B. Paolo VI Omelie 19366

Sabato, 19 marzo 1966: CONSACRAZIONE EPISCOPALE DI QUATTRO PRESULI DELLA CURIA

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Festività di San Giuseppe, Patrono della Chiesa universale


Signori Cardinali!

Venerati Fratelli! e diletti Figli!

Il conferimento dell’ordine episcopale, che abbiamo ora compiuto, avviene nel giorno dedicato al culto di San Giuseppe, l’umile, silenzioso, fedele e ammirabile padre putativo di nostro Signore Gesù Cristo, lo sposo purissimo della beata Vergine Maria, il Protettore della santa Chiesa, modello e patrono dei Lavoratori cristiani. La luce evangelica di questo Santo, che più d’ogni altro conobbe, servì e protesse i misteri dell’infanzia di Cristo e della immacolata sua madre, si proietta sopra l’avvenimento, che noi stiamo celebrando, e ci invita a penetrarne il senso recondito, a gustarne il divino disegno, a derivarne la cristiana virtù, ad accettarne le doverose risultanze.

Come quella di lampada domestica, che diffonde lume modesto e tranquillo, ma provvido ed intimo, e fuga l’oscurità della notte, invitando alla veglia pensosa e laboriosa, conforta il tedio del silenzio e il timore della solitudine, vince il peso della stanchezza e del sonno, e sembra discorrere con voce piana e sicura dell’alba che verrà, così la luce della pia figura di San Giuseppe, pare a Noi, diffonde i suoi raggi benefici nella «casa di Dio», che è la Chiesa; la riempie degli umanissimi ed ineffabili ricordi della venuta nella scena di questo mondo del Verbo di Dio, fatto uomo per noi e come noi, e vissuto sotto la protezione, la guida e l’autorità del povero artigiano di Nazareth; e la rischiara del suo incomparabile esempio, quello che caratterizza il santo tra tutti fortunato per tanta comunione di vita con Gesù e con Maria, quello cioè del suo servizio a Cristo, del suo servizio per amore. Questo è il segreto della grandezza di San Giuseppe, che ben si accorda con la sua umiltà: l’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’Incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; l’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra famiglia, per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro; l’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sé, del suo cuore e d’ogni sua capacità, nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa, suo figlio nominale e figlio di David, ma in realtà figlio di Maria e figlio di Dio. Se mai a qualcuno si conviene questa insegna evangelica, che fa la gloria di Maria, la profetessa del «Magnificat», quella del Precursore, quella, si può dire, d’ogni santo: «servire per amore», a S. Giuseppe la dobbiamo attribuire, il quale ci appare da essa rivestito, come del profilo che lo definisce, come dello splendore che lo glorifica; servire Cristo fu la sua vita, servirlo nell’umiltà più profonda, nella dedizione più completa, servirlo con amore e per amore.

Ora, venerati Fratelli, che Noi abbiamo testé avuto la fortuna di rivestire del carattere episcopale, e voi, Fratelli e Figli, che qui fate loro corona, non è forse questa stessa divisa, che da sempre, ma da oggi in avanti, dopo il Concilio, più che mai e massimamente, conviene a chi è, scelto per essere Vescovo nella Chiesa di Dio? Così grande cosa è l’episcopato, che vari sono gli aspetti, con cui esso a noi si presenta: il nostro occhio umano (ma ben si può dire anche del nostro più penetrante occhio cristiano) subito resta sorpreso e quasi abbagliato dalla luce, vogliamo dire dalla dignità, che rifulge nella persona e nella funzione del Vescovo.

Avete or ora sentito le parole del canto della consacrazione e della forma stessa, con cui questo grado supremo del sacramento dell’ordine è conferito: vi abbiamo qualificati, o venerati Fratelli or ora consacrati, come ornamentis totius glorificationis instructos, rivestiti delle insegne della più alta dignità; e così è per coloro che sono autentici successori degli Apostoli, che hanno ricevuto il sacerdozio di Cristo nella più ampia misura comunicabile ad uomini, che sono inondati dallo Spirito Santo con una speciale grazia santificante, che sono segnati da un carattere indelebile, per cui sono distinti dagli altri fedeli e dagli altri ministri dell’altare e abilitati a funzioni esclusive e vitali per Ia conservazione storica e visibile e per la santificazione del corpo mistico di Cristo, e che come suoi legati (cfr.
2Co 5,20) parlano ed operano, «in persona Cristi», quasi la sua divina persona in essi fosse vitalmente presente: dignità maggiore non esiste su questa terra; ed è spiegabile come sempre la tradizione della Chiesa e la coscienza del popolo cristiano abbiano attribuito ai Vescovi tanti segni di venerazione e d’onore.

Né minore ammirazione suscita nel credente un altro aspetto della figura del Vescovo, considerata non solo nel suo essere personale, ma nelle sue funzioni, nelle potestà cioè che le sono conferite e che la costituiscono: egli è il testimonio ed il maestro della fede, egli è l’apostolo, il missionario, l’araldo della Parola di Dio, è il messaggero del Vangelo, è il predicatore, il maestro, il profeta nella Chiesa; egli è la guida, il tutore, il rappresentante, il giudice, il capo del popolo cristiano; in una parola, che tutto riassume, è il Pastore. Il Vescovo è il Pastore. Aspetto questo familiare quasi, tanto coincide con il consacrato all’ufficio episcopale, e tanto riflette ben note immagini evangeliche; ma aspetto stupendo, come quello che Cristo a se stesso attribuì e rivendicò: «Io sono il buon Pastore» (Jn 10,11), e che Egli a Pietro principalmente conferì; e a tutti gli Apostoli, ai «Seniori», come scrive S. Pietro stesso (1P 5,2) è stato esteso.

Ma vi è nell’Episcopato un terzo aspetto, che la coscienza della Chiesa del nostro tempo mette in maggiore evidenza: è la ragione finale, il perché dell’Episcopato, lo scopo del suo essere e della sua funzione: il servizio cioè della Chiesa. Il Vescovo è il servitore per eccellenza della Chiesa. Tale si definisce Cristo stesso: «Non sono venuto per essere servito, ma per servire» (Mt 20,28); servo e ministro San Paolo chiama tanto sovente se stesso «. . . cum liber essem ex omnibus, omnium me servum feci, ut plures lucrifacerem» (1Co 9,19); e tale, fra tutti, S. Agostino non cessa di qualificare il Vescovo : «Debet enim qui praeest populo, prius intellegere se servum esse multorum . . . Talis debet esse bonus episcopus; si talis non erit, episcopus non erit» (Sermo de ord. ep.; Morin, Miscell. agostiniana 1, 563, ss.).

E non è con un’accentuazione di tale concetto che colui al quale nella Chiesa di Dio è riconosciuta la missione di Vescovo universale presenta se stesso: servus servorum Dei? Non è meraviglia perciò se i più assidui e valenti studiosi moderni della teologia sull’Episcopato su questo aspetto fermano principalmente la loro attenzione: «Il tema della gerarchia come consistente essenzialmente in un servizio corre attraverso tutta la tradizione cristiana... La maniera per cui, nel Vangelo, la dignità dell’apostolato è legata alla Persona di Gesù e ad una missione da lui ricevuta, significa che questa dignità è data come un incarico e un dovere, non formalmente, né dapprima come un diritto, che apparterrebbe all’apostolato . . . È un dovere, non un diritto» (Congar, L’Episcopat, p. 67 ss.). Anche la grazia, conferita al Vescovo mediante la consacrazione, è, sì, «un dono che lo arricchisce interiormente, ma innanzitutto per il servizio degli altri» (Lecuyer, ib. 787).

Del resto voi, neo consacrati, dopo aver sentito il peso del libro dei Santi Evangeli sulle vostre spalle, avete poco dopo ascoltate le tremende parole: «Accipe Evangelium et vade, praedica populo . . .» . quale comando, quale dovere, quale servizio! E voi tutti conoscete in quali termini il Concilio ecumenico, mentre proclama i poteri del Vescovo, ricorda i loro doveri: l’episcopato è una responsabilità, anzi una corresponsabilità che prende le proporzioni del mondo, è una cura, è un’oblazione di sé, è un debito, che tende ad esaurire tutte le proprie possibilità di servizio e di sacrificio.

Fratelli veneratissimi! Diciamo forse queste cose per oscurare la serena e luminosa letizia di questo giorno? ovvero per aumentare fino allo sgomento il timore che già invade i vostri animi al pensiero degli obblighi immensi che d’ora innanzi vi saranno imputati? No, diletti Fratelli «et in passione socii»! questo diciamo, perché la realtà delle cose, alla quale siete stati assunti; perché la grandezza stessa dei nuovi doveri è l’indice della predilezione che, tramite la santa Chiesa, il Signore ha avuto per voi: perché la vostra destinazione al servizio della Chiesa stessa è accompagnata da una grazia abilitante e corroborante: «Potens est enim Deus, ut augeat vobis gratiam suam»; perché il carisma proprio dell’Episcopato è la diffusione del Vangelo nel mondo, un carisma, che esalta e che consuma, come una fiamma divorante; il carisma della carità, Parola e Grazia e governo, nell’atto del suo misterioso e umano passaggio, da Dio, da Cristo al suo ministro, e dal ministro alle anime, al Popolo di Dio: è il carisma del servizio dell’amore e per amore.

Così che, venerabili Fratelli, non possiamo disgiungere le Nostre felicitazioni per la somma grazia, che vi è conferita, dal Nostro fraterno incoraggiamento: è vero, vi attendono gravi responsabilità, grandi doveri, molte difficoltà, fors’anche dispiaceri e dolori; così è la sequela di Cristo; così è la vocazione ad essere suoi apostoli e suoi ministri. Ma «nolite timere»; non abbiate davanti a voi la prospettiva degli ostacoli e delle pene, che sono proprie dell’ufficio episcopale; ma abbiate piuttosto davanti a voi: gli uomini da amare e da servire e da salvare; il mondo vi è aperto davanti! Se mai dubbio, delusione, stanchezza vi sorprendessero nel cammino che state per intraprendere, vi sorregga il ricordo di quest’ora incomparabile: dobbiamo servire, servire per amore: le anime, la Chiesa, il mondo, Cristo.

Voi Ci sarete collaboratori diretti, Fratelli carissimi! quale conforto per Noi! e quale, osiamo pensare, conforto per voi! Due di voi, Ci sono vicini nella guida e nella assistenza alla Chiesa universale, in questa Santa Sede, a cui piacque a Cristo affidare una singolare e indispensabile

missione. Questi tempi post-conciliari la rendono forse più delicata e difficile; non sempre gli animi, dentro e fuori della Chiesa, vi sono bene disposti; problemi di rinnova-mento spirituale e di adattamento canonico esigono una attenzione, una sapienza, una fermezza che dànno un carattere nuovo e alquanto straordinario al governo centrale della Chiesa, e impegnano chi, come voi, attende all’esame e alla soluzione delle questioni presenti e imminenti, ad un lavoro assai faticoso.

Ma ci sostenga tutti la carità del Signore: «Caritas patiens est, benigna est . . . omnia suffert . . . omnia sustinet». E Dio voglia che questa carità animatrice dell’opera insonne della Sede apostolica sia così vera e così comunicabile, che tutti i Nostri Fratelli nel mondo, guardando a questa stessa Sede Apostolica ne abbiano sempre edificazione, e possano sempre meglio sperimentare non solo le esigenze dell’unità, ma altresì il gaudio ed il vigore.

E gli altri due neo-consacrati eccoli destinati al ministero pastorale in questa Nostra Roma del cuore! Godiamo di sapervi al fianco del Nostro Cardinal Vicario, da lui designati e al suo ministero direttamente associati, ma non meno al Nostro, nuovi e validi collaboratori.

Voi siete, e lo proverete, i segni viventi della Nostra carità episcopale per la Nostra diletta e tanto cresciuta Diocesi di Roma; voi infatti dimostrate con la vostra elezione e certamente con il vostro ministero, condiviso da Monsignor Vicegerente e dagli altri zelanti Vescovi Ausiliari, lo sforzo pastorale che vogliamo fare, affinché all’Urbe, piena di gente nuova e di nuovi problemi non manchi l’opera molteplice e nuova di cui essa ha bisogno per conservarsi, anzi per rinnovarsi cristiana, e per essere in esempio alla Chiesa intera, e sempre idonea e degna di comprendere e sostenere la missione universale di Roma cattolica, la Diocesi del Papa.

Sono auguri e sono doveri; sono speranze e sono preghiere; che Noi, sigillando il ricordo di questo momento sublime con l’invocazione della Madonna, di S. Giuseppe, di S. Giovanni Battista e dei Santi Pietro e Paolo, vogliamo accompagnare e quasi illuminare con il motto ora citato: «servire per amore», e avvalorare con la Nostra Benedizione Apostolica.





Domenica, 20 marzo 1966: DOMENICA «LAETARE» NELLA CHIESA PARROCCHIALE DI SANTA MARIA LIBERATRICE

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È certamente la prima volta - così inizia il Santo Padre - che il Papa, Vescovo di Roma, viene al Testaccio. In quante altre circostanze Egli era qui col cuore, col suo interessamento, con la sua preghiera e benedizione! Sono sessant’anni che questa parrocchia è fondata: i Salesiani l’hanno costruita e coltivata. Testaccio, dal nome che un tempo incuteva un po’ diffidenza e paura, è ora diventato un quartiere bello, eletto, buono: pieno di tante energie spirituali. Ma il Papa non era mai venuto: ed ecco che questa sera è con voi. Nulla merita la Nostra persona; tutto merita il Nostro ministero, poiché siamo tra voi in ufficio di rappresentanza: una rappresentanza fedele, autentica, cordiale di Nostro Signore Gesù Cristo.

Abbiamo qui il Cardinale Vicario, cioè colui che, in nome del Papa, presiede alla vita pastorale della città: e con Lui sono due Vescovi ausiliari: tutti insieme per dire quale vuol essere l’interessamento, la cura per l’intero quartiere. I fedeli conoscono le ragioni particolari che hanno motivato la eccezionale presenza.



LA CURA DIRETTA DEL PAPA PER LA SUA DIOCESI

Prima di tutto - ne siano soddisfatti i cari Salesiani e i Parroci vicini, anzi tutti i Parroci di Roma - va ricordato che abbiamo messo nel Nostro programma pontificale e vescovile la cura diretta della Nostra città e diocesi di Roma. E perciò non deve più stupire alcuno se il Papa, profittando delle condizioni adesso favorevoli alla sua libera circolazione nella città, vada, quando e come può, a visitare direttamente i rioni e quartieri romani. Testaccio non poteva certo essere escluso dalla lista di queste visite che, per quanto nel Nostro desiderio vorrebbero essere moltiplicate, restano sempre poche e privilegiate. Siamo lieti, ora, che tale privilegio ed intento di predilezione si fermi questa sera sopra di voi, e Ci autorizzi a salutarvi tutti e a benedirvi.

Dopo aver elencato i vari titoli generali di quanti Lo ascoltano per accogliere uno speciale pensiero del Papa, la conferma del primo movente della visita. È insito nel suo stesso ministero pastorale. C’è poi il Concilio, di cui tutti hanno avuto notizia. Per esso la Chiesa è messa in stato di risveglio, di rinnovamento, con il proposito di affratellare i popoli, le genti, i cristiani; e di diffondere in mezzo alla società moderna, così mutata e cresciuta in pochi decenni, il Vangelo, la Parola di Cristo, il suo Messaggio.

Il Concilio, cioè i Vescovi della Chiesa di Dio, hanno riaffermato il proposito - ecco il secondo motivo dell’odierna presenza del Papa - di echeggiare con rinnovato vigore l’insegnamento di Cristo. Che cosa Gesù ha annunciato agli uomini? Il Regno di Dio. Figliuoli e fratelli, stasera è in mezzo a voi un particolare raggio del Regno di Dio: Appropinquavit in vos Regnum Dei. Il Signore Gesù ha aperto la sua predicazione e l’ha condotta sin verso la fine della propria vita pubblica, praedicans Evangelium Regni.



NECESSARIA ASPIRAZIONE: «ADVENIAT REGNUM TUUM»

Benché qui si stia celebrando la Messa del Giubileo, i fedeli sanno che la Messa della quarta Domenica di Quaresima rievoca il brano evangelico della moltiplicazione dei pani. Dopo quel prodigio la folla voleva esaltare l’eccelso Benefattore e proclamarlo re: ma Gesù non ha voluto. Non intendeva che si facessero confusioni. Non sono venuto, Egli dirà, per il regno di questo mondo. E tale affermazione ripeterà al giudice nel giorno stesso della sua Passione: «Il mio Regno non è di questo mondo». C’è quindi un doppio regno: quello della terra e quello dei Cieli. Questo secondo ci interessa, è il Regno che noi tutti invochiamo, con il Pater noster, siccome il grande avvento della nostra salvezza e felicità: Adveniat Regnum tuum!

Adunque il Papa è tra i diletti fedeli per ricordare la sublime verità: e in rapporto pure ad un altro motivo di sacro ministero: il Giubileo.

Qui il Santo Padre spiega come si attui tale mirabile forma di misericordia e di carità che la Chiesa talvolta adotta per riconciliare le anime con Dio, ricondurle alla reale carità col prossimo, e trarre da ciò nuove energie spirituali.

È un ritorno alla genuina letizia della unione con Dio. Ciò dichiara il già ricordato tratto del Vangelo delle Beatitudini: cioè dell’ammissione nel Regno dei Cieli di coloro che soffrono e presentano a Dio privazioni, dolori, angustie.

Dobbiamo chiederci: che cosa intendiamo noi per Regno di Dio o Regno dei Cieli? Una similitudine gioverà a dare chiara e adeguata risposta. La luce delle lampade che qui brillano è dovuta a un’energia, alla corrente detta elettricità. Se qualcuno interrompesse la corrente, le lampade si spegnerebbero, e noi saremmo nel buio.


ESSENZA NECESSITÀ VINCOLO DELLA RELIGIONE

Ebbene, la corrente che dà splendore al Regno che stiamo considerando è il contatto con Dio: l’innesto di noi con la vita divina. Se essa è nel nostro circuito umano, noi risplendiamo e in maniera ben più alta d’ogni fulgore terreno; saremo vivi di un principio superiore a quello della nostra esistenza temporale. È la vita soprannaturale, la quale dipende unicamente dalla nostra inserzione in Dio. Egli è la sorgente dell’essere, il nostro Creatore, il principio di tutto. Se si rinuncia a Dio, si abdica alla stessa vita; se interrompiamo i nostri rapporti col Signore, è come se si recidesse il filo che dà questa corrente vitale: promessa e garanzia d’una vita futura.

Sin dalla colpa di Adamo tale unione fu stroncata, con tutte le conseguenze che perdureranno nel tempo; ma viene Gesù e dice: Io ristabilisco il rapporto con Dio, Io ristabilisco il Regno del Signore. Fissiamo alquanto il pensiero alla sublime realtà: come definiamo noi il reale vincolo con Dio? Lo definiamo religione. La religione determina il rapporto con Dio, e la religione cattolica è quella che stabilisce in pienezza tale rapporto: l’autentico, il vero, l’unico; e riesce a porre Dio nella nostra comunione e nella nostra salvezza.

E le altre religioni? Sono sforzi, conati, tentativi, braccia levate verso il Cielo che cercano di arrivare, ma non corrispondono al gesto che Dio ha fatto per venire incontro all’uomo. Quel gesto si chiamerà il cristianesimo, la vita cattolica. Noi dobbiamo rifarci pertanto a tale atto di Dio per operare l’innesto della nostra vita umana con quella divina.

Conseguenza prima di tutto ciò? Il pensiero della importanza sostanziale, indispensabile, della Religione. L’essere religiosi è questione di vita o di morte. Come sorprende, come arreca dolore il vedere molti indifferenti e trascurati - un fenomeno che non fa onore nemmeno alla intelligenza umana - di fronte al problema religioso, ritenendolo cosa superflua, secondaria, facoltativa!



GLI INCALCOLABILI DANNI DEL LAICISMO

C’è tutta una corrente della vita moderna che prescinde dalla vita religiosa: un laicismo, cioè una rinuncia alla conoscenza di Dio. Si dice: non è necessaria. Basta guardare al lavoro, alla ricchezza, al benessere, al piacere; altro non c’è. E invece tutto l’ordine e il progresso umano sono stabiliti quale vigilia di preparazione al giorno eterno: sono la condizione per poter annodare quei vincoli che ci sosterranno al momento in cui la nostra vita terrena verrà meno per ancorarci a quella eterna.

Chi è senza fede, è senza luce; chi è senza religione, è senza speranza. Invece la fede e la speranza assicurano che la vita nostra continua al di là del terribile episodio che si chiama la morte.

E ancora: chi è senza contatto con Dio è privo di amore. Dio è amore. Se non siamo uniti a Lui ci viene meno il sentimento più nobile. Non abbiamo più ragione di chiamare gli uomini nostri fratelli, nessun motivo di sacrificarci per loro, né ragione di scorgere su ogni faccia umana lo specchio del volto di Cristo.

Se non abbiamo la fede, la speranza, la carità - le tre virtù teologali che sono i tre vincoli che ci uniscono a Dio - siamo facilmente gente cieca, costretta ad essere schiava della terra: gente turbata dalle passioni che la fanno infelice e che pongono la fiducia degli uomini nelle cose più terribili: le armi, le lotte, la guerra, gli odi, i vizi.



TUTTI CHIAMATI A DIVENTARE «CONSORTES DIVINAE NATURAE»

Viene Gesù, viene il Vangelo, è annunciato agli uomini il Regno; la possibilità di riprendere contatto col filo dell’energia e della luce. È venuta la speranza, la bontà della vita, il perché delle nostre lacrime e dei nostri sacrifici; è venuto il vigoroso programma per essere uomini seri, retti, intelligenti; quelli cioè che vedono anche nel mondo esteriore il segno della Provvidenza, della Bontà e della Sapienza di Dio.

Come sintesi della presenza e della parola del Papa, tutti i diletti ascoltatori vogliano proporsi di rinsaldare il vincolo che li unisce al Signore.

Il sacro Rito è stato incominciato poco fa con il rinnovamento delle Promesse battesimali: tutti qui siamo cristiani e tali vogliamo essere, perché innestati nella radice della vita eterna di Dio; rami, fiori e frutti del grande albero della Chiesa.

Taluno può chiedere: ma quale sarà il prezzo per acquistare tanto bene; e quali saranno, in questa gara per giungere al Regno, i preferiti? Quali i privilegiati ad essere i consortes divinae naturae? Il Discorso della Montagna risponde nel modo più esauriente.

Ai poveri, a coloro che hanno il cuore vuoto, agli affamati ed assetati è assicurato ciò che il mondo moderno, con i suoi tentativi per vari aspetti degnissimi, per altri invece traditori e vacui, non riesce a dare, anche quando assicura la pienezza di una felicità terrena.

Coloro che, invece, hanno il cuore sgombro, non sazio, libero, essi posseggono la forza di rivolgersi a Colui che tutto può ed esternare necessità, insufficienze, miserie, afflizioni: e ricevere, proprio per questa loro fiducia e per questo amore, ogni dono.

San Paolo assicura che per i giusti omnia cooperantur in bonum; e Sant’Agostino in un impeto di sbalorditiva acutezza aggiunge, per coloro che si affidano contriti a Dio, etiam peccata. È infatti la infinita misericordia del Signore china ad ascoltare i gemiti del pentimento, le implorazioni, le preghiere: solo essa lenisce, soccorre, perdona.



VIVERE DI CRISTO E PER CRISTO

Che vuol dire una tale constatazione? Che tutti, tutti possiamo salvarci, giacché siamo chiamati, senza eccezione alcuna, ad essere redenti, a diventare cittadini del Regno celeste.

Lo stesso Divin Maestro, istituendo la Santissima Eucaristia, ce ne ha dato il pegno più certo e mirabile: Prendete e mangiate tutti il mio Corpo; bevete tutti il mio Sangue.

Nessuno quindi voglia ignorare l’invito, rimanere sordo e assente. Nessuno rifiuti una vocazione sublime e tremenda insieme: pronta e generosa sia la risposta affermativa agli appelli di Dio.

Sì, o Signore! Vieni, o Gesù Credidimus caritati. Noi crediamo all’amore, alla tua bontà; crediamo che Tu sei il nostro Salvatore, che tu puoi ciò che ad altri è precluso, irrealizzabile. Noi crediamo che tu sei la luce, la verità, la vita; abbiamo un solo desiderio: rimanere uniti con Te; ed essere non solo cristiani di nome, bensì cristiani convinti, apostoli, zelanti.

È imminente la Pasqua! Bisogna riallacciare le nostre relazioni con Cristo che è la vita; occorre che il Signore diventi nostra comunione e che noi viviamo di Lui e per Lui. Esultiamo all’annuncio prossimo della Resurrezione, del trionfo di Cristo, nostra salvezza. Dio è la vita - conclude il Santo Padre. - Lo ricorderete? Questo è il Vangelo.





Domenica, 27 marzo 1966: I DOMENICA DI PASSIONE NELLA CHIESA PARROCCHIALE DELL'IMMACOLATA

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SALUTO AGLI ABITANTI AI FERROVIERI A TUTTI GLI OPERAI

Il Sommo Pontefice è venuto nella parrocchia dell’Immacolata e di S. Giovanni Berchmans per parlare anche a quei dilettissimi fedeli del Concilio e del Giubileo.

Prima però di svolgere questi temi principali, vuole accennare ad alcuni pensieri e ricordi che riguardano proprio la parrocchia del quartiere Tiburtino. Il Papa ne conosce i vari sviluppi e sa che la loro chiesa fu edificata all’inizio del secolo con il generoso concorso dei fratelli cattolici Belgi; e fu voluta e promossa dal Santo Predecessore Pio X. Gli è caro, perciò, effondere le sue benedizioni a tutti gli abitanti, e comprendere, in esse, gli edifici, le case, gli appartamenti, i negozi, le scuole; ogni centro di umana, nobile attività.

Tra i ricordi due affiorano alla mente in maniera speciale. Il corso di predicazione pasquale tenuto dall’attuale Papa nel quartiere, diversi anni or sono: un atto di sacro ministero che non dimenticherà mai, soprattutto perché gli diede modo di avvicinare gli operai, tanto numerosi, del Tiburtino, che ora vede con piacere ben rappresentati nell’odierna adunanza. Desidera perciò rinnovare ad essi il sentimento di particolare benevolenza, chiedendo ai presenti di recare il saluto del Papa ai colleghi di lavoro, specie ai ferrovieri, agli impianti, alle macchine e vetture; e persino - aggiunge sorridendo - ai binari, come a indicare il veloce propagarsi del gesto paterno in ogni direzione, in Italia ed oltre, per mezzo di coloro che sono preposti alla diffusione dei rapporti umani, divenendo, in questo caso, latori e messaggeri dell’affetto del Padre delle anime.


LA CHIESA È SEMPRE VICINA A CHI LAVORA E A CHI SOFFRE

Il secondo ricordo è legato ad un’ora tragica, dolorosissima. Il primo bombardamento della regione ferroviaria di Roma, il 19 luglio 1943, che fece molte vittime e distrusse la basilica di S. Lorenzo. In quella tristissima giornata, il Pontefice Pio XII, con decisione improvvisa, volle recarsi immediatamente nella zona colpita e chiamò accanto a sé, per quella visita di premurosa sollecitudine, unicamente il suo collaboratore Mons. Montini. Il Papa giunse al quartiere Tiburtino inatteso. Ovunque dominava la tremenda angoscia della morte, delle rovine; ogni clamore sembrava soffocato da generale smarrimento. Ma quando si sparse la notizia di così alta presenza, fu un accorrere fiducioso ed imponente di popolo. Tutti volevano salutare e ringraziare per la consolazione, la fiducia, gli aiuti. Tale fu l’impeto che la vettura del Papa rimase molto danneggiata e fu necessario servirsi di un’altra per il ritorno. Presso le impressionanti macerie della basilica di S. Lorenzo, un ferito si avvicinò a Pio XII con tanta accesa gratitudine che la veste bianca del Papa riportò qualche traccia di sangue: questo particolare sembrò a tutti come la immagine completa del dolore immenso, identico, del Padre e dei figli.

Pio XII, allora, su invito di Chi lo accompagnava, salì su di un cumulo di pietre e di polvere, ed aprendo col suo gesto consueto le braccia a forma di croce, invitò tutti a pregare con lui, recitando il Pater noster. In quel momento sovvenne alla mente una frase che il grande benefattore della parrocchia, l’insigne Cardinale belga Mercier, aveva detto trattando dei lavoratori come di persone provate sì dalla fatica, ma protette da Dio: «La Chiesa è sempre vicina a chi lavora e a chi soffre». Un ricordo dunque, di tristezza, ma pur di amore paterno e di rispondenza filiale.


IL CONCILIO ESALTA SPIEGA DIFFONDE LA PAROLA DI DIO

Ed eccoci all’incontro odierno. È di letizia e di speranza. Al Papa fanno corona gli ottimi Giuseppini del Beato Murialdo, tanto stimati nella parrocchia; i loro cooperatori; i sacerdoti; i Presuli, con a capo Monsignor Vice Gerente e tre dei Vescovi ausiliari di Roma; le delegazioni delle solerti comunità religiose della zona e delle loro molteplici attività di assistenza, educazione, cura degli infermi; i gruppi dell’Azione Cattolica e degli altri Sodalizi del santo apostolato. Come è consolante vedere tante attuazioni e promesse di bene! Sua Santità assicura che, ora, nella Messa che sta celebrando, Egli avrà una prece per tutti al Signore Gesù presente nel rinnovarsi del Sacrificio Divino.

Dopo così amabili saluti, segnatamente ai collaboratori nel ministero sacro e ai fedeli militanti, ecco la trattazione dei punti essenziali della Omelia del Supremo Pastore.

Concernono due avvenimenti: il Concilio e il Giubileo.

Che cosa è stato, che cosa è il Concilio? È come uno sforzo compiuto dalla Chiesa per rinnovarsi, per ringiovanire, per comprendere sempre meglio se stessa ed essere quindi più idonea ad attuare la sua missione.

Il Concilio s’è dimostrato d’incalcolabile importanza con le assemblee, i temi discussi, le deliberazioni adottate. Ma ai cari fedeli piacerà senza dubbio conoscere i punti che maggiormente riguardano la loro vita religiosa ed umana.

Nel Vangelo ora presentato è stata riletta la pagina delle Beatitudini. Essa, inserita nell’apposita Messa per il sacro Rito del Giubileo - il Santo Padre lo ha già spiegato nelle precedenti domeniche di questa Quaresima - è come il punto centrale del programma di Nostro Signore Gesù Cristo. Ivi è racchiuso il messaggio che Dio, facendosi Uomo e venendo tra noi, lancia all’intera umanità.

È un messaggio che non invecchia mai e oggi risuona con una potenza nuova e straordinaria; e chi l’ascolta sente sobbalzare il proprio cuore e mutare la propria vita. Desiderando, perciò, essere cristiani veri, buoni, santi, occorre risalire alle sorgenti dove il Cristianesimo scaturisce e si manifesta nella genuina essenza. Cioè nel Vangelo, nella parola di Dio.



LA SALVEZZA È NEL CONOSCERE E BENE ATTUARE IL VANGELO

È ben noto che nella riforma in atto la prima parte della S. Messa è definita la «liturgia della Parola». Pertanto, se vogliamo essere cristiani, dobbiamo ascoltare. I primi seguaci di Gesù si chiamavano discepoli, cioè allievi. Tutti dobbiamo quindi diventare alunni di Gesù Cristo, che ha detto: «Io sono l’unico Maestro»: Colui che indica all’uomo lo scopo della vita e gli eterni destini, e, mostrandogli l’opera di Dio, rivela pure il perché e le finalità della creatura. Perciò il primo dovere del nostro rinnovamento è l’accogliere la parola del Signore. Essa è autentica, limpida, sovrana, nel Vangelo. Non si tratta - lo si noti bene - di semplici nozioni e parabole: ma di istruzioni profonde, di divine verità espresse e spiegate, siccome cieli che si aprono su di noi.

Nel Vangelo si parla di Dio, della nostra origine e del nostro ultimo fine; delle virtù, delle mancanze, delle buone qualità, dei vizi, delle nostre vicende e possibilità; dell’intera esistenza umana. Ne deriva che conoscere bene il Vangelo e attuarlo, è salvarsi. La Chiesa risale a questa fonte inesauribile e la distribuisce adattandola a tutte le necessità dell’uomo. È questo il suo Magistero: e si chiama Dottrina Cristiana, l’insegnamento del Catechismo. Se solo ci riconfermassimo nell’impegno di istruirci come cristiani, già avremmo compiuto una grandissima impresa.

Come negare l’odierno deplorevole fenomeno della ignoranza in tanti cristiani, i quali non conoscono i fondamenti principali della nostra santa Fede?

Negli anni del suo governo dell’arcidiocesi di Milano il Papa, visitando le parrocchie, sempre chiamava presso di sé qualche bambino per interrogarlo sui Misteri principali della nostra Fede. Quale commozione nell’udire la risposta - il che conferma la fedeltà della grande arcidiocesi alle sue più alte tradizioni - detta magari in maniera infantile ma con precisa sicurezza: l’Unità e Trinità di Dio; l’Incarnazione, la Passione, Morte e Resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo!

Un bambino conosce Dio, conosce Gesù. E dire che vi sono professori d’università, maestri, scrittori, professionisti, i quali non sanno rispondere alla semplice domanda! Ignorano quindi la luce, le origini, i cardini del nostro stesso pensiero.

Ebbene, il conoscere queste verità, che costituiscono pure il fondamento d’ogni sapienza umana, è cosa indispensabile. Quanti cristiani miopi, ciechi, portano questo nome e lo ripudiano senza accorgersene; lo abbandonano quasi ritenendo obbligatorio il liberarsi da un fardello inutile e gravoso. E invece si tratta di quanto può esservi di più importante: è la dignità, la sapienza, la gloria, la speranza: è la gioia stessa della nostra vita.



DEBELLARE L'IGNORANZA ISTRUIRSI EDUCARSI

La prima raccomandazione del Concilio è d’essere - e che splendore in ciò! - intelligenti, istruiti, moderni, cioè bene attrezzati nella scienza di Dio. Circa l’ignoranza dei tempi e dei secoli andati ci può essere qualche spiegazione. Diffusa era l’incapacità di leggere e scrivere, non esistevano scuole organizzate, non gli odierni sistemi di comunicazioni. Ma oggi? Con tutti i mezzi a disposizione del popolo, per sapere, pensare e coltivarsi, l’essere ignoranti sulla religione, cioè su quanto maggiormente importa conoscere, è una colpa a danno di noi stessi; è una specie di tradimento alla nostra vocazione cristiana.

Perciò - e lo sentirete ripetere dal Parroco e dagli altri sacerdoti -: istruzione, istruzione. Un predecessore del Papa nell’arcidiocesi di Milano, il santo Cardinale Ferrari, recandosi alle parrocchie insisteva sempre nel ripetere: Figliuoli, Dottrina Cristiana, Dottrina Cristiana, Dottrina Cristiana! E le sue prediche si concretavano tutte in questo richiamo basilare: continuatore ed emulo, in ciò, di San Carlo.

Altra impresa del Concilio è il rinnovamento della Liturgia: in un senso bellissimo e fecondissimo. Ha stabilito che i cristiani abbiano a capire ciò che dice il sacerdote e a partecipare al sacro Rito; ad essere non dei semplici assistenti al Divin Sacrificio, ma anime vive; il popolo di Dio che risponde e costituisce la comunità unitaria intorno al celebrante.



L'INCOMPARABILE DONO E GAUDIO DELLA MESSA FESTIVA

Ecco l’altare disposto a dialogo con l’assistenza; ecco la rinuncia notevole al latino, scrigno pregevolissimo, custodia dei tesori della Chiesa. È stato aperto: e la lingua viva parlata entra ora nella preghiera dei fedeli. In tal modo le labbra, specie degli uomini, tanto spesso mute e come sigillate, si dischiudono, finalmente, e l’intera assemblea può interloquire, rispondere, a colloquio col sacerdote almeno nella parte preparatoria e conclusiva. Non più, dunque, il triste fenomeno di saper di tutto, di conversare su ogni argomento umano, e rimanere silenziosi, indifferenti, nella Casa di Dio! Quanta sublimità nella recita corale durante la Messa del «Padre nostro che sei nei Cieli . . .»!

In tal modo la Messa festiva non solo è obbligatoria, ma diventa piacevole; anzi, oltre che un dovere, si afferma quale diritto. Avere il diritto di andare alla Messa, del riposo festivo, di dedicare almeno un’ora ogni settimana al respiro della propria anima, è l’acquisto inalienabile della capacità di parlare a Dio dei dolori, delle speranze, del lavoro, di ogni angustia; è portare a Dio l’esperienza settimanale del penoso quotidiano e offrirla a Lui; mentre il Signore trasforma in Se stesso per farsi, nella Santissima Eucaristia, nostro cibo e nostra bevanda, il pane e il vino, simboli della fatica umana. Così, del pari, Egli trasforma questa nostra esistenza umana in esistenza divina.

Siate perciò fervorosi - insiste il Santo Padre - nella vostra Messa festiva; siate gelosi della vostra Messa, cercate di riempire tutti gli angoli, di fare ressa intorno all’altare della vostra chiesa parrocchiale. Dite ai vostri sacerdoti: fateci capire, dateci il libro; e imparate a cantare. Una Messa celebrata con il canto del popolo costituisce perfetta elevazione dello spirito. Sant’Ambrogio - uno dei primi a introdurre il canto sacro nella comunità cristiana - ha scritto la stupenda riflessione: allorché io ascolto un’intera massa acclamare con unanime voce: Santo, Santo, Santo è il Signore, io mi trovo ricolmo di felicità e nulla può esservi di così grande e maestoso in tutta la terra!

È splendente letizia: l’umanità raggiunge questo vertice, parla con Dio e riesce a farsi ascoltare in cielo, con tutte le sue voci: dei fanciulli, degli uomini, delle donne, dei sofferenti; essa inneggia alla gloria del Signore in excelsis e invoca e ottiene la pace agli uomini di buona volontà.



È L’ORA DEI CRISTIANI POSITIVAMENTE VIGILI E ATTIVI

Se voi, gente del lavoro, della scuola, delle professioni ed arti, di tutte le altre attività, vi concedete una di queste ore divine, autentiche esperienze spirituali, sarete sicuri di due cose: non perderete mai la fede; e, invece di considerare il precetto religioso, l’obbligo della Messa, come un peso scomodo, lo stimerete, invece, quale dono, gioia, gaudio; quasi un’ala che si apre e dispiega per varcare le ampiezze del Cielo.

E non è tutto: il Concilio ha scosso i cristiani; li avverte e stimola a non essere pigri; indifferenti, passivi, accidiosi. Al contrario ognuno deve svolgere attività positiva, diffondere il bene. Tutto il popolo diventerà come una massa in buon fermento: quale effetto di un programma di zelo e lavoro assiduo. Bisogna inserirsi nei meccanismi dell’azione. Un cristiano inerte, capriccioso, assente, non è il cristiano nuovo che la Chiesa vuole.

Essa esige cristiani militanti, sempre vigili - «estote parati» - disposti ogni giorno a compiere il bene. È l’energia che il Cristianesimo deve sprigionare da se stesso e che il Concilio invita ognuno a porre nelle consuetudini della vita dopo averla alimentata nel proprio cuore.



CHE COSA FARE NEL MONDO E PER IL MONDO

Una terza grande lezione la Chiesa ha dato con il Concilio. Si tratta d’un interrogativo. Io vivo in mezzo a questa società - e ben sappiamo com’è - tumultuosa, ricca, impegnata, anche affannata, divisa: è il mondo. Io cristiano, come mi ci trovo? Il Concilio risponde anzitutto con parole antiche: attenti; guardate che il mondo è un’insidia; c’è il peccato, che attraversa l’intera storia dell’umanità e tocca tutte le anime; siamo degli esseri guasti e malati. Questa la lezione di sempre, che impone il riguardo, la serietà, la penitenza. Ma ha detto pure un’altra parola e su di essa si è soffermato. Guardate quanto di bello vi è nel mondo! Perché? Ma è creatura di Dio, è uscito dalle sue mani. I progressi, i lavori, le tecniche, sono indirettamente emanazioni della Eterna Sapienza; sono i derivati della carica di sapienza ed armonia infusa nella creatura, nel cosmo. Il Concilio vorrebbe che noi cristiani fossimo capaci di aprire gli occhi e di soffermarci ovunque è una traccia di Dio, a cominciare dalle armonie dell’universo, dalla materia, dalle energie, dalle fonti del lavoro umano. Che cosa è il lavoro se non la trasformazione della materia? Ebbene, il Concilio ha infuso nel cristiano un senso di simpatia, di amore per queste cose in quanto creature di Dio: anche nell’ordine naturale. Nell’ordine poi, religioso, soprannaturale tutti sanno come il Concilio abbia potuto considerare ogni cosa in senso ecumenico; vale a dire in uno slancio universale, cioè di amore per tutti.


I GIOVANI SIANO I PRIMI A VIVERE NELLA LETIZIA DI DIO

È stato, il Concilio, un impeto di antico fervore e di nuova vita nella Chiesa. La sintesi è: come Gesù ha amato noi, così noi dobbiamo amare gli altri: «Tradidit semetipsum pro me»: ha dato Se stesso per me, così io devo darmi agli altri. È come un possente soffio sul focolare della Chiesa per farne sorgere una fiamma nuova non solo per i piccoli ambienti interni e vicini, ma per l’intera umanità. Questo l’impegno della grande Madre, la Chiesa.

Ogni cristiano deve pertanto dilatare ed accrescere questo comandamento di amore, che è il primo.

Ama: ha detto il Signore. Questo, dell’amore santo, è il Comandamento che dovrebbe essere caro a tutti gli ascoltatori, specialmente ai giovani. Molto spesso il Cristianesimo è presentato sotto il velo della tristezza, della mortificazione; ed è un velo autentico. Oggi, inizio del Tempo di Passione, le sacre immagini e anche la Croce sono coperte per ricordare la penitenza. Eppure c’è la Risurrezione; c’è la gioia di Dio, da celebrare nel mondo e nella vita. Quindi i giovani che s’affacciano al mondo, dinanzi a tutti i suoi fascini, restino liberi con l’animo, col cuore. Beati i poveri perché di essi è il Regno dei Cieli. Ma si prodighino nell’amore insegnatoci da Cristo. Sappiano che il Cristianesimo è gioia; apre le anime e le fa godere in Dio di quanto è posto a servizio dell’anima.

Qui si inserisce l’altro grande annuncio: il Giubileo. Che cosa è ? È la larghezza di bontà, di misericordia della Chiesa. È la pace completa ridonata alle anime, il condono d’ogni debito contratto con il peccato, la grande possibilità di accedere alla salvezza.


LA «BUONA PASQUA» DEL GIUBILEO

Il Papa raccomanda a tutti di profittare della possibilità che la Chiesa offre, segnatamente in questo periodo pasquale. Due sono gli atti necessari per far bene la Pasqua. La Confessione delle proprie colpe, il pentimento, il proposito di non più ricadervi. Non è cosa umiliante e faticosa: è una liberazione, è un cancellare i propri debiti per la clemenza divina; è un ritorno ad essere nuovi, lieti, vivi, liberi, santi. C’è poi la Comunione Eucaristica: il gaudio di innestare la nostra vita in quella di Cristo; di sentire dentro di noi, fluire in noi Colui che è il Pane, il Principio della vita, la Verità.

Questi due atti che danno al Giubileo la sua pienezza e la sua efficacia il Santo Padre raccomanda ai fedeli, salutandoli nuovamente, nel lieto incontro, con un augurio che esprime i sentimenti dal cuore e quasi vuol riassumere le nozioni ora ricordate, che vuole suggellare in ognuno la fortuna di essere cristiani. Si enuncia così: Figli carissimi, Buona Pasqua!

Speciale predicazione nella basilica di Santa Maria Maggiore

Nel ritorno in Vaticano dal quartiere Tiburtino, il Santo Padre compie una sosta nella basilica di Santa Maria Maggiore ove, per sua iniziativa, viene tenuto uno speciale corso di sacra predicazione. Rivolgendo la parola a un distinto uditorio l’Augusto Pontefice dice: Speciale elogio va innanzi tutto al Signor Cardinale Arciprete che ha aperto la basilica e ha tanto favorito l’iniziativa, al Capitolo tanto premuroso per la riuscita del ciclo di conferenze, al Predicatore che ha tanto interpretato il desiderio di far giungere una parola viva attuale specialmente alle classi pensose sia dei problemi religiosi che di quelli morali sociali, cioè di tutta la problematica del nostro tempo.

Questa compiacenza - prosegue il Santo Padre - vuol onorare la parola di Dio, l’esercizio, la dispensa, la distribuzione e l’ascoltazione della parola di Dio. Non si potrebbe dare sufficiente importanza a questo disegno del Signore, a questa sua economia, cioè di far dipendere dalla ascoltazione della parola tutti i benefici spirituali religiosi che il Signore ha promesso; se questi benefici dipendono dalla fede, la fede a sua volta dipende dalla parola: «Fides ex auditu». Il Signore ha voluto stabilire questo metodo per venire a contatto delle anime, dare loro la sua verità, per comunicare i suoi pensieri, per farle degne delle sue grazie. Questo patto elementare, primitivo della vita umana che richiama la parola acquista un’importanza misteriosa. Che cos’è la parola? È la trasmissione del pensiero, è il pensiero che passa da uno spirito all’altro e si serve della parola per travasarsi, per comunicarsi. Ora, se il pensiero è quello di Dio, che cosa diventa la parola che ce lo porta e quale veicolo di comunicazione quale eredità debbono incontrare le nostre anime! Questa appropriazione del pensiero di Dio, questo effondersi del suo pensiero verso di noi, questo trovare un linguaggio per renderci accessibili al suo mistero il Signore lo attua con la parola.

E se poi noi pensiamo all’oceano della realtà divina: «Verbum erat apud Deum»: la Parola era presso Dio, la troviamo in Dio stesso, nel mistero infinito della sua vita intellettuale, questa comunicazione, questa processione - come la chiamano i teologi - della realtà divina, dal Padre al Figlio, che è il Verbo, il pensiero di Dio e che il pensiero di Dio si fa uomo «Verbum caro factum est» per potersi comunicare.

Quale rispetto, quale riverenza dovrebbe circondare il magistero della parola, ministero che continua questa comunicazione del Verbo di Dio fatto uomo per venire a conversazione con noi e per dirci i segreti della sua divinità, per darci la lezione della nostra vita, Lui, unico maestro! Noi diventiamo così discepoli, tributari della verità divina, capaci di cogliere in noi l’eco della parola vivente di Dio. Ora questo mistero, questo ministero e questo magistero della parola di Dio, che noi abbiamo voluto onorare segnatamente dopo il Concilio, che ha tanto richiamato l’attenzione della Chiesa tutta e del mondo sopra il disegno che il Signore ha voluto comunicarci; ed è insegnamento, conversazione, colloquio, dialogo con gli uomini.






B. Paolo VI Omelie 19366