B. Paolo VI Omelie 40471

Domenica, 4 aprile 1971: «DOMINICA IN PALMIS DE PASSIONE DOMINI»

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Parlo a Voi, Giovani, specialmente: mi ascoltate?

Supponiamo di fare un dialogo, un breve dialogo.

Perché siete qui, questa mattina? Perché siete stati invitati.

E perché invitati? Perché è la Domenica delle Palme.

E quale motivo offre la Domenica delle Palme per invitare i Giovani ad una Messa del Papa, celebrata per loro? Il motivo è dato dal fatto che oggi la Chiesa celebra la memoria d’un fatto evangelico, che ben conosciamo: l’entrata di Gesù in Gerusalemme, con una certa solennità, cavalcando un asinello, attorniato dai suoi discepoli, in mezzo ad una enorme folla di gente. Perché tanta gente? Perché era vicina la grande festa annuale del Popolo ebreo; e la gente veniva da tutta la nazione, da tutte le tribù, e si addensava nella città capitale, dove c’era il Tempio. Sapete come si chiamava questa festa? Si chiamava la Pasqua. E quale era il suo significato? Era un significato commemorativo; essa voleva ricordare - attenzione! - la liberazione del Popolo ebraico dalla schiavitù, in cui era vissuto per tanti anni, e da cui partiva per conquistare la patria; perciò la festa aveva anche un significato profetico; era una celebrazione che non guardava soltanto al passato, ma guardava anche al futuro; e che cosa aspettava dal futuro? Aspettava un Capo, una guida, un maestro; aspettava l’uomo della speranza; aspettava un Salvatore. Doveva essere un discendente di David, il re, che aveva dato consistenza civile, ma insieme coscienza della sua vocazione religiosa al Popolo ebraico. Aspettava il Messia. Messia voleva dire l’uomo consacrato da Dio, il Sacerdote, il Re, il Profeta, il «servo di Dio», il Figlio dell’uomo, colui insomma in cui si concentrava il senso, la salvezza, la grandezza, la vittoria della nazione e dell’intera umanità. La fantasia aveva giocato molto intorno al concetto di questa misteriosa figura, prodigiosa, strepitosa. Il fatto è, questa è la storia del Vangelo, che quando Gesù cominciò a predicare il «regno di Dio» e a fare miracoli si diffuse l’opinione prima, la certezza poi che Gesù fosse il Messia. E Gesù, che non aveva mai voluto circondarsi di gloria esteriore, volendo sempre proclamare un regno di Dio, non un regno terreno e politico, alla fine si presentò, umilmente, ma chiaramente a tutto il Popolo, come il vero Messia, e fu allora che, nonostante la sorda e fiera opposizione delle autorità giudaiche, fu acclamato per quello che era, il «Figlio di David», l’aspettato, il Messia, l’instauratore del nuovo regno di Dio, il Liberatore, il Salvatore. Voi sapete come andarono le cose: dopo cinque giorni Gesù fu arrestato, processato, crocifisso; ma al terzo giorno Egli risuscitò; e il nuovo regno, il cristianesimo, la Chiesa, la vita divina comunicata a chi crede, qui nel tempo, misteriosamente, e poi oltre il tempo, gloriosamente e eternamente, era inaugurata e fondata.


I FANCIULLI ACCLAMANO IL MESSIA

Voi domanderete: che cosa ci entriamo noi giovani? Ebbene, prima di tutto, procuriamo di capire che si tratta d’un avvenimento centrale, decisivo, così straordinario che riguarda l’umanità intera, ci riguarda tutti, come individui e come società; tutti, e a fondo.

Poi, è da notare una circostanza singolare nell’avvenimento che ora commemoriamo; ed è questa. Tutta l’enorme folla acclamò Gesù, quel giorno, come Messia, tagliando rami dagli alberi, - ecco le palme -, per festeggiare Colui che veniva nel nome del Signore. E chi fece più chiasso? Chi inneggiò con voce più alta e con maggiore entusiasmo in quell’ora solenne? Furono i ragazzi; lo riconobbe lo stesso Gesù, citando un salmo, cioè dando così valore profetico alle voci dei fanciulli e prendendo la loro difesa verso coloro che li volevano far tacere (Cfr.
Mt 21,15-16). Cioè la voce dei giovani ha una importanza sua propria nel riconoscimento di Gesù, come Messia, come Cristo, come Maestro e Salvatore del mondo.

Ed è per questa circostanza che giovani e ragazzi sono invitati ad intervenire alla cerimonia liturgica che ricorda quel fatto evangelico? Sì, ma con una intenzione non puramente cerimoniale e commemorativa; con un’intenzione speciale, propria per voi, giovani e ragazzi d’oggi. E cioè? Che voi facciate, come quelli della scena evangelica, la vostra scelta.


LA SCELTA

Quale scelta? Quella di Cristo. State a sentire. Voi Cristo lo avete già scelto. Voi siete già cristiani. Siete stati battezzati? Sì. Allora voi siete cristiani. Ma quali cristiani siete voi? Essere cristiani non è cosa da poco; vuol dire essere già inseriti nel dramma della salvezza; vuol dire avere già una concezione del mondo e della nostra esistenza, della storia passata e dei destini futuri; vuol dire avere già un programma impegnativo di vita, cioè credere, operare, sperare, amare. Ebbene, ripeto, quali cristiani siete voi? Non conta guardare a come si comportano tanti cristiani. Bisogna che ciascuno badi a sé, al proprio comportamento.

Vedete. Vi sono diversi comportamenti, fra i giovani, rispetto al proprio carattere cristiano. Facciamo subito una classifica sommaria? Ecco.

Vi è una prima categoria di cristiani, che spesso senza nemmeno pensarci, sceglie il comportamento «zero». Chiamiamo zero quel comportamento che non dà alcun peso, alcuna importanza al fatto d’essere cristiano. Cioè: è un comportamento nel quale il carattere cristiano non significa nulla. Nei Paesi di missione questo non avviene: un cristiano è cristiano, e sa di dover vivere in una certa maniera, con un certo stile, che lo distingue, che lo qualifica. Da noi invece avviene spesso che l’essere cristiano non significa nulla, zero. Anzi, spesso un cristiano è una contraddizione vivente, perché egli contraddice con la propria maniera di pensare e di vivere questa sua magnifica prerogativa: essere figlio di Dio, essere fratello di Cristo, essere come una lampada accesa in cui arde lo Spirito Santo, la grazia, essere membro della Chiesa, uomo che sa come vivere e che sa doveva. Un cristiano è un uomo logico, coerente, responsabile, libero e nello stesso tempo fedele. Non un uomo zero, indifferente, insignificante, incosciente, con la testa nel sacco. Siamo d’accordo?


ESSERE «PERSONE»

Vi è una seconda categoria ed è quella che il Vangelo chiama degli uomini «canna», delle canne agitate dal vento (Cfr. Mt 11,7). Canne che si piegano secondo il vento che tira. Uomini privi di personalità propria, di quella dirittura cristiana, che dicevamo; uomini disponibili alle idee altrui, pronti a curvarsi al dominio dell’opinione pubblica, della moda, dell’interesse; uomini della paura, uomini del rispetto umano, uomini-pecore. Purtroppo questo è un fenomeno diffuso nella gioventù; e si spiega: vuol mostrarsi forte e indipendente verso l’ambiente che conosce, la famiglia, la società; ne vede i difetti, ne sente il giogo, e cerca di liberarsi, di affrancarsi, diventa contestatrice, rivoluzionaria, se occorre; ma poi, dove va? S’intruppa con chi conduce il gioco e fa la moda, diventa numero mediocre, senza proprio valore e significato, si contenta di surrogati, di fantasmi, di falsi eroismi. Forse ne conoscete anche voi di giovani sbandati, e piegati come «canne» al vento?

Ma viene il momento in cui bisogna essere «persone», cioè uomini che vivono secondo dati principi. Secondo idee-cardini. Secondo idee-luce. Secondo idee-forza. Uomini che hanno fatto la loro scelta, e secondo questa scelta, camminano e vivono. È questa la vera categoria degna della gioventù intelligente e cristiana. La vostra, carissimi figli ed amici.

Sentite: si può vivere senza principi? La domanda può presentarsi così: si può camminare al buio? E quanta gente cammina al buio! Voglio credere che voi siate tanto intelligenti da comprendere, d’intuito, che la nostra vita è piena di oscurità, di dubbi, di misteri. Essa è più simile ad una notte che ad un giorno; si intravedono tante cose, tantissime bellissime cose; ma è proprio ciò che noi conosciamo, anche con lo studio, con la scienza, con la pratica, che ci dà l’impressione, l’esperienza d’essere in un mondo notturno, dubbioso, ignoto, segreto, muto, e forse nemico, forse vano, forse privo di senso. Ebbene: occorre una luce. Una luce per la vita. La luce vera. Chi ha detto: «Io sono la luce del mondo»? (Cfr. Jn 8,12 Jn 12,16; e Jn 1,5 Jn 1,9 Jn 1,13 Jn 1,19; ecc.) È Gesù, che al momento del suo ingresso in Gerusalemme fu pubblicamente riconosciuto come il Cristo, cioè come Messia. Quel Messia, che la gioventù e la fanciullezza là presenti acclamarono come il vero Profeta della storia, come l’Inviato da Dio, come il Pastore del genere umano, come il Maestro unico e buono delle somme verità, come il Fondatore del regno dei cieli, come il Salvatore del mondo.


LA VERA GUIDA SPIRITUALE DELLA VITA

Avete compreso?

Ebbene due conclusioni allora. Anche voi, giovani e ragazzi e ragazze qui presenti dovete riconoscere in Gesù Cristo la vera guida spirituale della vostra vita. Noi diremmo oggi il «leader» morale del nostro tempo. Levate dunque le vostre palme, i vostri rami di pacifico olivo verso di Lui, e inneggiate a Lui: Osanna! Evviva! La nostra scelta è per Te, Cristo Gesù!

E poi, altra conclusione, ricordatevi che tocca a voi, figli di questa nuova generazione, a fare riconoscere intorno a voi, al nostro mondo moderno, tanto bisognoso e meritevole di vera luce, alla nostra stessa Roma, il suo vero Cristo, il suo Messia, Gesù! Tocca a voi, giovani d’oggi, rinnovare il prodigio messianico, iniziato dalla Gioventù cattolica di ieri e a svilupparlo oggi; e cioè il passaggio da un cristianesimo consuetudinario e passivo ad un cristianesimo cosciente ed attivo; il passaggio da un cristianesimo timido ed inetto ad un cristianesimo coraggioso e militante; da un cristianesimo individuale e disgregato ad un cristianesimo comunitario ed associato; da un cristianesimo indifferente ed insensibile alle altrui necessità ed ai doveri sociali ad un cristianesimo fraterno ed impegnato a favore dei più deboli e dei più bisognosi. Coraggio! Tocca a voi! Con la Nostra affettuosa Benedizione Apostolica.





Giovedì Santo, 8 aprile 1971: SANTA MESSA IN «CENA DOMINI»

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A questo punto il rito obbliga chi vi presiede a prendere la parola, a interrompere per brevi momenti l’onda trascinante dei canti e delle cerimonie, a rompere un silenzio, che, lasciato a sé, penseremmo incantevole. La grande memoria dell’ultima Cena del Signore, triste e soave insieme, ci domina tutti; il mistero eucaristico, con la suggestività della sua reale Presenza e della sua validità sacrificale, ci assorbe, ci incanta e finalmente ci fa contemplativi e adoratori. Lascio ciascuno di voi in cotesto atteggiamento spirituale, concentrato nel punto focale di questa celebrazione rievocatrice dell’istituzione del Santissimo Sacramento, e teso nello sforzo di rivedere la scena evangelica di quest’ultima Pasqua del Testamento antico e di quella prima Pasqua del Testamento nuovo, e di avvertire il riflesso che essa, quella scena, riverbera su questa, che ora tutti ci accoglie, quanti qui siamo, e su quante simili scene nella Chiesa si stanno celebrando.


UNA NECESSARIA MEDITAZIONE

E allora mi accorgo d’un fatto spirituale, sul quale richiamo la vostra attenzione; il fatto della coscienza che ciascuno di noi sente sorgere in se stesso al confronto del mistero eucaristico, attorno al quale siamo radunati. Ci sentiamo illuminati e riscaldati da quel fuoco centrale, ch’è Gesù, che si fa segno al tempo stesso di alimento che Egli vuol essere per la nostra vita cristiana, e di vittima per la nostra salvezza; e ci domandiamo qual è il nostro contegno, il nostro atteggiamento spirituale e pratico, quali convitati alla Cena del Signore, quali uomini di fronte al mistero di una sua così prodigiosa e viva e perenne presenza sacramentale e sacrificale. La meditazione non ci distrae, se, alla luce dell’obbiettivo attraente e irradiante, ch’è Cristo eucaristico, osserviamo, per un istante, il comportamento di coloro che lo circondano, cioè di coloro che ebbero la somma ventura d’essere commensali dell’ultima Cena di Gesù, e poi dei Fedeli che ne rinnovarono la celebrazione, e di noi stessi che qua raduna questa sera il Giovedì Santo.

Non è nuova considerazione. Già S. Paolo, primo teste storico della tradizione liturgica su questo tema, descrive e critica: «Quando voi vi radunate non è cotesto il modo di mangiare la cena del Signore» (
1Co 11,20). E ancora prima, ne aveva parlato Gesu stesso, quando tra i discepoli appena messi a tavola era sorta una contesa di precedenza circa «chi di loro potesse passare per il più grande» (Lc 22,23); e quando Gesù, per dare loro una lezione di somma umiltà, volle lavare i piedi ai discepoli stessi, e Pietro protestò che ciò non doveva compiersi da Lui, Maestro e Signore; ma Cristo s’impose condizionando la partecipazione alla sua mensa all’accogliere, al comprendere, all’imitare il mistero di umiltà, la Kénosis (Cfr. Phil. Ph 2,7) che avvolge tutta la economia della divina rivelazione. Tutto il racconto della Cena può essere commentato, quasi a cornice di ciò che allora Gesù fece e disse, osservando il contegno della piccola comunità, cominciando dall’atmosfera d’intimità singolare, che vi regna almeno in alcuni momenti, quasi di affettuosa sentimentalità (Cfr. Lc 22,15), di profonda dolcezza (Jn 13,34), poi di angoscioso stupore all’annuncio d’un incombente tradimento (Mc 14,18-19), e quindi di grande tristezza perché Gesù lascia capire imminente la sua fine terrena (Jn 14,1 Jn 16,17; ecc.), e preannuncia le tribolazioni destinate ai seguaci fedeli (Jn 16,20, ss.), e finalmente di mistica sospensione degli animi, quando Gesù si effonde in discorsi rivelatori dello Spirito Paraclito, animatore d’una nuova forma di vita interiore ed ecclesiale, tutta spirante amore, verità ed unità.


IL SACRAMENTO DELL’EMMANUEL: IDDIO CON NOI

Basterebbe saper respirare un po’ quell’atmosfera dell’ultima Cena, soave e dolorosa, profonda ed aperta, fortemente umana e squisitamente spirituale, per comprendere qualche cosa del mistero eucaristico e per sentirsi inebriati del surrealismo evangelico. Lo sanno i pii, i meditativi, i mistici; lo sanno gli adoratori dell’Eucaristia.

Per noi ora basta un corollario, che ciascuno può rimandare a future riflessioni: il culto eucaristico non si esaurisce nell’atto liturgico che lo genera; esso esige una comprensione, una riflessione, una spiritualità, che devono dare ad ogni fedele ed all’intera comunità il senso sacramentale dell’Emmanuel, del Dio con noi (Cfr. Is 8,10 Lc 24,29 Mt 28,20 Sacrosanctum Concilium, SC 10). In altri termini sarà ottimo frutto della celebrazione del Giovedì Santo un rinnovamento, un rifiorimento della pietà eucaristica, quale la teologia del «mistero della fede», l’avvertenza dell’istituzione simultanea del sacerdozio ministeriale, ch’esso comporta, e lo spirito della riforma liturgica conciliare reclamano oggi dal Popolo di Dio.

Forse i discepoli stessi, presenti alla Cena del Signore, furono un po’ come noi, non del tutto consapevoli di ciò ch’era avvenuto mediante le strane parole di Gesù: «Questo è il mio corpo», «Questo è il calice del mio Sangue». Ebbero anch’essi il bisogno di capire dopo. È sempre così con le rivelazioni divine per via di forme sensibili; esse richiedono un successivo ripensamento, una penetrazione approfondita (Cfr. Lc 24,31-32). E che questo dislivello fra ciò che Gesù fece e disse quella sera e la comprensione dei discepoli fosse notevole ce lo dimostrano gli atteggiamenti dei discepoli stessi, che stiamo osservando.


IL COMANDAMENTO NUOVO

Pietro per primo. Dicevamo del suo contegno ribelle dapprima, docile all’eccesso poi. Dopo la promulgazione del comandamento nuovo dell’amore scambievole (Jn 13,34-35), egli si rifà curioso ad una parola precedente di Gesù: «Dove io vado, voi non potete venire» (Jn 13,33), senza accennare - e dando così l’impressione di non coglierne l’enorme importanza - al grande precetto della carità, appena proclamato dal Divino Maestro. Infatti, l’interesse dell’Apostolo si esprime in questa domanda: «Signore, dove vai? quo vadis?» (Jn 13,36). E poi quando Gesù, traboccante di tristezza, palesa il prossimo tradimento di uno dei commensali (Mt 26,21), e la fuga dei discepoli stessi, Pietro protesta con la sua impetuosa generosità, non badando all’ammonimento premonitore del Signore: «In verità ti dico: questa notte stessa, prima che il gallo abbia cantato due volte, tre volte tu mi avrai rinnegato» (Mc 14,30). Atroce episodio, che ferirà profondamente il cuore di Cristo (Lc 22,61), e che costerà a Pietro amarissime lacrime (Mt 26,75), e riparazione con triplice attestato d’amore (Jn 21,15 ss.). Toccherà a chi vi parla per primo farne argomento di perenne meditazione, ed a tutti quanti, ministri e fedeli che si assidono alla mensa del Signore riflettere quanto la nostra fedeltà sia fragile e volubile, e quanto essa abbia sempre bisogno del carisma, che anche in quel momento drammatico Gesù misericordioso volle assicurare a Pietro medesimo; oh! ascoltate le parole potenti e dolcissime: «Simone, Simone! Ecco che Satana ha ottenuto il permesso di vagliarvi come si vaglia il grano. Ma io ho pregato per te (pensate! Gesù che prega per l’Apostolo scelto da lui come fondamento della sua Chiesa!) (Cfr. Mt 16,18); ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno, e tu, quando sarai convertito, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32). È bello ascoltare queste parole, facenti parte del racconto dell’istituzione dell’Eucaristia, e ripensarle in questa sede e in questo momento!

Poi fra i personaggi dell’ultima Cena non possiamo dimenticare un altro protagonista. Giuda. Stringe il cuore vederlo assiso all’agape pasquale. E non possiamo soffocare la commozione rileggendo la narrazione evangelica, e vedendo come la presenza del traditore pesi sul cuore del Maestro, che «turbato nello spirito» (Jn 13,21) non volle più contenere l’opprimente segreto: «In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà» (Ibid.). Sapete il resto; come avvenne discretamente la identificazione del traditore, e com’egli, scoperto, furtivamente lasciò il cenacolo: «Era notte», conclude l’Evangelista (Jn 13,30). «E colui stesso che usciva era notte», commenta Sant’Agostino (In Io. Tract. 62; PL 35, 1803). Chi non sente un brivido nel cuore ascoltando il commento ancor più grave e terribile di Gesù: «Sarebbe stato meglio che quell’uomo non fosse mai nato!» (Mc 14,21).


SPECIALE IMPLORAZIONE A GESÙ: VIA, VERITÀ E VITA

Fratelli! io non posso pensare a questo tragico dramma pasquale, senza che anche nel mio spirito di Vescovo e di Pastore si associ la memoria dell’abbandono, della fuga di tanti Confratelli nel Sacerdozio dal nostro cenacolo di «dispensatori dei misteri di Dio» (1Co 4,1). Lo so, lo so; bisogna distinguere caso da caso, bisogna comprendere, bisogna compatire, bisogna perdonare, e forse bisogna riattendere, e sempre bisogna amare. E ricordare nell’amore angoscioso che anche questi confratelli, infelici o disertori che siano, sono segnati dall’indelebile impronta dello Spirito, che li qualifica Sacerdoti in eterno, qualunque sia la metamorfosi, che essi esteriormente e socialmente subiscono e molti da sé, per vili motivi terreni, reclamano. Ma come non avvertire, in quest’ora di comunione, i posti vacanti di questi un giorno nostri commensali? Come non piangere per la defezione cosciente di alcuni, come non deplorare la mediocrità morale che vorrebbe trovare naturale e logico infrangere una propria promessa, lungamente premeditata, solennemente professata davanti a Cristo e alla Chiesa? Come, questa sera, non pregare per questi fratelli fuggiaschi e per le comunità da loro lasciate e scandalizzate? Come non intensificare la nostra affettuosa invocazione per la nuova generazione di ministri, che nella nostra Chiesa latina, accettando il sacerdozio, compiono liberamente e coscientemente la propria generosa opzione per l’unico amore a Cristo, per l’unico servizio alla Chiesa, per l’unico e totale ministero ai fratelli, consumando così nella propria carne «ciò che ancora manca alle passioni di Cristo» (Cfr. Col 1,24), affinché il loro sacrificio d’amore valga come segno, come esempio, come merito all’efficacia della Redenzione nella nostra moderna età secolarizzata ed edonistica?

Sì, così pregheremo. E per completare il nostro ascolto lasceremo echeggiare poi le divine risposte agli altri interlocutori dell’ultima Cena, a Tommaso, a Filippo, a Taddeo, e agli Undici rimasti; e una fra tutte la risposta data a Tommaso, sempre positivo e concreto nelle sue questioni: «Signore, noi non sappiamo dove Tu vai; come dunque possiamo conoscere la via?». E Gesù gli risponde: «Io sono la via, la verità e la vita» (Jn 14,5-6). La risposta, la grande risposta valga anche per tutti noi questa sera. E per sempre.


«UT SINT OMNES UNUM!»

E a voi ricordo infine l’impressione riassuntiva, che lo sguardo girato sulla comitiva intorno all’atto istitutivo dell’Eucaristia suscita negli animi; impressione che scopre una realtà prodottasi nel Cenacolo, l’unione degli Undici con Cristo, anzi l’unità, un’unità nuova e soprannaturale; essa è annunciata come fatto incipiente ed in fieri da Cristo stesso al termine dei discorsi incomparabili di quell’ultima sera: ut sint unum, che tutti siano uno! (Cfr. Jn 17,22) L’Eucaristia, vista in chi vi partecipa, è comunione; comunione in Cristo, comunione con i Fratelli solidali nella medesima fede e nella medesima carità: è la Chiesa! la Chiesa è comunione.

E sono lieto di esprimere il voto, che vedo qui compiersi in questa celebrazione del Giovedì Santo: la vostra presenza si fa comunione! Io saluto e benedico questa comunione! saluto con questo sentimento di formare un Corpo solo noi tutti, che partecipiamo ad unico Pane (Cfr. 1Co 10,17), i membri del Sacro Collegio qui presenti e i Prelati della Curia Romana; saluto il Cardinale Vicario, Arciprete di questa Basilica col Clero che le appartiene, ed il Presbiterio Romano che a lui fa capo, con tutta la Popolazione di Roma; saluto il Signor Sindaco, il primo Magistrato dell’Urbe e le altre Personalità civili rappresentative, che sono intervenute a questo rito di armonia e di pace; saluto il Corpo Diplomatico ed i notabili della Città, le Associazioni Cattoliche e tutti i Fedeli presenti; ed il saluto augurale dell’unità si estende a tutta la santa Chiesa cattolica, dovunque essa celebra il Giovedì Santo; e arriva anche agli orizzonti ecumenici con amorosa speranza; a tutta la umanità, affinché possa essa trovare pace e concordia. Ut sint omnes unum: che tutti siano uno! Cristo è il principio e il centro della vera e superiore unità umana e della comunione soprannaturale che Noi questa sera benedicendo nel Suo nome qui celebriamo!



Domenica di Pasqua, 11 aprile 1971: SOLENNITÀ DELLA RISURREZIONE

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All'omelia il Santo Padre illustra e commenta il Vangelo, soffermandosi sul significato della Risurrezione di Cristo per l’uomo d’oggi, sul senso del «nuovo» che pervade le celebrazioni pasquali.

Dopo aver salutato il Cardinale Vicario, il parroco della chiesa dei Santi Urbano e Lorenzo, i sacerdoti, i religiosi, le religiose, il Sindaco di Roma e tutti i presenti, il Papa si chiede quale sia per i fedeli l’impressione saliente di quel momento, di quell’ora pasquale. È impressione di novità, di qualche cosa di singolare, di nuovo. Le due letture della Messa e il brano evangelico inducono a ricordare e celebrare tali novità. La prima riguarda Gesù. Egli è risorto. La sua vita terrena non ha avuto l’epilogo comune a noi mortali. Sì, anch’Egli in modo più doloroso, più evidente, è morto, come tutti. Ma poi, il terzo giorno, ha ripreso la vita.

Sua Santità osserva come si tratti di una novità grande, sfolgorante, per noi impegnativa, ed invita i presenti a pensare allo stato nuovo che Gesù ha assunto con la sua Risurrezione. Essa non è stata come quella di Lazzaro - un cadavere che ritorna ciò che era prima - né come quella del figlio della vedova di Naim, che risuscitò ed era quello di prima. Gesù risuscitato, invece, è quello di prima nella sua umanità, ma la sua forma di vita è superiore e diversa dalla nostra attuale. Risorgeremo, dice San Paolo, con un corpo spirituale. Il nostro essere, composito di anima e di corpo, subisce adesso le leggi della materia, della nostra ader’enza alla terra; il nostro corpo condiziona, domina l’anima la quale a sua volta domina il corpo, lo muove, lo vivifica, lo fa esistere. Gesù, nel suo nuovo stato, invece, con l’anima e con la sua divinità prevale sul suo corpo e impone al corpo le leggi dello spirito.


IL FULGORE DEL RISORTO

A questo proposito il Santo Padre ricorda l’apparizione di Gesù agli Apostoli la sera stessa del primo giorno della settimana. Gli Apostoli rimasero sbalorditi, esterrefatti; non sapevano più che pensare. Le donne li avevano messi in subbuglio gridando che Gesù era risorto. Essi, presi da paura e da sgomento, quasi dal desiderio di far tacere quelle voci, così insolite e così sconcertanti, se ne stavano rinchiusi nel Cenacolo. Gesù apparve, come se fosse uno spirito. Ma venne col suo corpo, tanto che chiese qualche cosa da mangiare per far vedere che sussistevano tuttora le leggi del corpo, anche se le aveva sublimate con quelle dell’anima; e per mostrare che la sua vita, anche corporea, era reale. Ma questa vita era nuova, era governata, influenzata, pervasa dalle leggi dello spirito, per cui egli entrò senza abbattere l’ostacolo delle porte chiuse e delle mura impenetrabili. Passava come se fosse uno spirito, e come spirito scomparve.

Dobbiamo abituarci a pensare a Gesù risorto. Qual è la realtà di Gesù, adesso che sta in Paradiso? Noi lo adoriamo, lo veneriamo e lo ricordiamo bambino, tanto caro, tanto commovente, tanto simpatico; giovinetto, che abbiamo visto nel racconto evangelico smarrito nel Tempio e poi ritrovato; maestro, il quale amava parlare con le moltitudini e polemizzava con coloro che non lo volevano accettare; sofferente: preso, catturato, insultato, offeso, flagellato, sottoposto ad ogni tribolazione, inchiodato sulla Croce, dove, dopo tre ore, chinò il capo, ed era morto. Ora è uomo, ma non è più così. Gesù oggi, come è detto nel Credo, siede alla destra del Padre, cioè il suo corpo glorioso è associato alla gloria e alla potenza di Dio. In cielo, e proprio per questo nuovo stato gli è possibile di comunicare con noi in una maniera miracolosa, che sperimentiamo con l’Eucaristia. Come una parola può ripetersi ed essere udita da mille orecchi ed essere sempre quella, come un’immagine può essere riprodotta da cento specchi e rimanere sempre la medesima, così Gesù può essere presente in una sola realtà di uomo e di Dio in ogni Ostia consacrata perché si trova in questo stato divinizzato. È assunto in cielo e di là governa e domina.


RAPPORTO ESSENZIALE DELLA NOSTRA VITA CON CRISTO

Paolo VI richiama, poi, le pagine dell’Apocalisse nelle quali Gesù viene definito alfa e omega, vale a dire il principio e la fine. Gesù è la sintesi: tutto comincia da lui e tutto finisce in lui. Come noi siamo illuminati dallo stesso sole e la nostra persona ha col sole un rapporto di luce, così la nostra vita è in un rapporto essenziale con Cristo in cielo: un rapporto che può essere accettato e riconosciuto, ed eccoci cristiani; oppure può essere rifiutato e dimenticato, di conseguenza estranei alla sua salvezza.

Imparando a onorare Gesù celeste, non perderemo nulla dell’amore, della simpatia, della familiarità che noi abbiamo per Gesù terrestre, nostro collega, nostro compagno, che ha sofferto la fame, il freddo e le fatiche come noi. Ma dovremo riconoscere che in lui la divinità ha preso il sopravvento, lo penetra tanto da potersi effondere come sole sopra di noi. È la novità pasquale di Cristo. Inoltre, per noi la Pasqua comporta tante altre novità. Noi moderni, gente del nostro tempo, abbiamo una passione spiccatissima per la novità. Tutto deve essere rinnovato. I nostri vecchi erano «conservatori» e «tradizionalisti», e misuravano la bontà delle cose secondo il tempo che esse duravano. Noi invece ci diciamo attualisti, cioè vogliamo che tutte le cose siano continuamente nuove, con un dinamismo che le esprime in maniera sempre improvvisa e sempre insolita. Questo tempio, che non segue certo gli schemi convenzionali delle altre chiese (si tratta infatti di una chiesa costruita in stile modernissimo) dimostra che la vita cristiana non soltanto tollera, ma esprime questo bisogno dell’uomo di rinnovarsi. Voi siete già nuovi - aggiunge il Papa - perché siete cristiani, perché già vivete la novità che Cristo ha instaurato nel mondo. Egli ci ha infuso un principio, una energia di grazia che appartiene al regno divino, superiore, ed è principio di vita eterna. La nuova chiesa parrocchiale invita a vivere la novità cristiana. In essa la vita religiosa della comunità si consolida, si istituzionalizza, prende le sue forme, diventa concreta.

In che modo? Il Santo Padre esorta innanzitutto i presenti ad essere fedeli alla novità settimanale che la Chiesa celebra, cioè la Messa. Come la nostra vita corporale, anche quella spirituale ha bisogno di un alimento continuo per mantenersi nelle sue leggi e nella sua coscienza, nei suoi doveri, nelle sue capacità di colloquio e di comunicazione con la vita divina. La Messa festiva è questo alimento; è il culto religioso normale, che la Chiesa rende obbligatorio, tanto è importante.

Paolo VI invita a questo punto i fedeli a far sì che la presenza alla Messa li ponga effettivamente in comunicazione col Signore. Qui - esclama - le coscienze si devono aprire come i fiori al sole. La preghiera della Messa festiva deve essere davvero il nutrimento, il segno della capacità vivente della fede a mantenersi ed esprimersi nell’esperienza della vita umana. Ascoltando bene la Messa festiva si è cristiani, si ha la dose di preghiera e di grazia necessarie per vivere. Portando poi con sé un po’ di amore di Dio, dopo aver espresso la fede come un atto pieno della coscienza, si torna a casa, al lavoro; e si sente il desiderio di una preghiera, sino al punto di trasformare le case, in dati momenti, come se fossero chiese.


DALLA COMUNIONE COL SIGNORE LA FRATELLANZA DEGLI UOMINI

Dobbiamo avere comunione con il Signore: lo dobbiamo amare, dobbiamo essere felici di essere cristiani; abbiamo tanti bisogni, tanti dolori, tanti peccati; abbiamo tanta necessità che il Signore ci assista. Ed ecco, accanto a quella parrocchiale, la preghiera familiare. E un’altra preghiera ancora: quella che non si esprime, ma si vive con la coscienza, cioè il senso religioso della vita. Troppo spesso oggi prevale il senso profano della vita, e non si vuole più sentire la nozione del sacro. Ma se siamo cristiani dobbiamo essere persuasi che tutta la nostra vita è pervasa da questa atmosfera. La presenza di Dio è ovunque; il nostro dovere di essere buoni ci segue sempre.

E ancora. La novità della nostra comunicazione con Dio non si esprime soltanto in senso verticale, ma anche in senso orizzontale, comunitario. Vi conoscete fra di voi? Può darsi - chiede il Papa -. Ma qui diventate fratelli. Qui siete tutti una cosa sola, qui siete tutti una famiglia, qui siete una vera comunità. Qui c’è qualche cosa che corre dalla mia anima alla vostra. C’è una corrente che ci prende tutti e ci fa una cosa sola. Così la prima comunità di Gerusalemme, come si legge negli Atti degli Apostoli, era un cuore solo e un’anima sola. Il Papa invita, perciò, i fedeli a celebrare nella nuova chiesa non solo la comune figliolanza con Dio, ma anche la fratellanza tra gli uomini. È la carità, il volersi bene, l’amarsi, il sentirsi solidali. Non offendersi, non combattersi, non ingiuriarsi, non disprezzarsi, non dire «ciascuno pensi a sé». Dobbiamo pensare tutti a tutti, dobbiamo sentire questa comunione che si chiama Chiesa. Chiesa non è soltanto il tempio. non sono soltanto le mura che ci accolgono. Chiesa è la folla che si sente Assemblea, si sente famiglia di Dio, si sente popolo di Dio.

Questa dovete considerare - conclude il Santo Padre - come la novità continuamente rivissuta e reviviscente nella vostra vita se volete che la Pasqua che abbiamo celebrato insieme resti feconda di buoni risultati. Figliuoli miei, è l’augurio che vi faccio dando a ciascuno di voi, con la benedizione, il saluto di Cristo e la buona Pasqua.








B. Paolo VI Omelie 40471