B. Paolo VI Omelie 20281

Sabato, 20 febbraio 1971: SANTA MESSA NELLA CAPPELLA DEL SEMINARIO ROMANO MAGGIORE

20281
Festa della Madonna della Fiducia


Venerati Fratelli e Figli carissimi!

Venire in questo Seminario Romano, e qui incontrare il nostro Cardinale Vicario, circondato dai suoi Vicegerenti, dai suoi Vescovi Ausiliari e Delegati per speciali ministeri, qui trovare i Sacerdoti della Diocesi di Roma, quelli specialmente che sono impegnati come Parroci e Vice-Parroci nella cura pastorale e con loro i Predicatori quaresimali, e altri zelanti Sacerdoti del Clero secolare e Religiosi, qui vedermi circondato dai Superiori e dagli Alunni del Seminario, ai quali devo l’invito a compiere questa visita nel giorno benedetto, che questo istituto dedica alla fervorosa devozione della «Madonna della Fiducia», sua protettrice e titolare di questa Cappella, è per me, vostro Vescovo, un momento assai caro, un momento importante, significativo e commovente. Qui io avverto d’essere nel posto e nella funzione che precisamente mi qualificano come vostro Pastore, responsabile delle sorti religiose di questa veneratissima Diocesi, posta al centro della Chiesa cattolica e scelta quale ubicazione storica ed operativa della Sede Apostolica; qui io mi sento nel punto focale della comunione cristiana, qui nel cenacolo di quella «ecclesiae dilectae et illuminatae . . . quae et praesidet in loco chori Romanorum, digna Deo, digna decentia, digna beatitudine, digna laude, digne ordinata, digne casta et praesidens in caritate . . .» (S. IGNAZIO D’ANTIOCHIA, Prologo della Lettera ai Romani); di quella Chiesa affidata al successore di San Pietro; e perciò qui nel vincolo più pieno e più forte della mia affezione per voi, nell’obbligo e nel bisogno d’essere in Cristo vostro Padre, vostro Maestro, vostro Pastore, vostro Fratello, vostro sodale, vostro amico, vostro servitore. Qui vorrebbe la nostra conversazione effondersi spontaneamente e tranquillamente; qui mi piacerebbe ascoltarvi e parlarvi con accento domestico; qui comprendervi e farmi comprendere, confortarvi ed essere confortato, qui con voi ragionare di Cristo, per la gloria del Padre, nello Spirito di verità; qui parlare alle vostre anime delle vostre anime e dei molti problemi spirituali e pastorali di questo tempo, e particolarmente di questa Urbe, dove ogni questione del regno di Dio acquista importanza maggiore e significato straordinario.

Sappiate almeno con quale animo sono fra voi.


CHI È IL SACERDOTE?

Ma dobbiamo limitarci alla scelta d’un punto solo, fra i tanti che urgono sul cuore, per questo breve colloquio; e qual è? esso si presenta da sé, come un tema d’obbligo, oggi: quello, così detto, della «identità» propria del Sacerdote. È tema, che travaglia certamente voi, alunni del Seminario, tesi verso la definizione del vostro avvenire; e tema, che può insorgere come un angelo di luce, o come uno spettro notturno, nella coscienza di voi, Sacerdoti, in un atto riflesso sul vostro passato, ovvero sull’esperienza del vostro presente. Ecco: chi è il Sacerdote? La domanda, dapprima ingenua ed elementare, si appesantisce di dubbi molesti e profondi: è davvero giustificata l’esistenza d’un sacerdozio nell’economia del nuovo Testamento? quando sappiamo che quello levitico è terminato, e solo quello di Cristo adempie la funzione mediatrice fra Dio e gli uomini, e quando questi, elevati al livello di «genus electum» (
1P 2,9) sono rivestiti d’un sacerdozio loro proprio, che li autorizza ad adorare il Padre «in spirito e verità»? (Jn 4,24) E poi questo travolgente processo di desacralizzazione, di secolarizzazione, che invade e trasforma il mondo moderno, quale spazio, quale ragion d’essere lascia al prete nella società, tutta rivolta a scopi temporali e immanenti, al prete rivolto a scopi trascendenti, escatologici e così estranei all’esperienza propria dell’uomo profano? Il dubbio incalza: è giustificata l’esistenza d’un sacerdozio nell’intenzione originaria del cristianesimo? d’un sacerdozio quale è fissato nel profilo canonico? Il dubbio si fa critico, sotto altri aspetti, psicologico e sociologico: è possibile? è utile? può ancora galvanizzare una vocazione lirica ed eroica? può ancora costituire un genere di vita, che non sia alienato, o frustrato? Questa problematica aggressiva i giovani la intuiscono, e molti ne restano scoraggiati: quante vocazioni spente da questo vento sinistro! e la sentono talvolta come un interiore tormento sconvolgente anche quelli che al sacerdozio sono già impegnati; e per taluni diventa paura, che si fa coraggiosa in alcuni, ahimé! , solo alla fuga, alla defezione: «Tunc discipuli . . . relicto Eo, fugerunt»; l’ora del Getsemani! (Mt 26,56)

Si parla di crisi del sacerdozio. Il fatto che voi siate qui raccolti dice subito che essa non ha presa su i vostri animi: grande fortuna! grande grazia! Ciò non esclude che anche voi ne avvertiate il pericolo, ne sentiate la pressione, ne desideriate la difesa. Vorrei che questa mia visita agisse in voi come conferma interiore e gioiosa della vostra scelta. Per questo oggi sono venuto. Nulla è ora più necessario per il nostro Clero che la ripresa d’una coscienza ferma e fiduciosa della propria vocazione. Si potrebbero adattare alla presente situazione le parole di San Paolo: «Videte, vocationem vestram, fratres» (1Co 1,26). Non mi diffondo in analisi e in discussioni. Voi sapete che su questo tema esiste ormai una vasta letteratura. Ai libri corrosivi della sicurezza, che fiancheggia il sacerdozio cattolico, rispondono ora libri che non solo confortano tale sicurezza, ma che la avvalorano di nuovi argomenti, di quello fra tutti più valido d’una fede più illuminata e convinta, donde la vita del prete trae sorgente inesausta di luce, di coraggio, di entusiasmo, di speranza. E sapete che la Chiesa, in questo tempo, svolge ad alto livello, negli studi teologici, nei documenti del magistero (citeremo, ad esempio, la lettera dell’Episcopato tedesco sull’ufficio sacerdotale), e svolgerà nel prossimo Sinodo episcopale, la verifica dottrinale e canonica della propria struttura sacerdotale.


PROBLEMATICA STIMOLANTE

Vorrei dirvi ora soltanto due parole. La prima: non abbiate timore di questa problematica sul sacerdozio. Essa può essere provvidenziale, se davvero ne sappiamo trarre uno stimolo a rinnovare la concezione genuina e l’esercizio aggiornato del nostro sacerdozio; ma purtroppo può anche diventare eversiva, se si attribuisce valore più del merito a luoghi comuni, oggi divulgati con grande facilità, sulla crisi, che si vorrebbe fatale, del sacerdozio, sia per novità di studi biblici tendenziosi, sia per autorità di fenomeni sociologici, studiati per via di inchieste statistiche, o di rilievi di fenomeni psicologici e morali. Interessantissimi dati, se volete, meritevoli di seria considerazione in sedi competenti e responsabili, ma non mai tali da scuotere la nostra concezione sull’identità del sacerdozio, se questa coincide con la sua autenticità, quale la parola di Cristo e la derivata e provata tradizione della Chiesa consegnano intatta, anzi dopo il Concilio approfondita, alla nostra generazione. Tale autenticità si sostiene, come ben sapete, anche al confronto del mondo areligioso moderno, il quale, proprio perché tale e perché enormemente progredito nella esplorazione e nella conquista delle cose accessibili alla nostra esperienza, avverte, e più avvertirà, il mistero dell’universo che lo avvolge e l’illusione della propria autosufficienza, esposta al pericolo d’essere asservita e inaridita dal suo stesso sviluppo, ed eccitata all’esasperante conato di raggiungere l’ultima verità e la vita che non muore. In un mondo come il nostro, non è annullato, è accresciuto il bisogno di chi compia una missione di verità trascendente, di bontà supermotivata, di salvezza escatologica: il bisogno di Cristo. E noi non disperiamo della gioventù del nostro tempo, quasi essa fosse allergica e refrattaria alla vocazione più? audace e più impegnativa, quella del regno di Dio. Preghiamo, operiamo e speriamo : «Potest Deus de lapidibus istis suscitare filios Abrahae» (Lc 3,8). Abbiamo fiducia in voi, giovani Alunni della scuola della Chiesa, e in voi, fratelli nostri nel sacerdozio e collaboratori nel ministero; abbiamo fiducia che saprete desumere dalla sempre vera sapienza della fede cattolica le forze vive e le forme nuove per riprendere il colloquio col mondo moderno: il Concilio vi offre il suo volume, che non indarno voi custodirete. E voi tutti, figli e fratelli, abbiate fiducia nel vostro Vescovo! il quale non ha nulla da promettervi di quanto può fare attraente la vita per chi ama questa vita; ma per chi ama Cristo, per chi ama la Chiesa, per chi ama j fratelli, offre ciò che a tanto amore conforta: la fede, il sacrificio, il servizio; la Croce insomma; e con essa la fortezza, il gaudio e la pace; e poi l’orizzonte estremo delle speranze eterne. E tutto questo uniti insieme, nella ricomposizione di quel presbiterio romano, di quella comunità ecclesiale, che ci dia l’ansia ed il presagio di realizzare in continua e paziente tensione la preghiera testamentaria di Gesù: Siano tutti uno (Jn 17,21).


«MATER MEA , FIDUCIA MEA!»

L’altra parola è quella che sempre risuona in quest’aula di pietà vigiliare del sacerdozio: Maria, mater mea, fiducia mea. È la festa della Madonna qui e così venerata, che ora ci riunisce e che senza alcuno artificio devozionale, o convenzionale mette in luce la conversatio, la relazione cioè, l’intimità, diciamo pure il dialogo, che deve esistere fra l’ecclesiastico, alunno, diacono o sacerdote che sia, e la Vergine Madre di Dio. La festa familiare di questo Seminario riporta il pensiero della nostra trepidante controversia e della nostra fiduciosa apologia del sacerdozio a quello di Maria, Madre di Cristo. Non già che noi possiamo attribuire alla Madonna le prerogative del Sacerdozio, e al Sacerdozio quelle proprie della Madonna, ma esistono analogie e rapporti fra l’ineffabile somma di carismi, di cui è ricolma Maria, e l’ufficio sacerdotale, che faremo sempre bene a studiarne e a goderne la corrispondenza. È di questa armonia che può edificarsi la nostra formazione, sempre m via di perfezionamento: Donec formetur Christus in vobis (Ga 4,19), e può arricchirsi la nostra esperienza sacerdotale. È questa armonia, innanzitutto, che ci trasporta, per via esistenziale, quasi per incanto, nel quadro evangelico, dove visse la Madonna e da lei Gesù: così ella ci è subito maestra di questo ritorno alle fonti scritturali, del quale oggi tanto si parla, e subito ella sveglia in noi quella vita profonda, quell’attività personalissima, ch’è la nostra coscienza interiore, la riflessione, la meditazione, la preghiera. Dobbiamo pensare e modellare la nostra esistenza in modo reduplicato: non possiamo avere un’azione esteriore, per buona che sia, di ministero, di parola, di carità, d’apostolato, veramente sacerdotale, se essa non nasce e non ritorna alla sua sorgente e alla sua foce interiore. La nostra devozione a Maria ci educa a questo indispensabile atto riflesso a duplice titolo: perché ci conduce al Vangelo, che ci ispira e ci misura, e perché incontriamo la Madonna in questo identico atteggiamento, di ripensare gli avvenimenti della sua vita, cogitabat qualis esset ista salutatio (Lc 1,29); conferens in corde suo (Lc 2,9); Mater Eius conservabat omnia verba haec in corde suo (Lc 2,51). Maria scopre in ogni sua cosa un mistero; e non poteva essere altrimenti per lei, così prossima a Cristo. Può essere diversamente per noi che a Cristo siamo tanto vicini da essere autorizzati a dispensare i suoi misteri (Cfr. 1Co 4,1), e a celebrarli in persona Christi? (Cfr. Ph 2,7)

Introdotti in questo sentiero della ricerca dell’esempio di Maria, tutta la nostra vita trova la sua forma, quella spirituale, quella morale, quella ascetica specialmente. Non è tutta permeata di fede la vita di Maria? Beata, quae credidisti! (Lc 1,45) la saluta Elisabetta; né più alto elogio si può fare di Lei, la cui vita tutta si svolge nella sfera della fede. Lo ha riconosciuto il Concilio (Lumen gentium, LG 53 LG 58 LG 61 LG 63, ecc.). E la nostra vita sacerdotale non ha forse lo stesso programma, non deve essere vita che attinge dalla fede la sua ragion d’essere, la sua qualificazione, la sua speranza finale? Poi, il suo titolo privilegiato ci trema sulle labbra: è la Vergine. Cristo ha voluto nascere da una Vergine, e quale! l’Immacolata! Non dice nulla questo accostamento dell’Immacolata alla nostra scelta dello stato ecclesiastico, che deve essere non represso, ma esaltato, trasfigurato, potenziato dal sacro celibato? Ne sentiamo oggi criticare il lato negativo, fino a dirlo inumano e impossibile: la rinuncia cioè all’amore dei sensi e del vincolo coniugale, normale, altissima e santa espressione dell’amore umano. Vicini a Maria, noi avvertiamo il triplice e superiore valore positivo del sacro celibato, estremamente confacente col sacerdozio: primo, il perfetto e rigoroso dominio di sé (ricordate San Paolo: Castigo corpus meum et in servitutem redigo . . .?) (1Co 9,27), dominio indispensabile per chi tratta le cose di Dio e si fa maestro e medico delle anime, e segno luminoso e direttivo al Popolo cristiano e profano delle vie che conducono al regno di Dio; secondo, la disponibilità totale al ministero pastorale che il celibato ecclesiastico garantisce al sacerdote; è evidente; terzo, l’amore unico, immolato, incomparabile e inestinguibile a Cristo Signore, il Quale dall’alto della croce affida la Madre sua al discepolo Giovanni, che la tradizione asserisce essere rimasto vergine: Ecce filius tuus; ecce mater tua . . . (Jn 19,26-27)

E così dite, sempre facendo di Maria il nostro modello, della sua obbedienza assoluta, che inserisce la Madonna nel disegno divino: Ecce ancilla Domini . . . . (Lc 1,38) dite così dell’umiltà, della povertà, del servizio a Cristo: tutto è esemplare per noi in Maria. Dite così del suo magnanimo coraggio, superiore ad ogni classica figura di eroismo morale: Ella stava iuxta crucem Jesu (Jn 19,25), a ricordarci che, come partecipi dell’unico sacerdozio di Cristo, noi dobbiamo essere altresì partecipi della sua missione redentrice, essere cioè con lui vittime, totalmente consacrati ed offerti al servi-zio e alla salvezza degli uomini; potremo meditare così la profezia che ha fatto pesare sul cuore di Maria, durante tutta la sua vita, l’incombente, misteriosa spada della passione del Signore (Cfr. Lc 2,35) e potremo così applicare a noi stessi le parole dell’Apostolo: Adimpleo ea, quae desunt passionum Christi in carne mea pro corpore Eius, quod est ecclesia, cuius factus sum ego minister (Col 1,24).

È facile, è dolce, è corroborante ripetere allora la bella giaculatoria: Maria, mater mea, fiducia mea. Oggi e sempre nella nostra vita sacerdotale.







Mercoledì delle Ceneri, 24 febbraio 1971: STAZIONE QUARESIMALE A SANTA SABINA

24271

Noi diremo antico e tradizionale questo rito, col quale intendiamo inaugurare la quaresima, non antiquato e anacronistico, per il fatto che esso vuol essere un rito di penitenza, e che intende tributare alla sua annuale espressione comunitaria e liturgica, qual è la quaresima, la debita osservanza, secondo lo spirito e le norme della Chiesa e secondo il precetto che ne fa ai fedeli il recente Concilio (Cfr. Sacrosanctum Concilium,
SC 109-110).

Noi ci domanderemo perciò, in capite quadragesimae, se ai giorni nostri si possa ancora parlare di penitenza, poiché non solo sono ormai fuori uso le pratiche penitenziali della quaresima d’una volta, primissima fra quelle pratiche il digiuno (rimasto d’obbligo per tutta la comunità cattolica di rito latino solo per questo mercoledì delle ceneri e per il venerdì santo), ma sembra obliterato il concetto della penitenza, sostituito da una mentalità completamente contraria, quella cioè del culto della propria persona fisica e sociale, e che va dalla cura scrupolosa, e sempre commendevole, dell’igiene sanitaria e della buona salute corporale, fino allo studio di evitare ogni molestia, ogni innocuo limite al proprio benessere, fino poi all’edonismo del costume e del pensiero, non che talora ai suoi deplorevoli eccessi del divertimento smodato, mondano e licenzioso, e perfino della droga esilarante e micidiale. L’uomo moderno, parrebbe, non vuole più nemmeno sentir parlare di penitenza, come di cosa irrazionale e inammissibile, triste reminiscenza di tempi oscuri ed inumani; egli organizza tutta la sua vita sulla formula dello stare bene; né la concezione cristiana della vita vi ha normalmente obbiezione da opporre, anzi la carità che tutta la ispira, la rende solidale e promotrice specialmente quando si tratta di procurare a chi versa nella penuria e nel bisogno i beni necessari alla salute fisica del legittimo benessere umano, della vera dignità della vita.


NECESSITÀ DELLA METANOIA

Ma questa severa parola «penitenza» non può tuttavia essere espunta dal discorso programmatico cristiano. Essa è dichiarata necessaria. Dice e ripete infatti il Signore, commentando un fatto di sangue e le vittime del crollo della torre di Siloe: «Se voi non farete penitenza, tutti egualmente perirete» (Lc 13,1-5). Anzi, l’annuncio del regno di Dio, che apre il Vangelo, è fatto all’insegna della penitenza. Così Giovanni, il Precursore (Mc 13,1-4); così Gesù: «Fate penitenza e credete al Vangelo» (Mc 1,15); e così la prima predicazione apostolica, per bocca di Pietro, il giorno di Pentecoste, ha per tema la penitenza: «Fate penitenza, e poi ciascuno di voi sia battezzato . . .» (Ac 2,38; cfr. Ac 3,19). È importante risalire al significato originario di questa parola, che cosa significa penitenza, «metanoia» in greco, nel linguaggio scritturale? Significa conversione, come tutti sanno, significa cambiamento di mentalità; e si riferisce questo cambiamento allo stato dell’uomo peccatore, bisognoso di mutare vita e di rivolgersi a Dio, e perciò desideroso di deplorare le proprie mancanze, di pentirsi e d’invocare la divina misericordia. Perciò la penitenza è innanzi tutto un complesso di atti interiori: è un rivolgimento di pensieri, è una coscienza della propria anormalità morale, della propria indegnità, un riconoscimento della propria irregolare verità personale di fronte a Dio, la quale non può essere che una verità umiliante. È intanto nell’essenza dell’atto religioso l’umiltà (pensiamo al Magnificat); se poi l’umiltà deve riconoscere non solo il motivo metafisico dell’incolmabile dislivello fra la creatura ed il Creatore, ma anche il motivo di una indegnità morale, la verità che essa esprime diventa o disperata o penitenziale; e chi la esprime pronuncia su se stesso un giudizio di condanna, ovvero ha per sé un’invocazione di misericordia: questa ultima invocazione è la penitenza interiore; cioè un profondo senso personale di verità e di giustizia, che fa sue le parole del pubblicano della parabola, il quale non osava oltrepassare le soglie del tempio; e nemmeno alzava gli occhi al cielo, ma si percuoteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me, che sono peccatore» (Lc 18,13). Questa è la contrizione, è la conversione, è la penitenza, dalla quale, venendo incontro all’uomo penitente la grazia, germoglia la nuova vita dell’anima. La metamorfosi dell’uomo vecchio nell’uomo nuovo prodigio di grazia, di psicologia, di orientamento morale, viene proprio a maturazione mediante la penitenza (Cfr. Rm 6,6 Ep 4,22-24 Col 3,9-10).

Dal che si vede, Fratelli e Figli carissimi, che la penitenza, lungi dal farci paura, dovrebbe stimolare il nostro coraggio e la nostra speranza. Essa non è fine a se stessa, anche se sempre avremo bisogno della penitenza interiore durante tutto il corso della nostra tempestosa navigazione nel tempo. Dice S. Tommaso: «Tale penitenza deve durare fino alla fine della vita» (S. TH. III 84,8); come sempre chi guida una barca in un mare agitato deve continuamente manovrare il timone per conservare la rotta sulla linea giusta; ma sta il fatto che la penitenza intende corroborare, non deprimere chi ne intraprende il coraggioso e austero esercizio, e conduce alla pace e alla gioia interiore, non alla tristezza. È una pedagogia agonistica dello spirito quella cristiana, come c’insegna S. Paolo, il quale, paragonando i fedeli all’atleta che ambisce giungere primo al traguardo, così li esorta: «Correte in modo da prendere il premio» (1Co 9,25 2Tm 2,5 ecc.).


LA RINUNCIA ALLE COSE SUPERFLUE

E questo viene a proposito anche nel nostro tempo, nel quale una certa fobia per la tradizione ecclesiastica e una certa simpatia per la secolarizzazione ha fatto perdere a tanti cristiani, e perfino ad alcuni ambienti religiosi la stima ed il gusto dello stile austero e penitenziale adottato dalla Chiesa con certe sue osservanze ascetiche, di per sé non indispensabili, ma utili e comprovate dalla esperienza per conservare allo spirito il suo primato nel complicato e disordinato (a causa del peccato originale) complesso organismo umano, per dare all’atteggiamento penitenziale interiore il suo esercizio esteriore e la sua testimonianza sociale, e per neutralizzare la tentazione mondana oggi tanto insinuante e diffusa: non solo il digiuno, per la comprensione, che la madre Chiesa ha dei bisogni dei suoi figli e dei costumi dei tempi, è praticamente quasi del tutto scomparso, ma è scomparsa in molti settori della disciplina ecclesiastica l’usanza dell’abito clericale e religioso, l’ossequio ad una regola puntuale e severa, la rinuncia alle cose superflue e all’esibizione spesso equivoca e infida che i mezzi di comunicazione sociale offrono dell’opinione pubblica e della dissipazione mondana. Insensibilmente anche noi seguaci di Cristo e classificati come fedeli cattolici tendiamo spesso ad una vita cristiana comoda e conformista, e piano piano escludiamo praticamente la mortificazione, il sacrificio, la croce dal nostro costume. Molti oggi desiderano un cristianesimo facile, affrancato da leggi canoniche e da obbedienze comunitarie; preferiscono, come qualcuno dice, scegliere la libertà, sviluppare la personalità propria, concedere alla curiosità non solo una prudente e legittima conoscenza, ma talora l’esperienza delle forme riprovevoli o discutibili della vita profana: letture, conversazioni, spettacoli, frequenze, divertimenti, taluni criteri amorali . . . . che certo non riflettono la valorosa, coerente e perseverante sequela del Signore, il Quale ha predicato la via stretta (Mt 7,13), la semplicità (Cfr. Mt 10,10) e la povertà, e la legge del morire per vivere (Cfr. Jn 12,24-26).


L'ESERCIZIO DELLA CARITÀ

Non vogliamo con questo rendere artificialmente difficile la pratica della vita cristiana, né vogliamo dare soverchia importanza al formalismo esteriore, in cui essa può cadere, né vogliamo censurare le riforme che la Chiesa promuove ed approva. Vogliamo piuttosto un cristianesimo logico e forte, un’adesione filiale e virile alle esigenze istituzionali e comunitarie della Chiesa, un’abitudine studiosa e sollecita nel compiere la volontà di Dio, una valorizzazione morale e spirituale della fedeltà volonterosa e lieta al quotidiano dovere, una spiritualità bivalente, orante cioè e operante.

E, per dir tutto, due altri punti meritano menzione in questa rapida apologia della penitenza, che l’apertura della quaresima ci suggerisce : l’esercizio della carità, per primo, verso i poveri e i sofferenti, verso le opere della beneficenza e dell’assistenza cristiana, verso le missioni cattoliche e lo sviluppo del così detto terzo mondo, verso le nostre scuole e la nostra stampa, verso le necessità della comunità ecclesiale e sociale, e sono tante; la carità, voi sapete, è multiforme; si esplica nella larga raggiera delle opere di misericordia corporali e spirituali; è multiforme, come lo sono i bisogni dei nostri fratelli; nessuno può dire di non essere in grado di effondere per loro qualche tesoro di carità: di preghiera almeno, dato che la quaresima aumenta le dosi e le forme della preghiera (sarebbe questo altro discorso da fare!). E poi, secondo punto, la riconciliazione con il dolore! vogliamo dire: lo sforzo per comprendere quale valore possa avere per la gloria di Dio e per la nostra e altrui salvezza la sofferenza: espiazione, purificazione, rigenerazione, redenzione, amore, amore che vince la morte possono essere i tesori nascosti nel dolore umano, anche e soprattutto in quello naturalmente per noi inesplicabile e assurdo: il dolore innocente. Non è forse con l’amore e col dolore che Cristo ci ha redenti? e non era Egli innocente? Mistero drammatico, alla cui contemplazione e partecipazione la quaresima ci conduce: in fondo al suo faticoso itinerario sta il Crocifisso, sta Gesù risorto.

Procediamo con fiducia. Egli ci precede con la sua parola, il suo esempio, la sua grazia. Procedamus in pace.







Domenica, 7 marzo 1971: SANTA MESSA NELLA PARROCCHIA DI SAN LUIGI GRIGNION DE MONTFORT

7371
Durante la celebrazione della S. Messa nella Parrocchia di S. Luigi Grignion de Montfort, dove si è recato il 7 marzo per la funzione quaresimale, Paolo VI si rivolge ai presenti dopo il Vangelo con queste parole. Salute a voi, fratelli e figli carissimi! Questo incontro suppone che noi ci conosciamo. Voi mi vedete e sapete chi sono. Io sono felice di vedervi e anch’io so chi voi siete: i parrocchiani di questa chiesa. Io sono il Papa. Chi è il Papa? Il servo dei servi del Signore, ministro di Gesù Cristo, che ha una duplice funzione. La prima, che mi porta tra voi, è quella di Vescovo di Roma. Sua Santità ricorda, ora, i rapporti che lo legano ai suoi diocesani: ad essi è stato mandato come responsabile delle loro anime, per il loro bene spirituale, per la loro salvezza. Perciò egli è interessato a tutte le cose che li riguardano sotto il profilo pastorale. Ho, poi, un altro ufficio; non solo l’incarico della cura pastorale della chiesa romana, ma dell’intera Chiesa cattolica. La responsabilità di tutte le anime di coloro che credono in Cristo in pratica prevale su quella di Vescovo dei romani: per occupazioni, difficoltà, prove. E così il Papa è spesso assente dall’immediato contatto col popolo. Per questo esiste l’incarico di Vicario del Papa per la diocesi di Roma, esercitato attualmente dal Signor Cardinale Angelo Dell’Acqua. A lui Paolo VI rivolge un pubblico ringraziamento per il bene che va prodigando in sua vece. Ma anche il Cardinale Vicario si avvale di collaboratori, vescovi e sacerdoti. Di qui un particolare saluto a uno di questi collaboratori qualificati, il Rev.do Don Eugenio Falsina parroco della comunità di S. Luigi Grignion de Montfort e la esortazione ai parrocchiani a corrispondere alle sue cure, intese a formare con lui la grande assemblea che è il Corpo Mistico di Cristo.

A questo punto Paolo VI parla dell’importanza della visita pastorale, che coincide con il presente incontro. Essa è un momento speciale della vita di una comunità parrocchiale, perché sottolinea che cosa significa appartenere alla Chiesa, essere, come diceva San Paolo, dei «santi». La visita del Pastore è rivolta a quanti sono veramente fedeli, a quanti costituiscono questo «essere un cuore solo e un’anima sola». È rivolta ai piccoli, che interessano direttamente il ministero del Papa; a coloro che di essi si occupano, membri della famiglia monfortana o esponenti delle organizzazioni del laicato cattolico, tra cui in particolare le donne di Azione Cattolica, iniziatrici e realizzatrici di particolari opere di apostolato e di carità nell’ambito della Parrocchia: esse meritano di essere segnalate e imitate.

Il Papa a questo punto inizia la spiegazione del Vangelo della Messa, quel servizio reso ai fedeli da ogni sacerdote, ma che acquista il suo significato più alto quando è esercitato da un vescovo successore degli Apostoli e ancor più dal capo del Collegio apostolico.

Sua Santità illustra ai presenti la stupenda pagina del Vangelo della Trasfigurazione. L’avvenimento fu preceduto da due fatti: la scena di Cesarea di Filippo, quando Pietro aveva proclamato: «Tu sei il Cristo, figlio del Dio vivo» e l’annuncio dato da Gesu ai discepoli della sua imminente passione. Paolo VI descrive ai fedeli la visione suggestiva del Monte Tabor, così come è rimasta ’ impressa nella sua memoria dopo il pellegrinaggio in Terra Santa: una forma quasi conica che si erge al centro di una pianura tondeggiante di colline. Il Papa rievoca, immagine per immagine, il miracolo della Trasfigurazione: il sonno di Pietro, Giacomo e Giovanni; la preghiera di Gesù; il chiarore improvviso e sfolgorante, la sorpresa dei discepoli destati improvvisamente da quella luce mirabile; le figure di Mosè e di Elia accanto a Cristo; la proposta appassionata di Pietro; la voce del Padre che proclama: Questo è il mio Figlio diletto; l’impressione globale dell’avvenimento sui discepoli, e in particolare su Pietro, che lo rievocò successivamente in una delle sue Lettere ai cristiani.

Commentando il miracolo, il Papa lo presenta come una rivelazione di chi realmente Gesù è. Gesù, nel Vangelo, si manifestò lentamente, gradualmente, e non a tutti. Questa volta, mostrò anche ai sensi dei suoi discepoli l’immagine che lo definisce e lo qualifica: la luce. Gesù infatti è luce, è la luce del mondo, la bellezza dell’umanità, Gesù è colui nel quale si concentrano i destini del mondo.

Il cammino della vita cristiana deve, quindi, essere incentrato in questa stella polare che si chiama Cristo Gesù, Figlio di Dio benedetto. Perciò siamo esortati ad aprire finalmente gli occhi dell’anima e conoscere Gesù. Possiamo dire veramente di conoscerlo, di sapere chi è? Meditate e credete in Nostro Signor Gesù Cristo. Con i sensi, non si arriverebbe mai a conoscerlo; ma ci sono gli occhi della Fede. Se crediamo a ciò che Egli ha detto, sappiamo che è veramente Dio fatto uomo, il centro dell’umanità, il nostro salvatore, l’indispensabile nostro maestro, amico, fratello.

Il Vangelo suggerisce al Santo Padre un’altra considerazione: come vive fra noi Gesù Cristo adesso? Come si prolunga la sua presenza nel tempo, come si manifesta, si attualizza, diventa vita e storia nostra? La sua continuazione è la Chiesa, che da Lui promana come un fiume. Questo fiume umano che vive di Lui presenta fenomeni analoghi, simili a quelli di Gesù. La Chiesa sembra umana e poi, se la si guarda bene, si vede che è divina, proprio come la persona di Gesù, che era Uomo ed era Dio. Della Chiesa, di solito, noi vediamo l’aspetto umano. E in questi anni tale aspetto umano è criticato in maniera acerba. Esso non è nella Chiesa sempre perfetto. Ha dei difetti, dei limiti, dei caratteri non sempre simpatici, non sempre attraenti. Allora si diventa critici, contestatori, anticlericali, infedeli. L’aspetto umano e storico della Chiesa non attrae. Ci secolarizziamo. Vogliamo vivere la vita del tempo e non altro. Ma a bene guardare non è la fede ma la fantasia, forse ammantata di parvenze culturali, a causare questi giudizi.

Invece la realtà è diversa: la Chiesa, sì, è umana, ed ha quindi un suo aspetto sperimentale limitato, difettoso. Esso può essere talvolta, purtroppo anche non edificante. Ma se la guardiamo bene, con gli occhi della sapienza, che il Signore dà ai suoi che hanno ricevuto il Battesimo e la Fede, sappiamo che dietro questa faccia umana c’è una realtà divina che a noi preme di penetrare al di là dei suoi limiti terreni. La Chiesa è Cristo presente, vivente nella storia. Più che curarci dei suoi difetti visibili, dobbiamo cercare di penetrare nella sua realtà, di vederla trasfigurata, di vedere la sua luce che è splendente come il sole e candida come la neve.

Amate la Chiesa - aggiunge Paolo VI -, anche per i suoi difetti, che sono i bisogni che la Chiesa ha. Ma soprattutto amatela perché davvero nasconde Cristo e dà Cristo; ha dei poteri miracolosi, sacramentali; comunica la sua vita; ha il segreto di metterci in comunicazione diretta, vivente con Cristo. Ed è per questo che io sono, come Santa Caterina, folle d’amore per la Chiesa.

Nell’applicare, infine, il tema alla vita parrocchiale, Paolo VI esorta i presenti ad uno sforzo per trasfigurare la parrocchia, cioè renderla spiritualmente bella, santa, piena della presenza di Cristo, e per vederla non soltanto con occhi umani. Essa è un mistero, una realtà divina presente, ed è la nostra casa, è la famiglia di ciascuno, la strada attraverso la quale è possibile raggiungere il Cielo.





B. Paolo VI Omelie 20281