B. Paolo VI Omelie 20272

Mercoledì, 2 febbraio 1972: FESTA DELLA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE AL TEMPIO

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La festa, che oggi la Chiesa ci invita a celebrare, è complessa per il duplice fatto registrato nel Vangelo di San Luca (
Lc 2, 22, ss.) della Purificazione di Maria e della Presentazione di Gesù al Tempio, secondo il rituale ebraico (Cfr. Lev. Lv 12,2-8 Ex 13,2), e per lo sviluppo liturgico e popolare, che la commemorazione di tale fatto assunse, in forme e in tempi diversi, nella tradizione cristiana (Cfr. P. RADÒ, Ench. Lit. II, 1138, ss.), così che si presta a diverse considerazioni spirituali. Rimase per noi caratteristico di questa festa il rito della benedizione delle candele, forse derivato dalla solennità che a questa celebrazione era data, fin dalla fine del IV secolo a Gerusalemme (si veda la celebre Peregrinatio Etheriae, a. 395), o forse a causa della processione notturna, istituita da Papa Gelasio (492-496) per sostituirla nel costume cristiano a quelle lustrali pagane, solite a compiersi nel mese di febbraio (Cfr. M. RIGHETTI, Manuale di St. Lit. II, 84). Oggi il rito si evolve, e prende forma e significato di offerta, che voi state compiendo, ed a cui noi vogliamo attribuire il suo valore altamente espressivo: il cero si fa simbolo d’un’oblazione sacra, la quale, per un verso, vuole connettersi con quella di Gesù Cristo bambino, presentato a Dio in riconoscimento dell’ossequio voluto da Dio circa ogni primogenito, per un altro verso intende professare l’omaggio di obbedienza e di fedeltà all’Apostolo Pietro, nella persona del suo successore, Vescovo di Roma.


«UN CERO È UNA LUCE»

Se vogliamo pertanto fermare un istante l’attenzione su questo aspetto della singolare e tradizionale cerimonia, noi dobbiamo oggi entrare nell’intenzione e nello spirito d’un’oblazione. Un’oblazione, la quale ha nel cero il suo simbolo, il suo linguaggio, così semplice così profondo. Che cosa è un cero, nell’uso e nella mentalità liturgica? Qui si potrebbe fare una bella escursione nella spiritualità religiosa cattolica, la quale non rifiuta di servirsi di segni materiali, ma ne fa alfabeto sacramentale, artistico perciò, e di più misterioso e sacro. Un cero è una luce. Ricordate il triplice grido della liturgia del Sabato santo, quando la processione, entrando nella chiesa buia e deserta della presenza di Cristo, vibra di stupore e di gioia alla voce del diacono, che grida, alla accensione del cero: lumen Christi? E così la luce è tutto lo spazio della vita cristiana, della rivelazione divina, che risplende nelle tenebre dell’universo cosmico e della cecità sconfinata dello spirito umano. È una luce, che stabilisce una relazione dell’uomo con le cose, con gli altri uomini, con il tempo, con ciò che è e ciò che si muove, con la vita. Rileggete nel cuore il prologo di S. Giovanni: «la vita era la luce» (Jn 1,4). E poi tutti ricordate la teologia evangelica della luce. La luce è Cristo. «Mentre io sono nel mondo, dice Cristo stesso, sono la luce del Mondo» (Jn 9,5). E la luce siamo noi, noi stessi se la riceviamo da Lui: «Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,14) ci dice il Maestro. Ma come la riceviamo, come la facciamo risplendere? Ancora il cero ce lo dice: ardendo, e ardendo consumandosi. Un lampo di fuoco, un raggio d’amore, un’inevitabile immolazione si celebrano sopra quella candela pura e diritta, mentre essa, effondendo il suo dono di luce, esaurisce se stessa in silenzioso sacrificio (Cfr. GUARDINI, I santi segni, p. 56, ss.). Dove trovare riflessa con più lirica e drammatica evidenza la storia della vita cristiana? dove riscontrare più aperto e vissuto quel «sacerdozio regale» (1P 2,9), che il Concilio ha ricordato alla nostra fede e alla nostra pietà, riscoprendolo in ogni cristiano rigenerato dal battesimo, e che si fa manifesto mediante il cero sacro a lui, il nuovo cristiano, subito consegnato, dopo la sua inserzione nel Corpo mistico di Cristo, la Chiesa, da questa medesima Madre e Maestra?


TRIBUTO DI SUDDITANZA A CRISTO E ALLA CHIESA

Ma il cero, in questa cerimonia, esprime qualche altra cosa, come dicevamo, cioè l’oblazione dell’offerente a Cristo e alla sua Chiesa. Esso vuol essere un tributo di sudditanza. E allora il cero, simbolo di un’offerta della propria vita, integra il simbolo della luce; lo integra con quello d’una testimonianza, con quello d’un programma di vita, con quello d’una scelta, che decide dell’orientamento e dell’impiego della propria esistenza. Questo dono vuol dire: ecco, io riconosco sopra di me il dominio assoluto di Dio, la possessione di Cristo, l’autorità della Chiesa.

È un atto di umiltà, di fedeltà, di obbedienza, che prende figura nell’offerta del cero. Se volessimo approfondire quest’analisi, forse ci troveremmo sconcertati dal timore di compiere un gesto falso e insincero, perché contrario a quella coscienza della propria autonomia, della propria libertà adulta, della propria dignità personale, oggi dominante nella psicologia moderna. Anche fra noi, discepoli della dottrina di Cristo, questo sentimento di indipendenza e di autogoverno è così penetrato, che duriamo fatica, a prima vista, a scoprire come l’ossequio religioso e canonico, che ci è richiesto nell’economia ecclesiale, non solo si accorda con la vera libertà dei figli di Dio, ma ne è il fondamento e la garanzia. Abbiamo paura di essere asserviti ad una teocrazia anacronistica e insopportabile.


PARTECIPAZIONE ALLA COMUNIONE ECCLESIALE

Mentre invece non ci deve essere difficile, né ingrato, rivedere, alla luce meridiana della nostra fede, come la sudditanza, a noi richiesta da questo ordinamento teologico ed esistenziale, è alla base del nostro essere di uomini, di cristiani, di cattolici, di eletti alla sequela di Cristo. Servire Deo regnare est: non è questo un semplice proverbio ascetico; è la sintesi d’una metafisica religiosa, la quale discopre la sua ragionevolezza, anzi la sua beatitudine, quando, come nella casa di Dio, alla quale per via di fede e di grazia siamo stati ammessi, noi sperimentiamo come questo servizio che vogliamo professare verso Dio e verso ciò che a Dio ci conduce, non è schiavitù, non è degradazione, non è perdita della propria libertà, ma è piuttosto l’impiego più alto di questa libertà, è l’elevazione al livello superiore della conquista e del godimento dei valori superiori della vita, è associazione all’amore di quel Dio ch’è Padre e che Amore si definisce; ed è sequela di Cristo, e partecipazione a quella comunione che definisce la Chiesa.


L'ATTESA DEI GIOVANI

È servizio, sì. Ma quale significato di reale grandezza riacquista oggi questo decaduto ed ora riabilitato vocabolo, se riferito alla coscienza ideale della vita e a quella sociale del nostro tempo! Diventa vocazione. L’uomo ha bisogno di servire una causa per la quale valga la pena di dare questa vita presente. Forse tanta gente, oggi, si agita e si ribella, perché non sa chi e che cosa meriti davvero d’essere servito. La leggenda di S. Cristoforo dovrebbe essere raccontata di nuovo alla nostra generazione. Forse tanti giovani, inconsciamente non attendono che una chiamata potente a consacrare la propria vita, vuota altrimenti ed egoista e condannata a finale delusione, ad un ideale, ad una realtà che impegni tutte le loro energie e le esalti nel dono magnanimo ed eroico di sé; alla Croce, porta dolorosa e gloriosa della vera risurrezione.

Anche qui il discorso potrebbe prolungarsi. Ma qui lo fermiamo, nella convinzione e nella soddisfazione che l’offerta dei ceri vuol significare tutto questo. E in verità lo significa, con la nostra Apostolica Benedizione.




Domenica, 13 febbraio 1972: ORDINAZIONE EPISCOPALE A DICIANNOVE PRESULI

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Venerabili Fratelli e diletti Figli,

Il rito liturgico si svolge in due momenti psicologici; uno muove il nostro animo ad esprimere i suoi sentimenti ed i suoi pensieri, e lo spinge alla preghiera che innalza a Dio le sue lodi o rivolge a Dio le proprie invocazioni; l’altro impone al nostro animo il silenzio e la quiete e lo dispone ad accogliere la voce interiore dello Spirito; il primo parla a Dio, il secondo lo ascolta. Questo secondo è ora per noi; interrompe preci e gesti di questa grande cerimonia, e ci vuole silenziosi e immobili; attivo il primo, passivo l’altro. Come il navigante arresta lo sforzo dei suoi remi, e lascia che il vento gonfi la sua vela e guidi la sua nave, così l’animo di ciascuno di noi si placa in un momento di riposo interiore e si concede al soffio del Paraclito per udirne il tacito, ma impellente linguaggio.

1. Noi ascoltiamo. Ascoltiamo dapprima la voce arcana delle cose mute, divenute eloquenti ad esprimere il loro significato spirituale. Ascoltiamo ciò che dice questo luogo famoso e pur sempre misterioso: è il «trofeo» d’un sepolcro; il sepolcro che conserva le reliquie dell’Apostolo Pietro. Siamo raccolti sulla tomba di colui che Cristo tramutò dall’umile e debole Simone, figlio di Jona, in Pietro, in fondamento sul quale Egli, Cristo, profetò di costruire un suo edificio indistruttibile, la «sua Chiesa».

Non parlano qui forse le cose che vediamo, che ci attorniano? Non hanno un loro eloquente discorso, pur nella muta materialità della loro presenza? Non ci sarebbe bisogno della nostra parola. Il discorso è qui: ripetiamo, basta ascoltare. Qui parla la Tomba di Pietro, che raccoglie le povere e trionfali spoglie del Pescatore di Galilea; qui parla il fatto che siamo riuniti insieme, membri dell’una santa cattolica e apostolica Chiesa, cementati, pur nella diversità della provenienza, della lingua, della mentalità, da questa fede che esprimiamo unanimi nel Credo. In tal modo, non acquista storica e quasi sensibile evidenza il sacramento della successione apostolica, che stiamo celebrando? Non sono i Vescovi i successori, non puramente giuridici, ma eredi in comunione sopravvivente di animazione e di ministero, degli Apostoli? ed il primo fra loro Simone Pietro non tiene forse lezione in questa Basilica a lui dedicata, se noi ricordiamo il vaticinio della prima lettera del medesimo apostolo Pietro (
1P 2,4-10), là dove appare che la sua qualifica non è che sacramento vicario della vera e prima pietra viva, Cristo stesso, supremo capostipite della mistica casa, dove ogni elemento sovrapposto diventa pure vivo, diventa stirpe eletta, regale sacerdozio, gente santa, guadagnata al disegno luminoso e misericordioso, donde è generato il Popolo di Dio? Non prendono significato organico ed armonioso la distinzione e la parentela del sacerdozio comune dei fedeli, componenti con noi il corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa, rispetto al nostro sacerdozio ministeriale ed episcopale, nel quale è infusa in pienezza la potestà depositaria e comunicativa dei misteri di Dio?

L’economia della successione apostolica, gerarchica cioè e ministeriale, qui prende quasi evidenza storica e sensibile per tutti i presenti, ma imprime più fortemente nei nostri animi, di noi Vescovi, la coscienza del nostro essere sopraelevato alla vocazione apostolica, alla funzione di testimoni e di maestri della fede, alla missione di operatori della grazia, alla responsabilità tremenda ed amorosa di pastori. Lasciamoci penetrare da questo senso superiore dell’ordinazione, che stampa nella nostra persona il carattere sacerdotale di Cristo.

2. Ma ascoltiamo ancora quanto, come conseguenza logica e storica, spirituale e reale, scaturisce da questo fatto arcano e inconfutabile della successione apostolica; ciò che deve anche attrarre stamane il nostro spirito, è l’unione che ne risulta. La Chiesa, fondata sugli Apostoli, procede da un disegno eterno di Dio Padre, che, attraverso l’antica Alleanza, si è scelto il suo Popolo, erede delle promesse messianiche, e lo ha riunito mediante il sacrificio del suo unico Figlio, mediante il rito della nuova Alleanza. La successione apostolica e garanzia di quella unità, per la quale Cristo è morto e risorto (Jn 11,52): i vescovi presiedono alle singole Chiese particolari e locali, le quali, pur essendo distanti nel tempo e nello spazio, non cessano di essere un solo e unico Popolo di Dio, come unico è Dio che le chiama e le santifica. Nella coscienza dell’universalità della Chiesa è radicata la coscienza della sua unità: «Un solo corpo e uno spirito solo, come una sola è la speranza a cui siete stati chiamati per la vostra vocazione. Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio e Padre di tutti, che, sopra tutti, opera in tutti ed è in tutti» (Ep 4,4-6). Questa consapevolezza ha retto la Chiesa nei secoli della sua storia: oltre ogni rottura, oltre ogni scisma. Chiesa universale e Chiese particolari: Successore di Pietro e Successori degli Apostoli: è il linguaggio vivo della storia, che noi oggi cogliamo qui, nella sua vivezza e autenticità, e tutti ci conforta e rasserena. Anche questa voce di unità vitale e organica ascoltiamo oggi, in questa pausa di meditazione, nella celebrazione dei divini misteri.

3. Ma ancora un’altra voce arcana ascoltiamo, che continua sul filo delle precedenti riflessioni. Ed è quella del carisma della potestà pastorale, conferito ai vescovi della Chiesa di Dio secondo la precisa volontà di Cristo e la disposizione dello Spirito Santo (Cfr. Ac 20,28): posuit Spiritus Sanctus regere. Il carisma interiore ed esteriore del vescovo è quello dunque dell’essere chiamato alla testa di quella porzione del gregge che è a lui affidata, ed appartiene all’unica Chiesa: e si esplica nell’esercizio della triplice funzione pastorale: di magistero, di ministero e di guida. Non ci sfugge come, specialmente in questi tempi recenti, si sia preteso di opporre la Chiesa carismatica a quella gerarchica, quasi si trattasse di due organismi distinti, anzi, in sé contrastanti e opposti. Di fatto, qui, nella potestà pastorale, il carisma e l’autorità coincidono: abbiamo ricevuto lo Spirito Santo, che nella missione episcopale si manifesta così, in questa simbiosi simultanea di magisterium, assistito dal lume del Paraclito, di ministerium santificando mediante la sua grazia e di regimen, nella carità del servizio: sono questi facoltà del Vescovo e doni dello Spirito. È la voce di Paolo che ce lo ricorda e conferma: «Vi sono bensì vari carismi distinti, ma un medesimo è lo Spirito; e vi sono vari ministeri, ma un medesimo Signore; e varie operazioni, ma è il medesimo Dio che opera ogni cosa in tutti» (1Co 12,4-6). Dall’unico Dio-Trinità discende l’unica Chiesa, della quale i Vescovi hanno la prima responsabilità, con unicità di attribuzione carismatica e gerarchica. Non si negano certo i carismi particolari dei fedeli, tutt’altro; lo stesso passo della prima lettera ai Corinti li suppone e li riconosce, perché la Chiesa è un organismo vivo, animato dalla vita stessa, misteriosa e molteplice, imprevedibile e mobile, santificatrice e trasformatrice, di Dio; ma i carismi, concessi ai fedeli, come ancora sottolinea Paolo (1Co 14,26-33 1Co 14,40), vanno soggetti a disciplina, che sola è assicurata dal carisma della potestà pastorale, nella carità.

Questa missione, che è stata conferita al corpo episcopale, ci obbliga a dare uno sguardo alla Chiesa e uno sguardo al mondo, al servizio del quale Dio ci ha posti: nella Chiesa siamo gli organi vivificanti della famiglia di Dio, chiamati a dare, come Cristo, nell’imitazione e nella sequela di Lui (Jn 15,16), servizio e sacrificio nell’immolazione quotidiana per il gregge, assicurandogli al tempo stesso sicurezza, comunione, gaudio e tutti i doni dello Spirito (Cfr. Ga 5,22-23). Mirabile e tremenda e pur esaltante visione del nostro posto nella Chiesa, a cui dobbiamo assicurare la coesione, nell’obbedienza e nell’amore dei nostri carissimi figli! E, per poterlo fare, dobbiamo ricordare che siamo stati in certo qual modo segregati, prescelti: «segregatus in Evangelium Dei» (Rm 1,1).

Le esigenze del nostro ministero esigono un totale dono di sé e ci staccano da ogni vincolante o equivoco legame col mondo; ma al tempo stesso ci fanno pensare che siamo stati costituiti per il mondo, per la sua elevazione e santificazione, per la sua animazione e consacrazione. Guai al Pastore che dimenticasse anche l’unica pecorella, perché di tutte gli sarà chiesto conto: è la tradizione biblica, profetica ed evangelica, che ce lo ricorda con temibile severità. La carità di Cristo, che ci ha conferito il carisma della potestà pastorale, ce lo ha conferito per tutti gli uomini e, in modo particolare, per «coloro che in qualsiasi maniera si sono allontanati dalla vita della carità, oppure ignorano ancora il Vangelo e la sua misericordia salvifica» (Decr. Christus Dominus, CD 11).

Fratelli e Figli carissimi,

Queste le voci che, in questa basilica, presso la Tomba di Pietro, tra l’assemblea orante qui presente, risuonano oggi alle nostre orecchie, e che abbiamo cercato di captare, pur cogliendo solo qualche parte della ricchezza del messaggio che esse ci portano. Ma la meditazione continua. Per voi specialmente nuovi «fratres nostri apostoli ecclesiarum, gloria Christi» (2Co 8,23), affinché, per usare ancora le parole di S. Paolo, voi «sappiate come comportarvi nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivo, colonna e sostegno della verità» (Cfr. 1Tm 3,15). E l’impegno di fare tesoro di questa ora di grazia non si ferma qui. Ce lo auguriamo a vicenda. Nel proseguire la Messa, uniti al Cristo Sommo Sacerdote e Pastore, che tutti ci santifica e presenta al Padre nella rinnovazione dell’unico sacrificio redentore, chiederemo a Lui che ce ne dia l’intelligenza sempre più amorosa, e attenta, e completa. E, con l’intelligenza, ci dia la grazia per vivere in comunione col Popolo di Dio la nostra vocazione.



Mercoledì, 16 febbraio 1972: SACRO RITO DELLE CENERI NELLA BASILICA VATICANA

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Le Ceneri: questa parola concentra per noi cattolici una grande ricchezza di elementi dottrinali, i quali sono, più o meno, a tutti noti. Il rito dell’imposizione delle ceneri è un rito di penitenza, che nella liturgia odierna conduce il pensiero dei fedeli ad una duplice considerazione:

1. La fragilità estremamente effimera della vita presente, con la conseguente classificazione dei veri valori a cui deve tendere l’impiego delle nostre forze nel fugace e prezioso lasso di tempo a noi concesso per bene operare: prima del dissolvimento nelle ceneri della morte la nostra esistenza deve ricordarsi di conquistare quei titoli non vani e non caduchi, cioè i meriti davanti a Dio, che le assicurino una condizione felice nella sopravvivenza futura, disingannandola dal mettere il suo cuore nell’affannosa e peccaminosa ricerca, come fosse unica e suprema, di quei beni, che il tempo seduttore offre e divora. È una meditazione molto severa e realista sul nichilismo della vita temporale, a cui la morte tutti ci condanna. È una scossa psicologica e morale di grande efficacia; non ci dispiaccia di farne la sincera, umiliante, ma benefica esperienza. Assorbiti e incantati come siamo dall’attualismo, dall’attivismo, dall’edonismo della vita moderna dobbiamo apprezzare l’antico ed austero richiamo che la liturgia della Chiesa oggi ci rivolge, come a gente da svegliare da un assopimento funesto ad una chiarezza di giudizio sulla vera concezione della nostra esistenza, su cui incombe inesorabile l’insidia della fine temporale e il mistero della sorte futura.


ESPIAZIONE E RIFORMA

2. L’altra considerazione, sulla quale la pedagogia liturgica insisterà più a lungo è quella della penitenza. La quale esigerebbe anche più diffusa meditazione; e sappiamo perché. Penitenza vuol dire riforma, vuol dire espiazione; riforma ed espiazione che suppongono turbati i nostri rapporti con Dio; suppongono un disordine fatale fra noi e Dio; suppongono quella frattura dell’anello di congiunzione della nostra vita e del suo destino alla sorgente della vera Vita, che è Dio, la quale frattura si chiama peccato, la disgrazia più grave che possa capitare all’uomo, perché genera la sua morte eterna, ora differita, ma per sé già decretata; e anche perché l’uomo da sé non avrebbe rimedio a tanta rovina. L’uomo da sé è capace di perdersi, non di salvarsi. La penitenza si riferisce al peccato; e il peccato al distacco dal Dio vivente. Anche questo è un tema assai grave, che deve tenere sempre in sospeso i nostri spiriti, specialmente durante il prossimo periodo quaresimale, il quale è appunto rivolto alla ricerca della riparazione di questa sventura, ch’è il peccato; e la ricerca ci conduce alla sublime e straordinaria fortuna, operata da Cristo, della nostra salvezza, cioè al mistero pasquale.

La Pasqua è la redenzione compiuta da Cristo, ed è per noi la vita.

Sì, Cristo ci salva; Egli è la unica causa meritoria della nostra giustificazione. Raggiunto Lui, è raggiunta la salvezza. Teniamo bene presente questa fondamentale dottrina: solo Cristo ci salva. Come risulta dalla teologia, che l’apostolo S. Paolo specialmente illustrò e propugnò, in termini più chiari nella lettera ai Romani ed in quella ai Galati: Cristo è necessario, Cristo è sufficiente.


L'AZIONE SALVATRICE DEL SIGNORE

Ma detto questo sorge una complessa questione: come arrivare a Cristo? Basta la fede? Sì, basta per sé all’efficienza dell’operante sua misericordia; ma la fede a sua volta comporta delle disposizioni; e queste dipendono anche dalla nostra libera volontà, dalla nostra cooperazione sotto l’influsso della grazia. Cristo è la causa; la fede è la prima disposizione, la quale tuttavia ne comporta un’altra, che ora, con un termine solo, chiamiamo penitenza.

Che cosa ci insegna in proposito la prima predicazione del Vangelo? Disse il Battista: «Fate penitenza, e si avvicinerà a voi il regno dei cieli» (
Mt 3,2). Esortazione che Cristo ripete (Cfr. Mt 4,17), e che l’evangelista S. Marco riporta così: «Il tempo è compiuto, e il regno di Dio è vicino; fate penitenza e credete al Vangelo» (Mc 1,15). Questo ci indica l’importanza propedeutica, preparatoria della penitenza; la sua relativa necessità nel piano logico e pratico della salvezza, nel quale la libertà umana e una certa collaborazione da parte nostra non possono mancare. Non possono mancare, come disposizione, perché l’azione salvatrice del Signore possa essere in noi operante; non dopo la ottenuta giustificazione, come frutto coerente e fecondo della grazia vivente nell’anima. Abbiamo bisogno sempre di questa esercitazione penitenziale. Anche per un’altra ragione più profonda, ben nota alle anime penitenti; che è quella della solidarietà nell’economia della salvezza: vi è chi può espiare per altri, in modo infimo, ma analogo a quello di Gesù, che non per Sé, ma per noi soffrì la morte di croce; e come c’insegna ancora S. Paolo, scrivendo ai Colossesi: «Io compio nella mia carne ciò che manca alle sofferenze di Cristo» (Col 1,24).

Eccoci dunque noi pure trascinati nel grande disegno della salvezza! La Chiesa non solo c’invita, ma ci spinge verso questa salutare disciplina della penitenza, destinandovi specialmente questo faticoso e gioioso cammino dei quaranta giorni, che ci conduce alla Pasqua. Una volta il digiuno, la sospensione dei futili divertimenti e qualche altro esercizio ascetico marcavano fortemente, anche all’esterno, questo periodo dell’agone cristiano. Oggi la disciplina canonica è mutata e addolcita; ma non è abolito il bisogno e il dovere della penitenza: l’umiltà, la coscienza del peccato, la preghiera, l’ascolto della parola di Dio, la carità e ogni opera buona vi possono dare espressione a tutti possibile. Non lasciamo passare questo «tempo propizio» (2Co 6,2). Comincia con la tristezza delle ceneri, prosegue per il sentiero stretto della penitenza, termina nella celebrazione della Pasqua di risurrezione.







Mercoledì delle Ceneri, 16 febbraio 1972: STAZIONE QUARESIMALE A SANTA SABINA

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Nel pomeriggio del 16 febbraio, mercoledì delle Ceneri, alle ore 17 Paolo VI presiede, come è ormai consuetudine, la prima stazione quaresimale sull’Aventino.

Il Papa, durante la Santa Messa celebrata nella basilica dì Santa Sabina, raggiunta processionalmente dalla chiesa abbaziale di S. Anselmo, pronuncia un’Omelia richiamando l’attenzione dei presenti sul significato della penitenza.

Paolo VI manifesta, innanzitutto, il suo compiacimento nel ritrovarsi ancora una volta insieme con la devota assemblea all’inizio del periodo quaresimale, consacrato in modo particolare alla preghiera, alla riflessione, alla penitenza e, in tempi passati più che oggi, anche al digiuno. La partecipazione del Papa al rito indica l’importanza che egli intende attribuire sia ad esso, sia a quelli che lo seguiranno fino alla Pasqua. Non si tratta di ripetere gesti, cerimonie, preghiere incomprensibili per i nostri tempi. Non sono atti anacronistici. Il Papa riafferma chiaramente l’attualità della Quaresima, di questo tempo di spiritualità orante e penitente che la Chiesa propone ai fedeli affinché si preparino alla degna celebrazione e al degno frutto del Mistero Pasquale. Non è vano, non è superfluo, per arrivare al Cristo risorto, anteporre questo periodo in cui ciascuno, secondo le sue possibilità e nei modi indicati dalla Chiesa, si propone di disporsi alla Pasqua.

In realtà, il nostro tempo dimostra una scarsa consonanza, per non dire una certa sordità, a questo invito. Ma il nostro tempo è anche il tempo delle grandi imprese e ci insegna, più che mai, la necessità della preparazione delle opere. Non si arriva a determinati risultati senza il tirocinio, la predisposizione, il preciso disegno, senza premettere il pensiero alle realizzazioni. La «psicologia della preparazione» è tipica del nostro tempo, ce la propongono i figli di questo secolo. Tuttavia si fa avanti un’obiezione di fondo radicale incalzante: non si vedono più i motivi di una preparazione come questa. La penitenza, come il Papa ha avuto modo di sottolineare al mattino, durante il rito dell’imposizione delle Ceneri, presuppone il peccato, mentre il nostro tempo ha perduto la coscienza del peccato. Se ancora ne resta qualche segno, lo soffoca. L’uomo di oggi non vuole sentirsi peccatore, vuole piuttosto coonestare ogni azione con la tolleranza, con la licenza. La chiamano «morale permissiva» e tende a liberare l’uomo da tutti i vincoli che i moralisti, i canonisti e gli asceti hanno imposto alla sua coscienza. Quando si arriva all’incontro fra la mentalità corrente e la mentalità che si rifà alla realtà del peccato, in gran parte misteriosa ma d’altra parte vivissima nel nostro spirito, sembra di trovarsi come fuori fase. Ma le ragioni di questa disciplina sono ancora attuali, perché le nostre azioni hanno una relazione diretta con Dio. Quando non sono sulla linea che Dio ha tracciato, allora la deviazione rompe la nostra comunicazione con il Signore. Questa rottura è per noi una grande disgrazia, può essere fatale; il peccato può essere mortale, può compromettere cioè il nostro destino eterno. Se siamo coscienti di questa realtà, allora diventa logico e desiderabile essere chiamati all’espiazione, allo sforzo verso il ricongiungimento del «filo spezzato» che ci rimette in comunicazione con la sorgente della vita, cioè con Dio.

Il Santo Padre si rivolge, a questo punto, in modo particolare ai religiosi e alle religiose presenti, a quanti cioè si trovano sul cammino erto e rettilineo della perfezione. Essi ben sanno quale impegno sia necessario per mantenere, per svolgere e per approfondire la perfezione cercata e voluta. Lo vediamo documentato nella vita dei Santi. Quanto più un’anima è vicina alla perfezione, tanto più ha il senso, quasi abissale, della sua imperfezione, dei suoi peccati. Non è fantasia, non è immaginazione. È la percezione della realtà del mondo spirituale, che ci mostra come la sproporzione fra quello che siamo e quello che dovremmo essere, fra quello che siamo e quello che è quel Dio che andiamo cercando e che vogliamo conquistare, esiga da noi una tensione, uno sforzo, un sacrificio. Se vogliamo veramente imitare Cristo, dobbiamo accettare le sue parole non come un invito retorico, ma come un programma vincolante che impone tanta riflessione: «Chi mi ama mi segua; ciascuno prenda la sua Croce e la porti».

Nasce da qui una domanda sostanziale: vogliamo un cristianesimo facile o vogliamo un cristianesimo forte? La tentazione del cristianesimo facile penetra oggi ovunque. Arriva anche ai religiosi e alle religiose - osserva il Papa - che dedicano la loro vita all’austerità e alla severità. Quella tentazione comincia a intaccare non solo la disciplina esteriore, come l’abito, l’orario, e così via, ma anche le radici del cristianesimo; arriva alla fede. Molto spesso ci troviamo di fronte, in libri o trattati, forme di presentazione del cristianesimo che hanno il tacito o palese proposito di renderlo accettabile, di renderlo, come si dice, «credibile». Questi maestri, che sono discepoli del secolo più che del Vangelo, non osano forse intaccare le verità basilari, che invece restano superiori ad ogni nostra intelligenza? Sta il fatto che nella scuola, nella pedagogia moderna è diffuso il tentativo di rendere facile il cristianesimo, di sfrondarlo di tutto ciò che disturba, sia in campo dottrinale, sia nel campo pratico, quello cioè dei comandamenti. Si tende a eliminare ogni inciampo, per lasciare che l’uomo viva di spontaneità, in pienezza di vita, in modo autonomo. Commettendo un grande errore psicologico, si pensa di presentare ai giovani un cristianesimo facile, senza tante regole, senza tanti pesi e tanti scrupoli, un cristianesimo comodo. Si cerca cioè di rendere facile quello che ancora soprattutto preme, cioè la professione cristiana.

Ci si appella, nota Paolo VI, anche ai testi evangelici. Si dice che il Signore è buono, che ci ha liberati nella verità, e che si deve quindi consentire a chi vuol essere cristiano di seguire una linea di spontaneità e di libertà. Si propone un cristianesimo facile, privo del grande segno pregnante della Croce. La Croce viene considerata come un segno ornamentale e simbolico. Ancora, fortunatamente, non è scomparsa dagli uffici pubblici, dalle scuole, e tanto meno dalle chiese. Resta lì. Ma riflette ancora sulle anime lo stampo del suo esempio e l’eloquenza della sua filosofia, della sua teologia, della sua pedagogia? Sulle pagine del Vangelo troviamo che il Signore, quando ci ha presentato il cristianesimo, non ha esitato a sfidare la popolarità della sua predicazione, manifestando le esigenze severe del cristianesimo stesso. Ha detto che la via per il Regno dei Cieli è stretta e faticosa, e che quanti preferiscono la strada larga si perdono. Lo stesso discorso della montagna, che sembra un inno di gioia, segna le pretese nuove del cristianesimo vero, quel cristianesimo che non si formalizzerà per delle manifestazioni esteriori, esigendo invece dei sentimenti interiori. La severità delle parole di Cristo ci fa tremare, ci avverte che siamo infedeli, manchevoli, poveri seguaci del Signore. Tutta la vita cristiana è caratterizzata da una grande severità. Lo stesso Apostolo che è considerato il grande liberatore, dice: «Io castigo il mio corpo, e lo riduco in schiavitù, affinché, dopo aver predicato agli altri, non diventi reprobo io stesso». San Paolo è severo, austero: «Sono inchiodato, con Cristo, sulla Croce».

Anche San Benedetto, come del resto tutta la progenie, la tradizione del cristianesimo, raccoglierà senza attenuarla questa grande lezione e farà dei veri seguaci di Cristo. La formula che dobbiamo far rivivere nella nostra generazione è quella di un cristianesimo forte, che abbia padronanza di sé, che sia capace di portare quella Croce la quale è necessaria per ricomporre l’armonia del nostro essere. L’uomo - ricorda Sua Santità - è un essere scomposto, è una macchina dislocata. In noi c’è qualcosa di non ordinato: sono le conseguenze del peccato originale. Per ricreare l’armonia, la capacità di colloquio con Dio, di amore per il prossimo, di azioni oneste occorre un grande sforzo. Non viene da sé. Bisogna che ci concentriamo sopra noi stessi, per imporci una legge di mortificazione, di penitenza, di sacrificio. Dobbiamo segnare noi stessi del segno della Croce. Ed è allora che ci sentiamo di essere più autentici, cioè più fedeli, più seguaci, più vicini agli esempi e ai precetti del Signore, e sentiamo che in noi si risveglia un’energia particolare.

Se avvertite il naturale senso di pena - precisa l’augusto Celebrante - quando vi imponete qualche sacrificio per amore del Signore, per l’osservanza della sua legge, per riflettere nelle vostre vite la sua sollecitudine, sentite anche la gioia di essere veramente fedeli, la forza di fare ciò che vi sembrava prima tanto difficile.

L’esortazione del Santo Padre non si riferisce alle severità fisiche, come per esempio a grandi digiuni oggi incompatibili con le esigenze della vita moderna, così permeata di impegni, così attiva che non consente di castigare la propria povera esistenza con artificiali mortificazioni. Gli antichi maestri ci parlano di una penitenza interiore, quella che i greci chiamavano «pneumatica», cioè dello spirito. Anche il Signore ce ne parla. E questa è possibile a tutti. Avvertiamo che la nostra cella interiore è invasa attualmente da tante immagini, suoni, voci, da tanta profanità che provengono dal mondo moderno. La Quaresima ci invita a imporci qualche silenzio, qualche riguardo, a metterci a colloquio con noi stessi. Il Papa ricorda, in proposito, quanto fu scritto di San Benedetto: Secum vivebat.

Per realizzare il colloquio interiore con noi stessi dobbiamo imporci un po’ di raccoglimento, di silenzio, di distacco dall’ambiente che ci distrae. È questo la penitenza, il recupero delle nostre energie e del nostro essere. Questo è diventare veramente cristiani. Paolo VI invita i presenti ad ascoltare più attentamente, nel periodo che prepara alla Pasqua, la parola del Signore, a cercare di essere veramente i correttori di se stessi, ma anche a cercare di fare il bene degli altri. Richiamando le letture della Messa, il Papa sottolinea che la penitenza non è una chiusura dell’anima; è piuttosto uno sforzo perché essa si apra al bene, all’effusione di sé per il conforto e per l’elevazione altrui. «La raccomando a voi, - egli conclude - la predico a voi, e mi sento tanto felice di sapere che voi non solo ascoltate queste parole, ma le praticate nel nome di Cristo».



Domenica, 27 febbraio 1972: STAZIONE QUARESIMALE NELLA PARROCCHIA DI SAN PIER DAMIANI


B. Paolo VI Omelie 20272