal modo noi diventiamo cuori compassionevoli, impariamo il culto della sofferenza e sentiamo il dovere di dare ad essa una solidarietà, un soccorso che, appunto, il Crocifisso ha sempre ispirato e che ispira ancora e sempre alla società che si chiama cristiana.

Una seconda riflessione suggerisce altra verità. Per questa stessa compassione il credente può guardare, con fiducia e sollievo, la figura del Crocifisso nelle ore tristi, quando si sente abbandonato, quando il dolore sembra scavare un abisso di incomunicabilità del proprio essere con altre persone. Allora il Crocifisso diventa lo specchio, il tipo ideale dell’uomo; il cristiano vede in Gesù il dolore nella sua espressione più parlante e più invitante per chi soffre; e svanisce tutto ciò che fa disperato il dolore. Allora sentiamo davvero di avere un amico, un collega, che non siamo più soli a soffrire perché Egli ha sofferto prima di noi e più di noi. Il dolore diventa buono, si calma, riacquista una padronanza di sé, un valore contrario alla sua forza naturale, che spinge verso la disperazione.

Seguono alcune domande stimolanti molteplici riflessioni: Perché il Signore ha voluto soffrire così? Che cosa significa la Croce? È il martirio di Cristo un fatto puramente di sangue che abbiamo dinanzi, soltanto un supplizio come purtroppo ce ne sono tanti nell’umanità?

Il Catechismo insegna che la crocifissione di Gesù è un sacrificio, che si distingue in maniera assoluta dal semplice supplizio, con tanti elementi spirituali che trasfigurano il dolore. Gesù ha sofferto per qualche cosa; ci sono delle cause che hanno prodotto la morte dell’Uomo-Dio, cause che vanno ricercate nella loro alta sorgente. Egli ha voluto farsi espiatore, l’Agnello di Dio - come dice il Vangelo e come si ripete nella Messa -, cioè la Vittima, cioè Colui che soffre per gli altri, che dona la propria vita per salvare l’altrui. È morto sulla Croce proprio con l’intenzione di sacrificarsi per noi; e così il Crocifisso è la rivelazione più esplicita, più commovente dell’amore di Dio per il mondo, per tutti, per ciascuno, «per me» come sottolinea con incisiva frase San Paolo «Tradidit semetipsum pro me». Perciò ognuno di noi individualmente è oggetto di una redenzione che deve provocare in noi una grande corrente di riconoscenza e di amore, perché Gesù ci ha salvato morendo.

Non possiamo rimanere indifferenti e non sentirci colpiti da questo amore che si è concluso col dramma della sua morte, un dramma che è la sostanza della nostra fede, della nostra vita religiosa. Avevamo bisogno di chi ci salvasse, di chi morisse per noi: il dramma cieco del peccato - che noi uomini moderni, purtroppo non vogliamo considerare - è una realtà. Eravamo collegati con Dio e siamo diventati da figli dell’amore - come dice la Sacra Scrittura - figli dell’ira, perché noi, creature di Dio, ci siamo rivoltati contro di Lui ed abbiamo commesso il peccato che è la rottura dei nostri rapporti con Dio; è l’offesa che noi siamo stati tristemente capaci di compiere nei suoi riguardi. Ma Egli ha profuso i tesori della sua misericordia facendosi vittima per noi. Ed ecco, allora, che tutta la nostra coscienza si deve muovere per sentire l’intera responsabilità verso Dio, la gravità delle nostre azioni, il senso stesso della nostra vita, la linea del nostro destino che, sotto i raggi della Croce, si illumina di speranza, di gioia. La Passione di Cristo - afferma la liturgia della Messa - invece di essere una sorgente di dolore e di raccapriccio per le sofferenze, le piaghe, il sangue, la crudeltà, l’ingiustizia e la morte, diventa un’effusione di luce benigna e di salvezza.

Il Santo Padre conclude ricordando le lezioni che si irradiano dal Crocifisso. Non certamente l’egoismo, né il piacere che ci dà la vita, ma il sacrificio compiuto con amore. E il mondo ha tanto bisogno di amore e di sacrificio! Rimettiamo in onore il Crocifisso, specialmente nei nostri cuori; e accogliamo gli insegnamenti, che da Lui si irradiano, di fede e di amore, invocandolo per rafforzare ed accrescere la nostra speranza.





Domenica, 14 settembre 1969: VISITA AL SANTUARIO DI NETTUNO

14969

Nella sua Omelia durante la Messa, il Santo Padre, dopo aver ringraziato le autorità religiose e civili per la loro presenza, ed in particolar modo il Vescovo di Albano Mons. Macario, il Sindaco di Nettuno e quelli degli altri centri del Lazio, i Padri Passionisti e tutti coloro che con essi hanno collaborato alla ricostruzione del Santuario, esprime la sua gioia e il suo saluto all’intera comunità presente.

Il Papa ricorda una sua antica visita, nel lontano 1935, al Santuario ora così bene ricostruito, e tanto più caro, perché, vicino all’immagine della Madonna delle Grazie, si nota un’altra figura, eletta e splendente: quella di Maria Goretti, che porta della Madonna il nome e che della Madonna riveste il candore di virtù. La soave Fanciulla sembra quasi che insieme alla Vergine delle vergini accolga l’udienza del popolo di Nettuno e di quanti verranno qui a venerare la Madre di Dio.


UNA VIRTÙ NEGLETTA

Il Santo Padre prosegue intessendo un dialogo con i fedeli, sottolineando che essi si trovano in un santuario, cioè in una chiesa dove si pratica un culto speciale, dove, cioè, si vuol onorare la Madonna sotto un suo particolare titolo e dove si professa una devozione del popolo, oltre che per la Madre di Dio, anche per S. Maria Goretti. Un santuario, perciò, che si distingue dalle altre chiese e che dev’essere custodito dal popolo di Nettuno, come un dono, come un gioiello, con legittimo orgoglio e con la professione di una fedeltà sincera e collettiva, in modo che questa chiesa, nel cuore della città, possa davvero distendere il suo dolce influsso e rendere migliori tutti gli abitanti di Nettuno.

Paolo VI a questo punto si chiede qual è il valore dell’omaggio speciale attribuito al nuovo santuario. Si tratta, in primo luogo, dell’innocenza, della purità, termini che fanno parte della conversazione comune per chi è seguace del Vangelo, pratica le leggi della Chiesa e sa qual è il costume cristiano. Parole simili - osserva Sua Santità - sono consuete tra i cristiani. Ma è così nel mondo? Si parla ancora di purezza, si ha ancora il senso dell’onestà dei costumi, del riguardo che questa virtù esige e porta con sé? Non c’è invece un certo ritegno, quasi una diffidenza e talvolta anche qualche sarcasmo intorno a questo nome e a questa virtù? Il Papa si domanda se la virtù può ancora essere considerata di attualità, se la società odierna ha ancora per essa un culto. Purtroppo la risposta è negativa, poiché lo stesso concetto comune della purezza, è calpestato. È vero, il vizio c’è sempre stato nel mondo e l’irregolarità del costume si accompagna alla debolezza umana; ma è altrettanto vero, che ora predominano l’intenzione, quasi il proposito, addirittura l’astuzia per offendere questa virtù, per rendere facile il disprezzarla e il profanarla.


CANDORE DI ANIMA EROICA

Una volta si aveva ritegno per certe figure, certe parole e situazioni. Adesso, invece, l’offesa alla purezza sembra il tema ordinario dei discorsi, dei racconti, dei romanzi, degli spettacoli, della cosiddetta arte, che pare si adoperi intenzionalmente per turbare questa virtù, e presentarla in una luce falsa a chi vive nella società moderna. Tutti sappiamo come l’uomo, il giovane è impressionabile: gli occhi, i sensi, tutto ciò, insomma, che lo mette in contatto con l’esterno, porta in lui delle forze, degli stimoli, delle provocazioni, quelle che con parola classica si chiamano le tentazioni, alle quali esso è disposto e che possono diventare abituali. Che sarà, dei giovani, dei fanciulli, delle ragazze d’oggi? Essi sono destinati a vivere sotto l’insidia continua, la tentazione sistematica che si presentano assai spesso con suggestive forme, ed immagini, con spregiudicata disinvoltura, con insinuante bravura, proprio per cogliere la debolezza umana e farla deflettere dalla propria resistenza e virtù rettilinea.

Noi qui onoriamo la purezza cristiana, l’innocenza, e vogliamo onorarla anche sotto un aspetto del tutto particolare: quello cioè della purezza coronata addirittura dal martirio: un aspetto che si aggiunge alla sua abituale bellezza e santità e che si può definire drammatico. Ricordiamo la storia di sangue di Maria Goretti: è una testimonianza, cioè martirio per difendere la purezza, nella quale al candore dell’anima si unisce il rosso del sangue, come dice il Te Deum per i martiri: «Te Martyrum candidatus laudat exercitus» e ci dimostra come il valore della purezza è stato dalla piccola Martire presentato al mondo con la prova del sangue: un valore così trascendente, così divino, così obbligatorio, così fulgente che dal martire è posto sullo stesso piano della vita. Maria Goretti, come tutti gli altri martiri, ha affermato che vi sono valori i quali valgono perfino quello della stessa vita: la fede o altre verità, la fedeltà alla Chiesa, la fedeltà alla purezza. Così la vita per il cristiano porta con sé valori più alti della vita stessa, come dice San Paolo, che ci paragona a vasi fragili che portano dentro di sé tesori inestimabili, tesori che valgono più del vaso stesso che li porta: la Grazia di Dio, la presenza del Signore, il contatto con lo Spirito Santo.


SPLENDORI DELLA PUREZZA

Il Papa insiste ancora nel chiedersi che cosa è la purezza, e ne fa una profonda analisi psicologica, affermando che la purezza non interessa soltanto una parte dell’essere umano, come ad esempio l’umiltà e gli atti che ne conseguono, ma interessa l’intero essere, ha un valore vitale, investe lo spirito e il corpo. La purezza rappresenta l’equilibrio, l’armonia tra lo spirito e la carne, tra l’anima e il corpo, tra la ragione e l’istinto, tra la volontà e la passione. L’anima pura, cioè il cristiano puro, ha dentro di sé questa gerarchia, al vertice della quale è la Grazia di Dio che è poi la vita stessa che bisogna custodire dalle insorgenze dell’istinto, triste strascico del peccato originale che, purtroppo, ha scompaginato la psicologia umana, ha reso ribelle nell’uomo il corpo allo spirito. Dovevamo essere delle creature stupende, privilegiate, come è stata la Madonna, e invece troppo spesso diventiamo degli esseri squilibrati, che subiscono impulsi negativi ribelli alla ragione e che, talvolta, avanzano anche col procedere dell’età.

Ma c’è sempre l’aiuto di Dio, come dimostra Maria Goretti, la generosa atleta del Signore, che oppose la fortezza cristiana alla violenza della malvagità crudele, e vinse.

Sua Santità conclude additando nella Madonna Colei che ci aiuta nel cammino verso la vittoria di ogni virtù, del completo ordine morale.






B. Paolo VI Omelie 10869