B. Paolo VI Omelie 10570

Domenica, 10 maggio 1970: CANONIZZAZIONE DELLA BEATA MARIA VITTORIA TERESA COUDERC

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Qu’il Nous soit permis d’adresser d’abord un mot de bienvenue, dans leur langue, à nos chers Fils de France, venus nombreux pour assister à la glorification de leur humble et glorieuse compatriote.

Nous avons le plaisir de saluer Monsieur Marcellin, Ministre de l’Intérieur, et les autres Membres de la Mission spéciale envoyée par le Gouvernement Français pour cette circonstance.

Nous saluons le Cardinal Renard, Archevêque de Lyon, et les Evêques de France qui l’entourent, parmi lesquels Monseigneur Jean Hermil, Evêque de Viviers, le Diocèse d’origine de la nouvelle Sainte.

Nous accueillons avec une satisfaction toute spéciale - est-il besoin de le dire? - les nombreuses Filles de Sainte-Thérèse Couderc et leur Supérieure générale.

Enfin nous avons l’honneur et la joie d’avoir aujourd’hui parmi nous un Visiteur exceptionnel, le «Catholicos» supreme de tous les Arméniens, Vasken 1er, venu de la sainte Etchmiadzin pour apporter à l’Eglise de Rome le salut de la glorieuse Eglise arménienne, si riche en Saints et en Martyrs. Nous bénissons la Providence, qui a permis qu’une cérémonie de Canonisation se déroule durant tette visite historique, et permette ainsi d’associer nos hôtes arméniens et leur très digne Chef spirituel à la joie de toute l’Eglise.

La solennità di questo momento e di questo luogo suggerirebbe un lungo discorso di lode a Dio, «che ci consola in ogni nostra tribolazione, affinché noi pure possiamo consolare gli altri» (
2Co 1,4), mediante l’apparizione dei suoi Santi nella nostra terrena peregrinazione; un discorso di culto alla nuova Santa Maria-Vittoria Teresa Couderc; di compiacimento con la Congregazione di Nostra Signora del Cenacolo, che la ebbe fondatrice; di esortazione alla Chiesa, che in questa eletta sua figlia trova esempio, aiuto e protezione; di confronto con il nostro secolo, che ne eredita l’esperienza e l’opera; di lode e di augurio infine alla Francia, che alla Santa diede i natali ed il campo d’azione.

Ma Noi dobbiamo ora limitarci assai, a due sole parole, sufficienti a rendere atto di omaggio alla Santa, ora canonizzata, e ad avviare più ampia riflessione su la sua vita e sulla istituzione da lei fondata; ed anche queste due parole sono piuttosto domande, che notizie relative a questa nuova Figlia celeste della Chiesa terrestre. Sono queste: qual è la figura, qual è l’opera di Santa Teresa Couderc? Piacerebbe a Noi avere le risposte dalle Religiose presenti, figlie e seguaci della Santa, informatissime certamente, com’è loro dovere e loro privilegio, ma ora curiose di sapere il nostro pensiero.

Qual è la figura della vostra Santa? Diciamo figura, non storia, per dire breve e per contentarci di alcuni semplici cenni.

Di Sante Religiose, di Sante Fondatrici, di Sante vissute nel secolo scorso, di Sante germinate dalla terra feconda di Francia, sconvolta dalla Rivoluzione, e arata poi, per così dire, dall’epopea napoleonica la Chiesa possiede una bella schiera: quali sono i lineamenti caratteristici, che possono identificare e distinguere quella che oggi onoriamo?



VITA ANGELICA E POVERA

Diamo anche per lei scontato il profilo generico della Religiosa dell’ottocento: è quello tradizionale d’una vita ardentemente amorosa, ma staccata dalla forma ordinaria, pur onesta e degna, dell’amore familiare; è quello d’una vita tesa e sospesa ad una totale consacrazione al Signore; d’una vita angelica e povera; d’una vita inserita in una comunità strettamente organizzata e disciplinata; d’una vita caratterizzata da qualche attività caritativa. Questa vita non è più claustrale, ma è sempre custodita da una casa appartata: alla monaca è succeduta la suora; non più esclusivamente statica e contemplativa, cioè dedicata soltanto all’orazione, ma attiva altresì. Consapevolezza e volontarismo, libertà di scelta, perciò, e abnegazione vissuta conferiscono a questa forma di vita religiosa intensità interiore e dedizione esteriore; è un ideale di pietà, di generosità, di santità, che ha formato un tipo ammirabile di donna votata a Cristo, tipo accolto da ‘miriadi di anime vergini e forti, e tuttora fiorente, per grazia di Dio, nella Chiesa cattolica. Si può capire come questo ideale abbia esercitato un’attrazione potente.

Ebbene, rispetto a questo genere di esistenza, qual è l’atteggiamento di Maria-Vittoria prima di diventare Suor Teresa? Si sa di quale varietà di atteggiamenti si rivestano le anime che si orientano verso di esso; la fenomenologia delle vocazioni è assai ricca e complessa, descrive le storie interiori più varie, incerte, lente, dolorose, drammatiche talvolta. Il caso della Couderc invece è quello più lineare e più semplice, quello di una vocazione che potremmo quasi dire nativa. Ella ha avuto, fino dai primi anni, un desiderio unico, precocissimo, quello della vita religiosa, senza che questa le sia ancora specificata e facilitata. Questa inclinazione quasi congenita, che precede l’esperienza della vita e la formazione culturale, anche se dovrà ritardare il raggiungimento del suo scopo all’età della piena coscienza, non ha dubbi per lei, non ha macchie, non ha condizioni; è una vocazione innocente e sicura. L’ambiente familiare, campestre e alpestre, modesto ed onesto, pio e laborioso, piuttosto austero e patriarcale, ne ha certamente grande merito; la Francia rurale di quel tempo vi attesta le forti virtù cristiane, rimaste nel cuore del suo popolo.

Questa a noi pare una nota distintiva della figura di Santa Teresa Couderc: la sua vocazione. E perché auspice questa anima semplice ed eletta, che, piuttosto di scegliere ella stessa, si sente scelta alla vocazione religiosa, la Provvidenza, a sostegno della santa Chiesa, oggi in condizioni storiche e sociali ben diverse, e tanto bisognosa di nuove vocazioni, non potrebbe ancora moltiplicare lo stesso prodigio?


FORTEZZA E RINUNCIA

Ma poi, come si realizza e come si svolge questa vocazione?

Osserviamo la linea: essa ci sembra segnata da due caratteri apparentemente contraddittori: quello della fortezza e quello della rinuncia. Si riassumono e si fondono nella conformità ad una parola evangelica, la quale compendia certamente l’aspetto morale della figura umana di Cristo, il mistero della sua santità: «Ciò che piace a Lui (al Padre mio), dice Gesù, io faccio sempre» (Jn 8,29). Gesù è l’obbediente fino alla morte (Ph 2,8); il suo eroismo è la conformità alla volontà di Dio; la nostra redenzione si compie così (Cfr. ADAM, Cristo nostro fratello, p. 4). Possiamo così dire della nostra Santa: la sua volontà è in una tensione continua; ma l’esplicazione della sua volontà è in una rinuncia continua, totale di sé. Bisognerebbe qui rievocare l’influsso ch’ebbe su di lei il sacerdote da cui tutto partì, il Padre Terme, tempra ardente di fervore religioso e di carità, e formidabile guida verso i sentieri spirituali e verso gli orientamenti pratici, più generoso e impulsivo forse che riflessivo ed illuminato, tutto energia ed entusiasmo, ma lui per primo sulla via regia della volontà di Dio, con quella cieca dedizione che scopre la luce dello Spirito; egli diceva di sé: «Io non chiedo che compiere l’opera alla quale Dio mi destina, senza nemmeno cercare di conoscerla». Così nasce la piccola nuova famiglia religiosa a La Louvesc (dove ora riposano le spoglie mortali della Santa, accanto alla tomba d’un Santo, anch’esso esempio e maestro di energia straordinaria e d’intraprendenza apostolica, S. Francesco Régis).


MISSIONE DOLOROSA E DRAMMATICA

Il gioco degli avvenimenti sembra rivelare la presenza della mano di Dio, che guida uomini e cose. La nascente istituzione passa sotto l’ispirazione e la direzione dei Padri della Compagnia di Gesù, sulla cui spiritualità e sulla cui regola essa si plasma e si evolve, staccatasi dal ramo iniziale della fondazione rivolta all’apostolato scolastico rurale, e, sempre secondo l’impulso del primo promotore il P. Terme,ben presto mancato ai vivi, si qualifica nell’opera dei ritiri e degli esercizi spirituali, prendendo da un distinto figlio di S. Ignazio, P. Fouillot, buon religioso, l’impronta spirituale, le costituzioni ed il titolo che ora distingue la congregazione di Nostra Signora del Cenacolo.

Ma questa evoluzione costituisce la via dolorosa della Fondatrice; ed è su questa via che la Couderc principalmente si rivela santa, se davvero la santità si manifesta e si forma mediante la croce. Per quarantacinque anni Teresa Couderc la portò. Quella croce che anche la vita religiosa appesantisce su chi la professa, e talvolta in più grave e strana misura su chi ne ha il merito della fondazione. La missione d’una Fondatrice diventa, in certi casi, dolorosamente drammatica, specialmente quando le difficoltà sorgono per iniziativa di chi esercita l’autorità nella Chiesa e da parte di chi condivide la sorte della vita comune, e cioè quando chi fa soffrire è persona venerata e buona, ed ha la veste della paternità o della filiazione spirituale.

È questo un genere di sofferenza, di cui, a prima vista, non si supporrebbe la possibilità, né tanto meno l’esistenza: essa incide su rapporti stabiliti nel campo della carità ecclesiale, ch’è quanto il Signore ci ha lasciato di più impegnativo e di più bello; ed è proprio per questo che ogni ferita a tali rapporti produce sofferenza più acuta. L’amore accresce la sensibilità e la porta dall’epidermide al cuore. Ma uomini siamo; cioè siamo capaci di far soffrire il prossimo, e le persone buone e care più d’ogni altra, anche con le migliori intenzioni; che se poi i nostri difetti aggravano il torto dell’azione lesiva e la rendono offensiva, l’amarezza si fa profonda, e provoca reazioni che solo una virtù superiore può contenere.

Questa, si può dire, è la storia di Teresa Couderc. Forse imponderabili motivi d’ordine sociale (ella era di modesta origine campagnola, e di cultura scolastica limitata) contribuirono a suggerire provvedimenti umilianti a suo riguardo, che riempirono di peripezie, di ingratitudini, di rivalità, di rimproveri, di mortificazioni l’animo dell’umile Religiosa; ella fu praticamente destituita da Superiora, le fu conteso il titolo di Fondatrice, le furono dati posti ed incarichi inferiori alle sue capacità ed ai suoi meriti (Cfr. FOLLIET, p. 17). Qui ella appare grande: grande soprattutto nell’umiltà. Nel darsi, se livrer, com’ella ripeteva. Il silenzio, l’obbedienza, la pazienza, in una cosciente e continua immolazione interiore, furono la sua condotta. Furono la sua difesa. Furono la tacita apologia della sua virtù, solo al tramonto riconosciuta, ed oggi glorificata. Sotto questo aspetto Teresa Courdec ci appare anima eroica, ci appare maestra straordinaria, ci appare Santa. È l’aspetto che in questo caso ha il merito di stabilire quella corrente di simpatia, di devozione, d’ammirazione, di fiducia che dobbiamo ai Santi.


ISTITUZIONE PROVVIDENZIALE

E l’opera? L’opera è quella del Cenacolo. Tutti la conosciamo. La conobbe, fra tutti, il Nostro venerato e grande Predecessore, Papa Pio XI, il quale, quand’era Dottore alla Biblioteca Ambrosiana, per quaranta anni, esercitò il suo nascosto e sapiente ministero sacerdotale al Cenacolo di Milano, dove Noi stessi avemmo occasione, come del resto qui a Roma, di sostare per qualche religiosa circostanza. È il Cenacolo un Istituto religioso dedicato a Nostra Signora, la Madre di Cristo, che in mezzo alla prima comunità cristiana, attende, invoca e riceve in nuova pienezza l’effusione dello Spirito Santo, nel giorno di Pentecoste. È un Istituto religioso che celebra, imitandoli e rivivendoli, i due momenti dello Spirito di Gesù nella vita umana: quello interiore, nel silenzio, nell’orazione, nella contemplazione, nell’intimo colloquio con Dio, nell’esercizio della sublime, delicatissima, deliziosa e paziente arte della preghiera, fino a fare di questa il proprio alimento, il proprio respiro, la propria personale pienezza, la propria comunione continua con Cristo. E quello esteriore: contemplata aliis tradere, quello che cerca di trasfondere in altre anime i tesori della verità e della virtù, e che fa dell’apostolato religioso, e perciò dell’imitazione di Cristo, l’esercizio della propria carità: è scuola di vita cristiana e di dottrina cristiana, è rifugio di silenzio e di meditazione, è clinica di riabilitazione per le forze morali e spirituali. Il Cenacolo è una formula religiosa semplice e felice: è una sintesi di vita contemplativa e di vita attiva; di vita personale, comunitaria e sociale, di silenzio e di parola. Qui lo sforzo ascetico e l’abbandono mistico si integrano armonicamente. Come è stato detto: «La perfezione cristiana suppone l’unione costante, su piani differenti, dell’ascetica e della mistica» (BREMOND, Introd. à la la prière, p. 338).

Il Cenacolo è una istituzione specializzata per un servizio sociale di esercizi spirituali. Ispirato dalla grande scuola ignaziana, ma aperto ad ogni corrente di spiritualità cattolica, esso cerca di favorire l’applicazione d’un’Enciclica da non dimenticare, la Mens nostra, del medesimo Papa Pio XI, emanata nel dicembre 1929, proprio su gli esercizi spirituali (A.A.S. (1929), pp. 689 ss.). Cioè il Cenacolo si organizza in modo da offrire a tante categorie di persone, del mondo femminile specialmente, piccole e grandi, e d’ogni ceto sociale, la possibilità di godere di qualche giorno, o anche solo di qualche ora, di ritiro, di raccoglimento, di silenzio, di ‘meditazione, di preghiera, di rigenerazione sacramentale.

Figli del mondo moderno, noi siamo in grado di apprezzare il carattere provvidenziale d’una simile istituzione e di sentirci obbligati a fare della nostra riconoscenza a Santa Teresa Couderc l’espressione migliore del culto che le è dovuto. Assorbiti infatti dalla «catena di montaggio», ch’è l’impegno, ch’è il ritmo della nostra attività esteriore, affascinati dall’incantesimo della scena sensibile, che ci circonda senza tregua e ci attrae fuori di noi in un campo di realtà o di rappresentazioni o di interessi, che non lasciano allo spirito la possibilità di essere dentro di sé e di disporre delle cose relative al suo proprio destino, noi sentiamo il bisogno, e talvolta il dovere, di ricuperare noi stessi nella riflessione della mente e nella libertà del volere, e nello spontaneo godimento o nella pura sofferenza dei nostri personali sentimenti, cioè di vivere con noi stessi (secum vivebat, si disse di S. Benedetto); e allora, quasi per facile levitazione di risalire a Dio, sentiamo l’invito di ricercare Cristo maestro interiore, e di respirare nel soffio misterioso dello Spirito, ripetendo a noi stessi le parole di S. Pietro Crisologo: Dedimus torpori annum, demus animae dies . . . . abbiamo dato al corpo (cioè alla vita temporale) l’intero anno, diamo all’anima almeno qualche giorno (Serm. 12; PL 52, 223). Questo bisogno di compensare in intensità religiosa e personale la vita solita dissipata nella «fascinatio nugacitatis» (Sg 4,12), nell’attrattiva delle cose frivole, o degli interessi profani, si addice agli uomini d’oggi che vogliono conservarsi cristiani e non perdere di vista il fine vero ed ultimo della nostra esistenza. Ed è molto bello che ciò avvenga all’insegna del Cenacolo, in un ambiente cioè dove il primato della contemplazione è celebrato da anime pure e consacrate, e dove è rievocato il fatto, anzi il mistero della Chiesa nella sua integrità e nella vivacità di Pentecoste, là dove essa nacque corpo mistico di Cristo nella sua visibile ed organica istituzione, mediante la sua soprannaturale animazione, per i secoli, viva, unita, diffusiva, presente la Madre di Cristo, divenuta allora Madre spirituale della Chiesa medesima.

Bello, consolante, attraente, promettente, grazie a quest’umile Santa Maria Teresa Couderc, Fondatrice del «Cenacolo».





Domenica di Pentecoste, 17 maggio 1970: SACRA ORDINAZIONE A 278 DIACONI DI OGNI CONTINENTE NEL 50° ANNIVERSARIO DI SACERDOZIO DEL SANTO PADRE

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Oggi, Pentecoste, la memoria del fatto-mistero, animatore della Chiesa, quale Corpo mistico di Cristo (perché Egli, Cristo secondo la promessa (
Jn 15,26 Jn 16,7), le mandò il suo Spirito e tuttora di questo divino Paraclito la fa vivere e respirare), così invade le nostre menti, che ci sembra non solo di ricordare quell’avvenimento, ma di riviverlo, come se alla nostra consueta invocazione: «Vieni, o Spirito Santo», la realtà della sua risposta, della sua presenza infondesse anche in noi qualche minima, ma pur viva esperienza della sua beatificante venuta, e ci facesse sicuri che l’ineffabile corrente della storia che non muore, quella cioè della vita soprannaturale, passa nelle nostre membra mortali, mentre l’eco del primo sermone pronunciato nella Chiesa nascente, quello profetico di Pietro, risuona dentro di noi : «Ed avverrà, dice il Signore, che Io, in quegli ultimi giorni, effonderò del mio Spirito su ogni carne, e i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, e i vostri giovani avranno delle visioni, e i vostri vecchi vedranno dei sogni» (Ac 2,17; Il. Ac 2,28). La Pentecoste tutti ci prende, e tutti ci fa pensosi e commossi, mentre splende nelle nostre anime qualche bagliore d’una chiarezza nuova, la «luce dei cuori», piena di amore e di verità. È la festa dello Spirito Santo, è la festa della Chiesa nascente e imperitura, è la festa delle anime accese dalla interiore divina presenza. È la festa della sapienza, la festa della carità, della consolazione, del gaudio, della speranza, della santità. È la inaugurazione della civiltà cristiana, La Pentecoste.

Due circostanze concorrono a rendere singolare e assai viva questa celebrazione. La prima è quella della ricorrenza cinquantenaria della Nostra ordinazione sacerdotale. Cinquant’anni non sono bastati a cancellare la memoria di quel bello, ma di per sé semplice episodio della nostra umile esistenza personale; noi avremmo preferito ripensarlo nel silenzio esteriore e nel raccoglimento interiore. Ma è proprio la natura stessa di quel sacerdozio, che allora ci è stato conferito, ad imporci di lasciare che quanti hanno titolo per esigerne il ministero, - ed oggi ad averlo questo titolo è questa Nostra amatissima Chiesa di Roma, oggi è tutta la Chiesa cattolica altrettanto carissima, - avvertano questa ricorrenza e la ricordino con i segni della loro pietà e della loro bontà. Questa solenne cerimonia ce lo dice, e ci riempie di riconoscenza e di consolazione.


IL SACERDOZIO E LA CROCE

Noi ci sentiamo obbligati a ringraziare tutti, familiari ed amici, maestri e collaboratori, presenti e lontani, conoscenti ed ignoti; e a riassumere per loro i nostri sentimenti in una sola testimonianza autobiografica, punto originale, perché ogni Sacerdote la può fare di sé, ma vera: grande cosa davvero è l’essere Sacerdote! E se l’esperienza, lungo le vicende degli anni, accresce il senso della intrinseca relazione del Nostro sacerdozio con la croce del Signore, esso però non esaurisce mai la sua bellezza e la sua felicità, così che ogni giorno, ogni anno, ogni anniversario ne rinnova il godimento, e ne vorrebbe una conoscenza, una penetrazione in misura sempre maggiore (Cfr. Jn 7,38).

Sorge così dalla coscienza sacerdotale, a mano a mano che essa si fa più matura e più profonda, il canto della Madonna: fecit mihi magna Qui potens est.

Noi ci sentiamo perciò obbligati, oggi come allora, a celebrare la misericordia divina! Lasciateci dire: Grazie a Te, o Padre, che non guardando alla nostra pochezza e facendone piuttosto argomento della tua operante virtù, hai rivolto a noi la tua vocazione, l’hai convalidata con quella d’un paterno e sapiente Pastore, l’hai confortata con la conversazione di maestri buoni e pazienti e l’hai allietata col gusto di abitare nella tua casa.

Grazie a Te, o Cristo, che ci hai vitalmente associati, indegni ma non vani strumenti, al tuo ministero di salvezza e di comunione, ponendoci in mezzo ai fratelli col cuore rivolto all’umile gente, ma poi destinandoci a camminare con passo frettoloso di fianco alla gioventù ed a prestare opera modesta e solerte a questa tua Sede apostolica, tutto e solo per ciò che fu tuo amore, con seguace amore, la tua Chiesa.

Grazie a Te, o Spirito vivificante, che nel grave e dolce ministero, per cinquant’anni, ci sei stato ispiratore e confortatore, e ancora ci soccorri, affinché noi non abbiamo da tradire, ma da tradurre l’immagine del nostro Maestro Gesù, e sempre abbiamo da cercare d’essere di Te santi, e in Te santificanti.

Poi, o Signore, la tua voce ancora chiamò noi, timidi ed inetti a Te più vicino, alla Tua croce, dicendoci: Chi dà il peso, darà la forza per sopportarlo; e la risposta ci salì dal cuore: nel nome tuo, Signore: sia fatto secondo la tua parola.


«TRADITIO POTESTATIS»

Questa, Fratelli e Figli, la testimonianza che noi vi dobbiamo circa il nostro Sacerdozio, del quale voi, con tanta carità, volete ricordare la lunga durata, e preannunciare così il suo non lontano terreno tramonto.

Ma un’altra circostanza, veramente pentecostale, riempie di realtà e di splendore, questa festiva celebrazione; ed è l’ordinazione sacerdotale di questi Diaconi.

Salute a voi, carissimi eletti!

Noi avremmo tante cose da dirvi; ma l’ora non consente lungo discorso; e, per di più, noi non vogliamo immettere nuovi ragionamenti nei molti, che già riempiono i vostri spiriti, e che voi certamente avete accumulati per questo momento solenne. Noi tentiamo di riassumere in una sola parola tutto quello che si può dire e pensare circa l’avvenimento che sta per compiersi a vostro riguardo. E la parola è trasmissione. Trasmissione d’una potestà divina, di una capacità d’azione prodigiosa, quale per sé solo a Cristo compete. Traditio potestatis. Figuratevi che Cristo, mediante la imposizione delle nostre mani e le parole significative che conferiscono al gesto la virtù sacramentale, cali dall’alto e vi trasfonda il suo Spirito, lo Spirito Santo, vivificante e potente, che viene in voi non solo, come in altri sacramenti, per abitare in voi, ma per abilitarvi a compiere determinate operazioni, proprie del sacerdozio di Cristo, a rendervi suoi ministri efficaci, a fare voi stessi veicoli della Parola e della Grazia, modificando così le vostre persone, in modo, che esse possano non solo rappresentare Cristo, ma altresì agire in certa Misura come Lui, per una delega che stampa un « carattere » indelebile nei vostri spiriti, e a Lui vi assimila, ognuno come «alter Christus».


CARATTERE INDELEBILE

Questo prodigio, ricordatelo sempre, avviene in voi, ma non per voi; è per gli altri, è per la Chiesa, ch’è quanto dire per il mondo da salvare. La vostra è una potestà di funzione, come quella d’un organo speciale a beneficio di tutto un corpo. Voi diventate strumenti, diventate ministri, diventate mancipi al servizio dei fratelli.

Voi intuite i rapporti che nascono da questa elezione fatta di voi: rapporti con Dio, con Cristo, con la Chiesa, con l’umanità. Voi comprendete quali doveri di preghiera, di carità, di santità, scaturiscono dalla vostra sacerdotale ordinazione. Voi intravedete quale coscienza dovrete continuamente formare in voi stessi per essere pari all’ufficio di cui siete investiti. Voi capite con quale mentalità spirituale ed umana dovrete guardare il mondo, con quali sentimenti e con quali virtù esercitare il vostro ministero, con quale dedizione e quale coraggio consumare la vostra vita in spirito di sacrificio uniti a quello di Cristo.

Voi sapete tutto questo, ma non cesserete di ripensarvi per quanto durerà - e sia lungo e sereno - il vostro terreno pellegrinaggio. Non temete mai, Figli e Fratelli carissimi. Non dubitate mai del vostro Sacerdozio. Non lo isolate mai dal vostro Vescovo e dalla sua funzione nella Santa Chiesa. Non lo tradite mai! Noi ora non vi diremo di più. Ma noi ripeteremo per voi la preghiera, come altra volta facemmo per novelli Sacerdoti da noi ordinati.

Ecco, oggi così noi preghiamo per voi.

Vieni, o Spirito Santo, e dà a questi ministri, dispensatori dei misteri di Dio un cuore nuovo, che ravvivi in essi tutta la educazione e la preparazione che hanno ricevute, che avverta come una sorprendente rivelazione il sacramento da loro ricevuto, e che risponda sempre con freschezza nuova, come oggi, ai doveri incessanti del loro ministero verso il tuo Corpo Eucaristico e verso il tuo Corpo Mistico: un cuore nuovo, sempre giovane e lieto.

Vieni, o Spirito Santo, e dà a questi ministri, discepoli e apostoli di Cristo Signore, un cuore puro, allenato ad amare Lui solo, ch’e Dio con Te e col Padre, con la pienezza, con la gioia, con la profondità, che Egli solo sa infondere, quando è il supremo, il totale oggetto dell’amore d’un uomo vivente della tua grazia; un cuore puro, che non conosca il male se non per definirlo, per combatterlo e per fuggirlo; un cuore puro, come quello d’un fanciullo capace di entusiasmarsi e di trepidare.

Vieni, o Spirito Santo, e dà a questi ministri del Popolo di Dio un cuore grande, aperto alla tua silenziosa e potente parola ispiratrice, e chiuso ad ogni meschina ambizione, alieno da ogni miserabile competizione umana e tutto pervaso dal senso della santa Chiesa; un cuore grande e avido d’eguagliarsi a quello del Signore Gesù, e teso a contenere dentro di sé le proporzioni della Chiesa, le dimensioni del mondo; grande e forte ad amare tutti, a tutti servire, per tutti soffrire; grande e forte a sostenere ogni tentazione, ogni prova, ogni noia, ogni stanchezza, ogni delusione, ogni offesa, un cuore grande, forte, costante, quando occorre fino al sacrificio, solo beato di palpitare col cuore,di Cristo, e di compiere umilmente, fedelmente, virilmente la divina volontà. Questa la Nostra preghiera, oggi per voi. Essa si allarga in benedizione per tutta l’assemblea presente, ai vostri compagni, ai vostri maestri, ai vostri parenti specialmente.

Ed ecco giunto il momento dell’azione: la Pentecoste è qui.





Giovedì, 28 maggio, 1970: CELEBRAZIONE DEL «CORPUS DOMINI» ALL’ESTREMA PERIFERIA DELL’URBE

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Solennità del «Corpus Domini»


Fratelli e Figli carissimi!

Il primo nostro riverente e rispettoso saluto va al Cardinale Angelo Dell’Acqua, Nostro Vicario Generale per questa Nostra amatissima Diocesi di Roma, e intendiamo salutare e benedire, con intima unione di fede e di carità, tutta la Nostra Diocesi di Roma, qui presente, o qui rappresentata.


PATERNI SALUTI

Poi salutiamo cordialmente il vostro Parroco Don Carlo Bressan, degno figlio di Don Bosco, che con i suoi bravi Confratelli presta il suo ministero pastorale a questa nuova Parrocchia, insignita del bel titolo di Santa Maria della Speranza; così all’intera Parrocchia, che sta diventando, con i suoi oratori salesiani, maschile e due femminili, una comunità numerosa, viva ed organica: a tutti ed a ciascun membro di essa, alle famiglie cristiane specialmente, il Nostro affettuoso e benedicente saluto. Lo estendiamo alle Parrocchie vicine, a tutto il quartiere e a tutti quanti sono venuti a questa celebrazione per onorare nostro Signore Gesù Cristo nel sacramento eucaristico: grazie a voi tutti della vostra presenza, che non sarà senza copiose benedizioni del Signore.

Ancora altri saluti speciali: alla Gioventù, che sappiamo qui assistita ed animata dallo spirito di San Giovanni Bosco; Giovani! Un grande saluto a voi: vi portiamo nel cuore e oggi nella Nostra preghiera di questa Messa speciale; abbiamo fiducia nella vostra fede a Cristo, nella vostra fedeltà alla Chiesa, nel vostro senso di carità sociale per il bene di tutta questa nascente e fiorente comunità parrocchiale. Poi il pensiero va a tutti quelli che hanno bisogno di conforto e di aiuto: ai sofferenti, ai poveri, ai forestieri, ai bambini, agli infelici; per tutti invochiamo dalla Madonna della Speranza, da Cristo amico di tutti i tribolati la consolazione del cuore e l’assistenza della carità dei fratelli, che qui, Noi speriamo, non lascerà loro mancare.

Un grande saluto rivolgiamo all’Ateneo Salesiano qui vicino, che alle sue benemerenze aggiunge quella di ospitare la Parrocchia, in attesa che anch’essa abbia la sua chiesa. E a tutte le istituzioni, che fanno capo a questo nuovo e già famoso Ateneo, e specialmente al suo degno Rettore Don Luigi Colonghi e a tutto l’insigne corpo universitario, Professori e Studenti, un vivo augurio di prosperità e di particolare assistenza della divina Sapienza.

Infine salutiamo con devota cordialità il Cardinale Carlo Wojtyla, Arcivescovo di Cracovia, e con lui i Venerati Fratelli Vescovi Polacchi, che lo accompagnano, e che guidano insieme a lui il numeroso e carissimo gruppo di Sacerdoti Polacchi, pellegrini a Roma, e oggi qui presenti. La loro presenza ci ricorda l’anniversario, che essi celebrano, della loro ordinazione sacerdotale; ci ricorda la grande sofferenza, che non pochi di essi, prigionieri e deportati durante la guerra, hanno sopportato con invitta fortezza e cristiana pazienza; ci ricorda la loro patria, la cattolica Polonia, Nazione a Noi carissima, per la cui prosperità civile e religiosa, Noi oggi sinceramente pregheremo, sinceramente grati d’avere con Noi oggi una così cospicua rappresentanza di quell’eroico e cristiano Paese.

Per celebrare bene la festa, che qui ci riunisce, la festa del «Corpus Domini», la festa del sacramento eucaristico, occorre un momento di riflessione, come noi ora stiamo facendo.


COMUNITÀ VIVA

Un momento di riflessione. Cominciamo così: chi siamo noi? Noi siamo Chiesa; una porzione della Chiesa cattolica, una comunità di credenti uniti nella stessa fede, nella stessa speranza, nella stessa carità, una comunità viva in virtù di un’animazione, che ci viene dal Signore, da Cristo stesso e che il suo Spirito alimenta; siamo così parte del suo Corpo mistico.

Ora la Chiesa possiede dentro di sé un segreto, un tesoro nascosto, un mistero. Come un cuore interiore. Possiede Gesù Cristo stesso, suo fondatore, suo maestro, suo redentore. State attenti: lo possiede presente. Presente? Sì. Con l’eredità della sua Parola? Sì, ma anche con un’altra presenza. Quella dei suoi ministri? dei suoi apostoli, dei suoi rappresentanti? dei suoi sacerdoti? cioè della sua tradizione ministeriale? Sì; ma vi è di più. Il Signore ha dato ai suoi sacerdoti, a questi suoi ministri qualificati un potere straordinario e meraviglioso: quello di renderlo realmente, personalmente presente. Vivo ? Sì. Proprio Lui? Sì, proprio Lui. Ma dov’è, se non si vede? Ecco il segreto, ecco il mistero: la presenza di Cristo è vera e reale, ma sacramentale. Cioè nascosta, ma nello stesso tempo identificabile. Si tratta d’una presenza rivestita di segni speciali, che non lasciano vedere la sua divina ed umana figura, ma solo ci assicurano che Egli, Gesù del Vangelo ed ora Gesù vivente nella gloria del cielo, è qui, è nell’Eucaristia.

Dunque, si tratta d’un miracolo? Sì, d’un miracolo, che Egli, Gesù Cristo, diede il potere di compiere, di ripetere, di moltiplicare, di perpetuare ai suoi Apostoli, facendoli Sacerdoti, e dando a loro questo potere di rendere presente tutto il suo Essere, divino ed umano, in questo Sacramento, che chiamiamo Eucaristia, e che sotto le apparenze di pane e di vino contiene il Corpo, il Sangue, l’anima e la divinità di Gesù Cristo. È un mistero, ma è la verità. Ed è questa verità miracolosa, posseduta dalla Chiesa Cattolica, e custodita con gelosa e silenziosa coscienza, che noi oggi celebriamo, e vogliamo, in un certo senso, pubblicare, manifestare, fare vedere, fare comprendere, esaltare. La Chiesa, Corpo mistico di Cristo, oggi celebra il Corpo reale di Cristo, presente e nascosto nel Sacramento dell’Eucaristia.


VERITÀ MIRACOLOSA

Ma è difficile capire? Sì, è difficile; perché si tratta d’un fatto reale e singolarissimo, compiuto dalla potenza divina, e che sorpassa la nostra normale e naturale capacità di comprendere. Bisogna credervi, sulla parola di Cristo; è il «mistero della fede» per eccellenza.

Ma stiamo attenti. Il Signore ci si presenta, in questo Sacramento, non come Egli è, ma come Egli vuole che noi lo consideriamo; come Egli vuole che noi lo avviciniamo. Egli ci si presenta sotto l’aspetto di segni, di segni speciali, di segni espressivi, scelti da Lui, come se dicesse: guardatemi così, conoscetemi così; i segni del pane e del vino vi dicano ciò che Io voglio essere per voi. Egli ci parla per via di questi segni, e ci dice: così io ora sono tra voi.


PRESENZA REALE

Perciò, se noi non possiamo godere della presenza sensibile, noi possiamo e dobbiamo godere della sua reale presenza, ma sotto il suo aspetto intenzionale. Qual è l’intenzione di Gesù, che si dà a noi nell’Eucaristia? Oh! questa intenzione, se bene riflettiamo, ci è apertissima, e ci dice molte, molte cose di Gesù; ci dice soprattutto il suo amore. Ci dice che Egli, Gesù, mentre nell’Eucaristia si nasconde, nell’Eucaristia si rivela; si rivela in amore.

Il «mistero di fede» si apre in «mistero di amore». Pensate: ecco la veste sacramentale, che al tempo stesso nasconde e presenta Gesù; pane e vino, dato per noi.

Gesù si dà, si dona. Ora questo è il centro, il punto focale di tutto il Vangelo, dell’Incarnazione, della Redenzione: Nobis natus, nobis datus: nato per noi, dato per noi.

Per ciascuno di noi? Sì, per ciascuno di noi. Gesù ha moltiplicato la sua presenza reale ma sacramentale, nel tempo e nel numero, per potere offrire a ciascuno di noi, diciamo proprio a ciascuno di noi, la fortuna, la gioia di avvicinarlo, di poter dire: è per me, è mio. «Mi amò, dice S. Paolo, e diede Se stesso - per me!» (
Ga 2,20).

E per tutti, anche? Sì, per tutti. Altro aspetto dell’amore di Gesù, espresso nell’Eucaristia. Conoscete le parole, con le quali Gesù istituì questo Sacramento, e che il Sacerdote ripete alla Messa, nella consacrazione: «. . . mangiatene tutti; . . . bevetene tutti». Tanto che questo stesso Sacramento è istituito durante una cena, modo e momento, familiare e ordinario, di incontro, di unione. L’Eucaristia è il sacramento che raffigura e produce l’unità dei cristiani; è questo un aspetto caratteristico della Eucaristia, molto caro alla Chiesa, ed oggi molto considerato. Dice, ad esempio, il Concilio recente, con parole estremamente dense di significato: Cristo «istituì nella sua Chiesa il mirabile sacramento della Eucaristia, dal quale l’unità della Chiesa è significata ed attuata» (Unitatis redintegratio, UR 2). L’aveva già detto S. Paolo, primo storico e primo teologo dell’Eucaristia: «Noi formiamo un solo corpo, noi tutti che partecipiamo dello stesso pane» (1Co 10,17). Bisogna proprio esclamare, con S. Agostino: «O Sacramento di bontà! o segno di unità! o vincolo di carità!» (S. AUG., In Io. Tr., 26; PL 15, 1613). Ecco: dalla reale presenza, così simbolicamente espressa nell’Eucaristia un’infinita irradiazione si effonde, un’irradiazione d’amore. D’amore permanente. D’amore universale. Né tempo, né spazio gli impongono limiti.

Ancora una domanda: ma perché questo simbolismo espresso mediante le specie degli alimenti: pane e vino? Anche qui l’intenzione è chiara: l’alimento entra in colui che se ne nutre, viene in comunione con lui. Gesù vuol venire in comunione con il fedele che assume l’Eucaristia, tanto che noi siamo soliti a dire che assumendo questo sacramento facciamo la «comunione». Gesù vuol essere non solo vicino, ma in comunione con noi: poteva amarci di più? E questo perché? perché vuol essere, come l’alimento per il corpo, principio di vita, di vita nuova; Lui lo ha detto: «Chi mangia, vivrà; vivrà di me; vivrà per l’eternità» (Cfr. Jn 6,48-58). Dove arriva l’amore di Cristo!


SACRIFICIO E SALVEZZA

E vi sarebbe un altro aspetto da considerare: perché due alimenti, pane e vino? Per dare all’Eucaristia il significato e la realtà di carne e di sangue, cioè di sacrificio, di figura e di rinnovazione della morte di Gesù sulla croce. Parola ancora dell’Apostolo: «Tutte le volte che voi mangerete di questo pane e berrete di questo calice, voi rinnoverete l’annuncio della morte del Signore, fino a che Egli non venga» (1Co 11,26).

Estremo amore di Gesù! Il suo sacrificio per la nostra redenzione si rappresenta nell’Eucaristia, affinché a noi ne sia esteso il frutto di salvezza.

Amore di Cristo per noi; ecco l’Eucaristia. Amore che si dona, amore che rimane, amore che si comunica, amore che si moltiplica, amore che si sacrifica, amore che ci unisce, amore che ci salva.

Ascoltiamo, Fratelli e Figli carissimi, questa grande lezione. Il Sacramento non è soltanto questo denso mistero di divine verità, di cui ci parla il nostro catechismo; è un insegnamento, è un esempio, è un testamento, è un comandamento.

Proprio nella notte fatale dell’ultima cena Gesù tradusse in parole indimenticabili questa lezione di amore: «Amatevi gli uni gli altri come Io vi ho amato» (Jn 13,34). Quel «come» è tremendo! Dobbiamo amare come Lui ci ha amati! né la forma, né la misura, né la forza dell’amore di Cristo, espresso nell’Eucaristia, saranno a noi possibili! ma non per questo il suo comandamento, che emana dall’Eucaristia, è per noi meno impegnativo: se siamo cristiani, dobbiamo amare: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore scambievole» (ibid. 35).

Noi celebriamo il «Corpus Domini». Pensiamo: noi celebriamo la festa dell’Amore. Dell’Amore di Cristo per noi, che spiega tutto il Vangelo. Essa deve diventare festa dell’Amore nostro per Cristo e da Cristo a Dio, ch’è tutto ciò che dobbiamo fare di più indispensabile e di più importante in questa nostra vita, destinata appunto all’amore di Dio. Festa poi dell’amore nostro fra di noi, dell’amore nostro per i fratelli - e sono tutti gli uomini, dai più vicini ai più lontani; ai più piccoli, ai più poveri, ai più bisognosi, fino a quelli che ci fossero antipatici o nemici. Questa è la fonte della nostra sociologia, questa è la Chiesa, la società dell’amore. E perciò di tutte le virtù religiose ed umane che l’amore di Cristo comporta, del dono di sé per gli altri, della bontà, della giustizia, della pace, specialmente.

Forse, tanto si parla d’amore - ahimé! di quale amore? -, che noi crediamo di conoscere il significato e la forza di questa parola. Ma solo Gesù, solo l’Eucaristia, ce ne può insegnare il senso totale, vero e profondo. E perciò eccoci a celebrare, umili, raccolti, esultanti, la festa del «Corpus Domini».





B. Paolo VI Omelie 10570