B. Paolo VI Omelie 31368

Domenica, 31 marzo 1968: SANTA MESSA NELLA CHIESA PARROCCHIALE DI SAN LEONE MAGNO

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UNA GIOVANE E FIORENTE PARROCCHIA

Anzitutto il Santo Padre tiene a dare un saluto alla dilettissima parrocchia di San Leone.

Se oggi Egli, Sommo Pontefice, la visita per la prima volta, è gradito a Lui ricordare che Egli ebbe parte all’avvio della nuova circoscrizione ecclesiastica. Venne, infatti, in questa zona per la scelta del suolo dell’erigenda chiesa, nell’immediato dopoguerra, per incarico di Papa Pio XII di venerata memoria, suo Maestro e Predecessore.

Il progetto venne approvato: si trattava di suscitare una grande parrocchia, bene adeguata a tutte le esigenze dei nostri tempi. Qualche anno più tardi ci fu chi ebbe il coraggio e la cura di trovare i mezzi per il nuovo tempio: fu l’Unione Uomini di Azione Cattolica, che volle in tal modo degnamente celebrare il trentesimo della sua attività.

Ai promotori e zelatori dell’opera va oggi il commosso e fervido ringraziamento del Supremo Pastore.

Ed ora i saluti del giorno. Al Signor Cardinale Vicario - assente da Roma - ma col cuore presente alla riunione; a Monsignor Vice Gerente; ai tre Vescovi Ausiliari, nonché al primo Magistrato dell’Urbe, il Dottor Santini, Sindaco della. Città, la cui presenza sottolinea a tutti le necessità e grandezze di Roma cristiana, di Roma cattolica.

Segue il particolarissimo pensiero augurale per il Parroco, Don Livio Giorgi, il quale, da sedici anni, si dedica con esemplare generosità al bene delle anime a lui affidate. Nel nome di Cristo il Vescovo di Roma lo saluta e benedice, associando a tale benedizione tutti i sacerdoti che coadiuvano il Parroco, ed invitando i fedeli a corrispondere con slancio e aperta volontà alle loro sollecitudini pastorali.



PER TUTTI L'ANSIA E IL CUORE DEL PADRE

È poi la volta dei parrocchiani. Ai partecipanti al Sacro Rito un paterno compiacimento per l’eccezionale incontro. E per gli altri?

Se taluni non sono riusciti ad entrare nella chiesa, altri ve ne sono, che rimangono volontariamente lontani. Possiamo chiedere il motivo di ciò. Ci sentiremmo rispondere che non ci conoscono, o forse ci giudicano non amici, ovvero hanno altri pensieri nel cuore; sono spiritualmente da noi distanti.

Orbene - dice il Santo Padre con voce commossa - il Papa dichiara che questa sua visita alla parrocchia è per tutte le anime, indistintamente. A tutte Egli intende manifestare il suo amore paterno: anzi - come insegna il Divino Maestro nella parabola del pastore che si affanna alla ricerca della centesima pecorella smarrita mentre le altre sono al sicuro nell’ovile - vuole appunto far pervenire agli assenti il richiamo del suo appello e della sua carità, della sua amicizia e comprensione. Anche per loro la sua speciale preghiera, a cominciare dalla incomparabile supplica della Santa Messa. Tutti - Egli ripete - sono vicini al cuore del Padre perché attesi, con infinito amore, dal Cuore di Cristo.

Dopo questo superno intento, la considerazione torna all’assemblea dei fedeli. Ad essi il compiacimento e l’assicurazione d’ogni grazia dal Signore. Il Santo Padre tiene ad elogiare, nel nome di Gesù, l’adesione, la testimonianza di vita cristiana da Lui voluta e attesa; specie in Roma cattolica; perciò il plauso è diretto, in modo particolare, ai pionieri, agli araldi - in questi anni tremendi e decisivi - dell’Azione Cattolica. Il Signore benedica tutti: uomini e donne, giovani e fanciulli, giacché essi compongono il tessuto morale e sociale della parrocchia.



«CHI È DA DIO ASCOLTA LA MIA PAROLA»

Oltre alla benedizione, il Papa intende lasciare una sua parola. La suggerisce e la offre il tratto, da poco letto, del Vangelo della Domenica di Passione. È un brano drammatico, in cui il discorso di Nostro Signore Gesù Cristo con coloro che l’avversavano diventa via via critica, dissenso, contrasto, lotta e infine rottura tra il Cristo, il Figlio di Dio, l’Inviato del Padre, - con la duplice natura umana e divina nell’unica Persona del Figlio di Dio - e i suoi ascoltatori, che non lo comprendono, e al contrario di quanto era avvenuto nella Galilea e nei dintorni stessi di Gerusalemme, si dichiarano suoi aperti avversari.

Lo scontro si concluderà nella morte di Cristo. Gesù è-perdente, è soffocato in questa sua manifestazione gradualmente elevata e misteriosa. Essa non piace, non vuol essere accettata dai rappresentanti qualificati del popolo, che era stato educato ed eletto da secoli proprio per l’ora decisiva di accogliere il Messia; e il rapporto vitale fra l’umanità e la divinità nella Persona benedetta di Gesù Cristo. Non lo riconobbero: seguì, quindi, la Crocifissione, che noi ci accingiamo a commemorare, come ogni anno, prima della Resurrezione gloriosa di Lui.

Dal colloquio serrato, che si svolge tra Gesù e i suoi uditori, una sola parola il Santo Padre vuole scegliere per quanti sono intorno a Lui in questo momento, intendendo lasciarla a ricordo della sua visita.

Siete cristiani, siete perciò di Cristo? Certo. Ed allora che cosa il Signore chiede a voi? Egli, nel brano evangelico, di cui ci occupiamo, dichiara: Chi è da Dio ascolta la mia parola. Il grande dovere del cristiano si riassume in questa formula: ascoltare la parola del Signore; accettare quanto Egli ha detto; far nostro il suo pensiero; ricevere l’infusione della sua parola viva e farne l’argomento e la forza della esistenza.



ISTRUZIONE CATECHISTICA E CULTURA RELIGIOSA

Siffatto accoglimento della parola del Signore viene denominato dal catechismo, la fede. Di qui la mirabile sintesi dell’intero insegnamento di cui il Papa è depositario ed apostolo nel perenne e vibrante appello : ascoltate la voce di Cristo; aprite le orecchie, gli animi, il cuore alla parola del Signore!

Vi sono due maniere fondamentali per apprendere la divina parola e intenderla e possederla. La prima potrebbe definirsi l’ascoltazione esteriore, scolastica, catechistica, culturale. Si tratta, cioè, di imparare ciò che il Signore ha detto. Che cosa fa il Vescovo nella visita pastorale? Ha il diritto e il dovere di interrogare coloro che gli stanno dinanzi, a cominciare dai fanciulli. Si tratta di un esame sulla cognizione e la scienza degli insegnamenti di Dio. Da qui l’obbligo della istruzione religiosa, di riceverla con intelligenza e comprensione. Può oggi, nel secolo ventesimo, un cristiano, uno che va in chiesa, non rendersi conto dell’atto che compie nel recarsi ogni domenica alla Casa di Dio affin di partecipare alla comune preghiera? Ognuno deve essere più che mai impegnato a dare prova della conoscenza del suo modo di agire, specialmente nel campo religioso; deve, perciò, essere capace di dare spiegazione a se stesso ed agli altri della propria fede. Bisogna essere istruiti: oggi non è più consentita l’ignoranza. Non è più sufficiente il ristretto corredo di cognizioni apprese per la prima Comunione. Occorre essere pensatori. Altri, assai diversi da noi, lo sono in maniera accentuata. Di recente abbiamo visto, benché per mezzo di immagini, folle sterminate di popolo, di giovani, con in mano un libretto di «massime». Di quali massime si tratta? Sono di un uomo, di un capo. Ci limitiamo a dedurre che il criterio della istruzione, del dar ragione dei propri atteggiamenti pubblici e vitali, esige un tirocinio, una scienza dei principi per i quali ci si batte e si opera.


SENTIRE LA VOCE DEL SIGNORE

Il vero cristiano sente dunque il dovere di istruirsi, di non rifiutarsi mai quando il Parroco lo invita ad ascoltare la spiegazione delle eterne verità, o quando chiama i propri fedeli a speciali corsi di cultura religiosa per essere informati, anno per anno, sui principali temi che si presentano come più urgenti e meglio indicati. La parrocchia, prima ancora d’essere un’aula di culto e di preghiera, è una scuola che riferisce l’eco secolare, esatto, bellissimo ma tremendo, della voce di Dio discesa dal Cielo per mezzo della parola di Cristo.

C’è poi una seconda ascoltazione, quella interiore. Non basta conoscere - la religione infatti può essere nota anche a chi ne è lontano e non crede - ma accogliere si deve l’annuncio, il messaggio del Vangelo, e non soltanto con l’udito materiale, bensì facendolo linfa del proprio essere, sorgente primaria- della propria vita, ben riflettendo a tutto quanto Gesù ha detto. E subito, così preparati, incominciare la ricerca del Regno di Dio. Ciò dà al rapporto tra l’uomo e Dio il primo e più importante posto. Inoltre Gesù ci ha comandato di voler bene al nostro prossimo; ha instaurato la regale virtù della carità, fino a perdonare le offese, a rilevare le necessità di coloro che soffrono ed a servire tutti come fratelli. In una parola, occorre dare alla società umana una legge di amore, di carità.

E non è tutto. Il Signore ci dice anche: Sii paziente, sii umile; porta la tua croce, accogli il sacrificio. Non si tratta di nozioni terrene, bensì di norme discese, attraverso le labbra di Cristo e di chi ne ripete la voce, in ciascuno di noi. Parole divine, parole vere, parole vive! Ne fate voi argomento per il vostro operare quotidiano? È realmente la vostra fede un principio di vita, oppure è soltanto un’etichetta di scarsa importanza? Sentite bene, nel vostro intimo, la voce del Signore che chiama, ispira, ordina, consiglia, dirige, consola; vera promessa e speranza dei destini che ci attendono, del nostro avvenire?

Non è cosa agevole. Il Santo Padre spiega che non .poche, né lievi, sono le difficoltà, perché ciascuno percepisca in maniera autentica e piena la parola del Signore.

La prima difficoltà sorge dal fatto che vi sono intorno a noi, nella società in cui viviamo, mille altre voci. Ci troviamo come in mezzo a un frastuono assordante. Sono i giornali, la radio, la propaganda pubblica sociale e politica, la televisione, tutti i vari mezzi di traffico e dibattiti; la cultura, la stessa scuola. Come distinguere fra tanti rumori la voce del Signore, la quale, oltre tutto, non è affatto la più acuta, la più risonante? Il Signore infatti parla con tono grave e solenne, sì, ma tenue, dolce; parla per chi vuole ascoltare. Per gli altri invece che si distraggono a causa del predominio dei vari clamori, la sua voce è facilmente soffocata e si dilegua. Abituiamoci dunque a distinguere tra gli allettamenti delle varie filosofie, scienze, teorie; tra le molte propagande di sistemi sociali ed economici, ecc., l’unica, autentica, salvatrice parola del Signore.



OLTRE LE DIFFICOLTÀ ESTERNE ED INTERIORI

Su questa base potremo anche volentieri ascoltare le altre voci, con la profonda attitudine, che allora possederemo, di saperle discernere, catalogare, e farle anche tacere nei momenti supremi, quando in noi torna la conversazione con Dio, accolta nella sua autenticità, e nella sua unica, incomparabile bontà e bellezza.

La seconda difficoltà è nel nostro essere. Non solo noi possiamo essere soverchiati dai tumulti esteriori, ma pure dai nostri personali istinti, dalle passioni istigate ed accresciute nell’ambiente chiassoso e frenetico del mondo moderno. Non abbiamo quasi più la possibilità di raccoglierci e di fare centro del nostro mondo personale il nostro cuore. Siamo degli evasi, degli alienati, come oggi si dice, appunto per la continua distrazione, che ci impegna dal di fuori. Si arriva a dire a noi stessi, credendo di semplificare: seguirò quel che mi piace. Tale formula - e sembra la più facile e risolutiva - è quella che maggiormente ci -inganna. Chi segue ciò che piace, vale a dire la tentazione, l’attrattiva d’istinto, l’utile e l’interesse, si incammina per la strada falsa. Noi dobbiamo, al contrario, ascoltare la voce del Signore, non perché ci piace o è comoda, non perché sia quasi all’unisono con la nostra, ma perché è voce di Dio, con la sua autorità, la sua misteriosa prevalenza su tutte le voci umane, anche interiori. Persino la nostra coscienza e libertà riconoscono l’unica autorità, quella di Dio: gli stessi desideri del cuore vengono dopo l’assoluto primato del discorso di Dio.

Consideriamo, infine, un’altra difficoltà. La parola del Signore non è sempre facile. Tante volte il precetto di Cristo sembra duro; e lo è quando ci ordina di portare la croce. Ma come - reagisce l’uomo moderno - portare io la croce quando oggi tutto mi spinge al benessere, alle comodità, agli agi della vita; e mi offre i mezzi per eliminare qualsiasi fastidio dal programma dell’esistenza? Eppure Gesù ripete: se non porti la croce non avrai salvezza.



IL DOVERE DI ESSERE CRISTIANI PERFETTI

Ebbene, questa parola del Signore che sembra dura per noi, è la parola forte; quella che ci fa uomini e ci ristabilisce nella nostra più genuina libertà; ci fa soldati, militanti, testimoni, individui di carattere, capaci di dare ai valori spirituali il primo posto. Perciò la parola di Cristo, che sembra severa ed esigente, è quella che, in realtà, rinsalda la nostra personalità e nobilita la nostra statura. Non dobbiamo, figliuoli, essere persone vili, mediocri, che vivono per la comodità e con l’abitudine di fare ciò che gli altri compiono nell’unico intento del proprio egoistico benessere e vantaggio. Dobbiamo comportarci da cristiani perché Iddio ci chiama; e se Egli ci domanda qualche sacrificio, un qualche impegno anche grave e, per nostra fortuna, esigente, dobbiamo dimostrarci coraggiosi, eroici, se occorre, e rispondere: sì, o Signore, totale è l’ascolto interiore che io presterò.

Imprimiamo nella mente e nel cuore l’espressione dominante dell’odierno brano evangelico: Chi ascolta la mia parola avrà la vita, la vita eterna.

E il Papa, prescelto e mandato dal Signore, accingendosi alla celebrazione del Rito Eucaristico, nell’esercizio più semplice, ma più bello e più alto della sua missione di Vicario di Cristo, proclama: Questa parola è vera. Chi ascolta la parola del Signore avrà la vita eterna.




Domenica, 7 aprile 1968: SOLENNE CELEBRAZIONE NELLA «DOMINICA IN PALMIS»

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IL RICONOSCIMENTO PUBBLICO E POPOLARE DI GESÙ

A Voi giovani, specialmente, si rivolge ora la Nostra parola, per salutarvi, per ringraziarvi della vostra presenza a questa celebrazione, a cui siete particolarmente interessati, perché è da credere che a suscitare entusiasmo e ad esprimerlo con gesti e con grida festanti, per l’ingresso messianico di Gesù in Gerusalemme furono più d’ogni altro i giovani, i «pueri hebraeorum» , come interpreta la liturgia odierna. Voi sapete qual è il fatto evangelico, del quale ora facciamo memoria: è il riconoscimento pubblico e popolare di Gesù, come il Cristo, come Messia, come inviato da Dio; Colui nella cui persona si compivano finalmente le attese secolari del popolo ebreo; Colui che realizzava nella sua missione le profezie e che inaugurava l’età della salvezza e della gloria per la sua gente e per il mondo; il regno di Dio finalmente. Due circostanze devono essere notate; l’affluenza enorme di popolo a Gerusalemme per la prossima ricorrenza della Pasqua ebraica, la quale richiamava alla città, centro e simbolo dei destini d’Israele, pellegrini da tutta la Palestina e molti anche da più lontano; e, seconda circostanza, l’inimicizia dei capi Giudei, ormai estrema e decisa a tutto, anche all’uccisione, come appunto avvenne, del giovane e insopportabile Profeta di Galilea.


OSANNA VIBRANTE ALL'ATTESO MESSIA

Gesù sempre schivo d’ogni segno d’onore, quella volta non si oppose alla pubblica esaltazione, anzi predispose Lui stesso l’incontro con la folla acclamante, nell’umile forma che ricordate, cavalcando un asinello, che, per modesto che fosse, metteva tuttavia in rilievo il misterioso Maestro, al quale le acclamazioni del popolo, dei giovani e dei ragazzi specialmente, tributavano il titolo più alto che la storia e la psicologia d’Israele di quel tempo potevano dare ad un uomo, esaltandolo come il figlio di Davide, come il messaggero delle fortune del popolo eletto, come l’inviato da Dio a compiere il destino teocratico di quella gente fiera e infelice e sempre tutta viva e fremente delle sue speranze. Rami di palme e d’ulivi sventolavano per dare a quell’ora fatidica un aspetto di festa. Un trionfo insomma, un umile trionfo, ma che voleva essere come la scintilla dell’incendio messianico, che stava per scoppiare. Manifestazione esteriore, improvvisata e superficiale, ma che rivelava qualche cosa d’irrefrenabile e faceva pensare a qualche prossimo rivolgimento profondo. Gesù stesso lo lasciò intuire, e volle che l’esplosione dell’entusiasmo popolare non avesse freno; ed ancor più mostrò che l’ora era piena di misterioso significato, quando, arrivando presso le poderose mura della città santa, Egli cominciò a piangere, profetizzandone la non lontana rovina. Ma prima della città, la rovina avrebbe, dopo pochi giorni, abbattuto Lui, Gesù, che ben sapeva quale supplizio lo attendeva, la Croce.


RIECHEGGIA NEL PAPA LA VOCE PERENNE DEL SALVATORE

Ma ora fermiamo la nostra attenzione su questo avvenimento: Gesù riconosciuto e acclamato Messia, il Cristo, dal suo popolo, e ciò specialmente per le voci osannanti dei giovani. L’avvenimento si ripete oggi nella celebrazione liturgica. Voi giovani diventate in questo momento, insieme con la comunità dei fedeli, gli araldi di Cristo. Voi perpetuate nel nostro tempo, nel nostro ambiente, l’istante di gloria della regalità messianica del Signore Gesù. Voi rinnovate l’atto di fede nella sua persona e nella sua missione. Voi lo riconoscete Maestro dell’umanità, voi lo proclamate Profeta dei destini del mondo, voi lo dichiarate Re divino nel quale s’incentrano le sorti d’ogni uomo, ed intorno al quale si compone il disegno totale della storia. Gesù è la Verità dell’esistenza umana, anzi è Lui stesso la Vita, il principio della nostra salvezza, presente e futura.

Ci ascoltate, Figliuoli? Ci comprendete? Suona lontana per voi la Nostra voce? Suona estranea, incomprensibile? Noi abbiamo, in questo momento, un’ansia, un timore nel cuore: quella che la Nostra voce sia Nostra, cioè sia la voce d’un minimo e vecchio vostro compagno nel viaggio della vita, una voce che ripete cose passate e ritenute inutili ormai; voce priva di quell’afflato profetico, in cui non la Nostra, ma la voce viva e perenne di Cristo riecheggi fedele.

Noi vi invitiamo ad acclamare Gesù, il Cristo, il Signore dell’umanità, il Salvatore del mondo. Temete voi, ascoltando il Nostro invito, di perdere ciò di cui oggi voi siete estremamente gelosi, la vostra libertà? Temete voi che, se il messaggio di Cristo sorprende la vostra disponibilità, esso imponga, quasi di sorpresa, sulle vostre spalle un’incomprensibile, un’incomportabile Croce? Temete voi che, se quella voce incantevole di Gesù penetrasse nell’interno delle vostre coscienze, spegnerebbe, come un soffio la fiamma dell’amore, e vi lascerebbe soli e smarriti nella ricerca del perduto colloquio con l’amicizia e con la società?


CON LA FEDELTÀ AL VANGELO SI DIVENTA INTERIORMENTE LIBERI

Fate attenzione, Figli carissimi, e comprendete come ciò che Noi vi chiediamo, l’acclamazione a Cristo, nell’atto stesso che proclama la sua gloria diventa la vostra fortuna, la vostra felicità. Voi inneggiate a Gesù Cristo, perché? Perché Egli è nostro Salvatore; nostro liberatore, nostro allenatore alla grandezza dell’eroismo e alla pienezza della nostra umanità; nostro maestro della più vera, della più pura, della più beatificante simpatia umana, cioè della carità. Un capovolgimento, sì, può prodursi in voi, quando concediate voi stessi all’esaltazione di Cristo: voi, giovani d’oggi - non lo vedete? - siete talora ammaliati da un conformismo, che può diventare abituale, un conformismo che piega inconsciamente la vostra libertà al dominio automatico di correnti esterne di pensiero, di opinione, di sentimento, di azione, di moda: e poi, così presi da un gregarismo che vi dà l’impressione d’essere forti, diventate qualche volta ribelli in gruppo, in massa, senza spesso sapere perché. Psicologia strana di buona parte della gioventù d’oggi, che meriterebbe più paziente e acuta analisi di quella che Noi ora possiamo fare; ma crediamo sostanzialmente non errato questo sommario giudizio. Ma poi, se voi acquistate coscienza di Cristo, e a Lui aderite, come voi sapete fare, con energia totale, che cosa avviene in voi? Avviene che diventate interiormente liberi «La verità - ha detto Gesù - vi libererà» (
Jn 8,32). Diventerete persone. Diventerete coscienti. Saprete perché e per chi vivere. Avrete in voi stessi le ragioni supreme dell’umana esistenza. Sarete sottratti alla suggestione di massa, che oggi facilmente ottiene l’alienazione delle coscienze e impone ai singoli uomini l’automatismo collettivo. E nello stesso tempo, cosa meravigliosa, sentirete nascere in voi la scienza dell’amicizia, della socialità, dell’amore. Non sarete degli isolati. Senza spegnere la vostra inviolabile personalità, l’adesione a Cristo v’insegnerà l’adesione ai fratelli, vi darà l’intelligenza dei meriti e dei bisogni, per cui essi devono essere cercati, amati, serviti. Una socialità superiore, quella della carità, nascerà in voi; e non solo come ideologia, o come tentativo dilettante del dialogo con gli altri, ma come imperativo interiore altresì di bontà, di dedizione, di unione, di autentico amore.


LA PACE DI CRISTO PER GLI UOMINI DEL NOSTRO TEMPO

Figli carissimi, che oggi siete accorsi a questo religioso convegno, pensate un po’ dove esso avvenga: in Chiesa, nella Chiesa. Per incontrare veramente, pienamente Gesù e in Lui riconoscere il Cristo, degno d’essere acclamato come il realizzatore delle speranze della umanità, qua bisogna venire; qui, dove il suo messaggio risuona unico ed autentico; qui, dove la sua presenza morale, mistica e sacramentale ancora a noi appare nell’umiltà delle sue forme evangeliche, ma altresì nell’inequivocabile prestanza della sua divina regalità.

E qui, voi fedeli tutti, voi giovani specialmente, acclamando a Cristo Salvatore, agitando rami di palme e di ulivi, voi annunciate la pace, la sua pace per l’umanità del nostro tempo, quella pace che il mondo cerca e non trova, e non sa procurare a se stesso, e che solo Gesù Cristo può dare (Jn 14,27)! Beati voi, allora, portatori di pace, perché COSI sarete chiamati figli di Dio (Mt 5,9).



RICONCILIAZIONE SUPERAMENTO DELLE LOTTE RAZZIALI DAL SACRIFICIO DI INTREPIDO ARALDO DELLA FRATERNITÀ

Ed ora, Fratelli e Figli, Noi non possiamo esimerci dal menzionare anche qui il triste ricordo che pesa sulla coscienza del mondo della vile e atroce uccisione di Martin Luther King. Uniremo questo ricordo a quello del tragico racconto della Passione di Cristo, che adesso abbiamo ascoltato.

Noi abbiamo ricevuto in Udienza, anni fa, questo predicatore cristiano della promozione umana e civile della sua gente negra in terra americana. Sapevamo dell’ardore della sua propaganda; ed anche Noi osammo allora raccomandargli che essa fosse senza violenza ed intesa a stabilire fratellanza e cooperazione fra le due stirpi, la bianca e la negra. Ed egli Ci assicurò che appunto il suo metodo di propaganda non faceva uso di mezzi violenti, e che il suo intento era quello di favorire relazioni pacifiche ed amichevoli tra i figli delle due razze. Tanto più forte è perciò il Nostro rammarico per la sua tragica morte, e tanto più viva è la Nostra deplorazione per questo delitto. Siamo sicuri che voi, con tutta la comunità cattolica di Roma e del mondo, condividete questi sentimenti. Come pure certamente saranno da tutti condivisi i voti che questo sangue spiritualmente prezioso Ci ispira: possa l’esecrando delitto assumere valore di sacrificio; non odio, non vendetta, non nuovo abisso fra cittadini d’una stessa grande e nobile terra si faccia più profondo, ma un nuovo comune proposito di perdono, di pace, di riconciliazione nell’eguaglianza di liberi e giusti diritti s’imponga alle ingiuste discriminazioni e alle lotte presenti. Il Nostro dolore si fa più grande e pauroso per le reazioni violente e disordinate, che il triste fatto ha provocate; ma la Nostra speranza cresce altresì vedendo che da ogni parte responsabile e dal cuore del popolo sano cresce il desiderio e l’impegno di trarre dall’iniqua morte di Martin Luther King un effettivo superamento delle lotte razziali e di stabilire leggi e metodi di convivenza più conformi alla civiltà moderna e alla fratellanza cristiana. Piangendo, sperando, Noi pregheremo affinché così sia.



Giovedì Santo, 11 aprile 1968: «MISSA IN COENA DOMINI» NELL’ARCIBASILICA LATERANENSE

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Venerati Fratelli e Figli carissimi!

Tale è l'ampiezza, tale la ricchezza, tale la profondità dei fatti, dei misteri, dei riti, che il Giovedì Santo offre alla nostra considerazione, che faremo Noi pure ancora una volta una rinuncia a tutto comprendere, a tutto dire; e una scelta faremo d’uno degli aspetti di questa dolorosa e beata rievocazione della «Cena del Signore», sul quale concentriamo, per un breve istante, la nostra riflessione, come fosse il punto facile, che ci lascia intravedere nella sua prospettiva i significati molteplici dell’avvenimento celebrato.


LA PIÙ VERA AUTENTICA E DEGNA FORMA DELL'AMORE

Sembra chiaro a Noi che questo punto focale è l’amore.

E non pronunciamo con facilità questa troppo facile parola, dai molti, ambigui significati, nei quali le più varie e contraddittorie espressioni del sentimento e del volere sono stranamente accomunate, dalle più basse e depravate della passione e del vizio alle più alte e sublimi dell’eroismo e della carità, a quelle trascendenti perfino dell’infinita bontà effusiva di Dio con l’identico nome di amore. Ma questo incontro della parola, anzi della realtà dell’amore in questa celebrazione del Giovedì Santo è per noi una fortuna, una scuola; quella di saper distinguere fra le tante equivoche o imperfette forme dell’amore quella più vera, più autentica, più degna di tanto nome.


L'IMMENSO SIGNIFICATO DEL RACCONTO DELL'EVANGELISTA GIOVANNI

Ascoltiamo l’Evangelista Giovanni, colui che in quella sera benedetta, valendosi dell’atmosfera spirituale e mistica che s’era prodotta durante quella cena desideratissima (cfr.
Lc 22,15), dal Maestro, ancor più che della posizione conviviale a lui toccata, meritò di posare la testa sul petto di Gesù. Egli apre il suo racconto con parole studiate: «Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre, poiché egli aveva amato i suoi ch’erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Jn 13,1). Fino alla fine, che cosa significa? Fino alla fine della vita temporale? Ciò indica che siamo in una veglia cosciente, precedente la tragedia della Passione, cioè in quell’ora testamentaria, in cui tutto si conclude con accenti e con gesti di suprema sincerità, e il cuore rivela le sue più profonde riserve nella semplice solennità delle estreme confidenze? Ovvero significa: fino alla fine d’ogni concepibile misura, fino all’eccesso, fino all’inverosimile limite, a cui solo il Cuore di Cristo poteva arrivare? Fino a dare se stesso con la totalità che il vero amore esige, e con l’effusione che solo un amore divino può concepire e può attuare? Qualunque sia l’interpretazione che daremo a quella superlativa espressione, ricorderemo ch’essa pone in chiave dell’ultima veglia di Cristo l’amore, che nelle stesse parole di Lui sale alla vetta della sua misura: «Nessuno ha un amore più grande di questo, di uno che dia la vita per i suoi amici» (Jn 15,13). Amare vuol dire dare; dare significa amare. Dare tutto, dare la vita. Ecco la linea vera dell’amore, ecco il suo termine.



IL DONO DEH SACRIFICIO RIPETUTO E MOLTIPLICATO DALLA EUCARISTIA

Pensiamo allora al misterioso avvenimento che concluse quella cena pasquale. Scrive San Paolo, il primo a sigillarlo nella storia biblica: «Il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese il pane, e rese le grazie, lo spezzò e disse: prendete e mangiate, questo è il mio Corpo, che sarà dato per voi; questo fate in memoria di me. E similmente il calice... dicendo: Questo calice è il nuovo testamento nel mio sangue. Questo fate, ogni volta che ne berrete, in memoria di me» (1Co 11,23-25). Il dono cruento che-Cristo stava per offrire all’umanità nel suo imminente sacrificio della croce è riprodotto, è moltiplicato, è perpetuato nel dono, identico ma incruento, del Sacrificio eucaristico. Impossibile capire se non si pensa all’amore, che in quella sera inventò questa straordinaria maniera di comunicarsi. È per noi impossibile accogliere come si conviene questa immolata presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, che stiamo per celebrare, se non entriamo in quella proiezione d’amore, che Egli a noi rivolge; ancora San Paolo, che esclama: «Egli mi amò, e diede se stesso per me» (Ga 2,20).

Siamo inseguiti da questo ineffabile, irrefrenabile amore. Siamo così conosciuti, ricordati, assediati da questo potente e silenzioso amore, che non ci dà tregua, che vuole a noi comunicarsi, che vuole da noi essere compreso, ricevuto, ricambiato. Tutto il cristianesimo è qui. Il cristianesimo è comunione della vita divina, in Cristo, con la nostra. Il cristianesimo è appropriazione di Dio; e Dio è carità, è amore.

La rivelazione, sebbene sempre velata da un sistema di parole e di segni, il sistema sacramentale, per lasciare, anche in questa pienezza d’incontro intatta la nostra libertà, diventa folgorante. Se crediamo in questo «mysterium fidei», se entriamo nel cono di luce e di amore ch’essa lancia su di noi, come rimanere impassibili, come inerti, come distratti, come indifferenti? L’amore vuole amore: «amor ch’a nullo amato amar perdona»... (Dante, 1, 5, 103). È fuoco: come non sentirne il calore? come non cercare, in qualche modo, di corrispondervi ?


«IO VI DO IL COMANDAMENTO NUOVO»

Anche a questo ha provveduto il Signore da quella sera benedetta. Per capire ciò che Egli ha detto a questo proposito, dopo la sconcertante lezione d’amore e d’umiltà data ai suoi con la lavanda dei loro piedi, dobbiamo figurarci di avere Lui, Gesù Cristo, qui fra noi, in questa sua Chiesa romana, che ne custodisce le parole, i poteri, gli esempi, la perenne promessa; e dobbiamo chiedere a noi stessi: che cosa Egli ci direbbe? quale raccomandazione ci farebbe? quale lezione collegherebbe al suo mistero pasquale, che stiamo celebrando? Tacciano un istante, interiormente, i nostri animi, ed ascoltiamo: «Io vi do il comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri, come Io ho amato voi . . .» (Jn 13,34). Ancora si parla di amore. Ma questa volta l’amore deve partire da noi. All’amore ricevuto da Cristo deve seguire il nostro per i nostri simili, per la comunità che ci trova uniti d’intorno a Lui, la presenza fisica, occasionale, esteriore, deve farsi unione spirituale, perpetua, interiore; così si forma la Chiesa, così si compagina il suo Corpo mistico. Una nuova circolazione di carità ci deve rendere da nemici amici, da estranei fratelli. Con questo paradossale impegno: dobbiamo amare come Lui ci ha amati.


L'INSUPERABILE POTENZA DELLA CARITÀ

Quel come dà le vertigini. Ci avverte che non avremo mai amato abbastanza. Ci avverte che la nostra professione di amore cristiano è ancora al principio. Ci avverte che il precetto della carità contiene in sé sviluppi potenziali, che nessuna filantropia, che nessuna sociologia potrà mai eguagliare. La carità è ancora contratta e racchiusa entro confini di costumi, d’interessi, di egoismi, che dovranno, Noi crediamo, essere dilatati. Dilatentur spatia caritatis, esclama Sant’Agostino (Sermo 10 de verbis D.ni). E a nostro stimolo, e forse a nostro rimprovero, dalle labbra soavi e tremende di Cristo piovono quest’altre indimenticabili parole, sempre sull’amore: «Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se vi amerete scambievolmente» (Jn 13,35). L’amore dunque è il distintivo dell’autenticità cristiana.

Oh! quale lezione! quale programma! quale rinnovamento, quale «aggiornamento» è sempre proposto alla nostra. fedeltà a Cristo Signore! Piaccia a noi che tali divine parole, degne del Giovedì Santo, risuonino in quest’aula, in questa assemblea, in questa Chiesa romana, per trovarvi il loro umile, felice e volonteroso compimento; e piaccia al nostro Maestro e Salvatore Gesù concedere a noi questa grazia pasquale di saperle ricordare, vivere e rivivere sempre.






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