B. Paolo VI Omelie 16369

Domenica, 16 marzo 1969: RITO PENITENZIALE NELLA PARROCCHIA DI S. GIOVANNI CRISOSTOMO

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Il Santo Padre saluta l’assemblea e manifesta ciò che ha provato, entrando in S. Giovanni Crisostomo: viva letizia e un’impressione di novità. Come certi olivi secolari, contorti e provati, da sembrare ormai finiti, morti, pure a primavera emettono nuovi germogli e foglioline d’argento, così il vetusto tronco della Chiesa romana continua ad arricchirsi di nuovi rami, di nuove comunità, senza dar verun segno di esaurimento.

La città si dilata per chilometri: e subito si organizzano le nuove parrocchie. Questa novità, questa 241ª parrocchia della diocesi di Roma, il Papa è venuto a vedere, accompagnato dal suo Vicario, Cardinale Dell’Acqua, che, suo primo collaboratore nell’esercizio del ministero pastorale diocesano, il mese scorso ha benedetto il nuovo tempio. Confermando quella benedizione con la sua, il Santo Padre raccomanda il Cardinal Vicario alla gratitudine e rispondenza dei fedeli. Quindi il saluto paterno si dirige al parroco, ai suoi collaboratori, alle. suore, ai preposti alla Sacra Elemosineria Apostolica, o Servizio Assistenziale, come ora è denominata (con i Monsignori Venini e Travia), a cui si deve la erezione della scuola annessa alla parrocchia, ai progettisti del nuovo edificio sacro, al costruttore, ai parrocchiani che si sono assunti speciali oneri per rendere possibile la realizzazione del rilevante complesso. A tutti egli esprime il suo grazie, per le generose ed esemplari prestazioni.



L’UNITÀ DELLE ANIME NELLA CASA DI DIO

Nuova la parrocchia come istituzione e come edifici, ma anche sotto il profilo comunitario. Il Santo Padre ricorda che, nelle città moderne, all’efficienza dei servizi non corrisponde la concordia, l’affiatamento delle persone. Quartieri ordinati, ma come anonimi, isolano gli uomini invece di unirli. Al contrario la parrocchia rende comunità viva la società che vi fa capo. Presenti su un piano di libertà, tutti uguali davanti al Signore, piccoli e grandi qui diventano cittadini allo stesso grado e livello, membri di una comunità di amici, solidali nella preghiera. È una meraviglia sociale, di bellezza e di valore umano grandissimi. La parrocchia è come una casa dove qualcuno si occupa di tutti, perché l’amore arda ed operi in una fraternità semplice, naturale, attiva. Alla fioritura numerica corrisponde l’unità: 9-10 mila anime avvinte nella gioia e nel dolore, nella partecipazione reciproca alle vicende di tutti, mentre i giovani, bene prezioso ed essenziale, che garantisce alla mirabile famiglia il suo sviluppo e rinnovamento, crescono e apprendono.

Il Papa a questo punto mette in luce la forza principale che unisce la comunità: è la fede, il patrimonio ideale comune, il bene più prezioso dei cristiani, il convincimento che Dio si salva, la possibilità di espressione nella preghiera corale, «una voce dicentes», tanto gradita a Dio.


IL PRODIGIO DELLA MOLTIPLICAZIONE DEI PANI

Fede, preghiera e carità: sono passaggi collegati. Volersi bene; considerare la parrocchia casa di pace, dove ognuno riconosce ed assiste il prossimo; simpatizzare reciprocamente, e stare concordi, senza subire i difetti del campanilismo; vivere questo precetto riassuntivo della legge cristiana è inestimabile ventura. Riconciliarsi, perdonarsi, essere fratelli, per aver titolo a invocare lo stesso Padre: qui è il fondamento dell’unità, sempre proposta e raccomandata quale altissimo ideale. L’unità cristiana attua un mistero grande: «Dove sono due o tre adunati nel mio nome, io s’ono in mezzo a loro». È Gesù stesso a scaturire, con una presenza misteriosa, dalla confluenza delle persone che si riuniscono oranti nel suo nome: Gesù è reso presente dell’amore della comunità. Perciò la prima esortazione del Padre delle anime è quella di amare sempre, intensamente, la Parrocchia.

Ed ora un commento al brano del Vangelo testé letto: quello sul miracolo della moltiplicazione dei pani. Quante spiegazioni sarebbero utili per renderlo non solo comprensibile, ma dilettevole! Il Santo Padre si limiterà a qualche breve accenno.

Il Signore si trovava nella parte settentrionale del lago di Tiberiade, là ove, ai giorni nostri, si succedono purtroppo ostilità e scontri tra israeliani ed arabi. Da una parte del lago c’era Cafarnao, che potrebbe dirsi la base di tanta parte del ministero di Gesù. All’altra riva, la prima città ad incontrarsi era Betsaida - la patria di ,ben quattro Apostoli: Simone detto Pietro, il suo fratello Andrea, Giovanni e Giacomo -, che il delegato romano della regione aveva denominato Julia in omaggio alla figlia di Augusto imperatore.

Il Divino Maestro, attraversato il lago, voleva isolarsi per raccogliersi, con il gruppo degli Apostoli, in preghiera. Senonché, al loro sbarco trovarono una moltitudine entusiastica per l’eco e l’incanto della parola di Gesù. A migliaia le persone avevano guadato il Giordano più a monte e attendevano che il grande Profeta parlasse ancora, mostrasse la sua potenza. C’era un vasto prato, ed il Signore invitò tutti a disporvisi a piccoli gruppi. Qui il Vangelo entra nei particolari dell’imminente prodigio. La domanda di Gesù all’Apostolo Filippo sul da farsi; la risposta pessimistica dell’interpellato; la notizia recata da Andrea sul ragazzo che aveva portato cinque pani d’orzo e due pesci; la meravigliosa calma di Colui che avrebbe provveduto a tutti in modo sorprendente.

Con eccezionale, inesauribile larghezza i pani crescevano di numero nelle mani del Figlio di Dio: tutti ne ebbero e poterono saziarsi a volontà. San Marco nota che i beneficati furono più di cinquemila, senza contare le donne e i fanciulli.

Questo strepitoso miracolo del Signore non potrà essere compreso appieno se non si pensa al discorso che Gesù tenne il giorno seguente a Cafarnao. La gente era sempre in cospicuo numero; si accalcava intorno a Lui per implorare: dacci ancora di quel pane. Ed ecco la risposta del Redentore del mondo: non cercate il pane che passa, che muore; cercate il pane della vita, quello che non perisce, giacché viene dal Cielo. Alla premessa segue amplissima spiegazione. Ne riferisce diffusamente San Giovanni al capo sesto del suo Vangelo, la cui lettura e meditazione il Papa raccomanda a quanti sono in grado di istruirsi nelle meraviglie della fede.



«IO SONO IL PANE DELLA VITA»

Gesù dichiara: «Io sono il Pane della vita». Aveva fatto precedere l’annunzio di questa verità con il grande miracolo per far comprendere il senso delle affermazioni che avrebbe ancora fatte. «Io sono il Pane della vita». Voi ben sapete - spiega il Santo Padre - che con questa frase il Signore Gesù alludeva al grande Mistero dell’Eucaristia. Perciò la Chiesa, per farci riflettere a questo mistero, in modo speciale prima della Pasqua, fa rileggere a tutti il brano evangelico sulla moltiplicazione dei pani.

Che cosa vuol dire fare la Pasqua? Di sicuro, uno dei fanciulli tra gli ascoltatori potrebbe immediatamente rispondere: vuol dire accostarsi ai Sacramenti e, specialmente, ricevere degnamente il Pane di vita: l’Eucaristia.

E qui si presentano il grande ostacolo e la grande attrattiva. Il Signore si dà a noi sotto determinate forme, sotto le specie del pane e del vino. Certo, noi avremmo preferito di vederlo in persona. Invece egli ha voluto perpetuare il suo dono non in modo manifesto, bensì velato. Del resto, molto spesso - e l’evangelista Giovanni ne presenta una cospicua serie - il Signore, parlando di sé, usa delle avvincenti similitudini: Io sono la porta per entrare nel Regno dei Cieli . . . : Io sono il Buon Pastore, in analogia a chi guida e governa un gregge . . . : Io sono la vite e voi i tralci, per indicare efficacemente la trasfusione della linfa dal ceppo ai rami . . . ; Chi ha sete venga da me e beva, io sono la fonte . . . ; ed altre.

Oggi ci ricorda: «Io sono il Pane della vita» (San Giovanni registra per ben quattro volte la definizione). Così rappresentandosi, il Signore spiega appieno gli effetti della sua Presenza nel Divin Sacramento e della Santa Comunione in ciascuno di noi.

L’Eucaristia diventa perciò, almeno per coloro che hanno la fede e tengono aperti gli occhi dello spirito, un’irradiazione trasparente, se si è ben attenti al significato del simbolo prescelto dal Signore nel presentarsi a noi. Che cosa vuol dire la moltiplicazione dei pani? Che Gesù si sarebbe donato a tutti. È la sua universalità, la sua carità a manifestarsi in questo simbolo. Perciò ognuno di noi potrà dire con sicurezza: ci sarà per me un pane? Certo, poiché il Signore mi ama.



«DILEXIT ME ET TRADIDIT SEMETIPSUM PRO ME»

E qui rifulge, come d’incanto, il detto di potenza straordinaria dell’Apostolo Paolo, il quale, adoperando, in maniera inusitata, il singolare, esclama: «Dilexit me et tradidit semetipsum pro me». Mi ha tanto amato da dare se stesso a me e per me. Dunque, per ognuno di noi, per ciascun uomo e persona, il Signore ha avuto preciso il suo pensiero, scegliendo appunto nel pane un simbolo adeguato alla nostra mentalità, quasi a dirci: o cristiano, io sono pronto per te, disponibile per te; mi moltiplico per riflettermi in ogni cuore, ove sarò accolto come un raggio di luce, che ovunque può riflettersi e moltiplicarsi senza mai sminuirsi. In una parola, il Signore ha voluto, con il miracolo della moltiplicazione dei pani, dimostrare la sua disponibilità per tutti.

Qui l’essenza della Pasqua cristiana; qui un principio di incalcolabili risultati per la nostra vita spirituale. Quando ci sentiamo amati noi non possiamo non rispondere, in qualche maniera. Talvolta siamo chiusi, diffidenti, incapaci di comunicare con gli altri poiché non sappiamo se siamo oggetto di attenzioni e di cure. Ed ecco la realtà più prodigiosa d’ogni miracolo: sopra di noi, cioè sull’umanità, sovrasta l’immenso, infinito amore di Cristo, che si moltiplica con ineffabile dono per tutti, sì che ognuno può ripetere, con l’Apostolo: Cristo si è dato a me personalmente; sono io, proprio io, l’oggetto del suo amore; son io la bocca che ha fame di questo Pane e lo riceve e possiede.

Ma perché pane? Non poteva il Signore scegliere un altro simbolo, ad esempio la luce, la parola, che si moltiplicano per quanti vedono e ascoltano? Il pane è la forma più espressiva, e si presta a rendere quasi materiale e comprensibile il pensiero, il gesto di Dio. Il pane è infatti cibo, alimento, principio di vita; ed opera interiormente dopo che noi lo abbiamo immenso in noi perché sprigioni le sue virtù e qualità nutritive. Perciò Gesù ha voluto che coloro i quali credono in Lui lo ricevano, lo introducano nella propria anima quale unico, insostituibile alimento, principio interiore di nuova vitalità, così possente, così vera, da durare oltre i limiti del tempo. «Chi mangia di questo Pane, dice il Signore, vivrà in eterno». Il seme è adunque posto nel nostro spirito: garantisce a noi l’immortalità beata, il premio della rivelazione finale, cioè il Paradiso.



UNA SOCIETÀ CHE VIVE DI CRISTO

Dopo queste considerazioni, un invito ai diletti figli che ascoltano il Papa. Vedete - Egli dice - come parlando della comunità parrocchiale e commentandola alla luce del racconto evangelico testé rievocato, la vita cristiana ci appare piena sì di mistero, ma altrettanto ricca di luce, forza, conforto; densa di risposte. Guardiamo la vita moderna a cui partecipiamo. Che cosa è l’umanità di oggi, che cosa è il nostro tempo, l’intera società che ci circonda? È un’umanità triste, affamata, inquieta. Più le si dà - di comodi, benessere, scienza, invenzioni, servizi, ecc. - più è contestatrice, è malcontenta, insoddisfatta. Non ha ciò che salva e che essa attende. Le manca il di più, la nozione principale oltremodo rilevante. Ebbene, siamo tutti convinti che il reale vigore, questo elemento e complemento di cui l’essere umano ha bisogno, è il Pane della vita, è Cristo.

Il Mistero della Pasqua che stiamo per celebrare vuol proprio rammentare a ognuno di noi: devi nutrirti di Cristo, accoglierlo nel tuo essere, custodirlo quale principio di vita. Il cristianesimo non è una professione esteriore, non un sodalizio a cui dare il proprio nome senza soverchio interesse e diligenza. Il cristianesimo è un principio interiore, che modella, nutre, alimenta e dirige la nostra vita dall’interno. Gesù ha voluto farsi Pane per entrare in noi e largire forza, letizia, ispirazioni; la speranza, l’effusione mirabile che si chiama la Grazia, per farci suoi: veramente cristiani, un corpo solo ed un’anima sola, una società che vive di Cristo.

Fate bene la Pasqua, Figli carissimi, e così risponderete al Nostro più grande desiderio nel venire a visitare questa nuova parrocchia, bramando con voi di vedervi, in ogni circostanza, effettivamente cristiani e uniti al Signore. Ciò vi lasciamo quale ricordo del gradito incontro, con il Nostro augurio pasquale e la Nostra Benedizione.




Mercoledì, 19 marzo 1969: SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE

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Fratelli e Figli carissimi!

La festa di oggi ci invita alla meditazione su S. Giuseppe, il padre legale e putativo di Gesù, nostro Signore, e dichiarato, per tale funzione ch’egli esercitò verso Cristo, durante l’infanzia e la giovinezza, protettore della Chiesa, che di Cristo continua nel tempo e riflette nella storia l’immagine e la missione.

È una meditazione che sembra, a tutta prima, mancare di materia : che cosa di lui, San Giuseppe, sappiamo noi, oltre il nome ed alcune poche vicende del periodo dell’infanzia del Signore? Nessuna parola di lui è registrata nel Vangelo; il suo linguaggio è il silenzio, è l’ascoltazione di voci angeliche che gli parlano nel sonno, è l’obbedienza pronta e generosa a lui domandata, è il lavoro manuale espresso nelle forme più modeste e più faticose, quelle che valsero a Gesù Ia qualifica di «figlio del falegname» (
Mt 13,55); e null’altro: si direbbe la sua una vita oscura, quella d’un semplice artigiano, priva di qualsiasi accenno di personale grandezza.

Eppure questa umile figura, tanto vicina a Gesù ed a Maria, la Vergine Madre di Cristo, figura così inserita nella loro vita, così collegata con Ia genealogia messianica da rappresentare la discendenza fatidica e terminale della progenie di David (Mt 1,20), se osservata con attenzione, si rileva così ricca di aspetti e di significati, quali la Chiesa nel culto tributato a S. Giuseppe, e quali la devozione dei fedeli a lui riconoscono, che una serie di invocazioni varie saranno a lui rivolte in forma di litania. Un celebre e moderno Santuario, eretto in suo onore, per iniziativa d’un semplice religioso laico, Fratel André della Congregazione della Santa Croce, quello appunto di Montréal, nel Canada, porrà in evidenza con diverse cappelle, dietro l’altare maggiore, dedicate tutte a S. Giuseppe, i molti titoli che Io rendono protettore dell’infanzia, protettore degli sposi, protettore della famiglia, protettore dei lavoratori, protettore delle vergini, protettore dei profughi, protettore dei morenti . . .

Se osservate con attenzione questa vita tanto modesta, ci apparirà più grande e più avventurata ed avventurosa di quanto il tenue profilo della sua figura evangelica non offra alla nostra frettolosa visione. S. Giuseppe, il Vangelo lo definisce giusto (Mt 1,19); e lode più densa di virtù e più alta di merito non potrebbe essere attribuita ad un uomo di umile condizione sociale ed evidentemente alieno dal compiere grandi gesti. Un uomo povero, onesto, laborioso, timido forse, ma che ha una sua insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi, e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle grandi decisioni, come quella di mettere subito a disposizione dei disegni divini la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua felicità coniugale, accettando della famiglia la condizione, la responsabilità ed il peso, e rinunciando per un incomparabile virgineo amore al naturale amore coniugale che la costituisce e la alimenta, per offrire così, con sacrificio totale, l’intera esistenza alle imponderabili esigenze della sorprendente venuta del Messia, a cui egli porrà il nome per sempre beatissimo di Gesù (Mt 1,21), e che egli riconoscerà frutto dello Spirito Santo, e solo agli effetti giuridici e domestici suo figlio. Un uomo perciò, S. Giuseppe, «impegnato», come ora si dice, per Maria, l’eletta fra tutte le donne della terra e della storia, sempre sua vergine sposa, non già fisicamente sua moglie, e per Gesù, in virtù di discendenza legale, non naturale, sua prole. A lui i pesi, le responsabilità, i rischi, gli affanni della piccola e singolare sacra famiglia. A lui il servizio, a lui il lavoro, a lui il sacrificio, nella penombra del quadro evangelico, nel quale ci piace contemplarlo, e certo, non a torto, ora che noi tutto conosciamo, chiamarlo felice, beato.

È Vangelo questo. In esso i valori dell’umana esistenza assumono diversa misura da quella con cui siamo soliti apprezzarli: qui ciò ch’è piccolo diventa grande (ricordiamo l’effusione di Gesù, al capo undecimo di San Matteo: «Io Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascoste queste cose - le cose del regno messianico! - ai sapienti ed ai dotti, che hai rivelate ai piccoli»); qui ciò ch’è misero diventa degno della condizione sociale del Figlio di Dio fattosi Figlio dell’uomo; qui ciò ch’è elementare risultato d’un faticoso e rudimentale lavoro artigiano serve ad addestrare all’opera umana l’operatore del cosmo e del mondo (cfr. Jn 1,3 Jn 5,17), e a dare umile pane alla mensa di Colui che definirà Se stesso «il Pane della vita» (Jn 6,48). Qui ciò ch’è perduto per amore di Cristo, è ritrovato (cfr. Mt 10,39), e chi sacrifica per lui la propria vita di questo mondo, la conserva per la vita eterna (cfr. Jn 12,25). San Giuseppe è il tipo del Vangelo, che Gesù, lasciata la piccola officina di Nazareth, e iniziata la sua missione di profeta e di maestro, annuncerà come programma per la redenzione dell’umanità; S. Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; S. Giuseppe è la prova che per essere buoni e autentici seguaci di Cristo non occorrono «grandi cose», ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici, ma vere ed autentiche.

E qui la meditazione sposta lo sguardo, dall’umile Santo al quadro delle nostre condizioni personali, come avviene di solito nella disciplina dell’orazione mentale; e stabilisce un accostamento, un confronto tra lui e noi; un confronto dal quale non abbiamo da gloriarci, certamente; ma dal quale possiamo trarre qualche buono incitamento; all’imitazione, come nelle nostre rispettive circostanze è possibile; alla sequela, nello spirito e nella pratica concreta di quelle virtù che nel Santo troviamo così rigorosamente delineate. Di una specialmente, della quale oggi tanto si parla, della povertà. E non ci lasceremo turbare per le difficoltà, che essa oggi, in un mondo tutto rivolto alla conquista della ricchezza economica, a noi presenta, quasi fosse contraddittoria alla linea di progresso ch’è obbligo perseguire, e paradossale e irreale in una società del benessere e del consumo. Noi ripenseremo, con S. Giuseppe povero e laborioso, e lui stesso tutto impegnato a guadagnar qualche cosa per vivere, come i beni economici siano pur degni del nostro interesse cristiano, a condizione che non siano fini a se stessi, ma mezzi per sostentare la vita rivolta ad altri beni superiori; a condizione che i beni economici non siano oggetto di avaro egoismo, bensì mezzo e fonte di provvida carità; a condizione, ancora, che essi non siano usati per esonerarci dal peso d’un personale lavoro e per autorizzarci a facile e molle godimento dei così detti piaceri della vita, ma siano invece impiegati per l’onesto e largo interesse del bene comune. La povertà laboriosa e dignitosa di questo Santo evangelico ci può essere ancora oggi ottima guida per rintracciare nel nostro mondo moderno il sentiero dei passi di Cristo, ed insieme eloquente maestra di positivo e onesto benessere, per non smarrire quel sentiero nel complicato e vertiginoso mondo economico, senza deviare, da un lato, nella conquista ambiziosa e tentatrice della ricchezza temporale, e nemmeno, dall’altro, nell’impiego ideologico e strumentale della povertà come forza d’odio sociale e di sistematica sovversione.

Esempio dunque per noi, San Giuseppe. Cercheremo d’imitarlo; e quale protettore lo invocheremo, come la Chiesa, in questi ultimi tempi, è solita a fare, per sé, innanzi tutto, con una spontanea riflessione teologica sul connubio dell’azione divina con l’azione umana nella grande economia della Redenzione, nel quale la prima, quella divina, è tutta a sé sufficiente, ma la seconda, quella umana, la nostra, sebbene di nulla capace (cfr. Jn 15,5), non è mai dispensata da un’umile, ma condizionale e nobilitante collaborazione. Inoltre protettore la Chiesa lo invoca per un profondo e attualsimo desiderio di rinverdire la sua secolare esistenza di veraci virtù evangeliche, quali in S. Giuseppe rifulgono; ed infine protettore lo vuole la Chiesa per l’incrollabile fiducia che colui, al quale Cristo volle affidata la protezione della sua fragile infanzia umana, vorrà continuare dal Cielo la sua missione tutelare a guida e difesa del Corpo mistico di Cristo medesimo, sempre debole, sempre insidiato, sempre drammaticamente pericolante.

E poi per il mondo invocheremo S. Giuseppe, sicuri che nel, cuore, ora beato d’incommensurabile sapienza e potestà, dell’umile operaio di Nazareth si alberghi ancora e sempre una singolare e preziosa simpatia e benevolenza per l’intera umanità. Così sia.





Domenica delle Palme, 30 marzo 1969: SOLENNE CELEBRAZIONE DELLA «DOMINICA IN PALMIS DE PASSIONE DOMINI»

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Giovani! Figli e amici carissimi!

A Voi oggi si rivolge, con intenzione particolare, la Nostra parola. A voi che ascoltate. Sì, vi è una gioventù che ascolta ancora la voce della Chiesa. La ascolta non tanto perché condotta a questa Cattedra dall’abitudine, dall’obbedienza, dalla moltitudine, ma perché una speranza qua la conduce, la speranza d’una rivelazione, di un’intuizione, d’un lampo di luce, che illumini il panorama della vita, che faccia vedere dove siamo e dove dobbiamo andare, che serva cioè di orientazione. Dite un po', carissimi giovani: non avvertite in voi stessi questo bisogno di chiarezza, questa necessità di sapere se e quale scopo, quale valore, quale punto di arrivo meriti di dare senso e direzione alla vostra vita?



VIVACITÀ ESUBERANTE

Vi è oggi nella gioventù, tutti lo sappiamo, e voi ne avete forse l’esperienza, una grande inquietudine, una grande vivacità di forze e di aspirazioni, che esplode in forme esuberanti e spesso violente; e quasi sempre contro qualche cosa: contro i modi di vivere e di pensare degli altri, contro le abitudini di ieri, contro le leggi vigenti, contro le istituzioni ereditate dal passato. Sì, un prepotente bisogno di novità, di originalità, di libertà sospinge l’anima giovanile, e oggi spesso in modo ribelle. La vitalità dei giovani si esprime in senso negativo, e quasi si compiace dei disordini che sa provocare e dei problemi che sa suscitare, che non del senso positivo del suo irrompente intervento nel contesto sociale, al quale l’opinione pubblica dà la qualifica di ordine stabilito. I movimenti giovanili impugnano questo stato di cose, con vigore altrettanto convinto quanto incurante e inconsapevole di ciò che lo deve praticamente e saggiamente sostituire. È il grande problema di questa ora di turbamento ideale e sociale. Ma non è di questo che Noi vogliamo adesso parlare. Vi abbiamo accennato soltanto affinché sappiate che anche la Chiesa ha gli occhi aperti, vede e considera con amorosa e trepidante vigilanza il grande fenomeno dell’agitazione giovanile, ed ha nel cuore molte cose da dire e da fare a questo riguardo.


UNA MISSIONE DA COMPIERE

In questo momento, tutto preso dalla celebrazione del mistero pasquale, e ora tutto impegnato nella rievocazione del fatto evangelico, che voi ben conoscete, quello dell’ingresso clamoroso e festante di Gesù in Gerusalemme, in mezzo al tripudio della immensa turba, convenuta nella santa Città per la ricorrenza pasquale, che lo acclama Figlio di David (
Mt 21,9), e Re d’Israele (Jn 12,13), cioè il Messia, il Personaggio misterioso, preannunciato dai Profeti, atteso da secoli, rivestito dell’autorità e della potenza di svelare e realizzare i prodigiosi destini del popolo eletto, in questo momento, diciamo, che ha anche per noi qualche segreto da svelare, qualche evento da annunciare, qualche rinnovamento da inaugurare, un pensiero solo Noi vi comunichiamo. Un pensiero, in cui condensiamo tante Nostre riflessioni, un pensiero, che pare a Noi avere calore profetico, e che riguarda tutti i credenti, ma voi, voi giovani, specialmente. Ascoltateci bene. Il pensiero è questo: tocca ai giovani, oggi, rivelare al mondo che Cristo, il Cristo vero, il Cristo sempre vivente nella Chiesa che lo predica, lo personifica, lo comunica, Cristo, affermiamo, è il Salvatore del mondo.

Tocca ai giovani, a voi, figli e amici carissimi. Voi avete una missione. Voi avete una funzione da compiere in questa nostra società, così esuberante di ricchezze, di energie, di meraviglie, ma anche così disorientata circa i veri e insurrogabili fini da perseguire, così fiera e così malcontenta di sé; così colta e intelligente e così corrosa dal dubbio e così cieca sulle vie buone della sua felicità; così organizzata e così minacciata dalla sua stessa organizzazione; così piena di attese e di ansie, e in fondo così sfiduciata e scettica e disperata; così raffinata in ogni .sua manifestazione e insieme così passionale e corrotta. Voi, diciamo, figli del nostro tempo, sensibilissimi al suo linguaggio, al suo genio, al suo spirito; ma puri, Noi pensiamo, dalle sue contaminazioni; voi adolescenti, voi giovani maturi, prodigiosamente belli, deliziosamente intatti, volutamente semplici, logici, diritti; voi fisicamente e moralmente forti, voi giocondi e vivaci, voi liberi e docili; voi, non insofferenti, ma accoglienti della saggezza delle vostre famiglie; voi cresciuti nella fede e nella preghiera; voi, in una parola, alunni di Cristo. Sì, voi avete la missione di annunciare al nostro mondo di oggi il Messia vero, il Cristo autentico, il Salvatore insostituibile. Voi dovete mostrare agli uomini del nostro tempo il volto luminoso di Gesù, luminoso per il mistero profondo della sua reale divinità e per il mistero evidente della sua incomparabile umanità. È il volto del Figlio di Dio, è il volto del Figlio dell’uomo. È il prototipo dell’umanità; è il Maestro, il Fratello, è il condottiero; è il Profeta di cui ancora tutti possiamo fidarci; e poi, per un tragico e dolcissimo dramma, da cui non possiamo sottrarci, Lui è l’uomo del dolore, Lui la vittima d’ogni nequizia umana; Lui il Redentore; Lui, l’Amore che si è sacrificato innocente; Lui la Vita in sé, Lui la morte per noi; e, diciamo l’ultima parola, Lui il Risorto per la nostra salvezza: «propter iustificationem nostram» (Rm 4,25).

Ma voi Ci direte: questo messaggio è quello riservato agli apostoli, ai ministri del Vangelo, ai maestri della Chiesa. Sì, questo è il loro ufficio specifico, il loro ministero. Ma oggi, ma ora, questo è anche il vostro messaggio! Questa è la novità del nostro tempo; questo è l’indice della primavera dell’età presente; questo è l’atto di fiducia che la Chiesa fa al Laicato cattolico, fa a voi giovani specialmente! Ricordate il Concilio: «I giovani esercitano un influsso di somma importanza nella società odierna . . . L’accresciuto loro peso nella società esige da essi una corrispondente attività apostolica . . . Anche i fanciulli hanno una loro propria attività apostolica» (Apostolicam actuositatem, AA 12).



TESTIMONIANZA CRISTIANA

E Ci direte ancora: ma come facciamo noi a compiere una missione così delicata, così difficile, così impopolare? Sì, avete ragione di avvertire la difficoltà della testimonianza cristiana nella nostra società. Ma ascoltateci ancora. A voi giovani piacciono le cose facili, o le cose difficili? La vostra simpatia va verso i deboli, i paurosi, gli opportunisti, i vili; ovvero va verso i forti, i coraggiosi, gli eroi? Volete che la vostra vocazione cristiana oggi vi educhi timidi, imbelli, egoisti, ovvero pieni di cosciente energia, di amoroso ardimento? Non è stata forse una lacuna di certa educazione che ha scambiato la bontà con la debolezza, la pietà con il rispetto umano, la fede cristiana con l’interesse privato?

E poi: che cosa vi si chiede? miracoli? azioni stravaganti e strepitose? No, vi si chiede d’essere quello che siete: giovani e cattolici. Lo diremo con un autore tedesco: «Cristiano, sii cristiano». Ma vero, ma autentico, ma dinamico, ma pieno di ardore, di fantasia, di amore. Cioè di quella giovanilità cristiana, che la Chiesa, da un secolo, sta suscitando, reclutando, benedicendo.

Ed ancora; e così concludiamo. La testimonianza cristiana, quella di cui stiamo parlando, è un atto personale. Deve partire dal fondo, libero e cosciente, del proprio cuore. Ma è insieme un fatto collettivo. Non siete soli. Siete uniti. Siete molti. E di più siete amici, siete concordi. Voi fate coro, fate schiera. E con voi è la Chiesa: con le sue associazioni, con il suo senso comunitario, con la sua amorosa assistenza.

È Cristo Signore, che ispira la vostra solidale affermazione, e che certamente, come già nel Vangelo, gode del vostro corale e profetico omaggio. Esso non risparmierà forse a Cristo, ancor oggi, il dramma della sua sempre incombente passione; ma così saprà il mondo, per sua condanna e per sua speranza, che essa, la passione di Cristo, è quella del nostro comune e insurrogabile Salvatore.




Giovedì Santo, 3 aprile 1969: MESSA «IN CENA DOMINI»

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Fratelli!

Noi siamo esitanti a prendere la parola, questa sera, in questa assemblea, in questa «ecclesia», tipica in tutta la cattolicità, ma per ciò stesso eguale ad ogni singola riunione di fedeli, raccolti intorno ad un altare, convocati e serviti dal ministero prodigioso dei loro pastori, quasi fossero con noi, come noi celebranti questa misteriosa cena del Signore.

Siamo esitanti, perché temiamo di turbare l’interiorità personale dei vostri pensieri, la quale Noi supponiamo profonda in ciascuno di voi, e singolarmente tesa nello sforzo di concentrarsi finalmente in un momento di più chiara coscienza, per cogliere qualche cosa del rito, che stiamo celebrando, del suo significato, della sua misteriosa realtà, della sua ineffabile ripercussione nella nostra psicologia, nella nostra mentalità, nella nostra anima. Quasi istintivamente, per il fatto che siamo qui, intervenuti a questa speciale, specialissima cerimonia, ognuno di noi è preso da un senso di raccoglimento e da un bisogno di ritrovare se stesso, al contatto, alla luce di questa celebrazione.

Ebbene, Noi cercheremo con queste Nostre brevi parole, le quali fanno anch’esse parte della celebrazione stessa, di non allentare la vostra interiore tensione, di non distrarvi, ma di assecondare, se possibile, il corso ovvio ed essenziale dei vostri pensieri medesimi.

A che cosa essi ora si rivolgono? qual è il loro primo contenuto? Essi si rivolgono ad un fatto evangelico ben noto, all’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli. Ricordiamo bene quell’avvenimento. Ciascuno di noi cerca di rappresentarsene il quadro, di vederlo con la propria immaginazione; il nostro è un atto di memoria. E subito ci accorgiamo che questa memoria assume un valore speciale; è una memoria voluta da Cristo stesso: «Fate questo, disse proprio allora Gesù, fate questo in memoria di me» (
Lc 22,19 1Co 11,24).

Tra pochi istanti noi ripeteremo alla lettera queste parole. Questa commemorazione stabilisce perciò un rapporto storico, diretto, premeditato fra Cristo e noi, un rapporto di ossequio al suo volere, di fedeltà alla sua parola, una sua presenza spirituale; con questa particolare intenzione: di trasformare noi memori, noi spettatori, in convitati; di farci sedere a quella mensa, così semplice, ma così carica di significati immensi e profondi.

Una memoria che diventa storia presente e storia nostra; una storia che si attualizza per noi, in noi, quasi che noi pure fossimo ora, come fosse allora, seduti a quella cena pasquale, in cui si consumava la Pasqua .tradizionale, celebrativa della liberazione del Popolo eletto dalla schiavitù, mediante l’immolazione dell’agnello (cfr. S. GAUDENT., Primus Tractatus, PL 20, 827), e le era sostituita la Pasqua nuova, la nostra, «in cui Cristo, come spiega S. Paolo, è immolato Pascha nostrum immolatus est Christus» (1Co 5,7). Lui assume la preconizzata e tragica funzione di «Agnello di Dio, di colui che toglie il peccato del mondo» (Jn 1,29); e Lui inaugura quel nuovo Testamento, in cui noi ora ci troviamo; lo inaugura dando alla sua ultima cena, da rinnovarsi come annuncio perenne della sua morte (1Co 11,26), il valore di sacrificio, rendendo Se stesso presente col suo Corpo e col suo Sangue come vittima immolata, raffigurata nei segni del pane e del vino, resi per noi spirituali alimenti, cioè mezzi di comunione e fonti di vita, della vita stessa di Cristo, infusa in noi.

Infusa in noi, perché? oh! è chiaro: affinché noi viviamo di Lui, di Cristo. Questo è il prodigio: «chi mangia di me, disse Gesù, vivrà di me», e vivrà per me (Jn 6,57; cfr. S. AUG., In Io. tr. 26, PL 35, 1615). Ma come, come? cioè qual è il significato essenziale, l’effetto soprannaturale, la «res», come dicono i teologi (cfr. S. Th. III 73,3), di questa alimentazione sacrificale, per la quale Cristo si comunica a noi, e noi ci inseriamo in Lui? È una nuova, misteriosa unità, che deve risultare appunto dalla partecipazione all’Eucaristia, perché Eucaristia si chiamerà questa celebrazione di amore memore e riconoscente, questa «agape», questa comunione sacrificale; è l’unità del corpo mistico, è la Chiesa, corpo mistico di Cristo, vivente di fede, di speranza e di carità. Nessuna parola a questo proposito è più chiara di quella dell’Apostolo: «noi formiamo un unico corpo pur essendo molti, poiché tutti partecipiamo d’un unico pane» (1Co 10,17).

Fratelli miei! a questo pensiero Noi vorremmo che si fermasse la nostra riflessione circa il rito, anzi circa la cena pasquale, che stiamo celebrando. Non è certo pensiero nuovo e originale! guai se lo fosse! è il pensiero vero, conclusivo, tempestivo della nostra Pasqua. E cioè il pensiero dell’unione, diciamo di più: dell’unità, della misteriosa, vitale, obbligante unità, che deve così ravvivarsi in noi da farci poi vivere di sé, essere la nostra luce per la nostra vita pratica e sociale, formare la qualificazione caratteristica della nostra romanità cattolica: l’unione, l’unità fra di noi! È quel volersi bene, l’un l’altro, quell’amarci a vicenda, come Lui, Gesù, ci ha amati; è il suo comandamento supremo, è il distintivo che siamo davvero suoi discepoli! (Jn 13,34-35).

Questo richiamo ci sembra opportuno. Tanto si parla di unità nel mondo. La storia dell’umanità, nonostante le fratture, le lotte, le disparità che la dividono, cammina verso l’unità: vi arriverà? o sarà conato vano il suo sforzo di solidarietà mondiale? e se vi arrivasse, sarà sua fortuna, o sua sventura per la «unica dimensione» che potrebbe assumere un’unità puramente tecnica ed esteriore, cioè per la perdita delle sue libere e plurime espressioni dell’umanità universale? L’umanità ha bisogno d’unirsi nella solidarietà e nell’amore: e dove ne trova il tipo e la fonte?

Si parla di unità nel pluralismo delle denominazioni cristiane nell’ecumenismo; e quando quest’unità potrà dirsi effettiva e perfetta, se non quando sarà unanime nella confessione d’unica fede, condizione indispensabile per la partecipazione ad una medesima comunione eucaristica?

Si parla di un rinnovamento nella dottrina e nella coscienza della Chiesa di Dio; ma come potrà essere autentica e persistente la Chiesa viva e vera, se la compagine che la forma e la definisce «corpo mistico», spirituale e sociale, è oggi così spesso e così gravemente corrosa dalla contestazione o dall’oblio della sua struttura comunitaria e gerarchica, contraffatta nel suo divino e indispensabile carisma costitutivo, ch’è l’autorità pastorale? come potrà arrogarsi d’essere Chiesa, cioè popolo unito, anche se localmente frazionato e storicamente e legittimamente diversificato, quando un fermento praticamente scismatico la divide, la suddivide, la spezza in gruppi più che d’altro gelosi d’arbitraria e, in fondo, egoistica autonomia, spesso mascherata di pluralismo cristiano o di libertà di coscienza? come potrà essere costruita la Chiesa di Cristo da un’attività, che vorrebbe dirsi apostolica, quando questa attività è volutamente guidata da tendenze centrifughe, e quando sviluppa non la mentalità dell’amore comunitario, ma quella piuttosto della polemica particolarista, o quando preferisce pericolose e equivoche simpatie, bisognose di irriducibili riserve, alle amicizie cristiane fondate su basilari principii, indulgenti verso i comuni difetti, e bisognose sempre di convergenti collaborazioni?

Si parla ancora di Chiesa, e di Chiesa cattolica, la nostra: ma possiamo noi dire a noi stessi ch’essa, nei suoi membri, nelle sue istituzioni, nella sua operosità è sempre e davvero animata da quel sincero ed umile spirito di unione e di carità, che la renda degna di celebrare, senza ipocrisia e senza consuetudinaria insensibilità, la nostra santissima. Messa quotidiana? Non vi sono talvolta anche fra noi quegli «schismata», quelle «scissuras», che la prima lettera ai Corinti di S. Paolo, oggi nostra ammaestrante lettura, dolorosamente denuncia? (1Co 1,10 1Co 12,25 1Co 11,18). Abbiamo sempre bisogno di costruire quella carità, quell’unità virtuosa di sentimenti e di rapporti, che 1’Eucaristia presuppone ed alimenta, e che sublimerà nelle parole testamentarie di Cristo, che tutti siano uno, «ut unum sint» (cfr. Jn 13,34-35 Jn 17,21 ecc.).

E qui, in questo momento che precede immediatamente la nostra comunione con Cristo, unificatore di noi suoi seguaci e suoi membri, rinnoviamo la nostra, interiore maniera di pensare e di agire (cfr. Ep 4,23); rinunciamo allo spirito di emulazione e di discordia, alla sottile tentazione della maldicenza fra noi fratelli; e, se bisogno vi fosse, allarghiamo gli animi al perdono per chiunque ci avesse usato torto come promettiamo riconciliazione con chiunque a cui si deve restituire rapporto di umana conversazione (cfr. Matth. Mt 5,23, come appressarci alla cena cristiana della carità e dell’unità, senza questa pace nel cuore?

E una grazia domandiamo oggi a Cristo Gesù: che dia alla sua Chiesa, a questa Chiesa di Roma chiamata a «presiedere alla carità» (S. IGNAZIO, Epist. ad Romanos, Inscript., Ed. Funk, «Patres Apostolici», p . 222), di conservarsi e di perfezionarsi sempre nell’unità interiore sua propria, come la Pasqua del Signore lo esige. Così sia.






B. Paolo VI Omelie 16369