B. Paolo VI Omelie 32107

Domenica, 29 ottobre 1967 SOLENNE CANONIZZAZIONE DEL BEATO BENILDO

32107

Solennità di Cristo Re


LA GIOIA DELLA COMUNIONE DEI SANTI

Venerabili Fratelli e diletti Figli!

Un Santo, un Santo nuovo Noi abbiamo ora dichiarato appartenere alla Chiesa celeste e doverlo là pensare ed onorare associato alla gloria di Cristo. Un sentimento di gioia invade a buon diritto gli animi nostri, come per una vittoria conseguita, la vittoria della salvezza, come per una luce di Cristo su noi riverberata, come per una parentela acquisita buona e potente. È gioia autentica, è gioia legittima; faremo bene a goderne e a confortare con essa il senso, tanto spesso in noi affievolito, della comunione dei Santi, d’essere noi cioè, come dice San Paolo, «concittadini dei Santi e membri della famiglia di Dio» (
Ep 2,19). Così che la gioia di questa canonizzazione si muterà nei nostri spiriti nello stupore dapprima del nostro destino escatologico, chiamati come noi pure siamo «ad aver parte nell’eredità dei Santi nella luce» (Col 1,12); nello stupore poi si trasformerà la nostra gioia, nell’ammirazione anzi del «fenomeno», del prodigio di Fratel Benildo, che non solo è riuscito a conseguire quella «eredità dei Santi» (Ac 26,18), retaggio offerto ad ogni fedele cristiano, ma ha potuto raggiungerla con tale grado di splendore e di esemplarità da farsi acclamare Santo dalla Chiesa di Dio.

Sì, Fratelli e Figli, che guardate ora a Fratel Benildo come a figura singolarissima; e sapendola circonfusa durante la sua vita mortale di umiltà, di silenzio, di semplicità e quasi rimpicciolita dal quadro sociale, in cui egli ebbe a trovarsi, voi tutti vi chiedete con Noi quali siano i valori che diedero risalto alla sua nascosta esistenza, quale sia il titolo alla grandezza nella sua piccolezza, quale il segreto della sua esaltazione; e la risposta è facile e pronta: la santità. Ma una nuova e più urgente questione incalza la nostra curiosità: e che cosa è la santità?

Oh, quale tema attraente ed astruso, la santità! Esso sembra dovere ora occupare il nostro spirito desideroso di soddisfare un’impellente e ricorrente curiosità: vediamo ora finalmente che cosa significhi essere santo. Ma non rifaremo ora la sottile ricerca, tentata dai saggi (cf. Socrate, in Platone, Eutifrone), del suo recondito ed apparentemente ovvio significato; ricerca che porterebbe a far convergere in un solo termine assoluto, Dio, «giusto e giustificante» (Rm 3,26), alcuni concetti fondamentali della vita umana considerata al suo grado più alto e più vero, quello morale, come il concetto di purezza e di fermezza (cf. S. Th. II-II 85,1, quello di esemplarità e imitabilità, cioè di tipicità (cf. S. Ambrogio), quello astratto che tutto riassume di perfezione, e quello concreto e esistenziale di carità.


UNA VITA TUTTA RIFERITA A DIO

Uno sguardo, per quanto rapido e superficiale, alla figura del Santo, che abbiamo davanti, ci lascerà intravedere che la santità è una forma di vita tutta riferita a Dio; S. Tommaso fa coincidere essenzialmente la religione e la santità (ib.): da Dio ci viene la nostra prima ed effettiva santità, la grazia; da lui la norma che ci fa giusti e buoni, cioè la sua volontà; da lui, in Cristo Gesù, l’esempio da contemplare e da ricalcare; da lui ogni aiuto per conservare e per sviluppare il dono della vita nuova; da lui l’invito al colloquio spirituale, che nella preghiera, alimenta la vita interiore; da lui l’amore che ci abilita ad amare e a tendere all’unione con lui, unione perfettibile in questa vita, consumata in pienezza, a lui piacendo, nella vita futura. E questa forma di vita, tutta rivolta a Dio, tutta sospesa nella risposta alla sua vocazione, tutta assorbita nell’orazione e nell’osservanza degli atti propri della religione, tutta impegnata nella trasfusione delle somme verità religiose nelle anime innocenti dei piccoli allievi, tutta pervasa di semplice e spontanea conversazione con Dio, con Cristo presente nell’Eucaristia, con la Madonna, con S. Giuseppe, con i Santi, non è stata forse la forma di vita propria del nostro nuovo Santo, Benildo nostro? È nelle vostre mani, venerati Fratelli e Figli diletti, la sua biografia; se vorrete scorrerne le pagine voi vedrete come questo riferimento a Dio segni il punto focale della sua psicologia ed anche della sua attività. Una testimonianza, sovente ripetuta, ci dice: «Il priait toujours, sa main ne quittait pas son chapelet; on le nommait l’homme du chapelet» (Fr. Niomède).


IL PIÙ LIBERO E VOLENTEROSO DEGLI UOMINI E IL PIÙ DOLCE E PIÙ OBBEDIENTE

Ma la santità presenta altri aspetti. È la santità, potremmo dire, una forma di vita fortemente stilizzata da un singolare gioco di due principi operativi, che la caratterizzano fino quasi a darle una certa evidenza; uno interiore, mediante il quale la coscienza, la libertà, l’iniziativa, la volontà morale, il temperamento personale esplicano una incessante tensione, uno sforzo tranquillo, ma senza tregua, per raggiungere la «virtus», la perfezione nell’operare il bene, fino al rendimento massimo, perfino eroico talvolta, del quale il soggetto è capace; mentre l’altro principio, esteriore, la legge, la regola, offre all’azione virtuosa una concreta osservanza, una disciplina, che vuol essere il riflesso della volontà superiore e sapiente, che dall’ordine trascendente del divino volere deriva la sua ispirazione e la sua effettiva bontà. Risulta così che il santo è il più libero e volontario degli uomini e nello stesso tempo il più docile ed obbediente; ed è proprio da questa originale composizione di spontaneità e di uniformità alla norma stabilita, che la santità traspare come un’arte di vita, come un’armonia invidiabile, come un equilibrio ammirabile, che trasfigura una esistenza, per umile che sia, in un fenomeno morale di umana bellezza.

Così Benildo. Non è chi non vede, osservando il corso silenzioso e modesto della sua vita, come questa fusione delle due volontà, quella propria e quella divina, (notificata dai precetti che improntano la vita cristiana e quella religiosa), sia stata costantemente fedele, quasi a dar saggio d’una austerità, d’una innocenza, d’una serenità, d’una resistenza, che ci ricordano i doni dello Spirito, di cui parla San Paolo (Ga 5,22 Ep 5,9), e da cui proviene l’autentica santità. Citiamo per tutte le testimonianze che si potrebbero addurre a questo proposito, una parola decisiva dello stesso Fratel Benildo: «Je serais heureux si je pouvais mourir en accomplissant un point de Règle»: il Religioso santo traspare da questa semplice dichiarazione.


NUOVA GLORIA DI INSIGNE E BENEMERITO ISTITUTO PER L'EDUCAZIONE DELLA GIOVENTÙ

E ancora. La visione fugace, che stiamo dando alla figura del nuovo Santo, si arresta sopra un altro aspetto, che lo qualifica e investe tutta la sua esistenza. Fu un maestro, un maestro di scuola elementare e popolare, un maestro d’un Istituto quant’altri mai insigne e benemerito dell’istruzione e dell’educazione della gioventù. Un umile maestro, povero, malaticcio, in un paese di montagna. Basta questo titolo per dirlo santo? Siamo tentati di dire che sì. Quale altro titolo rivendicò a se stesso Gesù, che quello di Maestro (cf. Mt 23,8 Jn 13,14)? Potremmo applicare a questo nome sublime l’elogio di S. Ambrogio per S. Agnese: «Vox una praeconium est. Hanc senes, hanc iuvenes, hanc puieri cantant. Nemo est laudabilior, quam qui ab omnibus laudari potest; il solo nome è un elogio. Risuona esso sulle labbra dei vecchi, dei giovani e dei fanciulli. E chi è più degno di lode di colui che può essere lodato da tutti?» (De virg. 1, 6). La professione stessa di Maestro nasconde in se stessa un’esigenza di santità, ed ha in sé una virtù che la genera. Questo è un principio che proietta su tutta la classe magistrale una grande dignità, e su tutta la Famiglia religiosa dei Fratelli delle Scuole Cristiane una fondata presunzione di perfezione cristiana. Ed ecco che il titolo di Maestro, di Maestro di scuola rurale ed elementare, esplode la sua virtuale bellezza nel Santo che noi celebriamo, Fratel Benildo delle Scuole Cristiane, perché Maestro fu, e quale Maestro! La sua biografia lo documenta, specialmente per i meriti che fanno anche d’un oscuro insegnante un uomo grande e benefico; i meriti della sapienza, dell’abnegazione, dell’amore. L’elogio non avrebbe facile termine se volesse illustrare le prove che lo giustificano; ma, per fortuna, voi tutti, Noi pensiamo, conoscete quanto basta della perfetta, totale, felice dedizione che Fratel Benildo consacrò alla sua missione di Maestro, perché Noi Ci dispensiamo dal dirne di più: ci basti la sentenza della Chiesa che lo dichiara Santo per dare gioia al nostro spirito nel vedere associato questo altissimo titolo a quello d’insegnante di scuola elementare e nel poter esclamare di Benildo con tutta la Chiesa: Santo e Maestro!

Ci sia concesso invitare in modo speciale a questa gioia la Francia!


LE SANE AUTENTICHE VIRTÙ SOCIALI E CIVILI DI UN POPOLO

A cette joie, qu’il Nous soit permis d’inviter d’une façon spéciale la France.

La France, qui, une fois encore, montre sa prodigieuse fécondité, la France qui engendre toujours pour l’Eglise et pour le monde de nouvelles et originales figures d’hommes, vivantes personnifications de ses vertus humaines et de ses vertus chrétiennes, dignes d’être proposées à la vénération et à l’imitation de l’Eglise universelle; la France qui, à travers les plus dramatiques vicissitudes historiques et les plus radicales évolutions spirituelles, sait sauvegarder un patrimoine stable de valeurs religieuses et morales, un trésor de traditions ancestrales, Nous dirions volontiers un instinct de fidélité à elle-même, à sa vocation chrétienne, à sa mission civilisatrice; la France, qui, dans l’exaltation d’un humble fils de l’Auvergne, - coeur géographique et ethnique de ce grand Pays -, voit célébrer les simples, les saines, les authentiques vertus sociales et civiles de son peuple. Oui, que la France exulte avec Nous, avec l’Eglise catholique, et qu’elle inscrive dans le livre d’or de ses meilleurs fils le nom d’un Saint, que toute la terre et toute l’histoire future honoreront: Frère Bénilde des Ecoles Chrétiennes!

Et exultez vous aussi, chers, très chers Frères des Ecoles Chrétiennes, qui, à côté du nom glorieux de Saint Jean-Baptiste de La Salle, pouvez enfin ajouter celui d’un de vos confrères; réjouissez- vous d’être, comme il l’a été, maîtres des enfants du peuple, voués à cette si haute mission, à cet apostolat si digne, et à rien d’autre qu’à cela; tout absorbés par cette tâche noble et délicate entre toutes; tout persuadés que l’Ecole, l’Ecole catholique mérite votre sacrifice total, mérite que vous lui donniez avec générosité et génialité votre ministère pédagogique et didactique; tout confiants que l’offrande de votre vie à la cause de l’Ecole empreinte de sagesse chrétienne ne sera pas vaine, ne sera pas rendue superflue par la diffusion de la culture et par le progrès de l’organisation scolaire, mais qu’elle en sera, bien plutôt, honorée et valorisée. Oui, exultez! Un nouveau modèle vient garantir l’excellence de votre vocation; un nouveau protecteur vient assister du Ciel vos personnes et vos institutions; un nouveau Maître vient s’asseoir à vos côtés dans les innombrables classes de vos écoles; et sur toute la jeunesse qui s’honore de votre magistère, Saint Bénilde irradie sa merveilleuse sainteté, apportant à tous, Maîtres et élèves, avec la Nôtre, sa bénédiction.




Omelie 1968




Lunedì, 1° gennaio 1968: SANTA MESSA ALL’OSPEDALE DEL BAMBINO GESÙ

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Solennità di Maria SS.ma Madre di Dio



Ai cari figliuoli ed a quanti assistono al sacro Rito il saluto dell’augusto Celebrante.

Esso è diretto, dapprima, al Signor Cardinale Vicario, che Sua Santità si felicita di rivedere ristabilito dalla recente infermità. Quindi il saluto va a tutti coloro che si occupano della eletta, bella, complessa istituzione dell’Ospedale del Bambino Gesù. Esso è al Papa molto caro, ed è oggetto di tanti suoi pensieri e di tutti i suoi auguri.

Si aggiungono i voti per il nuovo anno ai presenti, incominciando da chi è a capo della casa di cura: il Presidente della Amministrazione. E il Papa è lieto di ricordare che il suo nome gli conferma, da tanti anni, ricordi incancellabili, segnatamente il veneratissimo grande Predecessore Pio XII, poiché il presidente appartiene alla famiglia di quel Pontefice ed è il Principe Giulio Pacelli. A lui la gratitudine più viva del Santo Padre per l’opera, il tempo, le sollecitudini, il cuore che il Principe dedica alla istituzione.



RICONOSCENTE SALUTO A BENEMERITI E GENEROSI

Con lui Sua Santità vuole ringraziare tutti coloro che attendono al buon andamento della Casa: gli amministratori, con gli impiegati e i dipendenti; i medici, a cominciare dal direttore, e a quanti gli fanno corona, cioè l’intero corpo sanitario, che ha la missione, scientifica e professionale, di cure delicate, impegnative, gentili, umane, appunto perché rivolte a bambini ammalati.

Con i medici vanno salutate le solerti infermiere; le Suore, così brave, pazienti, affettuose, che applicano per i piccoli la ricchezza di carità, che la vocazione religiosa pone nella loro anima. È un’opera grande, anche se resta anonima: il Signore che vede in abscondito, sa, conosce, ricorda e premierà.

Al Cappellano la speciale benedizione del Supremo Pastore: inoltre, Egli vuole menzionare i genitori dei piccoli ricoverati, le singole famiglie, e quanti altri all’odierno incontro natalizio stanno assistendo almeno in spirito.

Infine il pensiero speciale del Papa è proprio per i bambini, per ognuno di essi. Egli, se ne avesse il tempo, vorrebbe intrattenersi con ciascuno dei degenti, per incoraggiare e conoscere; formulare i migliori auspici di pronta e completa guarigione. Tutti i piccoli che assistono alla Messa e coloro che sono rimasti in corsia devono sapere che il Papa è venuto proprio per essi: li pensa sempre e ad essi vuole aprire il suo cuore.

Eccoci dunque - prosegue Sua Santità - a spiegarvi il perché della Nostra visita. Forse perché è il primo giorno dell’anno? dirà qualcuno. Sì, certamente. Ma non è il solo motivo. Esistono due altre ragioni.

La prima - e l’avevamo in mente da lungo tempo - è che vogliamo onorare questa Casa. Intendiamo dimostrare a tutti che il Papa vuol bene all’Ospedale del Bambino Gesù, e perciò quanti di esso si occupano, sappiano di essere guardati, seguiti, sorretti dall’interessamento e dalla gratitudine del Vicario di Gesù Cristo.



FIORENTE SVILUPPO DELLA CASA DI CURA

Ci direte: Se è così perché solo adesso viene? In realtà da molto Egli desiderava compiere la visita; ma tutti, anche i piccoli sanno, che innumerevoli sono le occupazioni del Papa e non sempre Egli è libero di scegliere il momento opportuno per tutte le cose. Ora è in grado di dare una prova esplicita della sua benevolenza.

Di qui un’altra possibile, benché inespressa, domanda: perché il Papa vuol bene all’Ospedale del Bambino Gesù? Pronta la risposta: perché è una Casa benedetta ed amata, che a Lui appartiene: è istituzione pontificia. E a chi chiedesse: stando così le cose, come mai il Santo Padre non si fa maggiormente sentire per le varie necessità ed i miglioramenti che i tempi sempre più richiedono, la replica è semplice. Il Papa deve fronteggiare tante necessità; e non sempre riesce a superare ostacoli non lievi. Lo sa bene - aggiunge sorridendo - Monsignor Guerri, il Segretario dell'Amministrazione della Santa Sede, qui presente.

Però la Provvidenza sempre soccorre. Vi sono moltissime ottime persone che si occupano di questo Ospedale: e il Papa si fida di esse, perché sa che la loro opera è fatta di intelligenza, sagacia e ricerca delle vie migliori per dare soluzione equa e soddisfacente a numerosi problemi. Tanto è vero che questo Istituto è fiorente. C'è anzi un nuovo padiglione, che fra poco visiteremo: ciò dimostra il suo crescente sviluppo.

A questo punto Sua Santità vuole ringraziare davanti al Signore e davanti agli uomini i benefattori, a cominciare dai duchi Salviati, i fondatori, per arrivare al compianto Cardinale Spellman, il quale, sin dai tempi in cui svolgeva il suo lavoro nella Segreteria di Stato, dimostrava viva premura e generosità, sempre poi continuata, quando lasciò Roma, in ogni anno: a titolo di riconoscenza un padiglione porta il suo illustre nome. Su tali luminosi esempi si continua ad agire: in una parola, oggi il Papa è venuto ad augurare sempre maggiore efficienza all'esemplare luogo di cura.



I PREDILETTI DEL SIGNORE E DEL SUO VICARIO

Inoltre occorre riflettere alla missione specifica di questa Casa. Qui si assistono e si curano i bambini malati. Ci si riferisce - prosegue il Santo Padre - che in Roma essa è la più bella e completa istituzione del genere; pertanto il Papa è lieto, felice che essa porti il nome del Signore, del Bambino Gesù; e che appartenga alla Santa Sede.

Vi potrebbe dunque essere un istituto più amato dal Papa? Qui Egli sente, in maniera tutt'affatto speciale, il Padre di ognuna di queste anime innocenti; e si considera - e lo vorrebbe nella maniera più adeguata - come Gesù in mezzo ai fanciulli. Tutti conoscono la mirabile pagina del Vangelo a proposito dei pargoli; e sembra al Papa - ciò dice con viva emozione - che qualche cosa di simile si ripeta nell'umiltà della sua persona e nella esiguità del suo ministero. C’è anzi un elemento che rende ancor più sensibile questo stato d’animo. Quando Gesù accoglieva intorno a Sé i fanciulli, si trattava di piccoli e vivaci vostri coetanei nella pienezza della loro salute: qui abbiamo dei bambini malati. Ciò vuol dire che l’affetto dell’incontro di stamane si accresce e diventa profonda tenerezza.

Ecco, dunque, la prima ragione della visita. Tutti i diletti ospiti sentano la paternità della Chiesa, rappresentata da quella del Papa. Una paternità che predilige i piccoli, che tutti desidera buoni, sani; che si curva sul vostro lettino ad assicurare che tutto il possibile viene compiuto per aiutare ogni ospite ad acquisire energie e volontà sì da essere bene avviato ad un’esistenza degna e meritoria.

Dopo aver rinnovato i suoi auguri per coloro che si prodigano a vantaggio dell’Ospedale dell’infanzia, oggetto di particolari attenzioni nel cuore del Papa e quindi, senza dubbio, nel Cuore del Divino Redentore, il Santo Padre passa a spiegare il secondo motivo della sua presenza, nello speciale Rito e nella esortazione.

È ovvio che il Papa ha portato dei doni ai carissimi ospiti del «Bambin Gesù»: ma, fatto inconsueto, Egli è soprattutto venuto per chiedere un regalo: e cioè un’offerta di singolarissima natura.

Voi, diletti fanciulli, non di rado sentite più acuta la sofferenza e piangete : e ciò è umano e naturale: però siete anche capaci di pregare. Orbene, il Papa è venuto per chiedere l’offerta delle vostre lacrime, cioè dei dolori ed angustie, e di questo stato di cose che rende tristi degli esseri intelhgenti e vivaci. Sì, non vi mancano cure e sollievi, ma sovente pensate: noi non siamo in casa nostra, non siamo con gli altri ragazzi, ai giuochi, nella dolcezza familiare. Siamo in un ospedale: e ciò senza dubbio rattrista il cuore, toglie ogni sorriso, apre la vena al pianto. Ma c’è la preghiera che conforta ed illumina. Adunque, il Papa domanda: volete offrire una pena tanto grande e recitare qualche prece per Me? Per le mie intenzioni, per quella soprattutto che mi sta tanto a cuore: la pace?



DOVEROSO PENSIERO PER CHI SOFFRE ANCORA DI PIÙ

Vedete - spiega Sua Santità - voi siete qui nell’angustia e tanto degni d’essere commiserati ed assistiti. Ma sapete che vi sono molti altri bambini ancora più infelici di voi: quelli colpiti dalla guerra. Non pochi di essi sono privi dei genitori, senza alcuno che dia, loro assistenza; mancanti di aiuti, rimasti abbandonati a se stessi e forse anche feriti o in preda a gravi malattie! Dove accade tutto ciò? In tante parti del mondo, purtroppo, ma specialmente in una nazione che ora preme più d’ogni altra: il Vietnam. Oh, come il Papa vorrebbe che le indicibili sofferenze di quel popolo fossero cancellate e ne venissero annullate le cause: cioè i combattimenti, la guerra!

Qui il grande motivo per cui il Papa è venuto a pregare con i fanciulli ammalati; a pregare per la pace. Vi hanno detto che oggi in tutto il mondo, in tutte le chiese si celebra la «Giornata della Pace», cioè, anzitutto, si invoca a gran voce questo supremo dono di Dio?

Pregherete anche voi? Farete dunque questo regalo al Papa? Potrò essere sicuramente nel giusto quando dirò: i bambini del «Bambin Gesù» offrono le loro pene, sofferenze e preghiere per la grande causa della pace?



L'INNOCENZA PREPARA INVOCA AFFRETTA LA PACE

Qualcuno, qui o altrove, potrebbe interloquire: ma si tratta di cose di tanto valore e così preziose? La risposta è immediata, esplicita: sono doni preziosissimi. Infatti, certamente il Signore vi ama. Ora, se il cuore di un uomo, di una mamma sussulta quando sente il proprio bambino piangere, non pensate che si commuova il Cuore di Dio nel vedere voi, sue creature, afflitte, già ai primi anni, dalle avversità, e che offrono a Lui le proprie sofferenze?

Il Signore dunque vi guarda con speciale tenerezza e bontà e gradisce il dono dei vostri fioretti, dei vostri atti di bontà, della paziente obbedienza. Quando un piccino piange, e con impeto invoca la mamma, questa non corre immediatamente a soccorrere e a consolare? Ciò conferma che la voce dei piccoli possiede una forza di attrazione e commozione superiore a quella degli adulti. Se voi pregate, senza dubbio il Signore vi ascolta. Gesù lo ha dichiarato nel suo Vangelo, in modo chiaro e persuasivo. «Se tra voi - si legge in San Luca - un figliuolo domanda del pane al padre, gli darà egli un sasso? e se un pesce, gli darà forse invece del pesce un serpente?». Sarebbe un orrore!

Noi sappiamo che il Signore ascolta, dunque, in maniera evidente, le vostre preghiere, le accoglie: di certo esse hanno un immenso valore, poiché riflettono - grande mistero, ma realtà consolante! - la potenza del dolore innocente. Secondo il criterio umano, la sofferenza di un bimbo si direbbe sciupata, inutile, anzi da respingere, nell’ordine di cose che noi ci configuriamo. Eppure basta riflettere che proprio per il dolore innocente noi siamo salvi. Non era innocente Gesù? e non è stato il suo dolore, la sua passione, la sua morte a redimere il mondo? Del pari, il dolore di voi, ignari delle malizie umane, - conclude il Santo Padre - forse anche meno cosciente di quanto potrebbe essere, è quello che più vale. E pertanto, figliuoli, voi fate al Papa un dono inestimabile, se promettete di offrire le vostre sofferenze e preghiere per la pace nel mondo; per tanti bambini che soffrono e quanto voi e di più; e inoltre per tutti questi uomini scatenati gli uni contro gli altri, perché divengano, invece, fratelli, buoni, e siano davvero condotti alla pace del Signore.

Vogliamo pregare insieme? Sì, tra brevi istanti eleveremo a Dio la nostra supplica. In questa Santa Messa il Signore è con noi e il Papa celebrante dirà con la voce stessa dei piccoli ospiti: Gesù, Tu che sei l’Agnello, cioè l'innocente, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi!






Venerdì, 2 febbraio 1968: TRADIZIONALE CERIMONIA DELLA OFFERTA DEI CERI

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Festa della Presentazione di Nostro Signore Gesù Cristo al Tempio



Grazie, figli carissimi, della vostra presenza a questa tradizionale cerimonia della Chiesa Romana; una presenza che Ci dà il piacere di vedere raccolti d’intorno a Noi i rappresentanti del Clero diocesano e religioso e di tante istituzioni ecclesiastiche fiorenti in questa sempre benedetta Urbe cattolica. Non è frequente un simile incontro (la parola «incontro» Ci ricorda la definizione primitiva di questa festa detta appunto Hypapante, cioè occursus, incontro di Nostro Signore, il Bambino Gesù, con i due vecchi personaggi profetici, ricordati nel Vangelo di San Luca, Simeone e Anna, quasi a significare l’incontro dell’antico col nuovo Testamento); un incontro invece il nostro che dà ai presenti un’immagine, incompleta ed imperfetta, ma pur tanto significativa delle tante e diverse corporazioni ecclesiali, che compongono la comunità cattolica della città di Roma. Roma qui, oggi, si scopre essere una famiglia, gode di sentirsi un corpo mistico dalle molte membra, distinte dalla loro peculiare fisionomia storica, spirituale e funzionale, e tutte articolate in unità per l’identica fede, per la fraterna carità, per la comune obbedienza ad un solo Pastore. Non avesse questa cerimonia altro valore che di offrire occasione di questo incontro, meriterebbe d’essere considerata nel suo evidente e profondo significato ecclesiale, così pieno, così bello, così cattolico come in quest’ora e in questa sede.



ORIGINI E SIGNIFICATO DELL’ANTICHISSIMA FESTA MARIANA

Godiamo perciò cordialmente nel Signore d’essere, nel nome di Maria purissima e del suo divino Figliolo, insieme riuniti per dare espressione esteriore e simbolica alla santa Chiesa, di cui tutti vogliamo essere e siamo membra vive; e lasciamo che in fondo alle nostre anime echeggi l’antifona del Giovedì santo: «Ubi caritas et amor Deus ibi est. Congregavit nos in unum Christi amor».

Acquista così, a Noi pare, più denso significato l’atto, che ciascuno di voi è venuto qua per compiere, l’offerta d'un proprio dono, un cero benedetto, al Papa. Si è tanto parlato di questi ceri, di questi lumi, simbolici anch’essi, puri e giulivi in relazione con la festa, che oggi celebriamo, detta dall’impiego sacro, che in essa vi hanno avuto e ancora nel rito liturgico vi hanno i ceri, la «candelora». Lasciamo per ora agli studiosi ed ai meditativi ripensare l’origine della festa, che prima forse rivolse a Maria il culto cristiano (cfr. Peregrinatio Aetheriae) e che, teste una pia vedova romana, Vicellia, alla metà del quinto secolo, associò al rito la processione con le candele: «festum occursus Salvatoris nostri Dei cum candelis» (cfr. Rado, II, 1140); e fermiamo per un istante il pensiero sul significato che ciascuno di voi vuol dare all’offerta del proprio cero nelle Nostre mani.

Il significato è evidente: codesta offerta vuol essere atto di filiale sudditanza al Vescovo di Roma, atto di ossequio, atto di obbedienza. Non è così?



ATTO DI GENEROSA FEDELTÀ E CONSAPEVOLE OBBEDIENZA

Chiunque di voi prendesse la parola, per dare senso interiore a cotesto gesto esteriore di pia e gentile oblazione, direbbe certamente che l’offerta del cero è il segno della propria sottomissione a Chi è costituito Capo nella Chiesa; e lo direbbe, Noi crediamo, non già col sentimento di rassegnata accettazione d’un costume d’altri tempi, ovvero d’un’istituzione giuridica non suscettibile di cambiamenti, ma con la convinzione di porsi in armonia con un disegno divino, che le vicende della storia non cambiano, là dove vuol essere fedeltà alla sua realizzazione nella vita e nella storia della Chiesa. Cioè, Noi crediamo che nel gesto che voi ora compite avete coscienza d’interpretare quei fondamenti teologici e spirituali, che fanno dell’obbedienza ecclesiastica una legge fondamentale della comunità fondata da Cristo, la Chiesa, caratterizzata e costituita dalla struttura gerarchica; e ben sapete che Cristo stesso s’è presentato nel disegno d’un’obbedienza totale, e come obbediente ha compiuto la sua missione salvatrice, factus oboediens, e come tale a noi ha lasciato se stesso in esempio (cfr.
1P 2,21).

La vostra oblazione acquista perciò valore di risposta ad una opinione non retta, secondo la quale la maturità dell’uomo moderno, la rivendicazione dell’ufficio primario della coscienza personale, l’esaltazione della personalità e della libertà, la voce stessa del Concilio su questi temi di grande importanza e attualità, metterebbero in crisi la virtù dell’obbedienza, mettendone perfino in questione i fondamenti razionali e teologici. Ma una simile crisi non può abolire l’obbedienza nella Chiesa di Dio.


ALLA SOMMITÀ DELLA GERARCHIA IL PADRE CHE AMA E CONDUCE A CRISTO

Essa piuttosto la deve rimettere in onore per l’approfondimento che il cristiano provveduto può fare con le trasformazioni che la storia ha procurato alle strutture gerarchiche della Chiesa, non più coincidenti con quelle temporali, e con gli insegnamenti che il Concilio affida alla nostra considerazione e alla nostra osservanza. L’obbedienza illuminata va ricercando, dicevamo, il disegno divino, che contempla nel Popolo di Dio, come causa strumentale, ben s’intende, ma genetica ed efficiente, la presenza, e l’azione di rappresentanti di Cristo, muniti della sua pastorale autorità e dotati dei carismi di magistero, di direzione e di santificazione per il servizio e per la salvezza della comunità dei fedeli; è gerarchica la Chiesa, non inorganica, e nemmeno democratica nel senso che la comunità stessa abbia una priorità di fede e d’autorità su coloro che lo Spirito Santo ha posto a capo della Chiesa di Dio (cfr. Ac 20,28); cioè ha voluto il Signore che alcuni fratelli avessero l’insindacabile (cfr. 1Co 4,4) mandato di prestare agli altri fratelli il servizio dell’autorità, della direzione, come principio di unità, di ordine, di solidarietà, d’efficienza, sempre per formare quell’economia di verità e di carità, che si chiama la «sua Chiesa».

E perciò siamo lieti di ravvisare in questa cerimonia quasi un’apologia dell’obbedienza ecclesiastica, che ancor oggi si attesta lineare e fedele, con la felice opportunità di mettere in evidenza quale vuole esser la vostra obbedienza: responsabile, perché quella di superiori e di rappresentanti delle vostre rispettive istituzioni; volontaria, cioè libera e spontanea, perché non costretti voi venite oggi a porgerci il vostro omaggio e il vostro dono; filiale ed amorosa, perché, lungi dal segnare una distanza fra voi e il Nostro apostolico ufficio, a Noi vi avvicina come figli a padre, il quale nulla chiede da voi se non l’adesione dei vostri spiriti a Cristo e alla Chiesa: «Non quaero vestra, sed vos» (2Co 12,14).

Grazie, perciò, Figli carissimi, della vostra presenza, del vostro cero, e del significato che a ciò voi conferite. Accettiamo tutto questo da voi, con grande consolazione e con grande riconoscenza, e con effusione di cuore tutto ciò ricambiamo con la Nostra Benedizione Apostolica.




Giovedì, 22 febbraio 1968: SOLENNE CONCELEBRAZIONE NELLA FESTIVITÀ DELLA CATTEDRA DI SAN PIETRO

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IN VISTA D’UNA MAGGIORE EFFICIENZA DELLA VITA CATTOLICA

Venerati Fratelli e diletti Figli!

La nostra meditazione ci sia fornita dalla realtà del momento che stiamo vivendo. Ogni circostanza è degna di riflessione; e la riflessione ci aiuta al trapasso dalla celebrazione della liturgia, dal pensiero all’azione, dalla comunione con la verità, che il Signore ci offre, alla comunione con la sua vita, che il Signore attualizza nel sacrificio eucaristico. La prima circostanza che s’impone alla Nostra attenzione è la nostra presenza, venerati Fratelli e Figli diletti: ecco nella sua totalità l’Episcopato Italiano; ecco in una ristretta, ma eletta rappresentanza quel Laicato cattolico, frutto di tanta cura e di tanto amore, che viene ora a perfezionare i suoi rapporti con la Gerarchia della Chiesa, in vista d’una maggiore efficienza della vita cattolica e d’una più organica solidarietà di intenti, di responsabilità, di azione nella compagine del Popolo di Dio. Godiamo di questo incontro. Gustiamo quest’ora preziosa d’armonia spirituale. Lasciamo che la carità effonda i sentimenti propri di un’assemblea come questa; l’unione materiale di questa rara, solenne e molteplice presenza diventi, in questo istante, spirituale. Il saluto liturgico acquisti il suo pieno significato, e, Dio voglia, la sua efficacia: il Signore sia con voi! Quel Signore, che disse di voler misticamente intervenire là dove alcuni sono congregati nel suo nome (
Mt 18,20), penetri, avvolga, sigilli questa stupenda comunione. Un dono, un proposito porteremo con noi da questo incontro: quello di rendere perenne l’unità, che qui dà coscienza alla Chiesa Italiana di una sua nuova esistenza storica, d’un suo impegno a vivere nella medesima carità. Ripetiamo con convinzione, piena di gaudio e forte come una promessa: «Congregavit nos in unum Christi amor».



COMUNIONE GERARCHICA, FEDELTÀ DI SERVIZIO, AFFEZIONE PASTORALE

Un’altra circostanza di questa cerimonia da esteriore si faccia interiore. Ci troviamo sulla tomba dell’Apostolo Pietro; ci troviamo nella Basilica costruita con tanta monumentale ampiezza e tanta eloquenza di arte e di spiritualità, perché più aperto, più accogliente, più impressionante fosse l’afflusso degli oranti sul sepolcro, umile e glorioso, del discepolo scelto per essere fondamento d’unità e di stabilità, centro d’amore pastorale della Chiesa cattolica di Cristo. E qui, confuso e sbalordito dall’enormità delle sproporzioni, in cui si trova a vivere e ad agire, ma sicuro dell’esaltante autenticità della propria missione, Colui che vi parla deve ricordarvi che, essendo su di Lui caduta la successione episcopale dell’Apostolo stesso, la figura e la funzione del Vicario di Cristo è davanti a voi, tutto per voi, quale dev’essere il Servus servorum Dei: e ciò non tanto per suscitare in voi sentimenti di ossequio e di timore, ma piuttosto di meraviglia verso le paradossali opere del Signore, e insieme di sicurezza, di conforto e di fraternità. Ed ecco che un secondo dono, un secondo proposito porteremo con noi a fecondo ricordo della presente celebrazione: «Bonum est nos hic esse» (Mt 17,4); procureremo cioè di conservare questo reciproco rapporto di comunione gerarchica, di fedeltà di servizio, di affezione pastorale, ch’è fondamentale nella costituzione della Chiesa universale, e che è e dev’essere più sentito nella Chiesa Italiana: Ubi Petrus, ibi Ecclesia, ripeteremo insieme con Sant’Ambrogio (In Ps. XL, 30: P. L. 14, 1082).


LA FESTA DEL «NATALE PETRI DE CATHEDRA»

E poi, venerati Fratelli e carissimi Figli, oggi è festa che tutti questi pensieri rinnova ed esalta; celebriamo precisamente la festa della Cattedra di San Pietro; è il «Natale Petri de Cathedra» , che, lasciando ad altra data la commemorazione del martirio dell’Apostolo, vuole oggi onorare l’episcopato romano di Pietro, il suo ministero, il suo magistero (cfr. J. Ruysschaert). Non vi pare che questo aspetto dell’odierna festività ci offra un ovvio collegamento con la professione della nostra fede, che proprio la memoria centenaria del martirio degli Apostoli Pietro e Paolo ci ha indotto quest’anno a rinnovare, ad approfondire, a proclamare? Ed il Vangelo, di cui ora abbiamo ascoltato la lettura, non ci obbliga a far nostra, personalmente e coralmente, la confessione di Pietro circa la divina messianità di nostro Signor Gesù Cristo: «Tu es Christus Filius Dei vivi!» (Mt 16,16)? Circostanza anche questa degna di nota, in ordine all’importanza spirituale e storica, alla bellezza trascendente, che acquista una espressione di fede cattolica genuina, cosciente e collettiva dell’intero Episcopato Italiano, insieme con il Laicato cattolico qui rappresentato, nella corona degli Alunni dei Seminari Romani di lingua italiana, il Lateranense col Seminario minore di Roma, il Collegio Capranica, il Seminario Lombardo e gli altri Collegi ecclesiastici italiani in Roma. Circostanza degna di nota, in ordine parimente alla fase critica nella quale la fede, sia circa la psicologia dell’atto in cui si esprime, sia circa il contenuto dottrinale che la definisce, è venuta a trovarsi nella presente evoluzione della cultura, nella problematica radicale che mossa da alcuni critici l’ha investita, nello sforzo di rinnovamento teologico che un po’ dappertutto la travaglia e la stimola, nel confronto del dialogo ecumenico, nel pluralismo ideologico che la libertà religiosa favorisce, nel distacco dalla razionalità tradizionale nel nostro pensiero speculativo, e in tante altre difficoltà e crisi e tentazioni, che turbano ed esaltano lo spirito moderno, fuori e dentro la Chiesa.


INSCINDIBILE ARMONIA DELLE TRE VIRTÙ TEOLOGALI

Perciò la professione di fede che oggi scaturisce da questa assemblea assume l’aspetto d’un’affermazione decisiva: noi crediamo in Dio, noi crediamo in Gesù Cristo, noi crediamo, anzi, in un certo senso, noi sentiamo lo Spirito Santo che ci rende audaci e felici nell’emissione del nostro atto di fede, che arrivando unanime ai piedi di questo altare si conclude nell’abbandono fidente a quella santa Chiesa, che qui ha nella pietra apostolica il suo fondamento; e senz’ombra di trionfalismo, ma nella sincerità d’una vissuta testimonianza sperimenta la verità della parola dell’evangelista Giovanni: «Haec est victoria quae vincit mundum, fides nostra» (1Jn 5,4).

Se Ci è consentito d’indugiare un istante sul senso di pienezza di questo atto di fede, che sembra suggerito da Pietro stesso oggi da noi venerato, quando scrive «resistite fortes in fide» (1P 5,9), Noi vi esorteremo, venerati Fratelli e diletti Figli, a secondare nell’atto medesimo il movimento teologale, che gli è proprio, a tradurlo cioè nella virtù della speranza, sorella seguace di quella fede, che ha ricevuto l’estrema rivelazione del mondo divino: Deus caritas est (1Jn 4,16); «e noi alla carità abbiamo creduto» (ib.). Si, «Dio è Amore. La speranza è la risposta spontanea dell’anima a questa certezza, una volta che sia accolta e misurata. Essa erompe al punto preciso, all’istante preciso, in cui la fede in Dio si rivela una fede nella carità» (Card. Garrone, Que faut-il croire?, p. 284). Del resto nessuno di noi ha dimenticato la definizione scritturale della fede, coessenziale alla speranza : «Est autem fides sperandarum substantia rerum» (He 11,1); «Fede è sostanza di cose sperate» (Dante, Par. 24, 64).



DARE AGLI UOMINI SPERANZE BUONE, VERE E NUOVE

Perciò sembra a Noi che la vostra professione di fede, resa solenne dalle ricordate circostanze, se vuol essere fissa alle verità di cui essa ci fa dono infallibile ed ineffabile, debba lasciarsi trasportare negli orizzonti escatologici, che sono la realtà di quel regno di Dio, da noi pregustato nel tempo, da noi predicato nel nostro divenire storico, da noi ambito mediante tutta la disciplina della vita cristiana, da noi preferito a quell’ordine temporale, di cui pur siamo cittadini, ma pellegrini verso quei «nuovi cieli, e quella nuova terra, che noi attendiamo secondo la promessa di Cristo» (cfr. 2P 3,13).

Né si dica che così orientati e liberi da aspirazioni temporali, noi diventiamo forestieri in questa terra, in cui la Provvidenza ci ha dato di vivere, né incapaci di colloquio col mondo profano, tutto teso verso le realtà terrene, diventate nel tempo nostro estremamente feconde e seducenti. Tutta la Costituzione conciliare Gaudium et spes è là per dimostrare il contrario e per risolvere il problema dei rapporti del cristianesimo con l’umanesimo. E concludiamo piuttosto che la nostra missione, e proprio in quest’ora inquieta e confusa, è quella di infondere speranze buone, speranze vere, speranze nuove agli uomini a cui si rivolge il nostro ministero; e ciò - sia detto con le cautele del caso - anche per la vita temporale dei nostri fratelli (tali infatti sono per noi gli uomini, che la vita vissuta rende a noi prossimi).

Tocca a noi, credenti, speranti ed amanti, portare, secondo l’arte nostra, continuamente all’uomo cieco la luce, all’uomo affamato il pane, all’uomo adirato la pace, all’uomo stanco il sostegno, all’uomo sofferente il conforto, all’uomo disperato la speranza, al fanciullo la gioia della bontà, al giovane l’energia del bene. Se crisi oggi nel mondo vi è, essa è quella della speranza, quella dell’ignoranza dei fini per cui valga la pena d’impiegare l’enorme ricchezza di mezzi, di cui la civiltà moderna ha arricchito, ma altresì appesantito, la vita umana. Noi siamo le guide. Noi siamo coloro che hanno la scienza dei fini. Noi dobbiamo essere maestri della speranza. E questo sia detto per voi, Pastori, a cui appunto è dato condurre il gregge umano ai pascoli della vera vita; sia detto per voi, Laici cattolici, che con i Pastori apportate alla Chiesa e al mondo il pensiero e l’opera della salvezza cristiana.


CONFERMA DI STIMA D’INTERESSAMENTO DI VOTI

E qui fermiamo il Nostro discorso.

Non abbiamo parlato di quanto si riferisce alla vostra Assemblea Generale e alle molte questioni concrete, in cui oggi si svolge il vostro ministero pastorale; ma la lettera che, a Nostro nome, vi è stata indirizzata in proposito dal Nostro Cardinale Segretario di Stato, e le ampie ed autorevoli comunicazioni fatte all’Assemblea stessa dal Cardinale Presidente, il Patriarca di Venezia, come dagli altri Oratori, hanno già dato il dovuto rilievo a codesti fatti ed a codesti problemi. Ci basti ora assicurarvi del Nostro vivissimo interesse e del Nostro proposito di assecondare quanto meglio possibile le aspirazioni, le ansie, le fatiche dei Nostri venerati Confratelli nell’Episcopato, e rinnovarvi l’espressione della Nostra venerazione e della Nostra stima per la mirabile vostra operosità, che ben di cuore auguriamo sempre più organicamente ed efficacemente compresa, condivisa, sorretta dal nostro valoroso Laicato cattolico. E valga a convalidare questi sentimenti e questi voti la Nostra Benedizione Apostolica.




B. Paolo VI Omelie 32107