B. Paolo VI Omelie 15107

Domenica, 15 ottobre 1967: III CONGRESSO MONDIALE PER L'APOSTOLATO DEI LAICI

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SALUTO ED AUGURIO DEL PADRE PER L'IMPEGNO DEI LAICI ALL'APOSTOLATO SOTTO LA GUIDA DELLA SACRA GERARCHIA IN OGNI NAZIONE DEL MONDO

Figli carissimi!

Prima di tutto il saluto!

Voi avete già ricevuto e scambiato saluti molto belli, molto affettuosi, e molto significativi: non potevano mancare ad un incontro come questo. Ebbene, ricevete anche il Nostro saluto; non è convenzionale, non è retorico, non è superfluo. Il Nostro saluto vi dice il cuore col quale siete qui accolti, il cuore di Chi, in Cristo, vi è Pastore, cioé legato a voi da doveri, da sentimenti, da speranze che impegnano il sentimento, il pensiero, la vita. Sì, il cuore di Chi, in Cristo, vi è Padre, vi è Fratello, vi è Amico. Questo saluto, come quelli, del resto, che già a voi sono stati rivolti, vi dice che nessuno di voi qui è straniero. Voi siete qui a casa vostra: la casa della fede comune; la casa della carità centrale; la casa dell’unità e dell’universalità cristiana. Bisogna che noi tutti abbiamo coscienza di questa fondamentale e vivente comunione, che indarno, pari a questa, noi cercheremmo altrove. Così vi dica questo saluto la Nostra gioia per vedervi raccolti intorno alla tomba di San Pietro, su cui Cristo ha voluto fondare la sua Chiesa, e per ravvisare in questo incontro un segno e una speranza dell’umanità che trova in Cristo la sua vocazione, la sua fratellanza, la sua pace, il suo destino. Prende forma nei Nostro spirito la visione dei Popoli, da cui voi provenite e che voi rappresentate, e si accende nel Nostro cuore una grande, soprannaturale affezione per ciascuna delle vostre Nazioni: la vostra presenza accresce in Noi la coscienza della Nostra missione, di amatori del genere umano; e accresce in Noi la fiducia che la sua storia si arrenderà un giorno ai disegno divino che la guida a trovare in Cristo il suo significato ed il suo termine; la fiducia, diciamo, che questo grande disegno unitario, tuttora chiuso nel cuore di Dio: si affretti, anche attraverso la vostra collaborazione, l’efficacia del vostro impegno nei mondo, l’ardore della vostra partecipazione all’apostolato, di cui le radiose giornate romane del vostro Congresso sono per Noi la promessa e l’aurora.

Risuonano alla Nostra memoria, quasi fatidiche, le parole di S. Agostino: «Vi è nel campo, cioè nei mondo, fino alla fine del tempo, il crescente frumento del Signore (sunt per agrum, id est per mundum, usque ad finem saeculi crescentia frumenta dominica [Contra litteras Petiliani, II, 78; P.L. 43, 3131)». Voi ci attestate questa spirituale vegetazione, voi siete per Noi un «segno dei tempi»: siate i benvenuti, Figli carissimi, siate benedetti!

Ma non possiamo dimenticare che partecipano a questa assemblea orante, in comunione di preghiera e di affetto, anche tutti i Padri del Synodus Episcoporum, i rappresentanti dell’episcopato universale, raccolti qui a Roma nelle loro altissime assise di studio per offrirCi la loro collaborazione nell’universale governo della Chiesa. Sono pertanto i vostri Vescovi, che vi guardano con immensa simpatia, e vi incoraggiano e vi salutano.

E qui l’umile Successore di Pietro rivolge il Suo deferente, fraterno omaggio a tutti voi, venerati membri del Sinodo, al cospetto dello splendente e policromo quadro del laicato cattolico mondiale, e osa dirvi fraternamente: vogliate bene ai laici, ai vostri laici! Siate la loro guida paterna, lungimirante, aperta, e date loro fiducia piena, che non sarà delusa! È il Concilio che ve lo chiede, è il Papa che vi esorta, certo di trovare in voi gli stimolatori consapevoli delle generose energie del laicato.

E un saluto pieno, cordiale, ricolmo di affetto e di stima va poi. agli Osservatori delle varie denominazioni cristiane, che onorano con la loro pietà questa assemblea. Ci procura grande piacere notare che siete venuti in numero tanto cospicuo; e quanto gradiremmo che anche voi pienamente gustaste la bellezza e l’incanto di questo incontro, secondo le parole ispirate: «Ecce quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum!» (
Ps 132,1).

Noi vi ringraziamo di cuore per questa presenza, tanto significativa, mentre sale dal Nostro spirito l’augurio e la preghiera - che sappiamo condivisa da voi e dai vostri fratelli, sparsi nel mondo - che tutti possiamo un giorno celebrare insieme la comunione perfetta nell’unità voluta da Cristo, anelito supremo del suo Cuore.


SOLENNE RICONOSCIMENTO DELLA CHIESA PER LA DIGNITÀ E LA MISSIONE DEI LAICI: CHIAMATI AD ESSERE NON SOLTANTO FEDELI MA VALIDI COOPERATORI DEL REGNO DI DIO

Nel corso di questa breve conversazione, Ci sembra indispensabile riassumere in qualche affermazione fondamentale il pensiero della Chiesa su di voi, cari Laici cattolici. Come i navigatori nel corso del loro itinerario attraverso l’immensità dei mari «fanno il punto» cioè determinano la loro posizione e direzione, così Ci sembra che il vostro terzo Congresso mondiale esiga che si mettano in evidenza le acquisizioni dottrinali proclamate dalla Chiesa in questa più recente fase della sua storia, specialmente nel Concilio Ecumenico Vaticano II.

Non sono cose nuove ma sono cose vere, importanti, e per voi che qui le ascoltate e meditate, cose feconde, ricche di una immensa vitalità. Ecco la prima: la Chiesa ha affidato al laico, membro della società nello stesso tempo misteriosa e visibile dei fedeli, un solenne riconoscimento. La Chiesa ha riflettuto sulla sua natura, sulla sua origine, sulla sua storia, sulla sua funzionalità e ha dato, del laico che le appartiene, la definizione più degna e più ricca; essa l’ha riconosciuto come incorporato al Cristo e come partecipante alla funzione sacerdotale, profetica e regale del Cristo stesso, senza tuttavia disconoscere la sua propria caratteristica, che è di essere un secolare, un cittadino di questo mondo, di occuparsi delle cose terrene, di esercitare una professione profana, d’avere una famiglia, di consacrarsi in ogni campo agli studi e agli interessi temporali.

La Chiesa ha reclamato la dignità del laico non solamente perché è uomo, ma anche perché è cristiano. Essa l’ha dichiarato degno di essere, nelle forme e misure convenienti, associato alle responsabilità della vita della Chiesa. L’ha giudicato capace di rendere testimonianza della sua fede. Al laico - uomo o donna - ha riconosciuto la pienezza dei diritti: diritto all’eguaglianza nella gerarchia della grazia; diritto alla libertà nel quadro della legge morale ed ecclesiastica; diritto alla santità conforme allo stato di ciascuno.

Si direbbe che la Chiesa ha avuto una certa compiacenza nel manifestare questa dottrina sul laicato, tanto sono numerose a questo riguardo le espressioni che si leggono, si ripetono, si incrociano in molti documenti conciliari. E se si può dire che in sostanza la Chiesa aveva sempre pensato così, bisogna riconoscere che non si era mai espressa con tanta insistenza, con simile ampiezza.

Ebbene questo riconoscimento della «Cittadinanza» del Laico nella Chiesa di Dio, Noi ve lo ridiciamo qui, felici di confermare la parola conciliare; felici di vedervi il compimento di un processo teologico, canonico e sociologico, desiderato da lungo tempo e da molti spiriti chiaroveggenti; felici di fondare su esso le speranze d’una Chiesa autentica, ringiovanita, resa più atta a compiere la sua missione per la salvezza cristiana del mondo.

Ma non è ancora detto tutto, cari figli e figlie, quando si è riconosciuto e proclamato ciò che voi siete nella Chiesa di Dio. Bisogna riconoscere e proclamare ciò che voi potete e dovete fare, ciò che voi, cattolici liberamente consacrati all’apostolato, vi operate effettivamente. Ed eccoci nell’intimo dell’argomento, alla definizione stessa del vostro ideale e dei vostri sforzi, a ciò che tutti possono leggere nel titolo del vostro congresso: Apostolato dei Laici.

Qui il Nostro imbarazzo è grande perché Noi non sapremmo che ridirvi sotto un’altra forma ciò che il Concilio ha proclamato con incomparabile autorità e in formule molto studiate, notevoli sia per la precisione che per la ricchezza del loro contenuto.

Il principio è fissato - ed è già molto dirne l’importanza - nel testo medesimo della Costituzione dogmatica sulla Chiesa. «I Laici - vi si legge - riuniti nel Popolo di Dio e organizzati nell’unico Corpo di Cristo, sotto un solo Capo, sono chiamati, chiunque essi siano, a cooperare come membri vivi al progresso della Chiesa e alla sua santificazione permanente. . . . A tutti i laici per conseguenza incombe il nobile incarico di lavorare affinché il disegno divino della salvezza giunga a un sempre maggior numero di uomini di ogni tempo e di tutta la terra» (Lumen gentium, LG 33).

La Chiesa quindi riconosce il laico, voi lo vedete, non solamente come fedele, ma come apostolo. E aprendo davanti a lui un campo quasi illimitato, gli rivolge con fiducia l’invito della parabola evangelica: «Andate, anche voi, a lavorare nella mia vigna» (Mt 20,4). Questo lavoro sarà multiplo e diversificato. Il Decreto conciliare sull’Apostolato dei Laici dopo aver a sua volta messo il fermo principio che «la vocazione cristiana è anche, per natura, vocazione all’apostolato» consacra due interi capitoli a specificare i «diversi campi» e le «diverse maniere» di questo apostolato. Questi testi vi sono certo familiari; basti averli citati per rinforzare nelle vostre anime, cari figli e figlie, la convinzione incrollabile della realtà della chiamata che la Chiesa vi rivolge nel mezzo del secolo ventesimo, della fiducia che mette in voi, della vastità delle responsabilità che essa vi invita ad assumere per far progredire il regno di Cristo in mezzo ai vostri fratelli, per essere pienamente, come a ciò vi invita il tema del vostro Congresso, «il Popolo di Dio nell’itinerario degli uomini».


PIENA E CONVINTA RISPONDENZA ALLA MISSIONE DELLA CHIESA DOCENTE, CHE SOLA HA RICEVUTO DA CRISTO IL MANDATO DI «INSEGNARE, REGGERE E SANTIFICARE»

A questo punto viene spontanea un’obiezione. Si potrebbe infatti chiedersi: se i compiti affidati ai laici nell’apostolato sono così estesi, non si potrebbe ammettere che di conseguenza ci sono nella Chiesa due Gerarchie parallele? Non sarebbero due organizzazioni viventi l’una a fianco dell’altra, il meglio per assicurare il grande lavoro della santificazione e salvezza del mondo?

Questo tuttavia sarebbe un dimenticare la struttura della Chiesa, quale Cristo ha desiderato che fosse mediante la diversità dei ministeri. Certamente il Popolo di Dio, ricolmo di grazie e doni, in cammino verso la salvezza, presenta un magnifico spettacolo. Ma ne segue forse che i membri del Popolo di Dio sono a se stessi gli interpreti della Parola di Dio e i ministri della sua grazia? Che essi possano sviluppare direttive di insegnamenti religiosi, facendo astrazione dalla fede che la Chiesa professa con autorità? O che essi possano temerariamente allontanarsi dalla tradizione ed emanciparsi dal Magistero?

L’assurdità di tali supposizioni è sufficiente a dimostrare la infondatezza di una tale obiezione. Il Decreto sopra l’Apostolato dei Laici accuratamente richiamava che «Cristo ha conferito agli Apostoli e ai loro successori il compito di insegnare, reggere e santificare in suo nome e con la sua autorità» (N. 2).

Invero a nessuno farà meraviglia che la causa strumentale dei disegni divini sia la Gerarchia, o che, nella Chiesa, l’efficacia sia proporzionale all’adesione di ciascuno a coloro che Cristo «ha posto come custodi a pascere la Chiesa del Signore» (cf. Ac 20,28). Chiunque tenti di agire senza la Gerarchia o contro di essa, nel campo del padre di famiglia, può essere paragonato al ramo che si atrofizza perché non è più connesso col tronco che gli provvede la linfa. Come la storia ha dimostrato, costui sarebbe soltanto come un rigagnolo che si separi dal grande corso dell’acqua e che finisce miserabilmente per perdersi nella sabbia.

Non vogliate pensare, cari figli e figlie, che in questo modo la Chiesa desideri imbrigliare le vostre generose ispirazioni. Semplicemente essa è fedele a se stessa e alla volontà del suo divin Fondatore. Poiché, il più grande servizio che essa può fare a voi è di definire il vostro esatto posto e compito in quell’organismo che è destinato a portare al mondo la buona novella della salvezza. «Nella Chiesa c’e diversità di ministero, ma unità di missione» (Decreto sull’Apostolato dei Laici, N. AA 2).


CATECHISMO, AIUTI AL SACERDOTE, ESERCIZIO MULTIFORME DELLE OPERE DI CARITÀ; CONSACRARE A DIO IL MONDO; COMPENETRARE DI SPIRITO CRISTIANO LE MENTI I COSTUMI LE LEGGI

Da un laicato generoso, fedele ai suoi capi, organizzato, che cosa attende la Chiesa? Innanzitutto un aiuto sostanziale per il buon funzionamento delle sue istituzioni. Grazie al progresso teologico di cui noi spesso parliamo, è divenuto più facile delimitare la parte di responsabilità tra il clero e il laicato. Bisogna, tenendo conto soprattutto del numero insufficiente del clero - sacerdoti e diaconi - in tante regioni del mondo, che i laici assumano sempre più - sia nei ranghi dell’Azione Cattolica, sia fuori di essa - i compiti che non esigono necessariamente il carattere sacerdotale. E anche se questi compiti sono talora molto umili, come può essere l’insegnamento del catechismo ai fanciulli e come l’esercizio multiforme delle opere di carità, sia materiali che spirituali, si ricordino che questi sono fondamentali e vi si prestino di buon cuore, testimoniando così lo spirito di servizio a cui tutti, sacerdoti e laici, sono invitati dal Concilio.

Un altro compito ricade su di voi espresso da una parola che ha fatto fortuna in questi ultimi anni, cioè la Consacrazione del mondo.

Il mondo è il vostro campo di azione. Voi siete immersi in esso per vocazione. Ma il movimento naturale di questo mondo sotto l’azione di mille fattori, che sarebbe troppo lungo esaminare, lo spinge verso quel fenomeno che hanno molto bene analizzato - per gioirne e per affliggersene - alcuni pensatori contemporanei, sotto i diversi nomi di «secolarizzazione», di «laicizzazione», di «dissacrazione». Noi lo diciamo con pena; si sono trovati scrittori cattolici i quali si augurano, al contrario della tradizione bimillenaria della Chiesa, l’attenuazione progressiva fino alla scomparsa del carattere sacro dei luoghi, dei tempi, delle persone.

Il vostro apostolato, cari figli e figlie, si inscrive nel senso inverso di queste correnti. Il Concilio ve l’ha detto e ripetuto: «I laici consacrano a Dio il mondo», essi lavorano alla «santificazione del mondo», al «risanamento delle istituzioni e delle condizioni della vita nel mondo»: sono le espressioni stesse dei documenti conciliari.

E che cosa è tutto questo se non riconsacrare il mondo facendovi penetrare e ritornare quel soffio potente della fede in Dio e in Cristo, che solo può condurlo alla vera felicità e salvezza? Il compianto Cardinale Cardijn l’ha espresso tante volte ed in termini commoventi. Noi stessi lo abbiamo detto recentemente: «I laici devono assumere come loro compito proprio il rinnovamento dell’ordine temporale. Tocca a loro (. . .) compenetrare di spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della loro comunità di vita» (Populorum progressio, PP 81).

Noi ve lo ripetiamo con forza: portate al mondo di oggi le energie che gli permetteranno di avanzare sui sentieri del progresso e della libertà e di risolvere i suoi grandi problemi: la fame, la giustizia internazionale, la pace.

«ABBIATE FIDUCIA: ROMA VA AVANTI E IL PAPA LA GUIDA». NELLA UNIONE PERSONALE CON CRISTO È LA CERTEZZA DI OGNI VITTORIA. ESEMPI LUMINOSI: DUE GRANDI SANTE PRECONIZZATE DEGNE DEL TITOLO DI DOTTORE DELLA CHIESA

Concludiamo, cari figli e figlie, con alcune parole sopra la spiritualità che deve caratterizzare la vostra attività. Voi non siete eremiti ritirati dal mondo per meglio dedicarvi a Dio. È nel mondo, nell’azione stessa che voi dovete santificarvi. La spiritualità che dovrà ispirarvi avrà quindi le sue proprie caratteristiche, e il Concilio non ha dimenticato di illustrarle in un lungo paragrafo del Decreto sopra l’Apostolato dei Laici (n. 4). Basta dirvelo in una parola: solo la vostra unione personale e profonda con Cristo assicurerà la fecondità del vostro apostolato, qualunque esso sia. Cristo, voi lo incontrate nella Scrittura, nella partecipazione attiva sia alla liturgia della Parola sia alla liturgia Eucaristica. Voi lo incontrate nella preghiera personale e silenziosa, insostituibile per assicurare il contatto dell’anima col Dio vivo, fonte di ogni grazia.

Il compromesso dell’apostolato in mezzo al mondo non distrugge questi presupposti fondamentali di ogni spiritualità, ma li suppone, anzi li esige. Chi fu mai più «compromesso» con il mondo che la grande Santa Teresa, festeggiata ogni anno in questo giorno 15 ottobre? E chi più di essa seppe trovare la sua forza e la fecondità per la sua attività nella preghiera e nella unione con Dio in ogni istante? Noi Ci proponiamo di riconoscere a lei un giorno, come a Santa Caterina da Siena, il titolo di Dottore della Chiesa.

Aggiungeremo ancora: che la grazia di questo Congresso, che la grazia di questo incontro col Vicario di Cristo, che la grazia di Roma vi accompagni e vi sostenga. Chiamato ad indirizzare la parola al vostro secondo Congresso mondiale nel 1957, sotto il Nostro Predecessore Pio XII, avevamo creduto potervi dire: «Abbiate fiducia: Roma va avanti e il Papa la guida». Lasciate che oggi lo ripetiamo con umile coscienza dei Nostri limiti, ma con l’identica gioiosa certezza, rinforzata dalla splendida esperienza che ha vissuto la Chiesa in questi dieci anni.

Che nella Nostra vote risuoni tutto il fervore della fede di San Pietro, tutto l’ardore della carità di San Paolo. Con la loro autorità impartiamo a tutti voi di gran cuore la Nostra Apostolica Benedizione, che estendiamo alle vostre famiglie, alle vostre Nazioni, al laicato cattolico del mondo intero.



Giovedì, 26 ottobre 1967: VISITA DEL PATRIARCA ATHENAGORAS I

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Amatissimo Fratello in Cristo,

«Tutti concordi» (
Ac 1,14) abbiamo reso grazie a Dio per le meraviglie che Egli ha compiuto nella sua Chiesa. Non si deve infatti alla sua onnipotente bontà se noi abbiamo la gioia profonda di trovarci qui insieme per darci di nuovo il bacio di pace e di riconciliazione, in mezzo ai nostri fratelli nell’Episcopato, sulla tomba del corifeo degli apostoli, gloria di questa Chiesa di Roma, il cui popolo fervente ci attornia, partecipando alla nostra gioia spirituale e alla nostra preghiera?

Prima di lasciar parlare i nostri cuori bisognava cominciare col proclamare che ogni dono eccellente discende dal Padre dei Lumi (cf. Jc 1,17), e, rendendo a Lui gloria, aprirci alla illuminazione del suo Spirito che solo può guidarci nell’intelligenza dei suoi disegni misteriosi.

È da tempo che voi, Fratello amato e venerato, non nascondevate il vostro desiderio di visitarci nella nostra Chiesa di Roma, ed ecco che oggi il Signore ci concede di avervi in mezzo a noi, Voi che rappresentate la tradizione di quelle Chiese «del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, di Asia e di Bitinia» alle quali «Pietro, apostolo di Gesù Cristo» (1P 1,1), inviava una volta quella lettera che riflette tanto bene la vita della Chiesa primitiva, la sua fede e la sua speranza. Quella lettera, con l’insegnamento e le esortazioni che contiene, portava anche a queste Chiese il saluto della Chiesa di Roma (cf. 1P 5,13). Essa è quindi come una prima testimonianza delle relazioni che si svilupparono in modo così fecondo durante i secoli che seguirono, benché - bisogna pur riconoscerlo - gli urti e i malintesi non siano mancati. Anche dopo l’epoca della sventurata rottura, gli sforzi non cessarono, specialmente nel secolo XIII e XV, per riparare questa scissione. Questi tentativi non ebbero, purtroppo, effetti positivi permanenti. Essi tuttavia non sono mai stati quanto oggi liberi da ogni elemento politico, o da ogni visione estranea al solo desiderio di realizzare la volontà del Cristo sulla sua Chiesa. Noi siamo infatti, da una parte e dall’altra, mossi dall’unico desiderio di purificare le nostre anime obbedendo alla verità per amarci sinceramente come fratelli, volendoci bene l’un l’altro, con cuore puro senza finzione (cf. 1P 1,22). La rettitudine delle nostre intenzioni, l’autenticità della nostra decisione sono un segno dell’azione dello Spirito Santo, di questa azione potente di rinnovamento e di approfondimento di cui noi con meraviglia facciamo l’esperienza nella Chiesa e in ciascuno dei cristiani fedeli.

Ci è grato di ripeterlo e di meditarlo con voi durante questo anno della fede, al principio del quale abbiamo sentito il dovere di rendervi visita nel vostro nobile paese. Visitando Smirne ed Efeso sentivamo risuonare nel nostro cuore il messaggio che lo Spirito indirizzava alle Chiese di Asia Minore per mezzo di S. Giovanni: «Colui che ha orecchie, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (Ap 2,7 Ap 2,11 Ap 2,17 Ap 2,29 Ap 3,6 Ap 3,13 Ap 3,22). Lo Spirito, che ci fa conoscere Cristo (cf. 1Co 12,3), che ci concede di custodire il deposito che ci ha affidato con la Chiesa (cf. 2Tm 1,14), che ci fa penetrare nel mistero di Dio (cf. 1Co 2,11) e nella sua verità (cf. Jn 16,13), perché Egli è vita (cf. Ga 5,25) e trasformazione interiore (cf. Rm 8,9 Rm 8,13), lo Spirito ci domanda in una maniera più imperiosa che mai, che noi siamo una cosa sola, affinché il mondo creda (cf. Jn 17,21). Tale richiesta dello Spirito Santo la vediamo manifestata innanzi tutto nel rinnovamento che ovunque Egli suscita nella Chiesa. Questo rinnovamento, questa volontà di fedeltà più attenta e più docile è di fatto la condizione più fondamentale del nostro riavvicinamento (Unitatis Redintegratio, UR 6). Il Concilio Vaticano II, nella Chiesa Cattolica ne è una delle tappe. La realizzazione delle sue decisioni si attua su tutti i piani della vita della Chiesa con prudenza e determinatezza. Il Sinodo dei Vescovi qui presenti ne è un segno, esso, che alla nostra epoca quando i problemi si presentano su una scala mondiale, assicura in forme nuove una migliore cooperazione tra le Chiese locali e la Chiesa di Roma, che presiede alla carità (S. Ignace, ad Rom. tit.). Noi abbiamo cominciato così la revisione della nostra legislazione canonica, e senza aspettare la fine del lavoro, abbiamo voluto già con la promulgazione di nuove direttive, sopprimere certi ostacoli allo sviluppo della vita quotidiana della Chiesa, della fraternità progressivamente ritrovata tra la Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica.

Noi sappiamo che un medesimo sforzo di rinnovamento è in corso nella Chiesa ortodossa e ne seguiamo gli sviluppi con tutta l’attenzione della nostra carità. Voi pure sentite questo bisogno, di cui abbiamo parlato, di assicurare una migliore cooperazione tra le Chiese locali. La prima conferenza panortodossa di Rodi, frutto in gran parte degli sforzi pazienti e sopportati da Vostra Santità, fu una tappa importante su questa via, ed è significativo che il programma da essa indirizzato, benché steso indipendentemente e anteriormente, per quanto riguarda l’essenziale, a quello del Concilio Vaticano II, gli sia stranamente parallelo. Non è questo forse un segno di più dell’azione dello Spirito che sollecita le nostre Chiese a prepararsi attivamente in vista di rendere possibile il ristabilimento della loro piena comunione?

Dobbiamo coraggiosamente proseguire e sviluppare lo sforzo da una parte e dall’altra, quanto è possibile in contatto e in una cooperazione, le cui forme dovrebbero essere fissate in comune. Molto più che per mezzo di una discussione sul passato è in una collaborazione positiva, in vista di rispondere a quello che lo Spirito domanda oggi alla Chiesa, che noi arriveremo a sormontare quello che ancora ci separa.

Se vediamo negli sforzi di rinnovamento un segno dell’azione dello Spirito che ci stimola a ristabilire tra di noi la piena comunione e vi ci prepara, il mondo di oggi invaso da una incredulità multiforme, ci richiama anch’esso in maniera imperiosa il bisogno della nostra unità. Se l’unità dei discepoli di Cristo è stata data come il grande segno che deve sollecitare la fede del mondo, l’incredulità di molti dei nostri contemporanei è anch’essa una voce con la quale lo Spirito parla alle Chiese e fa loro prendere nuova coscienza dell’urgenza di realizzare quel precetto di Cristo, il quale è morto «per stringere nell’unità i figli di Dio che erano dispersi» (In. 11, 52). Questa testimonianza comune, una e varia, decisa e persuasiva, di una fede umilmente sicura di se stessa, zampillante in amore e raggiante la speranza, è ciò che lo Spirito domanda innanzi tutto oggi alle Chiese.

È questa la ragione per la quale abbiamo voluto consacrare alla fede, al rinnovamento e all’approfondimento della fede, questo anno del diciannovesimo centenario del martirio di Pietro e di Paolo, della suprema testimonianza della loro fede, del loro amore (cf. Jn 15,13) e della loro speranza. Che cosa sarebbe un rinnovamento che non terminasse in una affermazione della fede, in un più grande fervore della carità, in una più grande certezza della speranza? Che sarebbe un rinnovamento che non ravvivasse la nostra fede in questa comunione profonda e misteriosa stabilita tra di noi da una medesima obbedienza al Vangelo di Cristo, dai medesimi sacramenti, e sopra tutto dal medesimo battesimo e medesimo sacerdozio, che celebra la medesima Eucaristia, l’unico sacrificio del Cristo, un medesimo episcopato ricevuto dagli apostoli per guidare il popolo di Dio verso il Signore e predicargli la sua parola (Unitatis Redintegratio, UR 15-17)? Sono queste altrettante voci di cui si serve la Spirito Santo per farci tendere con tutto il nostro essere verso la pienezza di questa comunione già così ricca, ma ancora incompleta, che ci unisce nel mistero della Chiesa.

Noi tocchiamo qui, con quest’altro aspetto dell’azione dello Spirito da noi evocata all’inizio, la sua azione in ciascuno dei fedeli cristiani, i frutti di santità e di generosità che essa produce, un’altra condizione fondamentale del nostro riavvicinamento: la conversione del cuore (Unitatis Redintegratio, UR 7) che nella nostra vita personale ci fa ascoltare e seguire sempre più docilmente ciò che lo Spirito ci chiede. Senza questo sforzo, da rinnovarsi continuamente, di fedeltà allo Spirito Santo che ci trasforma nell’immagine del Figlio (cf. 2Co 3,18) non vi può essere fraternità vera e duratura. Infatti non è se non divenendo figli nel Figlio in ogni realtà (1Jn 3,1-2) che noi diveniamo anche realmente e misteriosamente fratelli gli uni degli altri. «Quanto più stretta difatti sarà la nostra unione col Padre e col Verbo e con lo Spirito Santo, tanto più potremo rendere intima e facile la mutua fraternità» (Unitatis Redintegratio, UR 7). D’altronde tale sforzo di santità mette in opera tutto questo patrimonio comune, da noi poco fa accennato e che il Concilio Vaticano II ha esposto diffusamente (Unitatis Redintegratio, UR 13-18). Quale aiuto anche per noi e quali vincoli di fraternità, nel sapere dalla fede che in questa corsa per sforzarci di raggiungere Cristo (Ph 3,12) «noi siamo avviluppati da una si grande e densa nube di testimoni» (He 12,1), e tra questi innanzi tutto di tutti i martiri della nostra fede comune, che sono, come voi avete avuto la delicatezza di richiamare nella lettera con la quale ci annunciavate la vostra visita, l’ornamento più bello della Chiesa di Roma! Tutti questi santi dell’Oriente e dell’Occidente sono qui con noi, essi gioiscono e supplicano Colui, che ha cominciato questa opera meravigliosa, di condurla al suo termine. Tutti quei santi, ancora, che in mezzo a innumerevoli difficoltà, sofferenze e tentazioni, resistettero fermi come se vedessero l’invisibile (cf. He 11,27), ci insegnano col loro stesso esempio ad andare dritti innanzi, tesi con tutto il nostro essere (cf. Ph 3,13) «fissando attentamente i nostri occhi su Colui che guida la nostra fede e la conduce alla perfezione, Gesù» (He 12,2).

Tutto questo ci è richiamato e simbolicamente presentato dal fatto che la vostra visita abbia luogo nel momento in cui la Chiesa d’Occidente si prepara a celebrare la festa di tutti i Santi, «di quella folla immensa, impossibile a numerarsi, appartenente ad ogni nazione, razza, popolo e lingua» (Ap 7,9). Con gli occhi della nostra fede fissi su questa assemblea del popolo degli eletti intorno al Cristo risuscitato e glorioso che siede alla destra del Padre, uniti in una carità fraterna che nulla deve incrinare, mossi dall’unico desiderio di obbedire a ciò che lo Spirito domanda alla Chiesa, con la speranza superiore ad ogni ostacolo, noi andremo avanti in nomine Domini.




Domenica, 29 ottobre 1967: SYNODUS EPISCOPORUM: CERIMONIA DI CHIUSURA

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Solennità di Cristo Re

Ed ora rivolgiamo in particolar modo a voi la Nostra parola, Fratelli venerati e amatissimi, che avete preso parte al Sinodo dei Vescovi; e siamo lieti di rilevare quanto sia bello e significativo che noi concludiamo questo primo Sinodo Episcopale nel giorno in cui la liturgia della Chiesa Romana onora con le sue suppliche Cristo Re. Abbiamo ritenuto tanto opportuno che, prima di lasciarci, celebrassimo insieme, con unanimità di voce e di pensiero, la gloria di Gesù Cristo, in questa visione di luce, di grazia, di grandezza, che ci inebria gli occhi e il cuore: la visione del Cristo, quale San Paolo l’ha descritto nella lettera ai Colossesi, nel fulgore della sua divinità, «immagine dell’invisibile Dio, generato prima di ogni creatura, poiché in lui tutto è stato creato e nei cieli e sulla terra, le cose visibili e le cose invisibili . . . . egli è anche il capo del corpo, che è la Chiesa, egli il principio, il primogenito dei redivivi, affinché in tutto abbia lui il primato» (
Col 1, 15-16, 18).

La festa di oggi, antecedente a quella dei Santi, ci parla dunque della gloria di Cristo, e della sua relazione con la Chiesa da lui fondata: e sono questi i punti di dottrina, ai quali vogliamo richiamarvi in quest’ora solenne, per confortare i vostri pensieri sulla via del ritorno alle vostre Sedi.

Anzitutto, la gloriosa regalità di Cristo è quanto deve attirare e orientare potentemente le nostre menti e i nostri cuori, per dare una quadratura teologica sempre più ampia e sicura alle nostre salde convinzioni, e imprimere nelle nostre azioni l’ardente slancio dell’amore convinto. Cristo è il Figlio di Davide, preannunziato dalle Scritture, atteso dai Patriarchi e dai Profeti, a cui han reso testimonianza inconsapevole gli stessi persecutori: «Gesù, il Nazzareno, il Re dei Giudei» (Jn 19,19), come portò scritto la sua Croce d’ignomia e di gloria.

Come affermò S. Pietro nel giorno della Pentecoste, «Iddio costituì Signore e Messia questo Gesù» (Ac 2,36): questo perché in lui l’umana natura è ipostaticamente unita a quella divina, e il Cristo, vero Dio e vero Uomo, è il Figlio incarnato del Padre. E poiché egli è Redentore degli uomini per la sua Passione e morte, l’autorità e la potestà, che egli esercita come Dio su tutte le cose create, spettano alla sua umanità anche per diritto sia innato sia acquisito: egli, infatti, è il Figlio, «al quale (il Padre) conferì il Dominio di tutte le cose, avendo anche mediante lui creato l’universo: egli essendo irraggiamento dello splendore e stampo della sostanza di lui, e tutto reggendo con la sua potente parola, dopo aver compiuto l’espiazione dei peccati, si assise alla destra della Maestà in sublime altezza, fatto di tanto superiore agli Angeli, quanto più eccellente del loro è il titolo che gli compete» (He 1,2-4). A questo suo primato di regalità universale si riferisce il principio d’unità e di governo, di amore e di salvezza, che egli esercita con potere unico, e pur comunica con disegno di misericordia, alla sua Chiesa. Sì, «è veramente grande il mistero della pietà: Colui che si manifestò nella carne, fu riconosciuto nello Spirito, mostrato agli Angeli, predicato fra i Gentili, creduto nel mondo, assunto in gloria» (1Tm 3,16).

Di qui, come abbiamo detto, il rapporto della regalità di Cristo con la sua Chiesa. Cristo regna sulla Chiesa, non ancora sul mondo: l’antica profezia davidica, a cui Cristo stesso e la prima predicazione apostolica si sono espressamente riferiti (cf. Mt 22,44 Ac 2,34-36), promette a lui un dominio su tutte le genti, che ancora deve compiersi: «Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi» (Ps 109,1). La potenza delle tenebre ritarda ancora l’avvento del regno di Cristo. Eppure questa regalità ha un carattere esclusivamente spirituale: «Il mio regno non è di questo mondo» (Jn 18,36). È una regalità di verità e di vita, una regalità di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace (dal Prefazio): una regalità che cerca i cuori, solo per farne il terreno fruttuoso alla Parola di Dio, e per fare di tutti gli uomini, dispersi, una sola famiglia (cf. Jn 11,52).

Ora, è la Chiesa che rappresenta nel mondo la regalità profetica e sacerdotale di Gesù Cristo; essa ha ricevuto «la missione di annunziare e di instaurare in tutte le genti il Regno di Cristo e di Dio, e di questo Regno costituisce in terra il germe e l’inizio» (Cost. Dogm. Lumen gentium, LG 5). Perciò essa, sebbene dotata di autorità - ciò che costituisce il suo singolare rapporto col Divino Fondatore - e avente in sé - Cristo, che in lei vive nella grazia e nella Parola di salvezza, e rinnova costantemente il suo Sacrificio rendendosi presente nell’Eucaristia - e tutto ciò costituisce il rapporto mistico con lui - non è da ritenere Regina in senso temporale, perché continua tra gli uomini il mistero degli abbassamenti di Cristo, «il quale non è venuto a essere servito, ma a servire» (Mt 20,28): anch’essa, come il suo divino modello e santificatore, vuole servire gli uomini, ed è stata fondata per guidarli pastoralmente a salvezza e per infondere in essi i principi di vita, come ha ben sottolineato la Costituzione dogmatica Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II.

Noi, Pastori della Chiesa, abbiamo l’immensa responsabilità di questa guida e di questo lavoro, ad essa affidato. Perciò, ritornando alle Sedi di partenza, sappiatevi ritenere sempre come «mandati» ad annunciare il regno di Cristo: è il Signore che vi manda, come un giorno gli apostoli: «Andando, predicate "è vicino il regno dei cieli"» (Mt 10,7), quel regno che, non ancora pienamente compiuto su questa terra, diventerà alla fine perfetto regno di Dio.

Fratelli e figli carissimi, riflettete che da lui e in nome di lui siete mandati: «Ecco, io vi mando» (Mt 10,16). Ma ritenetevi altresì Pastori della Chiesa, per la quale dobbiamo offrire le nostre energie, le nostre possibilità, le nostre ansie, le nostre fatiche, i nostri sacrifici, la vita stessa, se è necessario. Il Sinodo, che abbiamo celebrato, ha avuto come suo unico e supremo scopo il bene della Chiesa: e per la Chiesa ciascuno di noi vuole dire come S. Paolo: «Prodigherò il mio, anzi prodigherò tutto me stesso» (2Co 12,15).

Lasciate infine che, prima di lasciarci, diamo a ciascuno di voi il bacio di pace, pegno di carità, simbolo di unità, esempio di fraternità, al cospetto di Dio e degli uomini. Vogliamo altresì lasciarvi in dono una croce pettorale, che porterete a ricordo di queste giornate romane, come sacro emblema del vincolo che tutti, tra di voi e insieme con Noi, vi unisce.






B. Paolo VI Omelie 15107