B. Paolo VI Omelie 20668

Domenica, 2 giugno 1968: SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

20668

Ai Nostri Fratelli nel sacerdozio di Cristo!

Ai Nostri Figli della santa Chiesa cattolica!

E’ venuta l’ora delle Missioni!

Ogni anno, da qualche tempo, si celebra in tutto il mondo cattolico la «Giornata delle Missioni»; quest’anno essa è fissata al 20 di ottobre.

Essa vuole essere un’occasione per riaccendere nel cuore d’ogni fedele la coscienza della vocazione missionaria, propria di tutta la Chiesa; essa è stata fondata per essere missionaria. Si chiama cattolica la Chiesa di Cristo: cioè universale. Essa è chiamata a diventare di fatto, nella storia, nelle file dell’umanità, ciò che è di diritto, ciò che è di dovere: la testimonianza di Cristo per tutti, il mezzo di salvezza per tutti, Ia società mistica e umana aperta a tutti. Non per dominare, non per sostituirsi, o per sovrapporsi alla Città terrena; ma per penetrare negli spiriti con la sua luce di verità, con il suo fermento di libertà, con il suo stimolo alla operosità nella giustizia e nella fraternità; per dare al mondo la sua unità religiosa, nell’armonia delle sue naturali e rispettabili differenziazioni etniche, culturali, politiche. È cattolica per istituzione, deve essere cattolica nella realtà. Questo disegno divino che la Chiesa porta con sé, anzi in sé, in questi ultimi tempi si è svegliato; la Chiesa ne ha preso maggiore consapevolezza. A mano a mano che le vie del mondo hanno offerto comunicazioni nuove fra i popoli, la Chiesa ha sentito in se stessa l’«urgenza della carità» di percorrerle; anzi, molto spesso, di precorrerle; si è sentita, di natura sua, missionaria. Il grido di San Paolo: «Guai a me se non predicassi il Vangelo» (
1Co 9,16) è risuonato nel cuore della Chiesa, ed ha suscitato in lei, con la memoria, la spinta della sua primigenia vocazione. La storia delle Missioni di questi ultimi secoli lo dimostra, come un’epoca piena di rischio, di avventura, di eroismo, di martirio. L’impresa missionaria è, per così dire, scoppiata, sfidando difficoltà sovrumane, mettendo in campo mezzi rudimentali e uomini folli di coraggio e d’amore. La fede è diventata ciò che deve essere: dinamica, incontenibile, perfino temeraria. La gioia di diffondere il Vangelo ha ripagato ogni sforzo, ogni sacrificio. Poi è venuto il Concilio, a precisare i principi teologici d’un tale fenomeno e ad incalzare il Popolo di Dio perché ritrovasse la sua nativa obbligazione espansiva, e a dare criteri, norme, esortazioni per proseguire con maggiore vigore e migliore sistema la grande opera della evangelizzazione delle genti, a cui la Chiesa non ha ancora messo radici profonde e di autonoma vitalità.

Fratelli e Figli! Questo quadro, che raffigura un aspetto meraviglioso e, per certi segni, ‘miracoloso della vita presente della nostra santa Chiesa, merita d’essere osservato e meditato con tutto il nostro interesse. Chi fosse distratto o indifferente davanti a questa epifania della santa Chiesa dovrebbe dubitare della propria fedeltà a Cristo e al proprio battesimo. Le Missioni sono nostre, di ciascuno di noi, di ciascuna comunità di credenti: lontane nello spazio, devono essere vicine nel cuore. Se comprendiamo il valore morale ch’esse costituiscono per la solidarietà della fede e della carità, la «Giornata delle Missioni» dev’essere un momento d’attenzione concentrata ed operante per ognuno di noi. Per questo Noi vi rivolgiamo questo messaggio.

Vorremmo parlarvi delle difficoltà che oggi, per lo sviluppo stesso del mondo, esse, le Missioni, stanno incontrando, e dei nuovi metodi, di cui dovranno servirsi per conservare le posizioni raggiunte e per sviluppare, a Dio piacendo, il loro incremento.

Ma sembra a Noi doveroso presentare ora alla vostra considerazione un altro aspetto della questione missionaria, quello già notissimo, ma sempre presente e ricorrente, quello dei «mezzi». Le Missioni hanno tuttora, e più che mai, bisogno di mezzi: di vocazioni e di offerte. Ora vi parliamo delle offerte. Lo faremmo con istintiva timidezza e quasi con disagio, se la necessità non Ce lo imponesse, e se il Concilio non Ci ammonisse di non arrossire a tendere umilmente la mano e a farci quasi mendicanti per Cristo e per la salvezza delle anime (cfr. Ad gentes, AGD 39).

Le necessità dei territori di missione sono immense, da qualsiasi lato esse vengano considerate. Occorrono scuole, ospedali, chiese, oratori, lebbrosari, seminari, centri di formazione e di riposo, viaggi da non finire. Quello che ‘maggiormente pesa non è solo la costruzione degli edifici, ma il loro funzionamento, il quale comporta ogni anno dispendio di somme elevate per la conservazione degli impianti, per il mantenimento del personale e per l’apparato assistenziale. i paesi di missione possono offrire ben poco per tale scopo: si tratta generalmente di regioni in via di sviluppo, talvolta poverissime. Tutto grava sull’amministrazione della Diocesi, i cui redditi sono minimi: pochissimi benefattori sul posto, e rari altrove. Si tratta spesso di beneficenza incerta, casuale, affidata al buon cuore ed alle possibilità di donatori occasionali.

Ora, Fratelli e Figli, ascoltateCi. Noi dobbiamo perorare la causa, in modo speciale, delle Pontificie Opere Missionarie. Non è l’interesse particolare per queste istituzioni che Ci spinge ad anteporre davanti alla vostra carità tali Pontificie Opere Missionarie ad altre, pur meritevolissime, iniziative; è l’indispensabile ordinamento della efficienza missionaria e l’equità distribuitiva degli aiuti destinati all’evangelizzazione del mondo che Ci impongono questa preferenza. Del resto il Concilio la afferma: si devono promuovere «specialmente le Pontificie Opere Missionarie» (Ad Gentes, AGD 38).

Le Pontificie Opere Missionarie della Propagazione della Fede, di San Pietro Apostolo e della Santa Infanzia hanno lo scopo di interessare il Popolo di Dio alla fondazione della Chiesa tra le genti ed i gruppi che ancora non credono in Cristo, mediante l’apporto di aiuti spirituali e materiali.

Tale sistema di cooperazione all’attività missionaria della Chiesa abbraccia tutti i suoi componenti, dal Papa che ora vi parla fino all’ultimo dei fedeli.

L’unico affidamento sicuro i Vescovi, i Missionari, le Missionarie ed i Sacerdoti locali lo trovano negli aiuti delle Pontificie Opere Missionarie, le quali ogni anno dividono tra le ottocento e più circoscrizioni missionarie i fondi raccolti nel mondo intero.

È una divisione difficile minuziosa, delicata, studiata da uffici e da organi collegiali, ma necessaria per il suo valore saggio e pratico di contribuzione al pane quotidiano dei missionari. Sotto questo punto di vista le Opere rendono un prezioso servizio: assicurano una equa ripartizione delle offerte e impediscono che vi siano diocesi missionarie con aiuti preferenziali ed altre trascurate.

I Vescovi missionari non avrebbero un aiuto annuale per il mantenimento delle loro diocesi e per realizzare i loro progetti senza la Pontificia Opera della Propagazione della Fede; non sarebbe possibile mandare avanti la formazione del clero locale se non ci fossero i soccorsi distribuiti dalla Pontificia Opera di San Pietro Apostolo e non si sarebbe in grado di soccorrere tanti fanciulli soprattutto abbandonati ed ammalati, se non vi fosse la Pontificia Opera della Santa Infanzia.

Ogni Vescovo, ogni Sacerdote, ogni Fedele, anche se compie qualche attività di apostolato missionario, diretto o indiretto in settori personali, deve dare la sua collaborazione anche alle attività generali della Chiesa: cioè alle Opere Pontificie, le quali, mentre sono del Papa, sono di tutto l’Episcopato e di tutto il Popolo di Dio. Esse sono inoltre conformi ai nuovi metodi di programmazione generale, che presiedono allo sviluppo delle grandi imprese moderne. Nel Motu Proprio «Ecclesiae Sanctae» (n. 13, § 2) le Pontificie Opere Missionarie sono strettamente legate alla Sacra Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli mediante un coordinamento diretto che le pone in evidenza e in efficienza, in modo che abbiano ad accrescere, con rigorosa economia, i loro servizi, e a stimolare, con il concorso attivo dei membri della diletta Nostra Pontificia Unione Missionaria del Clero, lo spirito missionario dell’intero Popolo di Dio.

Tutti i Vescovi, in quanto membri del corpo episcopale che succede al Collegio Apostolico, sono vivamente interessati al loro incremento. Anzi in sede di Conferenze Episcopali devono, fra l’altro, trattare «del determinato contributo finanziario che ciascuna diocesi, in proporzione al proprio reddito, deve versare annualmente per l’ opera missionaria» (Ad Gentes, AGD 38, S 5).

L’aiuto inoltre dato alle Pontificie Opere Missionarie introduce l’offerente in una scuola d’insegnamento caritativo dalle grandi visioni proprie del cattolicesimo, che non restringono il loro sguardo al bisogno particolare e conosciuto, verso il quale la compiacenza del dono compiuto può essere già una parziale mercede al benefattore (cfr. Matth. Mt 5,46-47), ma lo allargano ad ampiezze sconfinate, a bisogni innumerevoli e dimenticati, a operai del Vangelo che da sé non sanno chiedere e non saprebbero a chi ricorrere: sono le visioni principalmente degli immensi Paesi dell’Asia, dell’Africa, dell’Oceania, dove la Missione è spesso ancora alla prima difficilissima fase della «plantatio Ecclesiae».

Né vogliamo alla fine tacere che la generosità della Gerarchia e dei fedeli, profusa per questa via alle Nostre Missioni, rientra nell’invito fatto dalla Nostra Enciclica «Populorum progressio», perché assegnata con cognizione di causa, con saggezza rivolta alla sistematica elevazione delle popolazioni assistite dalle Missioni e con quella relativa continuità che consente al piccolo seme di crescere in albero forte e frondoso; concorrere così davvero a quello sviluppo dei Popoli, che deve portarli dalla incipiente vitalità civile e morale all’autosufficienza degna di nazioni libere e moderne. Fratelli e Figli! Non vi sia di tedio questo Nostro discorso; ma sia piuttosto eco delle Nostre ansie per la diffusione del Vangelo; eco della Nostra riconoscenza per quanto avete già fatto a profitto delle Missioni; eco del Nostro incoraggiamento a fare ancora e a fare di più; eco specialmente della solenne parola di Cristo: «Date e vi sarà dato; vi sarà versata in grembo una misura buona, pigiata, scossa e traboccante . . .» (Lc 6,38).

Non Noi vi potremmo ricompensare; ma Cristo, sì; ed è ciò che Noi auspichiamo inviando a tutti i benefattori, ai sostenitori e ai protagonisti delle Missioni la Nostra Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 2 giugno 1968.





Lido di Ostia - Giovedì, 13 giugno 1968: CELEBRAZIONE EUCARISTICA DEL «CORPUS DOMINI» AD OSTIA LIDO

Solennità del «Corpus Domini»



I VOTI DEL PADRE DALL'ALTARE DI CRISTO

Salute a Voi, nel nome del Signore, Figli e Fratelli tutti dimoranti nella zona di Ostiamare! ed a voi tutti, che da Roma siete venuti per celebrare con Noi la festa del Corpus Domini in questa circoscrizione civile ed ecclesiastica, che ormai è aggregata alla città e alla diocesi di Roma.

Salute a tutti e benedizione! Qua Noi personalmente siamo venuti per dimostrarvi come voi Ci siate Figli e Fratelli, non solo come cattolici e credenti, ma altresì come fedeli della Nostra Diocesi, e perciò a Noi cari anche per questo titolo di speciale comunione: siete Nostri diocesani! e come tali vi consideriamo in quel rapporto speciale d’interesse, di cura e d’amore, che la Chiesa stabilisce promovendo e determinando il suo ministero pastorale.

Noi vogliamo esprimere i Nostri voti, pieni di riverenza e di affezione, in modo particolare al Nostro Cardinale Vicario, assente da Roma; poi a Mons. Cunial, Vice Gerente e a Monsignor Trabalzini, Vescovo Ausiliare del Nostro Cardinale Vicario e qui dimorante; e poi al Parroco di questa chiesa dedicata a Maria «Regina Pacis», il P. Colafranceschi, e con lui ai suoi Confratelli, agli altri cinque Parroci di Ostia, ai Sacerdoti che vi esercitano il sacro ministero, ai Religiosi e alle Religiose, che hanno qui dimora e campo di apostolato, ai Laici carissimi delle associazioni cattoliche, a tutti i Fedeli, con un ricordo speciale ai giovani, ai malati ed ai poveri. Cosi vogliamo esprimere la Nostra devota riconoscenza a tutte le Autorità civili e militari, che assistono questa moderna e vasta e varia parte di Roma, e dire a tutte il Nostro cordiale augurio per le funzioni, che qui esercitano per il bene di tutta la popolazione.

Salute a tutti, diciamo, convinti come siamo che la celebrazione, a cui insieme ora partecipiamo, possa godere di maggiore pienezza spirituale mediante questa Nostra doverosa introduzione, intesa a rendere tutti consapevoli della carità, che oggi qui ci unisce intorno all’altare di Cristo.


ARDENTE ATTO DI FEDE NEL SIGNORE NOSTRA GUIDA INDIVIDUALE E SOCIALE

Fratelli e Figli carissimi!

Che cosa vuol dire il rito insolito e solenne che stiamo compiendo?

Vi avete pensato? Noi togliamo dal segreto silenzio dei nostri Tabernacoli, al quale solo gli iniziati, vogliamo dire i fedeli credenti e devoti, educati ai misteri della nostra religione, possono accedere coscientemente, la santissima Eucaristia; e la portiamo fuori, in faccia alla società laica e profana, in mezzo alle piazze, alle vie, alle case, dove si svolge la vita terrena, affannata nelle sue faccende temporali, arrestiamo per un momento il ritmo febbrile della circolazione civile, e professiamo con un certo sforzo e con un certo sfarzo di pubblicità questa straordinaria e quasi impensabile verità: Egli è qui! Gesù è fra noi! Cristo è presente! E proclamiamo con enfasi e con gaudio questa misteriosa realtà, per portare fino all’entusiasmo e all’ebbrezza il nostro atto di fede, con gesti e con canti che sembrano non solo diffondersi dall’interno all’esterno delle nostre chiese, ma traboccare piuttosto dai nostri animi, invasi da una incontenibile pienezza interiore, che vuole, sì, una volta, annunciarsi al mondo.



«VENITE A ME TUTTI ED IO VI CONSOLERÒ»

Se così è, due significati, due scopi ha questa celebrazione. Il primo quello di scuotere certa nostra abituale assuefazione, certa nostra intollerabile insensibilità davanti al fatto eucaristico, misterioso fin che si vuole, ma reale, ma vicino, ma presente, ma urgente per una qualche nostra migliore comprensione, per un qualche nostro più aperto e più cordiale incontro con quel Gesù, che, mediante a questo sacramento, a noi, a ciascuno di noi si offre, si dona, per noi si immola, per comunicarsi, per essere ricevuto, per diventare in noi principio di vita nuova, di vita sua, divina, comunicata anche al corpo destinato alla risurrezione e all’eternità. Egli così ci aspetta, così ci invita, così ci parla, con un suo dialogo tutto interiore, tutto tessuto della sua Parola, che s’intreccia nella nostra umana esperienza, e tutto sgorgante di grazie e di verità.

Per conseguire questo primo scopo sarà necessario che il nostro culto eucaristico, pieno di inni festanti ed espresso in forma quanto mai comunitaria e pubblica, non si concluda con la fine di questa cerimonia, ma perseveri, e da esterno ritorni interno, da sociale diventi personale, da esuberante ed attivo si faccia più intensamente adorante, quasi estatico, tutto assorbito dal senso profondo del mistero eucaristico.

Ed è ciò che noi tutti dobbiamo fare.

Scossi e svegliati da questa celebrazione solenne, dobbiamo poi subito dedicarci al culto contemplativo dell’Eucaristia, esplorarne in qualche modo l’arcana ricchezza, collegare la forma sacramentale, che la racchiude, con la forma concreta della nostra vita presente e con la confermata speranza di quella futura, abbandonarci all’amore, ch’essa, l’Eucaristia, mediante la fede, infinitamente ci offre. L’invito è per tutti. Non è esoterico. È l’invito alla mensa domestica di Gesù. I piccoli sono i primi invitati. I sapienti sono attesi e quasi sfidati a pensare, a comprendere. Ma tutti i credenti sono chiamati; i poveri, gli affamati ed assetati, i sofferenti e i tribolati. Gesù chiama ancora dal suo umile nascondiglio eucaristico: «Venite a me voi tutti, che siete affaticati e oppressi; ed io vi consolerò» (Mt 11,28). Questo è il primo scopo.

L’altro scopo della festa del Corpus Domini vuole effondere un’irradiazione luminosa sulla vita sociale in quanto tale, comprenda o non comprenda essa la sorgente donde tale luce le viene.



LA LUCE DEL SACRAMENTO ATTINGE OGNI ASPIRAZIONE DEGLI UOMINI

Intende forse questa celebrazione costituire una dimostrazione, un confronto nei riguardi delle altrui differenti opinioni? No, certo, perché il velo stesso sacramentale, che contiene e nasconde la divina presenza, non si apre che a coloro che vogliono, a coloro che credono; l’accesso è riservato e insieme libero; la fede si presenta, non si impone; e ciò che essa oggi presenta è simpatia umana, è amore. Noi dobbiamo riflettere un istante a questo riverbero eucaristico sul mondo, alla cui attenzione mostriamo il nostro pane misterioso, ed osservare come l’unica luce che emana da esso, la presenza sacramentale di Gesù, si rifranga, posandosi sulla scena umana circostante, in tanti colori, cioè in tanti aspetti quante sono le virtualità, cioè le possibilità di sviluppo, le aspirazioni, i bisogni dell’umanità. A voler descrivere questa iridescenza dell’Eucaristia sul quadro della nostra vita, le lezioni cioè di verità e di amore che essa ci proietta, sarebbe lungo il discorso. Ci basti ora un brevissimo accenno al più ovvio e immediato di questi riflessi: l’unità.


L’EUCARISTIA SEGNO PERFETTO DI UNITA

Non vi pare, gente che Ci ascoltate, che una prima, una somma e indiscutibile lezione di unità offra l’Eucaristia alla massa anonima e priva di compagine interiore, di cui si compone la città moderna; di unità, se volete, alla folla compatta e cosciente, si, d’essere popolo, ma sempre in se stessa divisa da irriducibili antagonismi? Noi dovremmo qui ricordare ciò che questo sacramento simboleggia e produce. Parola di San Paolo: «Noi formiamo un unico corpo, pur essendo molti, perché tutti partecipiamo dell’unico pane», che è «comunione del corpo di Cristo» (1Co 10,17 1Co 10,16). Parola dell’antica Dottrina apostolica: «Come questo grano ora macinato era disperso nei campi, sui monti, poi raccolto diventò una cosa sola, così si raccoglie la Chiesa dalle estremità della terra» celebrando l’Eucaristia (cfr. Didachè, 9, 1). Parola del teologo, dottore e cantore della Eucaristia: «La realtà, la grazia propria cioè, di questo sacramento, è l’unità del Corpo mistico», che è la Chiesa (S. Th. III 73,3). Non è forse perciò l’Eucaristia un segno a cui il mondo, il nostro mondo moderno dovrebbe guardare con assoluta simpatia, se l’unità, che essa va cercando e producendo, poi talora frazionando e scompigliando, ma sempre quasi fatalmente bramando e ricomponendo, l’unità, diciamo, è il vertice delle sue aspirazioni? Se la fratellanza degli uomini, se la loro organica collaborazione, se la pace finalmente è bene supremo nell’ordine temporale e sociale, non dovrebbe il mondo scoprire nell’Eucaristia la formula più semplice e più chiara che lo interpreta, lo definisce e lo guida? E se il mondo disperasse di sé, d’essere cioè capace di fare dell’umanità una vera famiglia (e quante sinistre prove possono generare in lui questa disperazione!), non potrebbe il mondo ascoltare il messaggio eucaristico, che annuncia non essere questo sacramento soltanto un segno, un simbolo, ma un alimento altresì, una forza, una grazia, che produce ciò che esso rappresenta?


IL MASSIMO DONO DI GESÙ AI PROPRI SEGUACI

Figli e Fratelli, raccogliamo, noi almeno credenti e devoti di questo operante mistero, il suo invito ad essere, come Gesù si espresse (cfr. Jn 17,21) una cosa sola, a cercare fra noi la concordia e l’unione, a promuovere ciò che insieme ci affratella, non ciò che ci divide e gli uni agli altri ci oppone, a «costruire la Chiesa», ch’è quel mistico Corpo di Cristo, al quale il suo Corpo sacramentale e reale è dato, e mediante il quale fra noi, nel tempo, si perpetua.

Che se altri riflessi sociali e morali, che l’Eucaristia diffonde sul mondo, volessimo considerare, troppo avremmo da dire. Non è questo sacramento, ad esempio, un dono, un grande dono totale di Cristo ai suoi, anzi un dono sacrificale di sé, una rinnovazione rappresentativa e incredula dell’immolazione, che Egli sofferse in modo crudele e cruento, fino alla morte, per la nostra redenzione e salvezza? Ed anche questo aspetto dell’Euraristia quale valore morale offre alla considerazione, anche profana, dell’uomo intelligente circa i veri valori che costruiscono un mondo migliore?

Così non potremmo forse ragionare sull’esempio di carità per i fratelli bisognosi che ci viene da questo Pane offerto e moltiplicato per la fame di tutti? E non potremmo ancora pensare alla gioia che l’Eucaristia diffonde d’intorno a sé, se essa è, come dice la reminiscenza biblica della liturgia (Sg 16,20), il pane «che ha in sé ogni diletto»? Se cioè l’Eucaristia ci insegna a compiere il nostro pellegrinaggio della vita presente, tanto spesso gravato da affanni e da malanni, nella sicura speranza dell’attesa ultima, escatologica, dell’incontro beato e finale con Cristo risorto e glorioso?

Lasciamo che questi fasci di luce attraversino oggi la nostra Città, e risplendano specialmente in questa nuova parte dell’Urbe, che tocca il mare, e accoglie tanti ospiti in cerca di sole, di aria e di salute marina; e facciamo si che non indarno tali raggi eucaristici abbiano abbagliato gli occhi delle nostre anime, rese umili, docili e felici dalla celebrazione del Corpus Domini.





Domenica, 23 giugno 1968: SANTA MESSA NELLA BASILICA VATICANA

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Il Santo Padre inizia la sua Omelia rilevando che le due parabole narrate dall’Evangelista - nel brano proposto per la terza Domenica dopo la Pentecoste - dànno una duplice visione di profondo gaudio e di mirabile dottrina.

È una pagina pittoresca, tanto è vero che la prima immagine per rappresentare Gesù, nelle catacombe, è proprio quella del Buon Pastore, che tiene sulle spalle una sua pecorella. Episodio incantevole, delizioso, per le cose che descrive ed espone, quantunque il racconto muova da un inizio polemico.



PITTORESCHE INCANTEVOLI PARABOLE

Gesù, infatti, vuole rispondere alle mormorazioni dei farisei, cioè i puritani, i professionisti della osservanza legale e sociale di quel tempo, coloro che diverranno gli irriducibili avversari del Salvatore. Essi stavano movendo rimprovero all’incomprensibile Maestro, per il fatto che, infrangendo le regole comuni, avvicinava i pubblicani - gli agenti del fisco particolarmente detestati -, e persino i peccatori, avendo dimestichezza con loro.

Ed ecco il Signore a proporre la duplice similitudine. L’una del pastore, che, notando l’assenza di una sua pecorella, lascia le altre nell’ovile, va alla ricerca della prima, e non desiste fino a quando non la ritrova e la riporta, festante, a ricongiungersi al gregge. L’altra figura è quella dell’umile donna, alla quale sfugge una moneta delle dieci che possedeva. Eccola a rovistare in ogni angolo, a ripulire l’intera casa, sino a vedere coronata la sua fatica, con una letizia, di cui subito vuole fare partecipi amiche e vicine.

Che cosa desumere dall’avvincente narrazione?

Il Signore si serve di figure semplici, schiette, familiari, per esporre una delle cose più meravigliose del suo Vangelo, per farci capire una delle rivelazioni più originali, e più - come dire? - sconvolgenti del suo Messaggio. Eccolo a dichiararci che la pecorella smarrita e la moneta perduta sono immagini, con esplicito riferimento agli uomini che hanno trascurato od offeso la legge, e si sono allontanati dalla linea giusta, classificati, in tal modo, quali peccatori: coloro, cioè, che sfidano la comune stima e fiducia, per cui l’ostracismo è la loro prima sanzione.



DIO È SEMPRE IL NOSTRO SIGNORE

Orbene, Gesù fa osservare - ecco dove incomincia la rivelazione - che come la pecorella perduta continua ad essere del pastore, e la moneta smarrita appartiene a chi la possedeva, così Dio resta sempre proprietario degli uomini, anche di quelli usciti dalla retta via. Sono suoi, in ogni momento.

Il Signore dimostra, così, un nesso che sopravvive, ben si può dire, al peccato. Il peccato interrompe i rapporti di grazia - e sono vitali, indispensabili, convenienti fondamentalmente alla nostra esistenza - con il Signore; ma non scinde il vincolo essenziale che congiunge una creatura al suo Creatore; un uomo destinato a fini soprannaturali, anche quando, per sua colpa, li perde.

Succede, allora, che Iddio, proprietario defraudato di questa sua ricchezza, e della fiducia riposta nella creatura che si è allontanata ed ha tradito il patto di amore con Lui, avrebbe tutto il diritto e avrà - il Signore ci aiuti ! - il dovere, un giorno, di rimproverare e punire.

Ma adesso, nell’economia presente, quella del tempo, dell’esperimento che noi stiamo svolgendo, qual è l’atteggiamento di Dio? È forse quello del castigo, della condanna, dell’anatema; quello di riversare sopra chi ha sbagliato la sua indignazione e la pena?

No: completamente opposto a tutto ciò è il comportamento del Signore. Noi anzi vediamo crescere - ecco la meraviglia - l’amore di Dio per chi è andato lontano: e non perché è lontano, ma perché appartiene sempre a Dio; perché era suo ed Egli lo reclama. Inoltre - il Vangelo lo afferma esplicitamente - il Signore stesso prende l’iniziativa della ricerca. Dio si mette in moto; va indagando i sentieri che un’anima percorre sulle false direzioni intraprese: si pone alla rincorsa di chi si è allontanato da Lui.

Pertanto, ognuno di noi può sentirsi in qualche maniera rinfrancato dalle due parabole; e - accertando di essere andato fuori strada - dovrebbe sentire dietro di sé i passi di Dio. Un Dio che cerca, chiama, e - se vogliamo fare ‘un po’ di antropomorfismo, cioè attribuire a Lui i nostri sentimenti e le nostre maniere di reazione psicologica - un Dio che soffre, si addolora perché la sua creatura, diventata la prediletta, appunto perché perduta, gli è sfuggita di mano.



PER IL COLPEVOLE AUMENTA LA DIVINA CARITÀ

Perciò il Signore moltiplica le sue premure, e lascia, in un certo senso, le novantanove pecorelle tranquille, al sicuro, per ricuperare la pecorella errante. In tal modo ci viene rivelata la misericordia di Dio: questa economia di bontà che ci dovrebbe stupire, incantare e anche un po’ sconvolgere, se noi riflettessimo a quanto può l’amore su di noi. Non è forse l’amore a guidare la nostra vita? Non è forse l’amore di un padre, di una madre, quello che ancora racchiude e conserva sentimenti di bontà in chi pur conduce una vita scorretta o lontana dal retto cammino? Infatti, quando risorge nell’anima il pensiero della famiglia, anche nei cuori inariditi riaffiora un sentimento congenito, superstite, redivivo di bontà e di profonda nostalgia. È quell’amore che rende savi e fa tornare nel concerto della società, per essere fedeli alla legge sia umana che divina.

Possiamo quindi pensare che ogni nostro peccato o fuga da Dio accende in Lui una fiamma di più intenso amore, un desiderio di riaverci e reinserirci nel suo piano di salvezza.

Questa rivelazione della misericordia è originale nel Vangelo. Nessuno, con la fantasia umana e nella fenomenologia comune, arriva a tanto.

Dio, in Cristo, si rivela infinitamente buono. Questo vocabolo, tanto comune, usato, e, in certo senso, sminuito dall’uso che se ne fa, acquista la sua ampiezza, profondità e meravigliosa potenza, quando viene attribuito a Dio.

Dio è buono. E non lo è soltanto in Se stesso; Dio è - diciamolo piangendo - buono per noi. Egli ci ama, cerca, pensa, conosce, ispira ed aspetta: Egli sarà - se così può dirsi - felice il giorno in cui noi ci volgiamo indietro e diciamo: Signore, nella tua bontà, perdonami. Ecco, dunque, il nostro pentimento diventare la gioia di Dio. Si fa grande festa in Cielo, nell’esultanza degli Angeli e dei Santi, quando c’è un’anima che riprende contatto con Lui e si lascia vincere dalla sua bontà.

Questo potrebbe essere il quadro della nostra vita, che va completato da una successiva rivelazione, contenuta nelle due parabole evangeliche. Se la prima parte si riferisce a Dio buono, Ia seconda concerne gli uomini cattivi. Il Vangelo ci dice - ed è cosa, pur questa, impossibile ad essere enunciata e sostenuta dal mondo - che gli uomini sono recuperabili; sono guaribili; che il cuore dell’uomo può, deve convertirsi: cioè è in obbligo di ritornare sui suoi passi, ricomporre la psicologia, pentirsi. Deve volgersi nuovamente al Signore e lasciarsi vincere dalla sua bontà.



DIALOGO NON PER UNA STASI MA PER LA CONVERSIONE

Noi moderni siamo facili ad ammettere la prima parte di questo insegnamento evangelico; e cioè arriviamo a non avere più alcuna esigenza da chi manca. Rimaniamo indifferenti e proclivi a non accusare alcuno, lasciando che tutti vivano alla propria maniera. Anzi, ora, è di moda quasi avvicinarsi a quanti sono fuori strada, piuttosto che a coloro che sono in linea coi fratelli fedeli. Questo avvicinamento è chiamato dialogo. È, sì, un’applicazione evangelica, ma è solo una prima parte, non la definitiva. Se noi restassimo all’iniziale dialogo, cioè al rispetto reciproco che vogliamo stabilire con chi non condivide la nostra formula di vita e le nostre idee, avremmo incominciato bene, ma avremmo arrestato il cammino della salvezza già ai primi passi. Il Vangelo ci ammaestra che non basta avvicinare gli altri, ammetterli alla nostra conversazione, confermare ad essi la nostra fiducia, cercare il loro bene. Bisogna, inoltre, adoperarsi affinché si convertano; occorre prodigarsi perché ritornino; è necessario recuperarli all’ordine divino, che è uno solo: quello della grazia, della fede, della Chiesa, della vita cristiana.

Tale possibilità ci è insegnata e predicata dal brano del Vangelo di questa terza Domenica dopo la Pentecoste. Non dobbiamo disperare di nessuno, anche dei nostri fratelli fuggiti così lontani da sembrare quasi perduti dalla logica della vita umana. Il Signore ci dice che Egli è alla ricerca di queste anime; e che se noi vogliamo imitarlo, dobbiamo rincorrere, seguendo i suoi passi, i fratelli vaganti e dispersi. Dobbiamo accrescere il nostro amore, imitando l’amore di Dio, per recuperare e ricondurre all’unità della fede, della carità, della Chiesa, della giusta vita, coloro che, pur fuorviati, non per questo devono arrestare il nostro apostolato, affinché si compiano i disegni di Dio, che tutti ci vuole buoni, fedeli, santi.


ASSECONDARE SEMPRE LA MISERICORDIA INFINITA

Perciò - conclude il Santo Padre - raccogliamo il duplice insegnamento che il brano odierno del Vangelo offre. Anzitutto: Dio è buono, d’una bontà espansiva, che ci insegue, sempre pronta a concedersi; d’una bontà che ci nobilita, se noi ci arrendiamo a tanta infinita larghezza di cuore.

Il secondo insegnamento è: anche gli uomini sono virtualmente buoni, sono migliori di quanto possano sembrare. Tocca a noi risvegliare in essi quel residuo, quel fondo di bontà che tuttora alberga nel loro essere, e, perciò, chiamarli a noi, prima con il dialogo e con la cura di ristabilire i rapporti umani; quindi ravvivandoli nella unità di pensiero e di vita cristiana, che intendiamo professare noi stessi ed effondere a beneficio altrui. Di0.è buono, e gli uomini possono e devono diventare buoni, se noi pure li aiutiamo ad essere tali. Questo il senso della sublime lezione evangelica con i due quadri di parabole presentateci, e che devono colmare l’animo di meraviglia e di speranza. Suscitano fiducia, giustificata dal trionfo del bene sul male. Gesù è con noi, appunto per attuare il suo piano di bontà illimitata, di misericordia infinita.

L’imponente delegazione della Campania

Il nostro particolare saluto va oggi con meritato titolo di precedenza al grandioso pellegrinaggio della Campania, qui rappresentata da oltre sedicimila pellegrini venuti da quella diletta regione a concludere solennemente l’«Anno della Fede» sulle Tombe gloriose degli Apostoli Pietro e Paolo.

Salutiamo il degnissimo Cardinale Arcivescovo, e la corona degli zelanti Pastori delle varie diocesi campane, che hanno guidato i gruppi numerosi delle loro dilettissime sedi. Salutiamo i sacerdoti presenti, e tutti i fedeli qui convenuti, che hanno preso parte alla Santa Messa con tanta devozione.

Venerabili Fratelli e diletti Figli.

Vorremmo fermarci più a lungo tra di voi per dirvi tutto l’affetto, la stima, la fiducia che Noi riponiamo in voi. Il Nostro pensiero va alla vostra terra, singolarmente benedetta dai doni di una natura splendida, come uscita dalle mani del Creatore con la variopinta ricchezza delle sue prerogative primigenie: bellezza del paesaggio, fertilità della terra, genio intelligente e cordiale degli abitanti. Ma più ancora che al serto scintillante di codesti privilegi, che tutti vi invidiamo, onore sia reso alla recettività generosa e operante che le vostre regioni hanno avuto nei confronti del Cristianesimo, aprendosi generosamente tra le prime al Messaggio cristiano, colà trovato e portato da Paolo in catene su la via di Roma, e dai volenterosi missionari dell’Evangelo, che suscitarono una mirabile fioritura di santità, come le antichissime catacombe, i santuari celebrati, le testimonianze della pietà e dell’arte ancor ricordano allo spirito nostro.

La fede cristiana ha lasciato un’orma profonda in mezzo a voi, che tutt’oggi vi parla con linguaggio efficace: quale migliore e più incisivo invito potrebbe oggi venire a voi, che celebrate qui in Roma, nel centro stesso della cristianità, la conclusione dell’ «Anno della Fede»? La fede è stata ed è tuttora il patrimonio indiscusso, incrollabile, eloquente delle vostre terre: sappiate dunque viverlo in pienezza per voi stessi e tramandarlo intatto ai vostri figli come il bene più prezioso che essi possano ricevere. Purtroppo alcune voci, oggi, vorrebbero soffocare queste consolanti certezze, sostituendo alle realtà inconcusse della fede il fallace e violento richiamo delle cose effimere di questo mondo; piacere, denaro, successo, e quanto può offuscare lo splendore vero di ciò che non tramonta. Sono voci suadenti, che cercano di scuotere l’animo, specialmente della gioventù: diletti Figli, sappiate sentire, al di sopra dell’incrociarsi rumoroso di tutte queste voci ingannevoli la Voce, l’unica vera Voce, che può placare la nostra sete di eternità e di bellezza, di amore e di pace; sappiate tenere l’orecchio attento a Colui che, ancor oggi, vi ricorda la dignità, la ricchezza, l’onore della vostra esistenza cristiana, di uomini amati e redenti da Cristo: «Che vale all’uomo guadagnare tutto il mondo, se poi danneggia l’anima?» (
Mt 16,26). Ascoltate l’esortazione del suo fedele Apostolo, quel Paolo che già ebbe la consolazione di trovare dei fratelli presso di voi, a Pozzuoli (cfr. Ac 28,13-14), e anche a voi oggi dice: «Perciò indossate l’armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno cattivo e, superato ogni attacco, restare saldi. Su, dunque! Con la verità per cintura, la giustizia per corazza, calzati i piedi per annunziare l’evangelo della pace, e prendendo lo scudo della fede, con cui smorzare tutte le frecce del maligno . . . Con ogni sorta di preghiera e di supplica pregate costantemente nello Spirito» (Ep 6,13-16 Ep 6,18).

Noi siamo certi che, rinvigoriti nella fede, unitamente con tutti i vostri condiocesani, che pur lontani sono qui uniti con voi nella preghiera, riprenderete con rinnovato vigore i vostri propositi di vita cristiana, facendo sempre onore a Cristo e alla Chiesa, collaborando con i vostri Pastori per la diffusione del Regno di Dio.

A tanto vi conforta la Nostra Apostolica Benedizione, che amiamo impartire a tutte le vostre dilette diocesi, ai lavoratori, agli ammalati, ai poveri, a quanti soffrono, affinché la gioia e la pace del Signore siano sempre nei vostri cuori.

Il Terz’Ordine Secolare di San Francesco

Partecipano a questa Udienza le rappresentanze, numerose e fervorose, del Terz’Ordine Secolare di San Francesco d’Assisi, e anche ad esse, con particolare menzione di affetto, va il Nostro saluto, il Nostro augurio, il Nostro incoraggiamento.

La vostra presenza Ci reca vivo conforto, diletti Figli, e sebbene il tempo a disposizione sia troppo scarso, desideriamo dirvi tutto il compiacimento che il pensiero delle vostre schiere numerose, ordinate, pacifiche, sparse in tutto il mondo, procura al Nostro spirito.

I terziari sono stati, si può dire, i primi gruppi di Azione Cattolica, sorti sulla scia di santità genuina, di profondo amore di Dio e degli uomini, di appassionato zelo per le anime, attinto alla contemplazione della Passione di Cristo, che il Santo Poverello seppe lasciare sul suo passaggio terreno. Scossi dalle sue virtù, più che dalle sue parole i laici si mossero a prendere coscienza del loro dovere di rendere testimonianza al Vangelo, in un mondo che inaridiva nell’egoismo e nell’edonismo, nelle crudeltà belliche e nelle ingiustizie sociali. E la fioritura di santità e di bontà, che accompagnò nei secoli il cammino del Terz’Ordine Francescano, ebbe un influsso decisivo, nella vita interna della Chiesa come nell’animazione cristiana della società civile.

Quel programma rimane. Anche oggi, in questo nostro mondo che per tanti versi è simile a quello in cui nacquero le vostre associazioni, c’è bisogno di una testimonianza così, franca, aperta, gioiosa, umile e buona, fattiva e semplice, pronta a pagare di persona e dispensatrice di serenità e di letizia. C’è bisogno della vostra testimonianza, sulle orme del Serafico Patriarca: ed è bello che questo rinnovato impegno, che voi sentite, sia riaffermato in questo scorcio dell’Anno della Fede, pieno di sante promesse per il domani cristiano della società.

Noi vi incoraggiamo a prendere il vostro posto, con santo ardore, con spirito di fede e di sacrificio: Noi preghiamo per voi, affinché questi propositi non vengano mai meno: e vi attestiamo la Nostra benevolenza con una particolare Benedizione Apostolica, che estendiamo a tutti i Terziari Francescani d’Italia e del mondo, alle loro famiglie, alla loro attività di spirituale rinnovamento.

L’omaggio di Siena nel nome della Patrona d’Italia

Più tardi, nel Cortile di San Damaso, il Santo Padre saluta un numerosisnmo pellegrinaggio di Siena, guidato dall’Arcivescovo, Monsignor Ismaele Mario Castellano, e venuto a Roma per ringraziare l’Augusto Pontefice per aver Egli annunziato di voler proclamare Santa Caterina da Siena dottore della Chiesa. Ai fedeli senesi si è aggiunto il Maestro generale dell’Ordine dei Frati Predicatori, P. Aniceto Fernandez, con il postulatore generale P. Piccari e gli assiStenti, intendendo così unire al coro generale di gaudio, la profonda, filiale riconoscenza dell’Ordine Domenicano verso il Vicario di Cristo in terra. Presenti, inoltre, il commissario straordinario del comune di Siena, dott. Guido Padalino; il comm. Ezio Cantagalli, rettore dell’Opera metropolitana di Siena, nonché altre personalità ecclesiastiche e laiche. Non manca la contrada del rione di Santa Caterina, con gli alfieri e i tamburini nei loro caratteristici costumi, guidati dal priore avv. Gattini.

Diletti Figli e Figlie!

Vi accogliamo con sentimenti di particolare benevolenza, e vi diciamo la commozione e la gratitudine del Nostro animo per questo incontro con voi, che tanto numerosi siete venuti - con il venerato Arcivescovo, le benemerite Autorità civili, i Rappresentanti di tutte le Contrade - a testimoniare così splendidamente non solo le antiche e intramontabili glorie di Siena, ma anche la sua inesausta operosità ed il fervore della sua odierna vita cristiana.

Sono molteplici i motivi che hanno dato impulso e felice esecuzione alla vostra lodevole iniziativa di raccogliervi ora attorno a Noi, nella casa del Padre Comune.

Come non pensare, anzitutto, alla Santa, il cui nome è indissolubilmente legato a quello della vostra Città? E come non riconoscerle la parte ispiratrice che le spetta in questa vostra meritoria decisione?

A voi piace ricordare - ben lo sappiamo - che in non lontana memorabile circostanza Noi abbiamo voluto additare Santa Caterina da Siena all’attenzione del laicato cattolico e di tutta la Chiesa. E Noi Ci rallegriamo per la squisita sensibilità, civile e religiosa ad un tempo - una sensibilità radicata nella storia ed aperta alle istanze del momento presente - con cui voi avete accolta quella Nostra indicazione, comprendendone senza dubbio il significato profondo in ordine di rinnovamento della vostra vita cristiana e del vostro impegno apostolico.

Quanto Ci piacerebbe poter discorrere a lungo con voi - i concittadini - della Nostra carissima Santa: riandarne le movimentate vicende esteriori; contemplarne soprattutto le sorprendenti ricchezze spirituali, esperienza religiosa e mistica, che di tutto il suo vasto ed intrepido operare sono state la luce orientatrice e la forza motrice! Basti ricordarvi che voi dovete essere i primi - ne avete il privilegio! - a raccogliere e perpetuare la preziosissima eredità cateriniana, per il bene delle anime vostre, a beneficio della Chiesa e della società civile.

Questa vostra presenza vuole, poi, essere la sentita partecipazione, solenne e pubblica, di tutta la diletta Arcidiocesi senese all’«Anno della Fede» nel centro stesso della Cristianità. Sia benvenuta la testimonianza di adesione che in tal modo voi rendete a Cristo, ai Santi Apostoli Pietro e Paolo, ai loro Successori, alla Santa Chiesa di Dio!

Non vi nascondiamo che l’«Anno della Fede», ormai prossimo a concludersi, Ci ha procurato non poche consolazioni. Siano rese grazie al Signore; ed anche a voi, diletti Figli e Figlie, che, associandovi ai tanti altri numerosi pellegrinaggi, avete voluto riservare al Nostro invito una generosa accoglienza.

Ma il vostro pellegrinaggio si ispira pure ad un motivo di filiale devozione verso la Nostra umile persona, chiamata dagli imperscrutabili disegni di Dio alla successione di Pietro. Siete venuti per farci gli auguri, alla vigilia della Nostra festa onomastica; per presentarci le vostre felicitazioni con motivo delle altre Nostre ricorrenze di questo stesso mese. Siamo profondamente sensibili a tanta affettuosa e devota attenzione, e vi assicuriamo della Nostra viva paterna gratitudine, in testimonianza della quale di cuore impartiamo a tutti voi, alle vostre famiglie, a tutti i vostri concittadini, la Nostra Benedizione Apostolica.





B. Paolo VI Omelie 20668