B. Paolo VI Omelie 24101

Domenica, 24 ottobre 1971: CELEBRAZIONE DELLA «GIORNATA MISSIONARIA»

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Fratelli!

Oggi, Giornata Missionaria, risuona in questa Basilica, dedicata alla tomba dell’Apostolo Pietro, e risuona in tutta la Chiesa in comunione con lui, la voce di Cristo Signore risorto, la parola conclusiva del suo Vangelo, così: «Ogni potere è stato dato a me in cielo e in terra. Andate dunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto quanto Io vi ho comandato. Ed ecco Io sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (
Mt 28,18 ss.).

Questa, sembra a Noi, non solo la conclusione, ma altresì la sintesi del disegno divino nella storia dell’umanità: il Verbo di Dio si è fatto uomo, ha vissuto sulla terra, ha parlato con il fatto stesso della sua presenza nel tempo e nel mondo, con segni miracolosi a suffragio dell’opera sua e specialmente della sua Parola, espressione esteriore e sensibile della sua interiore Verità, della sua Persona, del suo mistero umano-divino di permanenza nei secoli (Mt 24,35) e di comunicazione agli uomini (Cfr. Bar. Ba 3,38), ponendosi così al bivio della decisione della loro sorte, a seconda ch’essi accolgono, e fanno propria, e vivono di questa Parola, o deliberatamente la respingono. Egli infatti suggellò il suo messaggio, secondo l’evangelista Marco, eco della testimonianza di Pietro: «Andate in tutto il mondo e predicate l’annuncio felice, il Vangelo, ad ogni creatura. Chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvo; e chi non avrà creduto sarà condannato» (Mc 16,15-16). Questione capitale, di vita o di morte: è il Vangelo che salva, è la Verità misteriosa di Cristo che salva, è la fede, con quanto essa richiede e porta con sé, che salva.


L’ANNUNCIO DEL VANGELO

Questo è l’annuncio del destino d’ogni singolo uomo, e della comunità degli uomini credenti, costituiti in Chiesa, Popolo di Dio, corpo sociale e mistico di Cristo. Un annuncio quasi confidenziale, da principio, ma poi, per comando di Cristo stesso, annuncio poderoso, da predicare «sopra i tetti» (Mt 10,27), cioè con la forza più effusiva, di cui l’araldo sia capace. Chi è l’araldo? è l’Apostolo, è il missionario, è il maestro, è il catechista, è ogni cristiano, che abbia coscienza e capacità d’essere testimonio, di essere tramite dell’annuncio esplosivo e vivificante del Vangelo e della fede, che esso gli ha acceso nel cuore.

Perché anche questo è da notare con la massima attenzione: la Parola di Dio deve comunicarsi mediante la parola umana; il «sistema», instaurato da Cristo Signore, esige una rete istituzionale, un magistero, per diffondere il messaggio salvifico della sua Parola, che procede dal Padre e dal Figlio nello Spirito Santo (Cfr. Jn 6,64); il «sistema» esige un filo trasmittente, una «tradizione» quanto più felice e coerente, un organo umano, un «predicante» (Rm 10,14), un missionario, che svela il piano divino, nascosto da secoli (Cfr. Col 1,26) e apre le anime alle interiori rivelazioni dello Spirito (Cfr. Ep 1,17 Jn 14,26 Jn 16,13). E se in questo ministero - in questo servizio - della trasmissione della Verità, che libera (Cfr. Jn 8,32), e che salva e santifica (Cfr. Jn 17,17), Cristo ha voluto che vi fosse un corpo di uomini promotori e responsabili, - gli Apostoli (Lc 10,16) -, ha voluto altresì che altri collaboratori qualificati fossero a loro associati - ecco i Presbiteri e i Diaconi, ecco i Missionari - (Cfr. Lc 10,1); anzi ha voluto che tutta la sua Chiesa fosse diffusiva in un modo o nell’altro di Cristo medesimo, e perciò dilatasse se stessa, perché di natura sua missionaria e perché tutta vivente di Lui, Cristo, ed animata dal suo Spirito, perché destinata a tutto il genere umano, perché universale, cioè cattolica (Cfr. Jn 10,16 Jn 11,51-52).


UN ASPETTO DINAMICO DI TUTTA LA CHIESA

Il Concilio ha messo in grande evidenza questo aspetto dinamico di tutta la Chiesa, questo dovere di tutti i fedeli di cooperare all’espansione del Corpo di Cristo (Cfr. Ad Gentes, AGD 2 AGD 6 AGD 28 AGD 36, ecc.). Fra le molte parole, con cui il Concilio urge questo dovere, ricordiamone una: «. . . l’impegno di propagare la fede incombe su qualsiasi discepolo di Cristo, secondo le sue possibilità» (Ibid. AGD 23).

Perciò, Fratelli, non passi questa giornata senza che noi riprendiamo coscienza del nostro dovere missionario, tutti e ciascuno.

Non ci distraggano le deformazioni antimissionarie provocate da tante idee correnti, ottime alcune, ma insufficienti ad appagare la genuina e indeclinabile vocazione missionaria dell’autentico seguace di Cristo; ci basti farvi allusione. V’è chi vulnera la vocazione missionaria nel suo cuore centrale: la necessità della salvezza mediante Cristo, dal momento che alla sorte di grandissima parte dell’umanità, a cui non è di fatto arrivato l’annuncio evangelico, provvederà la misericordia di Dio: lo speriamo vivamente; ma è proprio da Dio che a noi è stata intimata come condizione di salvezza la fede cattolica (Mc 16,16 1Th 1,9). Altri la offendono la vocazione missionaria nella sua priorità, posponendola di diritto alla liberazione temporale e alla necessità economica, ovvero strumentalizzandola a scopi di sviluppo sociale; sì, dovremo spesso, di fatto, redimere l’uomo dalla servitù e dalla fame cronologicamente e pedagogicamente, prima di predicargli temi religiosi; ma non debbono questi stessi temi risalire al primo piano proprio per rispetto alla scala evangelica: «cercate innanzi tutto il regno di Dio»? (Mt 6,33) e per il valore dato alle umane deficienze dal discorso delle beatitudini? e per l’ossequio che il precetto della carità, scaturito da quella superiore verso Cristo e verso Dio, impone al missionario verso i fratelli sofferenti, come primo esercizio del ministero? (Cfr. 1Jn 3,18) Del resto, l’evangelizzazione è di per sé un coefficiente di somma importanza anche per lo sviluppo dei Popoli e la promozione della giustizia nel mondo: che se essa perdesse la sua originaria ispirazione religiosa non sarebbe forse esposta ad esaurire le sue energie morali, e non sarebbe insensibilmente tentata di scivolare verso un neo-colonialismo?

Siamo fedeli, Fratelli, alla concezione missionaria della Chiesa.


IL FASCINO DI UNA GRANDE IDEALITÀ

Lasciamo che il fascino di questa grande idealità ci trovi pensosi delle condizioni del Vangelo ai nostri giorni nel mondo: molte frontiere gli sono tuttora interdette, nonostante le moderne professioni dei diritti dell’uomo e della libertà di pensiero, e nonostante le garanzie di lealtà civile che le Missioni offrono ai Paesi che le accolgono e le benemerenze che esse vi acquistano. E molte vie invece sono oggi tuttora aperte al missionario, e ne attendono il passo intrepido e più d’ieri spedito, ma spesso ancora rivolto alle più strane e più ardue avventure, e sempre a quella sublime del sacrificio e della carità. Sono oggi vie aperte manche al cristiano indigeno, che da alunno della propria Chiesa comincia a diventare maestro nella propria regione ed in quelle vicine.

Perciò Noi, con antico e nuovo entusiasmo, salutiamo il fatto missionario nella Chiesa di Dio. Noi vogliamo compiere oggi, concelebrando questa santa Messa, un duplice dovere: quello di ringraziare, salutare e benedire quanti alla causa missionaria offrono la propria vita e la propria opera: a voi pensiamo, valorosi Missionari, Vescovi, Sacerdoti, Religiosi e Religiose, Catechisti, Laici volontari; a voi, Vescovi promotori delle Missioni, a voi, benefattori generosi, a voi, che in ogni modo le aiutate e le difendete, a voi, che ne ascoltate la carismatica vocazione, a voi, che per le Missioni soffrite, offrite e pregate! La Nostra riconoscenza vuol essere interprete di quella di Cristo: tutto ciò che voi fate per le Missioni, lo avete fatto per Lui; nel nome di Lui vi diciamo grazie, e vi ripetiamo le promesse delle sue presenti e future ricompense.


INCORAGGIARE, AMARE, SERVIRE L'IDEA MISSIONARIA

Ed il secondo dovere nostro è quello d’incoraggiare tutti quelli che amano e servono l’idea missionaria. Coraggio, sì; essa merita il nostro interesse, la nostra preferenziale carità.

We are encouraged by the presente here of our very dear brethren from Apia. They have come as pilgrims from that island of the Samoan archipelago to return our visit. That was a visit which We made with great affection and great hope, and with great spiritual emotion and happiness, precisely with the aim of honouring our missions. We bid you a warm welcome!

Così che noi, ultimi servi di Cristo, coscienti del suo mandato di Pastori della Chiesa universale, primi responsabili del gregge immenso di Cristo, testimoni nello Spirito Santo del suo Vangelo per tutta la terra, vi ringraziamo, vi esortiamo, vi benediciamo.






Santo Natale, 25 dicembre 1971: MESSA DI MEZZANOTTE NELLA CAPPELLA SISTINA

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Questa è un’ora d’intensa meditazione. La singolarità della cerimonia (l’ora notturna, l’oggetto della celebrazione, cioè il Natale, l’incidenza che questa festività ha sul costume familiare e sociale . ..) ce lo ricorda con forza. La veglia in questo momento è d’obbligo, e tutti ci vuole attenti. L’oscurità del tempo si fa luce per lo spirito.

Che cosa meditiamo? Noi meditiamo la nascita di Gesù Cristo nel mondo, avvenuta 1971 anni fa, a Bethleem di Giudea, nota come la città di David, nelle circostanze che tutti conosciamo. Noi abbiamo davanti agli occhi dell’immaginazione il quadro dell’avvenimento. Si riflette così, si rinnova, come figura in uno specchio, in ciascuna delle nostre anime, e in forma mistica e sacramentale si rinnoverà tra poco, con misterioso realismo su questo altare. Qui Cristo sarà con noi. Uno speciale fascino contemplativo arresta la nostra attenzione.

Osserviamo. La nostra attenzione può prendere due vie. Una quella della scena storica e sensibile, rievocata dal Vangelo di S. Luca (il quale probabilmente se la sentì narrare da Maria stessa, la Madre, protagonista del fatto commemorato); è la scena del presepio, la scena idilliaca del misero alloggio di fortuna, scelto dai due pellegrini, Maria e Giuseppe, per questo maturo avvenimento, una nascita; tutto c’interessa: la notte, il freddo, la povertà, la solitudine; e poi l’aprirsi del cielo e I’incomparabile annuncio angelico, e il sopravvenire dei pastori. La fantasia ricostruisce i particolari; è un paesaggio arcadico, che sembra familiare, per una storia incantevole. Tutti diventiamo bambini, e gustiamo un momento delizioso. Ma la nostra mente è attratta da un’altra via di riflessione, quella profetica. Chi è Colui che è nato? L’annuncio risuona preciso nella notte stessa: «è nato oggi per voi un Salvatore, che è Cristo Signore». Subito l’avvenimento assume una meravigliosa qualifica, quella d’una meta raggiunta. Davanti a noi non è solo un fatto sempre grande e commovente, quello d’un nuovo uomo, che entra nel mondo (Cfr.
Jn 16,21), ma è una storia, un disegno che attraversa i secoli, comprende eventi disparati e distanti, fortunati e disgraziati, che descrivono la formazione d’un Popolo, e soprattutto la formazione in lui d’una coscienza caratteristica e unica, quella d’un’elezione, d’una vocazione, d’una promessa, d’un destino, d’un uomo unico e sommo, d’un Re, d’un Salvatore; è la coscienza messianica.

Facciamo bene attenzione a questo aspetto del Natale. Esso è un punto d’arrivo, che svela e attesta una linea, precedente un pensiero divino, un mistero operante nella successione dei tempi, una speranza indefinita e grandiosa, custodita da una piccola frazione del genere umano, ma tale da conferire un senso al cammino inconscio di tutte le genti (Cfr. Is. Is 55,5). Il Natale di Cristo segna sul quadrante dei secoli il momento fatidico del compimento di questo piano divino, librato, sicuro sopra il torrente tumultuante della storia umana, e segna quella «pienezza dei tempi», di cui parla S. Paolo (Ga 3,4 Ep 1,10), ed in cui si osserva una convergenza dei destini umani; si avvera la lontana profezia d’Isaia: «Ecco ci è nato un bambino, ci è stato dato un figlio; e il principato è stato posto nelle sue spalle, e sarà chiamato col nome di ammirabile, di consigliere, Dio, forte, padre del Secolo futuro, principe della pace. Il suo impero crescerà, e la pace non avrà più fine. Siederà sul trono di David e sopra il suo regno, per stabilirlo e consolidarlo nel giudizio e nella giustizia, da adesso e in perpetuo» (Is 9,6-7). Sì, sopra questo bambino, che è Figlio di Dio e figlio di Maria, nato sotto il regime della legge mosaica (Ga 4,4), arriva tutta la tradizione trascendente, di cui Israele era portatore; ed in Lui si rigenera, si trasforma e si diffonde nel mondo. Questo piccolo Gesù di Bethleem è il punto focale della storia umana; in lui si concentra ogni cammino umano, sfociando su quello rettilineo della elezione dei figli di Abramo, il quale vide da lontano, nella notte dei secoli, questo futuro punto luminoso, e, come Cristo stesso ci confidò: «vide ed esultò» (Jn 8,56).

Ed il prodigio continua. Proprio come avviene dei raggi che si fondono in un punto focale, e poi da questo punto si riaprono in un nuovo cono di luce, così la storia religiosa dell’umanità, cioè la storia che dà unità, senso e valore alle generazioni, che si moltiplicano e si agitano e marciano a testa bassa sulla terra, ha la sua lente in Cristo, che tutta la assorbe quella passata, e tutta la rischiara quella futura, fino all’estremità del tempo (Cfr. Mt 28,20).

Questa visione del Natale, che è la vera, è specialmente per noi, per voi. Signori Rappresentanti di Popoli, questa notte qua convenuti per celebrare il mistero del Natale, è per tutti motivo di riflessione sulle sorti del mondo. Esse sono collegate con l’umilissima culla, in cui è adagiato il Verbo di Dio fatto carne; anzi queste sorti, per le quali voi lavorate a titolo altamente qualificante, ne dipendono: dove arriva quell’irradiazione cristiana, di cui dicevamo, e che si chiama Vangelo, arriva la luce, arriva l’unità, arriva l’uomo non più a testa bassa, ma in piena statura erta, arriva la dignità della sua persona, arriva la pace, arriva la salvezza.

Signori! amici e fratelli cercatori e scopritori di Cristo! Ricordiamo questo singolare momento. Un duplice sentimento probabilmente nasce nei cuori. Uno, quasi di diffidenza e di timore davanti al nuovo Re, che ancor oggi nasce nel mondo. È una potenza. Che cosa temono di più d’una nuova potenza i Potenti di questa terra? e se poi è una potenza questo Gesù, che dichiara non essere di questo mondo il suo regno, ma essere d’una sfera trascendente, forse oggi lo temiamo e lo respingiamo anche di più, gelosi come siamo della nostra sovrana autonomia, agnostica, laicista o atea, che non ammette alcun regno di Dio. E l’altro sentimento è invece di confidenza, Quale potenza è Cristo, se non per noi, per nostro vantaggio, per nostra salvezza, per nostro amore? Non eripit mortalia qui regna dat caelestia, non ci porta via i nostri regni temporali Colui ch’è venuto per regalarci i suoi regni celesti (Inno dell’Epifania). Egli è venuto per noi, non contro di noi. Non è un emulo, non è un nemico; è una guida per il nostro cammino, è un amico. Per tutti; ciascuno può ben dire: per me. Certo, venuto Lui fra noi, un dramma, anzi una lotta può cominciare, pro, ovvero contro Cristo. La storia umana si svolge ormai intorno a Lui; il Vangelo è il terreno di incontro, o di scontro (Cfr. Lc 2,33).

Ma in questa notte, in questo luogo, in questo incontro, la scelta è facile, è dolce, è forte; ciascuno può dire con cuore esultante: Egli è venuto per me! (Cfr. Ga 2,20 Ep 9,2 Jn 3,16 Jn 15,9)





Santo Natale, 25 dicembre 1971: «MISSA IN AURORA» A SANTA MARIA «REGINA MUNDI»

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«Celebrate il Natale. Avete fatto qualche opera buona? Avete perdonato a qualcuno? Avete pregato per qualcuno che ne ha bisogno? Avete detto una buona parola per consolare qualcuno? Avete dato un po’ di gioia a qualche bambino? Avete fatto un atto d’amore per questa vostra comunità spirituale, per la vostra parrocchia?». Così Paolo VI la mattina di Natale ai parrocchiani di Torre Spaccata, nell’omelia pronunciata durante la Santa Messa dell’Aurora. Il Papa, illustrando il Vangelo, richiama infatti l’attenzione dei fedeli sul comandamento dell’amore. «Amare Dio e il prossimo», dice. Se abbiamo capito questa chiave, questa sintesi del cristianesimo, possiamo andare vicino al presepio, chiudere gli occhi e pensare a questo bambino che è venuto per essere il nostro Salvatore.

All’inizio un saluto augurale ai presenti, co8minciando dal Cardinale Vicario, dai vicegerenti e vescovi ausiliari, dal parroco, dalle autorità cittadine. Paolo VI elogia i parrocchiani di Santa Maria «Regina Mundi», per la vitalità della loro comunità ed esprime la sua gioia per il consolante incontro natalizio. Toccano profondamente il cuore del Papa i dolori del mondo, le necessità, le guerre, le controversie tra gli uomini, e soprattutto il vedere che tanti sono lontani dal Signore, che tanti lo combattono, lo negano, lo offendono. Ebbene, trovare una comunità familiare come la vostra, Egli osserva, di gente fedele, di gente buona, di gente che spera e prega il Signore, è per Noi di grandissima gioia e consolazione.

Sono venuto tra voi per celebrare il Natale - aggiunge il Santo Padre - e ha invitato i fedeli ad approfondire il significato di questa festa cristiana. Il Natale è la commemorazione della nascita di Gesù, e ciascuno deve compiere uno sforzo per capire quel Gesù che vediamo nel presepio, quel bambino che vagisce nella culla e che è il figlio di Dio. Da dove viene? Viene dal cielo, è disceso dal cielo. Ha la prerogativa unica, misteriosa, immensa di racchiudere in sé due figliolanze: è figlio di Maria, e quindi è uomo, è nostro fratello; ed è figlio di Dio, viene dal cielo. In lui vive la divinità. Colui che ha creato il cielo e la terra, Colui che è sempre stato e sempre sarà, Colui che è la ragione, il principio dell’essere di tutte le cose, della nostra vita e della nostra esistenza, Colui che conosce tutto e che vede nei nostri pensieri.

La meraviglia è una caratteristica della festa del Natale. Siamo sorpresi, siamo incantati. Dio si è fatto uomo ed è in mezzo a noi. Il Natale è la visita, la venuta di Cristo fra noi, e Cristo è il figlio di Dio fatto uomo. È la discesa di Dio in mezzo a noi. Come è lontano Dio! come è misterioso, inaccessibile, incomprensibile! Tanti non credono in Lui, perché non lo vedono con gli occhi, non lo sentono, non lo comprendono. Dio è un mistero senza confini.

Avete mai guardato il cielo? Avete mai pensato ai secoli che sono passati? Tutti gli esperimenti recenti degli astronauti ci hanno almeno abituati a guardare un po’ di più la volta stellata che sta sopra di noi, a pensare a queste distanze immense, a questi secoli senza numero che segnano l’età dell’universo. Ebbene, il Dio di questo universo, il Dio di queste immense profondità del tempo e dello spazio, il Dio infinito, il .Dio che sta nei cieli, questo Dio che è inafferrabile ai nostri occhi e così poco pensabile anche per le nostre menti, questo Dio vivo, vero, proprio Lui è venuto in mezzo a noi.

È venuto per farsi conoscere, si è fatto nostro fratello, si è fatto uno di noi. Si è rivestito di carne umana, si è fatto uomo per essere nostro amico, per darci confidenza. Avrebbe potuto venire come Dio vestito di gloria, di splendore, di luce, di potenza e farci sbarrare gli occhi dalla meraviglia. Invece è venuto come il più piccolo, il più fragile, il più debole degli esseri, perché nessuno avesse vergogna nell’avvicinarlo, perché nessuno avesse timore, perché tutti potessero averlo vicino e annullare tutte le distanze. C’è stato in Lui uno sforzo di inabissarsi, di sprofondarsi dentro di noi, affinché ciascuno di noi potesse sentirsi da Dio pensato, da Dio amato.

È la grande parola nella quale si racchiude tutto il cristianesimo. Questa nostra religione è l’amore di Dio per noi. Chi può dire di non essere amato da Dio? Non certo gli ammalati, se è venuto per quelli che soffrono; non i bambini, se si è fatto Egli stesso bambino; non la madre di famiglia, se Egli è voluto venire a far parte della famiglia umana; non l’operaio, se Egli ha voluto essere un povero falegname. Dio si è fatto uomo affinché l’uomo comprendesse il suo linguaggio, ha voluto assumere le nostre labbra per farsi capire. Le sue parole sono state semplici, adatte alla nostra povera intelligenza, ma sono pur sempre parole divine, immense. Ha recato il messaggio che è come un programma: Beati voi poveri, perché vostro è il mio Regno; beati voi che piangete perché sono venuto a consolarvi; beati voi che amate e soffrite per la giustizia perché Io vi sfamerò, vi darò questa giustizia; e beati voi, puri di cuore, perché voi vedrete Dio, avrete l’intuizione delle cose divine.

Ma Cristo è venuto anche per dare la sua vita per noi. Non capiremo mai abbastanza Nostro Signor Gesù Cristo, ha detto il Papa, se non comprenderemo questa sua intenzione, questo destino che segna davvero il perimetro della sua vita. Gesù è venuto a morire per noi, è venuto per salvarci.

A questo proposito, Paolo VI richiama l’attenzione dei presenti sull’esempio dato da Massimiliano Kolbe, il francescano polacco che morì ad Auschwitz per salvare un padre di famiglia, e che recentemente è stato beatificato. Fu un gesto eroico, gratuito, spontaneo, senza gloria e senza alcuna ricompensa.

Gesù è morto per salvare ciascuno di noi, ha dato se stesso per noi. Il Signore ci ama, ci ha amato mediante il sacrificio di Cristo. Gesù ha dato il suo sangue, è la vittima che ha pagato con la sua vita. Non ci saremmo salvati se non ci fosse stato Gesù. Dopo il peccato di Adamo, eravamo tutti perduti; Dio aveva interrotto le comunicazioni con noi. Chi le ha ristabilite, con il sacrificio di sé, con amore per ciascuno di noi, è stato Gesù. E se siamo stati amati da Cristo, da Dio in Cristo che ci ha salvati, cosa dobbiamo fare? Dobbiamo amarlo anche noi. Se davvero siamo stati tutti amati da Dio in Cristo, ecco che ci troviamo insieme, ecco che si produce una unità, una comunità, una società che si chiama la Chiesa. Il peccato più grave della nostra povera umanità è quello dell’ingratitudine nei confronti di Dio che ci ha amato.

E se si ama Dio, bisogna amare anche il prossimo, come Lui ha amato. Sapete - conclude il Papa - che cos’è l’amore? Ebbene, riversate un po’ di questo sentimento nella vita della vostra comunità, a imitazione del Signore. La religione cristiana è una grande fonte di gioia, perché è essenzialmente amore.






OMELIE 1972



Sabato, 1° gennaio 1972: V GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

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Oggi, primo giorno dell’anno civile, parliamo di pace, celebriamo la pace, perché la pace è il bene sommo della civiltà, e perché al principio del nostro operare dobbiamo guardare al traguardo, al fine ultimo al quale esso vuole giungere. Oggi è il giorno dei programmi, il giorno dei propositi. Noi vogliamo essere padroni del tempo; lo vogliamo spendere bene. Vogliamo dare un senso alla nostra vita. La vita vale per il senso che noi le diamo, per la direzione che noi le imprimiamo; la meta, lo scopo a cui noi la rivolgiamo. Quale meta? Quale scopo? La pace.

E la pace, che cosa è? Noi lo dicevamo: è il bene, che in questa vita presente, la vita temporale, comprende tutti gli altri, è l’ordine, il vero ordine, non soltanto quello della disciplina esteriore, ma l’ordine che fa stare bene tutti gli uomini e tutto l’uomo; un ordine che suppone che tutti abbiano ciò che serve alla vita, il cibo, l’abito, la casa, la scuola, il lavoro, il riposo, il rispetto, la sicurezza; . . . anzi una società libera, concorde, ordinata, onorata d’intorno a sé; e di più cosciente del destino della vita, e perciò colta e soprattutto religiosa (perché la religione è la lampada della vita; essa, ed essa sola, se è la vera religione, qual è quella cristiana, ci dà luce, e ci rivela il senso della nostra esistenza, e ci offre i mezzi per vivere bene e per salvarci, anche oltre la fine del tempo che ci è dato per vivere). Si vede subito che la pace è una cosa assai bella, ma è una cosa difficile; tanto difficile e complessa, che alcuni la credono un sogno, un mito, una utopia. Noi invece diciamo che la pace è una cosa difficile, sì; difficilissima anzi; ma è una cosa possibile, una cosa doverosa. Il che vuol dire che bisogna lavorare molto per ottenere la pace. Non si raggiunge da sé. Non si mantiene da sé. Essa è frutto di grandi sforzi, di grandi programmi. E, prima di tutto, è frutto della giustizia: Se vuoi la pace, lavora per la giustizia. E facciamo attenzione: dobbiamo volerla tutti; tutti dobbiamo meritarla. Spesso noi pensiamo che a questo grande programma, quello di mettere ordine e pace nel mondo, di organizzare bene la società devono pensare coloro che dirigono il mondo e la società; certamente, ma non esclusivamente. La pace è un bene di tutti; e tutti dobbiamo collaborare per mantenerla, per farla progredire. E in qualche modo tutti e ciascuno in qualche misura, lo possiamo, lo dobbiamo.

Ma qui si presenta una domanda: perché un discorso così alto e così difficile è fatto, qui, a dei ragazzi, a dei giovani, come voi, che già vivete in un ambiente ordinato e pacifico?

Ecco la risposta. La risposta però esige un’altra domanda: come si raggiunge la pace? La vera pace, ripetiamo; quella che risulta dall’ordine vero? Perché vi può essere un ordine falso; e come! un ordine imposto con la forza, la prepotenza, la paura, la minaccia, il ricatto, l’abuso della debolezza altrui, l’abitudine invalsa di mantenere situazioni, dove la gente soffre, dove non può nemmeno sollevarsi e migliorare la propria esistenza . . . è ordine vero? La schiavitù è ordine vero? La miseria sociale è ordine vero? La povertà senza rimedio e senza assistenza, è ordine vero? L’ignoranza voluta del popolo per tenerlo più facilmente soggetto, è ordine vero? Il dominio e lo sfruttamento dei forti sui deboli, dei ricchi sui miseri, è ordine vero? L’imposizione pesante delle idee di alcuni su quelle degli altri, pena danni e repressioni e castighi è ordine vero? E l’incuria dei responsabili verso l’inosservanza dei diritti altrui, dell’immoralità scandalosa, o la tolleranza della licenza nociva al bene della società, è ordine vero? Dove non esiste, o non è rispettata una legge ragionevole e efficace, vi è ordine vero? eccetera. Vogliamo dire: vi sono ordini apparenti, falsi, contrari al bene comune, alla legittima libertà, alla promozione delle categorie bisognose, ecc., i quali non possono meritare il nome autentico e bello di pace. Sono piuttosto disordini tollerati, o costituiti, che non veri ordini equilibrati e favorevoli al benessere e al progresso comune; sono condizioni, che possono dare una certa fissità alla vita pubblica, una consuetudine inveterata, un adattamento rassegnato, ma che non possono generare una vera pace.

Questo è chiaro. Ormai tutti ne hanno qualche esperienza; e ormai la convinzione si diffonde che non vi può essere vera pace senza . . . Ditelo voi! senza giustizia.

Ma qui sorge una seconda domanda, difficile questa; ma una domanda alla quale voi ragazzi, voi giovani specialmente, sapete rispondere subito, istintivamente, intuitivamente. Che cosa è la giustizia?

Voi avete già in mente due risposte: vi è una giustizia del mio e del tuo, che è difesa dal famoso comandamento «non rubare». Nessuno vuol essere chiamato ladro. E vi è un’altra giustizia che riguarda la natura stessa dell’uomo; la giustizia, la quale vuole che ogni uomo sia trattato da uomo. Voi lo capite subito. Sono tutti eguali gli uomini? In sostanza, sì. Ogni uomo ha una sua dignità. Dignità inviolabile: guai a chi lo tocca! piccolo o grande che sia, povero o ricco che sia! bianco o negro che sia! Ogni uomo ha una sua carica di diritti e di doveri, che gli meritano d’essere trattato come persona. Anzi noi cristiani diciamo che ogni uomo è nostro fratello. Dev’essere trattato come fratello, cioè amato (l’anno scorso, per la giornata della pace, abbiamo proprio meditato questa realtà: ogni uomo è nostro fratello). E possiamo anche dire di più: quanto più l’uomo è piccolo, povero, sofferente, indifeso, decaduto anche, e tanto più merita d’essere assistito, sollevato, curato, onorato! questo ce lo ha insegnato il Vangelo; ma anche chi non crede all’autorità del Vangelo intuisce che quella parola divina ha ragione: questa è la giustizia! questa è la via all’ordine, cioè al diritto e al dovere dell’uomo; qui è la giustizia, qui è la pace!

Ed ecco allora la spiegazione della nostra scelta nel preferire di venire qua, fra voi ragazzi, fra voi giovani, per celebrare la giornata della pace, perché voi prima e più degli altri, avete il senso della giustizia. Voi, senza molti ragionamenti, comprendete che nel mondo, anche nel nostro mondo moderno, vi è ancora bisogno di giustizia. Più che mai lo comprendete, perché appunto siete moderni; cioè lo sviluppo sociale e culturale, al quale oggi siamo arrivati, ha svegliato una coscienza umana, che non può più rimanere insensibile ai disordini congeniti nel nostro ordinamento sociale, non può non accorgersi che il progresso stesso produce malanni, ai quali bisogna porre rimedio; produce frustrazioni, produce disuguaglianze, produce ingiustizie; produce conflitti, produce pericoli di catastrofi, di conflagrazioni, d’inquinamenti . . . a cui bisogna reagire: non è giusto che sia così! Voi lo capite, e voi, a vostro modo, lo dite; e lo dite con una minaccia, che può essere fatale: non vi può essere pace, senza una nuova giustizia.

Voi, figli della nuova generazione, afferrate subito la intrinseca necessità di questo binomio: la giustizia e la pace; esse camminano insieme. Non vi può essere vera pace senza vera giustizia. E siccome la giustizia deve progredire secondo le legittime aspirazioni esplose nella coscienza evoluta dell’uomo moderno, così la pace non può essere statica, non può convalidare uno stato di cose che non tenga conto dello sviluppo dell’uomo, delle sue antiche e nuove necessità. Difficile equazione quella della giustizia e della pace: richiederà saggezza, prudenza, pazienza, gradualità, non violenza, non rivoluzione (che sono altre ingiustizie), ma dovrà essere perseguita con tenacia, con sacrificio, con alto e sincero amore per l’umanità.

Voi, giovani, col vostro naturale distacco dal passato, col vostro facile genio critico, con la vostra antiveggenza istintiva, col vostro ardimento per le imprese umane, nobili e grandi, voi potete essere all’avanguardia profetica della causa congiunta della giustizia e della pace.

E sappiate che questi Signori, i quali hanno voluto essere presenti alla nostra e vostra celebrazione della Giornata della Pace, e sono rappresentanti illustri e qualificati del mondo dei Responsabili - sono Diplomatici, sono Autorità politiche e cittadine, sono Vescovi e Dignitari della Chiesa, sono Laici valorosi dedicati alla missione del bene - questi sono con voi!

Mentre ringraziamo voi, ragazzi e giovani di questa Città ideale, per la vostra accoglienza, ringraziamo tutti i presenti per la loro significativa adesione, e col voto della Giustizia e della Pace, tutti di cuore vi benediciamo.


Lunedì, 24 gennaio 1972: CELEBRAZIONE DI PREGHIERA PER L'UNIONE DEI CRISTIANI

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Si interrompe per un istante la nostra conversazione con Dio per diventare conversazione con la «Ecclesia», con l’assemblea qui raccolta, con voi, Fratelli, qui presenti, quasi per avere reciproca assicurazione che vogliamo adempire la ben nota parola evangelica d’essere radunati nel nome di Cristo e d’aver perciò Lui, Lui stesso, Cristo nostro Signore, in mezzo a noi (Cfr.
Mt 18,20). Cristo è qui. Onoriamo questa sua presenza. Celebriamo questo mistero, risultante dal fatto stesso che la ragione della nostra riunione è la confessione del suo nome, non solo riconosciuto e invocato fuori di noi, ma avvertito nella sua interiore attribuzione a ciascuno di noi: siamo tutti cristiani, siamo stati inseriti, mediante il battesimo, nel Corpo mistico di Cristo, che è la sua Chiesa (Cfr. Const. Sacrosanctum Concilium, Const. Lumen Gentium, LG 15 Decr. Unitatis redintegratio, UR 2-3), tutti siamo diventati figli di Dio, l’ineffabile Padre nostro celeste, tutti abbiamo fede in Lui, Cristo Signore, e tutti attendiamo da Lui d’essere perdonati, redenti e salvati, nello stesso Spirito Santo vivificante e santificante. Ecco qui già costituita la base di quella unità ecumenica, che andiamo appassionatamente cercando.

Perché ecumenica è l’intenzione di questa cerimonia, predisposta per cogliere e salutare fra noi un eminente rappresentante della venerabile Chiesa Ortodossa, il Metropolita Melitone di Calcedonia, a noi mandato da Sua Santità il Patriarca Atenagora di Costantinopoli, piissimo e a noi carissimo, per recarci, come sapete il «Tomos agápis», il volume della carità, che raccoglie la documentazione e la corrispondenza circa i rapporti intercorsi negli ultimi dodici anni fra il Patriarcato di Costantinopoli e la Chiesa di Roma, giubilanti d’essersi riscoperti rami d’uno stesso albero, nato da una stessa radice, ora sofferenti di non avere ancora potuto insieme consumare, bevendo al medesimo mistico calice, quella perfetta comunione, la quale sancisca fra le due comunità l’unione organica e canonica propria dell’unica Chiesa di Cristo.

Con gaudio profondo e con devozione sincera noi salutiamo questo Ospite illustre e venerato, con le onorevoli persone del suo seguito, qui, oggi, fra noi, portatore d’un libro, che la storia farà suo. Ospite non forestiero della Sede apostolica e con la sua presenza ora fatto lui stesso segno, auspicio, promessa dell’attesa, felice celebrazione della completa comunione nella fede e nella carità di quanti già cento e cento volte, come il libro documenta, si sono dichiarati fratelli. E pare a noi che il titolo stesso, che qualifica l’insigne Metropolita della Chiesa Ortodossa, il titolo di Calcedonia, renda particolarmente cara e significativa questa sua visita per la Chiesa di Roma, riportando il pensiero al nostro immortale predecessore, San Leone Magno (Cfr. DENZ.-SCH. DS 300-302), che, mediante la sua lettera a Flaviano, favorì autorevolmente la definizione cristologica del celeberrimo Concilio Calcedonense, il quale affratellò Roma e Costantinopoli in una medesima fede definitiva e felicissima, circa l’unica Persona divina e la duplice natura divina ed umana di Cristo.

Chi dunque meglio di Lei, eminente Metropolita Melitone, può portare al Patriarca Atenagora il nostro ringraziamento per la missione di pietà, di cortesia e di pace a Lei affidata? Voglia Ella dire al venerando Vegliardo che tale missione, qui, nella sacrosanta Basilica Lateranense, presenti Cardinali, Vescovi, Prelati e Clero della Curia e della Diocesi di Roma col Popolo fedele della Chiesa Romana, ha avuto il suo solenne e sacro coronamento. Voglia Ella riferire come noi abbiamo insieme compiuto con intensità religiosa un atto pio e cosciente di quell’«ecumenismo spirituale», al quale ci ha esortati il recente Concilio Vaticano secondo (Decr. Unitatis redintegratio, UR 8), perché non solo abbiamo pregato per i Fratelli con i quali desideriamo essere in perfetta comunione, ma con grande letizia nello Spirito Santo tutti abbiamo pregato con loro!

E voglia anche dire, veneratissimo Metropolita Melitone, a quel santo Patriarca ed ai venerati Fratelli e Fedeli, che intorno a lui si raccolgono, come questa fausta celebrazione, avvenuta nella Chiesa, che la tradizione della Chiesa d’Occidente, storica e teologica, chiama omnium urbis et orbis ecclesiarum mater et caput (Clemente XII) per essere la Cattedrale del Vescovo di Roma, successore del beato Pietro Apostolo, lungi dal lusingare la nostra umana ambizione per l’ufficio pastorale, affidato da Cristo a chi siede su questa cattedra di fungere quale «perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei Vescovi, sia della moltitudine dei Fedeli» (Const. Lumen Gentium, LG 23), profondamente ci ha personalmente richiamato alla coscienza di questo nostro grave privilegio. Qui noi, più che altrove, ci sentiamo «servo dei servi di Dio». Qui noi ci pensiamo fratello con i nostri fratelli nell’Episcopato e con loro collegialmente solidali. Qui noi pensiamo al proposito d’un altro grande predecessore, Gregorio Magno, il quale, pur asserendo la sua funzione apostolica (Cfr. Regist. 13, 50), voleva considerare suo proprio onore l’onore di tutta la Chiesa e l’efficienza dei singoli Vescovi locali (Cfr. Reg. 8, 30; PL 77, 933); qui noi ricordiamo la concezione dell’unità della Chiesa, propria di San Cipriano: una Ecclesia per totum mundum in multa membra divisa (Ep 36,4), cioè come un corpo composito e articolato, in cui parti e gruppi possono essere modellati in forme tipiche particolari, e dove distinte, se pur fraterne e convergenti, possono essere le funzioni. Qui, nel cuore dell’unità e al centro della cattolicità, noi sogniamo la bellezza vivente della Sposa di Cristo, la Chiesa, ravvolta nel suo variopinto abbigliamento (Ps 44,15), rivestita, vogliamo dire, da un legittimo pluralismo di espressioni tradizionali. Qui sembra allora a noi d’udire la limpida eco d’una vostra voce lontana: ??t?e t?? ??ste?? ? ??t?a «Oh tu, Pietro, pietra base della fede!» (Cfr. Menei, V, 394).

Così che a noi resta d’invocare quella divina assistenza, che conforti la nostra debolezza a praticare le virtù necessarie affinché l’ecumenismo iniziato possa giungere alla sua felice conclusione. Diremo con S. Paolo «d’essere fiduciosi appunto in questo, che Colui che ha cominciato in “noi” l’opera buona, Egli la porterà a buon fine» (Ph 1,6), convinti che al compimento della grande impresa della ricomposizione dell’unità dei Cristiani una condizione da noi tutti sarà necessariamente richiesta, una dilatazione della carità: «Dilatentur spatia caritatis», si allarghino i confini dell’amore, noi diremo, per usare un’espressione a noi cara di S. Agostino (Serm. 69; PL 38, 440-441). Una dilatazione della carità: che a noi tutti consenta di ritrovarci affratellati in una medesima Chiesa, membra di un medesimo corpo di Cristo. Aggiungeremo allora al Tomos agápis una nuova, ultima e splendida pagina: quella dell’unità.




B. Paolo VI Omelie 24101