B. Paolo VI Omelie 28969

Domenica, 28 settembre 1969: INAUGURAZIONE DELLA NUOVA CHIESA DEGLI UCRAINI A ROMA

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Signor Cardinale Giuseppe Slipyj, Arcivescovo Maggiore, Metropolita di Lviv degli Ucraini!

Venerati Fratelli nell’Episcopato, nel Sacerdozio, nella Fede cattolica!

Voi specialmente Ucraini dimoranti fuori del territorio della vostra Nazione, e qua convenuti da varie parti dell’Europa, dell’America e del mondo.

Signori tutti che onorate con la vostra presenza questa solenne cerimonia.

E voi, Romani, che una volta ancora, com’è vostro tradizionale costume, accogliete questi Figli della Nazione Ucraina non già come stranieri, ma come esuli dalla loro patria e concittadini della comune patria romana, tutti lodate, con noi il Signore, che ci fa godere di questa giornata, nella quale si riflettono grandi disegni divini e storici, come le parole, testé pronunciate dal Card. Slipyj, ci lasciano intendere.

Ecco davanti a noi, rievocata da queste reliquie, la figura di un Santo Pontefice, per quanto ci è dato conoscere (cfr. S. IRENEO, Adv. haer. III, 3, 3; P.G. 7, 849), terzo successore di San Pietro, il martire Clemente, Papa nell’ultimo decennio del secolo primo (negli anni dal 92 al 100), molto probabilmente il discepolo di S. Paolo, che l’Apostolo ricorda nella lettera ai Filippesi (4, 3), autore lui stesso d’una celebre lettera ai Corinti, nella quale è sviluppata quell’ecclesiologia, che già S. Paolo aveva delineato, con la dottrina sul corpo mistico di Cristo, e che dimostra come «il diritto divino della gerarchia è costitutivo del cattolicesimo» (BATIFFOL, L’Eglise naissante et le cath., p. 156); San Clemente, diciamo, Papa e Martire, il quale, secondo una tradizione piuttosto tardiva, sarebbe stato relegato al tempo di Traiano nel Chersoneso, e là gettato in mare e morto per la fede. Secondo una successiva tradizione, «S. Cirillo, l’apostolo degli Slavi, nel secolo IX, portò a Roma le reliquie di San Clemente e le depose nella basilica, costruita sul Celio in onore del Santo Pontefice all’epoca di Costantino, quella ricordata da S. Gerolamo» (BOSIO, I Padri Apostolici, 1, 72), quella stessa che raccolse la salma di S. Cirillo nell’869, di cui quest’anno abbiamo celebrato l’undecimo centenario.

Tanto a noi basta per ravvisare nella memoria, oggi qui offerta al nostro culto, di questi due Santi, Clemente e Cirillo, quali vincoli tradizionali e spirituali intercedano fra la Chiesa romana e le Chiese Orientali, e quale significato ecumenico assuma questo sacro edificio, dedicato alla divina Sapienza, a Santa Sofia, a quell’ineffabile titolo, a cui rende nella storia, nell’arte, nel culto incomparabile onore la celeberrima chiesa di Santa Sofia della «nuova Roma», l’antica Bisanzio, la Costantinopoli dei secoli scorsi, la Istanbul della storia contemporanea; il medesimo titolo, come è stato testé ricordato, della cattedrale di Santa Sofia a Kiev, costruita dal principe S. Vladimiro, considerato fondatore del cristianesimo in quelle immense regioni orientali (cfr. AMMANN, Storia della Chiesa Russa, 12).

Questi orizzonti storici, aperti davanti al nostro sguardo e alla nostra venerazione, proiettano la loro luce sopra questa nuova chiesa romana, dedicata a S. Sofia, e ci fanno ammirare un fatto, che pare semplicissimo ed è straordinario, la perenne vitalità, pacifica, ma invitta, della Chiesa cattolica ucraina. Come già in tante Nazioni del mondo, dove i suoi figli fedeli ed operosi attestano questo continuo vigore, espresso in belle, numerose, ordinate comunità e in monumenti sacri e in pie e provvide istituzioni, così oggi a Roma la Chiesa cattolica ucraina innalza i suoi padiglioni, ai quali sembra affidata l’eredità dei secoli passati e promessa quella dei secoli futuri.

Noi siamo lieti di questo avvenimento. Vediamo in esso un favore della divina Provvidenza. Vediamo un segno della comunione ecclesiale. Vediamo un pegno del costante programma di questa Apostolica Sede, tante volte affermato dai nostri Predecessori Leone XIII, Pio XI e Pio XII (cfr. Encl. Orientales, A.A.S., 1946, p. 34), quello cioè di rispettare, anzi di promuovere nella loro genuina integrità quelle Chiese Orientali, che vogliono con questa Chiesa Romana costituire l’unico ovile di Cristo, e che, come la Chiesa Ucraina, le dimostrano fraterna solidarietà, filiale fiducia, amorosa collaborazione per l’affermazione e per la diffusione del nome cristiano nel mondo.

Noi vogliamo esprimere la nostra riconoscenza al Signore nostro Gesù Cristo, Capo sommo e Pastore sovrano della sua Chiesa. E non possiamo tacere, insieme con la nostra Sacra Congregazione per le Chiese Orientali, la nostra compiacenza alla venerata persona del Cardinale Slipyj, che siamo lieti di riconoscere protagonista di questa impresa, la quale attesta su questo suolo romano la duplice tradizione della Chiesa ucraina cattolica, quella religiosa, con l’erezione di questo nuovo tempio, e quella culturale, con la fondazione, incipiente, ma promettente e fin d’ora significativa, d’una nuova Università cattolica, caratterizzata special mente dagli studi della storia e del pensiero dell’Ucraina. Noi abbiamo più d’una volta testimoniato la nostra stima e la nostra devozione a questo illustre rappresentante della Chiesa Ucraina, vedendo in lui un degno successore di quell’insigne Pastore della Chiesa metropolitana d i Leopoli, che fu l’Arcivescovo Andrea Szeptyckyj (1900-1944), e che noi avemmo la fortuna, nel lontano 1923, in circostanze quanto mai singolari, di avvicinare. E siamo stati anche noi rallegrati quando la intercessione del nostro venerato Predecessore Papa Giovanni XXIII valse ad ottenere la sua liberazione dopo molti anni di deportazione, e abbiamo sempre auspicato che la sua dimora vaticana sia per lui serena e feconda di buona operosità, e sia per Roma esempio di intrepida e pastorale fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa.

A lui, a quanti lo hanno aiutato nella difficile impresa che oggi noi abbiamo la fortuna di inaugurare, la nostra riconoscenza e la nostra Benedizione.





Cappella Sistina - Sabato, 11 ottobre 1969: ASSEMBLEA STRAORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI

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Fratelli!

Come ben sapete, il recente Concilio ha messo in migliore evidenza il carattere comunitario della Chiesa, quale aspetto costitutivo fondamentale di essa. Questo, considerato da solo, non dice tutto della Chiesa, che in una più adeguata osservazione appare come corpo mistico di Cristo, compaginato in unità e in distinzione di organi e di funzioni; ma tuttavia la comunione, nel suo duplice riferimento di comunione in Cristo con Dio e di comunione in Cristo con i credenti in lui e virtualmente con tutta l’umanità, ha interessato in modo particolare la meditazione del Concilio, specialmente quando ha messo in rilievo la comunione che intercede nell’Episcopato; e ricordando che l’Episcopato legittimamente succede agli Apostoli, e che questi costituivano un ceto particolare, scelto e voluto da Cristo, è parso felice proposito riprendere il concetto e il termine di collegialità, riferendoli all’ordine episcopale. «Come San Pietro e gli altri apostoli, dice il Concilio, per volontà del Signore, unum Collegium apostolicum constituunt, pari ratione Romanus Pontifex, successor Petri, et Episcopi, successores Apostolorum, inter se coniunguntur» (Lumen Gentium,
LG 22).

Così che noi per primi abbiamo desunto un grato dovere da questa rievocazione del disegno divino circa l’ufficio apostolico, che al Popolo di Dio annuncia il messaggio della fede e conferisce i misteri della grazia, e lo guida nel suo cammino sulla terra e nel tempo, il dovere, diciamo, di conferire più ampia e più operante efficienza al carattere collegiale dell’Episcopato, essendo in ciò guidati dalla concezione basilare della fraternità, che unisce in comunione tutti i seguaci di Cristo, e che nei Vescovi si arricchisce di maggiore pienezza, quali eredi di quei titoli, che Cristo stesso attribuì ai discepoli eletti, da lui chiamati Apostoli (Lc 6,13), confidenti del mistero del regno di Dio (Mc 4,11), suoi amici (Jn 15,14-15), suoi testimoni (Ac 1,8), e destinati alla grande missione d’annunciare e d’attuare il Vangelo (Mt 28,19), in spirito d’umiltà (Jn 13,14) e di servizio (Lc 22,26), «in opus ministerii, in aedificationem corporis Christi» (Ep 4,12).

Noi crediamo d’aver già dato prova di questa nostra volontà di dare pratico incremento alla collegialità episcopale, sia istituendo il Sinodo dei Vescovi, sia riconoscendo le Conferenze Episcopali, sia associando alcuni Fratelli nell’Episcopato e Pastori residenti nelle loro Diocesi al ministero proprio della nostra Curia Romana; e, se la grazia del Signore ci assiste e la fraterna concordia faciliterà i nostri mutui rapporti, l’esercizio della collegialità in altre forme canoniche potrà avere più ampio sviluppo. Le discussioni ‘del Sinodo straordinario, definendo la natura e i poteri delle Conferenze Episcopali, e i loro rapporti, sia con questa f Sede apostolica, sia fra loro stesse, potranno illustrare l’esistenza e l’incremento della Collegialità episcopale in termini canonici opportuni, e nella conferma della dottrina dei Concili Vaticano I e Vaticano II circa la potestà del successore di S. Pietro e di quella del Collegio dei Vescovi con il Papa suo Capo.


VINCOLO SPECIALE

Ma prima d’iniziare i lavori del prossimo Sinodo, sostiamo un momento, Fratelli, nella celebrazione del mistero eucaristico, punto culminante dell’unità del corpo mistico, per ricordare a noi stessi non tanto l’aspetto giuridico della collegialità, né le espressioni in cui essa si è storicamente manifestata, e nemmeno - ciò che più conta, ma che noi supponiamo presente alle nostre anime, il pensiero di Cristo, che la concepì e la istituì -, ma il valore morale e spirituale, che la collegialità deve assumere in ciascuno di noi, e di noi tutti insieme.

Ecco, riflettiamo: esiste fra noi, eletti alla successione degli Apostoli, un vincolo speciale, il vincolo della collegialità. Che cosa è la collegialità se non una comunione, una solidarietà, una, fraternità, una carità più piena è più obbligante di quanto non sia il rapporto di amore cristiano fra i fedeli o fra i seguaci di Cristo associati in altri diversi ceti? La collegialità è carità. Se l’appartenenza al mistico corpo di Cristo fa dire a San Paolo: «si quid patitur unum membrum, compatiuntur omnia membra: sive gloriatur unum membrum, congaudent omnia membra» (1Co 12,26), quale dev’essere la vibrazione spirituale della comune sensibilità per l’interesse generale ed anche particolare della Chiesa in coloro che nella Chiesa hanno maggiori doveri? La collegialità è corresponsabilità. E quale più chiara manifestazione del carattere di suoi discepoli autentici volle il Signore che avesse il gruppo degli Apostoli assisi alla cena dell’ultimo addio se non quello d’una mutua dilezione : «in hoc cognoscent omnes quia discipuli mei estis, si dilectionem habueritis ad invicem» (Jn 13,35). La collegialità d una palese dilezione che i Vescovi devono alimentare fra loro. E siccome la collegialità inserisce ciascuno di noi nel circolo della struttura apostolica destinata alla edificazione della Chiesa nel mondo, essa ci obbliga ad una carità universale. La carità collegiale non ha confini. A chi, finalmente, se non agli Apostoli fedeli, il Signore ha rivolto le sue estreme raccomandazioni, sublimate nell’orazione estatica che conclude i discorsi finali dell’ultima cena: «ut unum sint» (Jn 17,23)? La collegialità è unità.

Così che, noi pensiamo, trattando dei rapporti dei Vescovi raggruppati in queste nuove associazioni territoriali, alle quali è dato il nome di Conferenze Episcopali, come pure delle relazioni delle Conferenze stesse con la Sede apostolica e fra di loro, una considerazione deve sulle altre primeggiare nei nostri animi, quella della carità, che nella unità della fede deve informare la comunione gerarchica della Chiesa.


FRATERNA COMUNIONE

Siano pertanto su questi due principi, la carità e l’unità, orientate le linee direttive del progresso Post-conciliare della comunione ecclesiale a quel superiore livello ch’è segnato dalla collegialità episcopale. Due sembrano a noi queste linee: una intende tributare onore e fiducia all’ordine episcopale; e sarà nostro studio riconoscere in più equa misura ai nostri Fratelli nell’Episcopato quella pienezza di prerogative e di facoltà che loro deriva dal carattere sacramentale della loro elezione alle funzioni pastorali nella Chiesa e dalla loro effettiva comunione con questa Sede apostolica; né questa linea sarà frenata o interrotta, se l’applicazione del criterio di sussidiarietà, a cui essa è rivolta, sarà moderata con umile e saggia prudenza in modo che il bene comune della Chiesa non sia compromesso da molteplici e soverchie autonomie particolari, nocive all’unità e alla carità, che devono fare della Chiesa «un Cuor solo ed un’anima sola» (Ac 4,32) e fautrici di emulazioni ambiziose e di chiusi egoismi; come nemmeno sarà smentita se l’altro criterio del pluralismo dovrà essere precisato in modo ch’esso non tocchi la fede, che non può ammetterlo, né la disciplina generale della Chiesa, che non consente l’arbitrio e la confusione a danno della armonia fondamentale del pensiero e del costume nella compagine del Popolo di Dio, e della stessa impegnativa collegialità.


CORRESPONSABILITÀ

L’altra linea, generata anch’essa dall’alta stima, che dobbiamo alla riconosciuta collegialità episcopale, che sarà parimente da noi lealmente perseguita, conduce l’Episcopato ad una sua più organica partecipazione e ad una sua più solidale corresponsabilità nel governo della Chiesa universale. Noi confidiamo che ciò avvenga, come con gaudio e fiducia sentiamo da molti ripetere, a comune vantaggio, a sollievo e sostegno della nostra accresciuta e gravosa fatica apostolica, e più chiara testimonianza dell’unica fede e della sincera carità, che devono essere al vertice gerarchico della Chiesa più che altrove ed oggi più che mai testimoniate in nuovo splendore e in maggiore vigore. E già, come dicevamo, noi siamo incamminati per questa via, e per essa, con l’aiuto di Dio e col vostro favore, venerati Fratelli, proseguiremo. Ma sia chiaro anche a questo proposito che il governo della Chiesa non deve assumere gli aspetti e le norme dei regimi temporali, oggi guidati da istituzioni democratiche, talvolta eccessive, ovvero da forme totalitarie contrarie alla dignità dell’uomo che vi è soggetto: il governo della Chiesa ha una sua forma originale che mira a riflettere nelle sue espressioni la sapienza e la volontà del suo divino Fondatore. Ed è a questo riguardo che noi dobbiamo ricordare la somma nostra responsabilità, che Cristo ci ha voluto affidare consegnando a Pietro le chiavi del regno e facendo di lui la base dell’edificio ecclesiastico, a lui commettendo un delicatissimo carisma, quello di confermare i Fratelli (Lc 22,32), da lui ricevendo la più alta e più ferma professione della fede (Mt 16,17 Mt 10 Mt 6,68), e a lui domandando una singolarissima e triplice confessione d’amore da tradursi in primaria virtù di carità pastorale (Jn 21,15 ss.). Responsabilità, che la Tradizione e i Concili imputano al nostro specifico ministero di Vicario di Cristo, di Capo del Collegio apostolico, di Pastore universale e di Servo dei servi di Dio, e che non potrà essere condizionata dall’autorità pur somma del Collegio Episcopale, la quale noi per primi vogliamo onorare, difendere e promuovere, ma che tale non sarebbe se ad essa mancasse il nostro suffragio.

Carità e unità. Ecco la nostra meditazione all’apertura del Sinodo straordinario sul quale con questa concelebrazione del sacrificio eucaristico imploriamo il lume e l’assistenza dello Spirito Santo.

Non è forse questo il momento, dedicato alla riflessione e all’affermazione della collegialità, nel giorno della Divina Maternità di Maria Santissima, di raccoglierci con animo intimamente commosso nel ricordo degli Apostoli nel Cenacolo, i quali, in attesa del Paraclito, erano «assidui e concordi nella preghiera insieme . . . con Maria, Madre di Gesù» (Ac 1,14)? E, in tale unione di spiriti, non è ancor questo il momento di far nostre le acclamazioni della Liturgia del Giovedì Santo? «Ubi caritas et amor, Deus ibi est. Congregavit nos in unum Christi amor. Exsultemus et in Ipso iucundemur. Timeamus et amemus Deum vivum. Et ex corde diligamus nos sincero».

Amen. Amen.





Sabato, 25 ottobre 1969: ASSEMBLEA STRAORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI

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Basilica Liberiana di Santa Maria Maggiore



Venerati Fratelli e Figli tutti carissimi in Cristo!

Nessuno di noi, certamente, si stupirà di questa nostra «statio», durante il Sinodo Straordinario dei Vescovi, alla Basilica di Santa Maria Maggiore, a questo storico e venerato Santuario della pietà mariana, tanto caro alla Chiesa di Roma; e ciascuno di noi sentirà piuttosto rinascere dentro di sé uno spontaneo bisogno di effondere in pienezza la propria devozione alla Madonna, in un momento nel quale la nostra riflessione sulla nostra vocazione all’appartenenza al Corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa, c’invita alla memoria e alla venerazione di Colei che fu del Corpo fisico del Figlio di Dio, fattosi Figlio dell’uomo, la beatissima Madre (cfr. S. AGOSTINO, P.L. 40, 399).

Può avvenire talora che anche noi rivestiti del sacerdozio di Cristo, assorbiti nell’intento di giustificare il culto cattolico dovuto a Maria, nella controversia e nell’apologia verso coloro che ne impugnano la legittimità, o ne attenuano le ragioni, siamo solleciti di addurre i titoli biblici, teologici, tradizionali, affettivi, con i quali si configura la devozione alla Vergine, e lasciamo qualche poco languire l’espressione vissuta e filiale della nostra pietà verso di lei: trovando forse oggi meno facile di un tempo la conversazione pia e cordiale con Maria, che per essere Madre di Cristo secondo la carne è pure spiritualmente Madre nostra, Madre della Chiesa. Ma ecco che noi, radunati nel Sinodo, o attratti intorno alla sua celebrazione e ai temi che lo rendono di comune interesse, abbiamo sentito nei nostri animi un impulso felice, che ora ci guida a concludere l’assemblea sinodale vicino a Maria, sotto lo sguardo materno di lei.


CULTO MARIANO

Perciò, ragionando noi ancora sulla Chiesa, sulla sua essenza di comunione gerarchica, sul fatto e sul mistero della potestà generatrice conferita ad alcuni eletti e ministri del Popolo di Dio, abbiamo anche questa volta avvertito il rapporto che corre fra Maria e la Chiesa, e specialmente fra quelle membra della Chiesa, che nella Chiesa hanno le funzioni particolari di esprimere col ministero della parola il Verbo di Dio, di effondere per via sacramentale lo Spirito vivificante e santificante, di esercitare autorevolmente il servizio della guida pastorale dei fedeli nel ,pellegrinaggio temporale ed escatologico, cioè fra noi Sacerdoti e Pastori, e Maria Santissima. A causa di questo rapporto siamo qui questa sera adunati.


LA MADONNA E LA CHIESA

Un rapporto di analogia: Maria è la Madre di Cristo, la Chiesa è la Madre dei cristiani; e quanto più questo aspetto della Chiesa si fa evidente, quanto più il mistero dell’Incarnazione dal suo momento epifanico, Betlemme, si riflette nella sua estensione storica, in ogni Chiesa locale e in questa Chiesa Romana, specialmente in questa Basilica, chiamata «la Betlemme di Roma» (Grisar), allora tanto più facile e tanto più doveroso diventa l’accostamento fra Maria e la Chiesa, il confronto, la parentela. Qui ricordiamo tutti un pensiero basilare della teologia e della devozione mariana, un pensiero antico, che il Concilio ci ha richiamato (Lumen Gentium.
LG 63), quello di S. Ambrogio, che definisce Maria il «typus Ecclesiae» (P.L. 15, 1555) e ancora: «figura Ecclesiae» (P.L. 16, 326), a cui S. Agostino fa eco: «Ipsa (Maria) figuram in se sanctae Ecclesiae demonstravit» (P.L. 40, 661); perché la generazione virginale di Gesù è misticamente riprodotta in quella materna e soprannaturale della Chiesa rispetto ai fedeli. Parallelismo questo che ancor più ci avvicina a Maria: tutta la pienezza di grazia che fece di Maria la tota pulchra, la santissima, l’immacolata, non ha qualche riscontro nella ricchezza di grazia, ch’è stata versata sopra di noi, quando la sacra ordinazione ci ha assimilati a Cristo nei carismi della santità e della potestà ministeriale? Sarà sempre bello se noi faremo di Maria il nostro specchio sacerdotale, speculum iustitiae . . .

La meditazione si prolunga senza fine, e dalla sfera mistica passa a quella morale. Maria è il modello della Chiesa (cfr. Lumen Gentium, LG 53). Ella «racchiude in eminenza tutte le grazie e le perfezioni» della Chiesa (Olier); quelle che noi dovremmo e vorremmo avere. Maria è maestra. È maestra a noi, che abbiamo l’ufficio d’essere, con la dottrina e con l’esempio, maestri del Popolo di Dio. E che cosa c’insegna Maria? Oh! lo sappiamo: tutto il Vangelo.



AMORE, FEDE, SPERANZA

Ma a noi, specialmente? oggi?

Lo studio si fa preghiera. Maria! insegna a noi l’amore; Maria ottiene l’amore; Maria, che ha concepito Cristo per opera dello Spirito Santo, l’Amore-Dio vivente, presiede alla nascita della Chiesa nel giorno della Pentecoste, quando il medesimo Spirito Santo invade il gruppo dei discepoli, primi fra questi gli Apostoli, e vivifica nell’unità e nella carità il corpo mistico e storico dei cristiani, l’umanità redenta. Siamo qua venuti per implorare, mediante l’intercessione di Maria, Ia perenne continuazione dello stesso miracolo, ad attingere da lei, come da sorgente, un fiume nuovo di Spirito Santo. Perché abbiamo riscoperto la comunione ecclesiale, che al livello apostolico chiamiamo collegialità, cioè un’intercomunione di carità e di efficienza apostolica, che noi vogliamo in questa fatidica età del mondo e della Chiesa meglio onorare e rendere meglio operante nel sentimento e nell’azione, mediante l’amore; quell’Amore che diede a Maria la virtù di generare Cristo, e che imploriamo per noi affinché siamo capaci di compiere la nostra missione generatrice di Cristo nel mondo. E innanzi tutto per noi lo domandiamo questo Amore, che in noi discendendo grazia si chiama e da noi risalendo in un «fiat», che fa eco a quello di Maria, è la nostra oblazione, è quella carità che speriamo non mai si estingua negli anni della vita mortale affinché arda per sempre in quella immortale. Maria, l’amore chiediamo, l’amore a Cristo, l’amore unico, l’amore sommo, l’amore totale, l’amore dono, l’amore sacrificio; insegna a noi, ciò che già conosciamo e già umilmente e fedelmente professiamo: ad essere immacolati, come Tu lo sei; ad essere casti, cioè fedeli a quel tremendo e sublime impegno, ch’è il nostro sacro celibato; oggi, ch’è così discusso da molti e incompreso da alcuni. Sappiamo che cos’è: è, ancor più che uno stato, un atto continuo, una fiamma sempre ardente; è virtù sovrumana, e perciò bisognosa di soprannaturale sostegno. Tu, o Maria, sempre Vergine, facci ora comprendere non solo la paradossale essenza di questo stato, proprio del Sacerdozio latino, e per l’ordine episcopale e lo stato religioso anche delle Chiese d’Oriente, ma il valore: l’eroicità, la bellezza, la letizia, la forza; la forza e l’onore d’un ministero senza riserva, tutto teso alla dedizione e all’immolazione nel servizio degli uomini; la crocifissione della carne (Ga 5,24), l’assoluta milizia del regno di Dio; Maria, aiutaci a capire; a capire di nuovo questa misteriosa chiamata all’indivisibile sequela di Cristo (cfr. Mt. Mt 19,12). Aiutaci ad amare così.

E la preghiera continua. Abbiamo notato come le pagine del Concilio, a Te dedicate, o Virgo fidelis, riconoscono in Te una prima virtù; la prima virtù, che a Dio ci unisce, la fede. Chi penetra nel profondo della diagnosi dei bisogni di quest’ora tempestosa nella società, e per riflesso nella Chiesa di Dio, vede che ciò che più occorre alla Chiesa per essere in comunione con Cristo, e quindi con Dio e con gli uomini, prima d’ogni altra cosa è la fede, la fede soprannaturale, la fede semplice, piena e forte, la fede sincera, attinta alla sua fonte verace, la Parola di Dio, e al suo canale indefettibile, il magistero istituito e garantito da Cristo, la fede viva. O Tu, «beata che hai creduto» (Lc 1,45), confortaci col Tuo esempio, ottienici questo carisma. Come saremmo seguaci di Cristo, se il dubbio, se la negazione mortificasse la nostra certezza? (cfr. Jn 6,67). Come potremmo essere testimoni, come apostoli, se la verità della fede si oscurasse nei nostri spiriti?

E poi, o Maria, chiederemo al Tuo esempio e alla Tua intercessione la speranza. Spes nostra, salve! Anche di speranza abbiamo bisogno, e quanta! Tu sei, Maria, come conclude il Concilio la sua grande lezione sulla Chiesa di Dio (Lumen Gentium, LG 68), immagine e inizio della Chiesa, la quale dovrà avere il suo compimento nell’età futura, così sulla terra, risplendi ora innanzi al Popolo di Dio quale segno di certa speranza e di consolazione, o Mater Ecclesiae!





Domenica, 16 novembre 1969: XXV DOMENICA DOPO LA PENTECOSTE

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Il brano del vangelo letto durante la Santa Messa è quello della XXV domenica dopo la Pentecoste, corrispondente, quest’anno, alla VI dopo l’Epifania.

Esso ci presenta due parabole, cioè similitudini, confronti, immagini. La prima è quella del granello di senape, seminato in campo adatto. Benché la più minuta di tutte le semenze, essa cresce e la sua pianta è maggiore di tutti gli erbaggi: anzi diventa un albero e gli uccelli dell’aria vanno a porre i loro nidi sui suoi rami. La seconda immagine è nella piccola porzione di lievito, che una donna rimescola con tre staia di farina, fintanto che tutta sia fermentata. Possiamo benissimo immaginare l’operosa massaia in atto di preparare la pasta che diventerà poi il buon pane della mensa.


RIVELAZIONE DEL REGNO DI DIO

Si tratta, è ovvio, di due immagini, assai modeste ma oltremodo esatte e adeguate. In esse si rispecchia stupendamente l’arte di Cristo nell’enunciare le cose grandi, misteriose, che ci superano e ci avvincono, giacché rivelano alla nostra mente ed al nostro cuore il Regno di Dio. Tale è la misteriosa, imponente realtà che forma il tema dell’intera predicazione evangelica e che, in queste, come in altre similitudini, viene come dipinta e presentata all’intelletto ed alla comprensione di chi ascolta. Anche se si tratta di uditori inesperti e impreparati, si può essere certi che la narrazione diventa pensiero capace d’essere ospitato in ogni anima, in ogni uomo.

Il Regno di Dio è l’ordine che l’Onnipotente vuole stabilire tra gli uomini; è il rapporto nuovo che Egli intende instaurare tra Sé e le creature. Questo rapporto deve ammettere, anzitutto, una ragione d’essere, la causalità, la presenza agente di Dio tra gli uomini. Per spiegarla occorrerebbe lunga dissertazione: oggi però noi ci limitiamo a cogliere i punti essenziali.

Con mirabile semplicità, Gesù scolpisce e dice: pensate a un piccolissimo seme e al suo sviluppo; pensate a un tenue fermento che crea sviluppo nell’ambiente in cui è posto. Sono paragoni tenui, quasi insignificanti; eppure da essi si manifesta in modo splendente ciò che è il Regno di Dio.

Che cosa avranno capito quanti erano intorno al Signore durante la sua istruzione? Forse non tutti hanno potuto completamente afferrare il profondo significato delle parabole; ma noi, oggi, possiamo comprendere assai meglio se ricordiamo, istruiti dalla storia e dalla esperienza, come la parola di Dio si sia esplicata ed attuata attraverso i secoli.

La storia e le esperienze degli uomini del nostro tempo ci insegnano come ciò sia avvenuto. Il Signore sapeva benissimo che il suo grande programma di trasformazione del mondo si iniziava proprio con una forma modesta, tenue, quasi insignificante. Allorché gli uomini fanno i loro progetti e guardano il panorama che hanno preparato per la loro attività, quanti calcoli non devono fare sui mezzi, i tempi, le cause e tutto il complesso della meccanica, diremmo, temporale, umana, da cui si ripromettono effetti proporzionati. 11 Signore invece nel suo insegnamento gioca concettualmente con la sproporzione, con lo squilibrio; le piccole cose producono effetti enormi; c’è una corrispondenza tra il principio umilissimo e il risultato glorioso, finale. Che cosa è avvenuto, perché una così grande risultanza sia scaturita da un così umile inizio?


L’AZIONE PRODIGIOSA DEL SIGNORE

Qui appunto è il mistero del Regno di Dio. Sono intervenute una causa, una forza, una presenza agente; è intervenuto Dio che crea il suo Regno. Gli uomini non fanno, in realtà, che mettere delle condizioni, preparare delle circostanze, dire un sì che si arrende alla infusione mirabile, e può definirsi miracolosa, dell’azione di Dio. Tutte le cose, che hanno lo stampo di Dio, l’impronta del Cristianesimo, pi-esentano questa fenomenologia; possono cioè cominciare molto umilmente, possono sfidare il confronto con le difficoltà perché hanno in se stesse queste modeste entità iniziali, un germe, una forza virtuale, una capacità espansiva, proprio come il piccolo seme che ha in se stesso una virtù di crescita e di espansione, che da un piccolissimo principio produce una vegetazione, una pianta che sembra impossibile sia nata da quel piccolo germe.

Così è il Cristianesimo: e la storia ce lo afferma. Chi avrebbe detto che dei dodici, umili, poveri pescatori - d’uno di essi le sacre Spoglie riposano sotto questo altare - sarebbe nata nientemeno che la trasformazione del mondo e la civiltà cristiana; che ancora dura e sembra, anzi, essere agli inizi della sua capacità espansiva e missionaria? Ciò può essere applicato anche alle altre opere. Quando un germe divino agita i principii, anche se questi sono umili e sproporzionati, non c’è da aver timore: l’esito non mancherà. La forza delle idee potenti, vere, vive; la forza dei principii: questo, soprattutto è quello che noi dobbiamo cercare e che noi veniamo a implorare da Cristo.


BISOGNA ARRIVARE AL CUORE

E ancora questa mirabile fecondità non deve essere esterna se infatti restasse fuori delle anime, rimarrebbe inerte. Noi assistiamo, proprio nella nostra scena moderna, a uno sfoggio enorme di propaganda, di « réclame », di stordimenti, diremmo, di immagini e di pubblicità. Fino a quando la grande manifestazione del principio divino resta fuori di noi e ci lascia indifferenti, spettatori passivi, tutto è vano. Ma quando qualche idea, qualche principio da questa manifestazione entrano dentro di noi, allora fermenta, incomincia ad agire, diventa forza energetica che può generare davvero cose grandi e nuove. Tutto ciò ci indica che se vorremo ottenere risultati grandi, specialmente se ci è davanti il Regno dei Cieli, il Cristianesimo e questa civiltà che ci preme di portare avanti nelle sue migliori espressioni, dobbiamo badare allo spirituale, alla inserzione, cioé delle verità che professiamo, dei principii che vogliamo servire nel cuore degli uomini, non certo nella fantasmagoria sensibile e soltanto esterna della propaganda.

Bisogna arrivare al cuore, mettere qualche cosa nell’interno dove il fermento agirà da sé. Tutto ciò conferma come la preghiera sia imparentata con il lavoro e come non possiamo pretendere dalle nostre opere grandi risultati se non le abbiamo prima vissute, amate e sofferte e se prima di affidarle alle nostre mani non le abbiamo assicurate nel colloquio con Dio, il Quale veramente può dare forza e capacità realizzatrici a ogni nostra impresa.

Procedere, dunque - questo l’invito del Papa - con risoluto vigore. Le ricordate similitudini evangeliche invitano tutti a ripensare che il Regno di Dio, cioè tutto quello che di bene e di grande l’uomo si aspetta né può cominciare da piccole cose; ne bisogna sgomentarsi per l’esiguità del principio, per la sproporzione materiale, economica delle forze, quando è certo che l’uomo ha in sé l’idea, la verità, la fede; e Dio è presente in lui. Perciò l’attività dell’uomo non può limitarsi ad un’opera esteriore, ma deve avere una sua vigilia, una sua preparazione interiore. Così soltanto la parola di Dio seminata nel cuore dell’uomo, come il grano di senape e come il lievito di cui parla il Vangelo, produrrà da sé i suoi effetti che saranno grandi, gloriosi e benefici.





B. Paolo VI Omelie 28969