B. Paolo VI Omelie 29102

Domenica, 29 ottobre 1972: SOLENNE BEATIFICAZIONE DEL SACERDOTE MICHELE RUA

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Venerabili Fratelli e Figli carissimi!

Benediciamo il Signore!

Ecco: Don Rua è stato ora da noi dichiarato «beato»!

Ancora una volta un prodigio è compiuto: sopra la folla della umanità, sollevato dalle braccia della Chiesa, quest’uomo, invaso da una levitazione che la grazia accolta e secondata da un cuore eroicamente fedele ha reso possibile, emerge ad un livello superiore e luminoso, e fa convergere a sé l’ammirazione e il culto, consentiti per quei fratelli che, passati all’altra vita, hanno ormai raggiunta la beatitudine del regno dei cieli.


BONTÀ , MITEZZA, SACRIFICIO

Un esile e consunto profilo di prete, tutto mitezza e bontà, tutto dovere e sacrificio, si delinea sull’orizzonte della storia, e vi resterà ormai per sempre: è Don Michele Rua, «beato»!

Siete contenti? Superfluo chiederlo alla triplice Famiglia Salesiana, che qui e nel mondo esulta con noi, e che trasfonde la sua gioia in tutta la Chiesa. Dovunque sono i Figli di Don Bosco, oggi è festa. Ed è festa specialmente per la Chiesa di Torino, patria terrena del nuovo Beato, la quale vede inserita nella schiera possiamo dire moderna dei suoi eletti una nuova figura sacerdotale, che ne documenta le virtù della stirpe civile e cristiana, e che certo ne promette altra futura fecondità.

Don Rua, «beato». Noi non ne tracceremo ora il profilo biografico, né faremo il suo panegirico. La sua storia è ormai a tutti ben nota. Non sono certamente i bravi Salesiani, che lasciano mancare la celebrità ai loro eroi; ed è questo doveroso omaggio alle loro virtù che, rendendoli popolari, estende il raggio del loro esempio e ne moltiplica la benefica efficacia; crea l’epopea, per l’edificazione del nostro tempo.

E poi, in questo momento nel quale la commozione gaudiosa riempie i nostri animi, preferiamo piuttosto meditare che ascoltare. Ebbene meditiamo, un istante, sopra l’aspetto caratteristico di Don Rua, l’aspetto che lo definisce, e che con un solo sguardo ce lo dice tutto, ce lo fa capire. Chi è Don Rua?

È il primo successore di Don Bosco, il Santo Fondatore dei Salesiani. E perché adesso Don Rua è beatificato, cioè glorificato? è beatificato e glorificato appunto perché suo successore, cioè continuatore: figlio, discepolo, imitatore; il quale ha fatto con altri ben si sa, ma primo fra essi, dell’esempio del Santo una scuola, della sua opera personale un’istituzione estesa, si può dire, su tutta la terra; della sua vita una storia, della sua regola uno spirito, della sua santità un tipo, un modello; ha fatto della sorgente, una corrente, un fiume. Ricordate la parabola del Vangelo: «il regno dei cieli è simile a grano di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo; esso è tra i piccoli di tutti i semi, ma quando è cresciuto è tra i più grandi di tutti gli erbaggi e diventa pianta, tanto che gli uccelli del cielo vengono a riposarsi fra i suoi rami» (
Mt 13,31-32). La prodigiosa fecondità della famiglia Salesiana, uno dei maggiori e più significativi fenomeni della perenne vitalità della Chiesa nel secolo scorso e nel nostro, ha avuto in Don Bosco l’origine, in Don Rua la continuità. È stato questo suo seguace, che fin dagli umili inizi di Valdocco, ha servito l’opera Salesiana nella sua virtualità espansiva, ha capito la felicità della formula, l’ha sviluppata con coerenza testuale, ma con sempre geniale novità. Don Rua è stato il fedelissimo, perciò il più umile ed insieme il più valoroso dei figli di Don Bosco.


UNA TRADIZIONE GLORIOSA

Questo è ormai notissimo; non faremo citazioni, che la documentazione della vita del nuovo Beato offre con esuberante abbondanza; ma faremo una sola riflessione, che noi crediamo, oggi specialmente, molto importante; essa riguarda uno dei valori più discussi, in bene ed in male, della cultura moderna, vogliamo dire della tradizione.

Don Rua ha inaugurato una tradizione. La tradizione, che trova cultori e ammiratori nel campo della cultura umanistica, la storia, per esempio, il divenire filosofico, non è invece in onore nel campo operativo, dove piuttosto la rottura della tradizione - la rivoluzione, il rinnovamento precipitoso, la originalità sempre insofferente dell’altrui scuola, l’indipendenza dal passato, la liberazione di ogni vincolo - sembra diventata la norma della modernità, la condizione del progresso, Non contestiamo ciò che vi è di salutare e di inevitabile in questo atteggiamento della vita tesa in avanti, che avanza nel tempo, nell’esperienza e nella conquista delle realtà circostanti; ma metteremo sull’avviso circa il pericolo e il danno del ripudio cieco dell’eredità che il passato, mediante una tradizione saggia e selettiva, trasmette alle nuove generazioni. Non tenendo nel debito conto questo processo di trasmissione, noi potremmo perdere il tesoro accumulato della civiltà, ed essere obbligati a riconoscerci regrediti, non progrediti, e a ricominciare da capo un’estenuante fatica. Potremmo perdere il tesoro della fede, che ha le sue radici umane in determinati momenti della storia che fu, per ritrovarci naufraghi nel pelago misterioso del tempo, senza più avere né la nozione, né la capacità del cammino da compiere. Discorso immenso, ma che sorge alla prima pagina della pedagogia umana, e che ci avverte, se non altro, quale merito abbia ancora il culto della sapienza dei nostri vecchi, e per noi, figli della Chiesa, quale dovere e quale bisogno noi abbiamo di attingere dalla tradizione quella luce amica e perenne, che dal lontano e prossimo passato proietta i suoi raggi sul nostro progrediente sentiero.


CI INSEGNA AD ESSERE DISCEPOLI D'UN SUPERIORE MAESTRO

Ma per noi il discorso, davanti a Don Rua, si fa semplice ed elementare, ma non per questo meno degno di considerazione. Che cosa c’insegna Don Rua? Come ha egli potuto assurgere alla gloria del paradiso e all’esaltazione che oggi la Chiesa ne fa? Precisamente, come dicevamo, Don Rua c’insegna ad essere dei continuatori; cioè dei seguaci, degli alunni, dei maestri, se volete, purché discepoli d’un superiore Maestro. Amplifichiamo la lezione che da lui ci viene: egli insegna ai Salesiani a rimanere Salesiani, figli sempre fedeli del loro fondatore; e poi a tutti egli c’insegna la riverenza al magistero, che presiede al pensiero e alla economia della vita cristiana. Cristo stesso, come Verbo procedente dal Padre, e come Messia esecutore e interprete della rivelazione a lui relativa, ha detto di Sé: «la mia dottrina non è mia, ma è di Colui che mi ha mandato» (Jn 7,16).

La dignità del discepolo dipende dalla sapienza del Maestro. L’imitazione nel discepolo non è più passività, né servilità; è fermento, è perfezione (Cfr. 1Co 4,16). La capacità dell’allievo di sviluppare la propria personalità deriva infatti da quell’arte estrattiva, propria del precettore, la quale appunto si chiama educazione, arte che guida l’espansione logica, ma libera e originale delle qualità virtuali dell’allievo. Vogliamo dire che le virtù, di cui Don Rua ci è modello e di cui la Chiesa ha fatto titolo per la sua beatificazione, sono ancora quelle evangeliche degli umili aderenti alla scuola profetica della santità; degli umili ai quali sono rivelati i misteri più alti della divinità e dell’umanità (Cfr. Mt 11,25).

Se davvero Don Rua si qualifica come il primo continuatore dell’esempio e dell’opera di Don Bosco, ci piacerà ripensarlo sempre e venerarlo in questo aspetto ascetico di umiltà e di dipendenza; ma noi non potremo mai dimenticare l’aspetto operativo di questo piccolo-grande uomo, tanto più che noi, non alieni dalla mentalità del nostro tempo, incline a misurare la statura d’un uomo dalla sua capacità d’azione, avvertiamo d’avere davanti un atleta di attività apostolica che, sempre sullo stampo di Don Bosco, ma con dimensioni proprie e crescenti, conferisce a Don Rua le proporzioni spirituali ed umane della grandezza. Infatti missione grande è la sua. I biografi ed i critici della sua vita vi hanno riscontrato le virtù eroiche, che sono i requisiti che la Chiesa esige per l’esito positivo delle cause di beatificazione e di canonizzazione, e che suppongono e attestano una straordinaria abbondanza di grazia divina, prima e somma causa della santità.

La missione che fa grande Don Rua si gemina in due direzioni esteriori distinte, ma che nel cuore di questo poderoso operaio del regno di Dio s’intrecciano e si fondono, come di solito avviene nella forma dell’apostolato che la Provvidenza a lui assegnò: la Congregazione Salesiana e l’oratorio, cioè le opere per la gioventù, e quante altre fanno loro corona. Qui il nostro elogio dovrebbe rivolgersi alla triplice Famiglia religiosa che da Don Bosco dapprima e poi da Don Rua, con lineare successione ebbe radice, quella dei Sacerdoti Salesiani, quella delle Figlie di Maria Ausiliatrice, e quella dei Cooperatori Salesiani, ognuna delle quali ebbe meraviglioso sviluppo sotto l’impulso metodico e indefesso del nostro Beato. Basti ricordare che nel ventennio del suo governo da 64 case salesiane, fondate da Don Bosco durante la sua vita, esse crebbero fino a 314. Vengono alle labbra, in senso positivo, le parole della Bibbia: «Qui vi è il dito di Dio!» (Ex 8,19). Glorificando Don Rua, noi rendiamo gloria al Signore, Che ha voluto nella persona di lui, nella crescente schiera dei suoi Confratelli e nel rapido incremento dell’opera Salesiana manifestare la sua bontà e la sua potenza, capaci di suscitare anche nel nostro tempo l’inesausta e meravigliosa vitalità della Chiesa e di offrire alla sua fatica apostolica i nuovi campi di lavoro pastorale, che l’impetuoso e disordinato sviluppo sociale ha aperto davanti alla civiltà cristiana. E salutiamo, festanti con loro di gaudio e di speranza, tutti i Figli di questa giovane e fiorente Famiglia Salesiana, che oggi sotto lo sguardo amico e paterno del loro nuovo Beato rinfrancano il loro passo sulla via erta e diritta dell’ormai collaudata tradizione di Don Bosco.


IN CRISTO OGNI ARMONIA E FELICITÀ

Poi le opere Salesiane si accendono davanti a noi illuminate dal Santo Fondatore e con novello splendore del Beato continuatore. È a voi che guardiamo, giovani della grande scuola Salesiana! Vediamo riflesso nei vostri volti e splendente nei vostri occhi l’amore di cui Don Bosco e con lui Don Rua e tutti i loro Confratelli di ieri e di oggi, e certo di domani, vi ha fatto magnifico schermo. Quanto siete a noi cari, quanto siete per noi belli, quanto volentieri vi vediamo allegri, vivaci e moderni; voi siete giovani cresciuti e crescenti in codesta multiforme e provvidenziale opera Salesiana! Come preme sul cuore la commozione delle straordinarie cose che il genio di carità di San Giovanni Bosco e del Beato Michele Rua e dei mille e mille loro seguaci ha saputo produrre per voi; per voi, specialmente, figli del popolo, per voi, se bisognosi di assistenza e di aiuto, di istruzione e di educazione, di allenamento al lavoro e alla preghiera; per voi, se figli della sventura, o confinati in terre lontane aspettate chi vi venga vicino, con la sapiente pedagogia preventiva dell’amicizia, della bontà, della letizia, chi sappia giocare e dialogare con voi, chi vi faccia buoni e forti facendovi sereni e puri e bravi e fedeli, chi vi scopra il senso e il dovere della vita, e vi insegni a trovare in Cristo l’armonia d’ogni cosa! Anche voi oggi noi salutiamo, e vorremmo tutti voi, alunni piccoli e grandi della gioconda studiosa e laboriosa palestra Salesiana, e con voi tanti vostri coetanei delle città e delle campagne, voi delle scuole e dei campi sportivi, voi del lavoro e della sofferenza, e voi delle nostre aule di catechismo e delle nostre chiese, sì, vorremmo tutti un istante chiamarvi sull’«attenti!», ed invitarvi a sollevare gli sguardi verso questo nuovo Beato Don Michele Rua, che vi ha tanto amati e che ora per mano nostra, la quale vuol essere quella di Cristo, a uno a uno, e tutti insieme vi benedice.





Domenica, 12 novembre 1972: SOLENNE BEATIFICAZIONE DI SUOR AGOSTINA PIETRANTONI

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O Fratelli! O Sorelle! Poesia dovrebbe essere il nostro discorso! Parola che cede al silenzio la pienezza ineffabile del suo significato.

Poiché l’atto liturgico e ufficiale che noi ora abbiamo compiuto, quello di autorizzare la Famiglia religiosa delle Suore della Carità, e con lei la Chiesa Romana e la Chiesa di Dio a celebrare Beata l’umile Suora Agostina Pietrantoni, ci riempie di ammirazione e di commozione, che superano la capacità espressiva del linguaggio ordinario, e narrando una storia, che pare leggenda, tanto è semplice, limpida, pura, amorosa, e alla fine tanto è dolorosa e tragica, anzi, ancor più, tanto è simbolica, la parola vorrebbe farsi canzone, come quella che lascia intravedere il profilo di una fanciulla innocente, di una vergine candida e taciturna, di una sposa votata all’Amore assoluto, d’una donna forte, che fa dono della propria vita alla carità dei poveri e degli infermi, d’una vittima inerme del proprio quotidiano eroico servizio, paga che a soli trent’anni si compia il suo intimo voto di fare della propria vita martirio a Gesù, testimonianza a quanti hanno occhi per vedere, cuore per comprendere, a noi, dunque, a noi tutti.

Ma poeti non siamo. Ciascuno di voi, che conosca il profilo biografico della nuova Beata, e ciascuna di voi Sorelle sue specialmente, che per tanti titoli ne seguite gli esempi e ne condividete le esperienze, può comporre questo cantico dolce e pio.

La prima strofa è un ritmo georgico. C’era una volta, e ancora c’è con volto nuovo, un villaggio chiamato Pozzaglia, nei colli della Sabina, circondato da poveri campi e da ulivi d’argento; c’era una Parrocchia, oggi gloriosa, che dava a quel popolo buono fede e preghiera, un’anima cristiana; e c’era là una casa benedetta, nido pieno di voci infantili, tra le quali, precocemente saggia, quella di Oliva, chiamata poi Livia, che cambierà il nome domestico in quello religioso di Agostina, la nostra Beata; una casa dove, secondo una rustica, ma espressiva testimonianza, «tutti badavano a far bene e si pregava spesso». Qui piacerebbe sostare, e ascoltare la lezione del paesaggio e quella del focolare, e incontrare lei, vederla e conoscerla alla scuola della vita vissuta; quadro idilliaco, se non sapessimo quanto aggravato di cure familiari e di pesante lavoro.

Poi il canto si fa sommesso, e sembra un segreto respiro, un monologo, un dialogo da innamorati. Dobbiamo attingerlo alla Sacra Scrittura per indovinarne alcune sillabe: «La voce del mio diletto! Ecco egli viene, a salti per i monti, a balzi per i poggi . . . Parla il mio diletto e mi dice: sorgi, affrettati, amica mia, colomba mia, bella mia, e vieni!» (
Ct 2, 8, 10). Il «Cantico dei Cantici» ci insegna certi sentieri della lirica amorosa, che trascendono dall’orizzonte dei sentimenti umani a quello del colloquio contemplativo. Livia schiva, timida e pudica, ma fatta audace dalla voce che parla dentro, la vocazione, si arrende: Cristo sarà l’amore, Cristo lo Sposo. Qui la vostra attenzione si fa più avida, e quasi indiscreta! Livia, Suor Agostina, dì a noi qualche cosa di cotesto segreto: che cosa è una vocazione? come sorge? come si ascolta, come può una vocazione tutto chiedere, tutto dare e riempire il cuore d’una ragazza pia, onesta, laboriosa, ma priva di cultura più che elementare e senz’altra assistenza spirituale che quella ordinaria e comune ad una fedele parrocchiana, come riempirlo di tanta sicurezza, di tanto coraggio, di tanta incomprensibile felicità?

L’interesse di questo caso agiografico sveglia in noi quello d’ogni altro caso simile, e non più poetico, ma un interesse psicologico e scientifico. La vocazione religiosa, che qui troviamo quasi in un pronunciamento spontaneo, come si spiega? incantesimo devoto, favorito dalla estrema semplicità dell’esperienza esteriore? follia giovanile, sempre predisposta a scelta fuori della normalità? intuizione dell’Amore assoluto, che supera il linguaggio nativo dell’istinto, della passione, dell’imitazione, dell’interesse, e si pone come necessario e sufficiente? donde questa magia interiore e che spinge, fuori d’ogni pavidità, al rischio e all’avventura dell’eroismo? quali sono i vincoli dell’amore, i funiculi caritatis (Cfr. Os. Os 11,4), che hanno spezzato i vincoli della vanità, i funiculi vanitatis (Is 5,18), che sembrano per un cuore di giovane donna infrangibili? L’interrogazione rimane sospesa e attende erudita adeguata risposta dei maestri di spirito; ma intanto riprenderemo il nostro canto menzionando, non fosse che con note troppo fugaci, due coefficienti d’una vocazione virginale e generosa, quale ammiriamo nella Beata Agostina; uno esteriore, l’ambiente propizio, per Livia Pietrantoni, arcaico ed agreste, nel quale il costume cristiano aveva espressione tanto spoglia di agi moderni, quanto adorna di umane virtù; l’altro coefficiente è interiore e misterioso, la grazia; la grazia specifica della vocazione, un carisma, una voce, «che non tutti sanno cogliere» (Mt 10,11 1Co 7,7).

Oggi questi due coefficienti difficilmente si accordano; ambiente esteriore e voce interiore; ed è il loro disaccordo una delle cause che fanno registrare la diminuzione delle anime valorose, che offrono a Dio e al servizio del prossimo la loro vita. Ma non è da sperare che l’esempio di Suor Agostina renda sensibili, anche in mezzo al fragore febbrile e alle provocazioni profane del costume moderno, anime nuove al richiamo incessante e incomparabile del divino Maestro da un lato, del fratello bisognoso dall’altro?

Livia aveva ascoltato e partì. Qui il canto intreccia l’elegia al salmo. Livia bacia la porta della sua casa, vi traccia un segno di croce, e corre via. Sembra che l’eco delle parole di Gesù risuoni nell’aria: Se uno non lascia «suo padre e sua madre e la moglie e i figli e i fratelli e le sorelle, e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Questo primo momento è il più acutamente sentito per chi vuol essere seguace della vocazione; e la piaga dello strappo rimarrà quèta, ma aperta tutta la vita. E a tanto dolore non è, lì per lì, rimedio il genere di esistenza che comincia e che non finirà più, la vita religiosa, con l’abito impossibile, con l’orario inflessibile, con l’obbedienza implacabile, con la vita comune spesso intollerabile, con il lavoro umiliante e incessante. L’eco continua: «e chi non porta la sua croce e non mi segue, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26-28).

Ma dov’è arrivata questa ingenua fuggitiva? Oh! chi non lo sa? è arrivata fra le Suore della Carità di S. Giovanna Antida Thouret. E qui il canto squilla di vivacità, di entusiasmo e di gioia. Sono le Suore che ben conosciamo, della Carità, le quali, anch’esse nel nome di San Vincenzo de’ Paoli, emule e sorelle delle Figlie della Carità, hanno, com’è stato ben detto, «l’intelligenza del Povero»! Parola del Salmo: «Beato colui che ha l’intelligenza del misero e del Povero» (Ps 40,2). Vaticinio che precede le beatitudini evangeliche e ne prolunga nei secoli la risonanza suscitando nella Chiesa di Cristo opere come questa della Thouret, educatrice delle sue Religiose, col grido di «Dio solo!» ad un paradossale proposito: volare! «Le Suore - dice la Santa Fondatrice - voleranno a soccorrere l’indigenza con tutto il loro potere!».

Ed ecco sorgere una delle più fiorenti famiglie religiose del cattolicesimo in questi ultimi tempi, che col benessere della nuova società hanno ad essa svelato ed anche in parte prodotto innumerevoli sofferenti, bisognosi, derelitti, piccoli ed anziani, da assistere, da ospitare, da curare, da amare e, come suona l’impegno delle Suore della Carità, da glorificare. Il programma non era nuovo nella Chiesa; l’ospedale di Santo Spirito, primo nel suo genere, lo attesta; e qui, eredi d’una tradizione secolare, le Suore della Carità trovarono un campo di lavoro estremamente fecondo di dolore umano, di perizia medica e di amore evangelico. Qui Agostina ebbe ciò che desiderava: consumarsi nel sacrificio di sé per il bene del prossimo sofferente; qui condivise con i suoi malati tubercolotici la loro condanna, allora inguaribile, qui per sette anni si prodigò, umile, gentile, indefessa, col presentimento, anzi col preannuncio, della sua perfida e tragica fine: il 13 novembre 1894.

Conoscete la barbara storia che spegne sotto le coltellate la sua giovane e candida vita, e intreccia sul suo capo la duplice corona di vergine e martire.

Ritornano alla mente le parole celebri di Sant’Ambrogio in onore di Sant’Agnese: «(oggi) è il giorno natalizio d’una vergine; seguiamone la purezza. È il giorno natalizio d’una martire: offriamo il nostro culto al Signore» (S. AMBR. De virginibus, 2). Roma allora si scosse, ritrovò il suo epico fervore, e tributò all’ignota Agostina, vittima del suo dovere, del suo amore a Cristo ed alla sofferenza degli altri, un improvviso trionfo. Oggi la Chiesa lo ratifica e lo celebra, e autorizzando il culto dell’umile ed impavida Agostina Pietrantoni presenta in lei chi sia la Suora di Carità. Sì, è il giorno della Suora di Carità, il vostro giorno, seguaci di Santa Giovanna Antida, e con voi di quante Religiose, con pari pietà religiosa, con pari cuore generoso s’immolano fino a totale sacrificio di sé, per la vita e per la morte, sull’altare di Cristo con la formula evangelica sua propria: servire per amore, sacrificarsi per il bene altrui, nulla chiedere per sé, se non quel centuplo, che solo la vita oltre questa vita garantisce per l’eternità.

Onoriamo Agostina. Salutiamo tutte le sue Sorelle, e quante figlie della santa Chiesa, con analoga oblazione, fanno sacrificio di sé per conforto dell’umano dolore. Invitiamo il popolo a riconoscere in queste povere e grandi donne, tanto spesso deprezzate e disprezzate, le più pure, le più valenti, le più buone figlie della nostra terra, resa ancora da loro piae hostiae castitatis (IDEM Exh. Virg., 94) altare della fede e della carità.

* * *

Aux filles de sainte Jeanne-Antide Thouret, qui se réjouissent aujourd’hui de voir l’une des leurs élevée sur les autels, sont venus se joindre aujourd’hui des religieuses de divers instituts - que nous encourageons avec affection à suivre la voie des conseils évangéliques - et de nombreux pèlerins que nous tenons également à saluer. Nous savons leur souci de fidélité à la foi catholique, à l’Eglise, au Siège de Pierre. Aussi est-ce de grand coeur que nous les invitons à rejoindre, parmi leurs frères et soeurs catholiques et en collaboration confiante avec leurs Evêques - qui gardent la responsabilité de l’ensemble de la pastorale - l’immense effort conciliaire auquel toute l’Eglise est invitée. Celui-ci doit s’accomplir dans la vérité et la charité, avec une volonté de ressourcement spirituel et de témoignage apostolique, pour redonner sans cesse à l’Eglise son authentique visage et lui permettre d’annoncer la Bonne Nouvelle du Sauveur à ceux qui sont proches d’elle comme à ceux qui sont loin (Cfr. Ac 2,39).





Notte Santa, 24-25 dicembre 1972: SANTA MESSA DI MEZZANOTTE

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Amici e Signori!

Qui non è luogo di discorsi.

Ma solo d’un saluto, d’un saluto speciale per voi, Minatori, e per quanti spendono qui la loro penosa fatica, sepolti in questa galleria, che pare piuttosto ancora una caverna, e dove nonostante le macchine fragorose e prepotenti, e le luci abbaglianti e l’aria condizionata, è necessaria la presenza dell’uomo, che vi consuma le proprie energie in uno sforzo continuo e sovrumano. Che vi dovrei dire, del resto? Bravi. Forti. Meravigliosi.

Ma vi devo dare almeno una spiegazione. Non sono venuto qui per curiosità, né per alcun interesse particolare. Sono venuto per rendere onore a voi, eroi del lavoro; a voi, che penetrati nelle viscere della terra, potete pensare d’essere forse dimenticati, e che meritate invece l’ammirazione e il plauso della società, per il cui progresso voi lavorate e soffrite.

Sono venuto a benedire voi ed il vostro lavoro, e a cercare fra voi Cristo, quel Cristo che indegnamente io rappresento; perché anch’Egli è nato in una stalla, forse in una spelonca non molto migliore, né dissimile da questa, ed è poi morto inchiodato sopra una croce infamante prima, gloriosa poi. Sì, le condizioni della vostra fatica mi fanno pensare che Cristo è fra voi. Dove l’uomo suda, lavora, soffre Egli è, a suo modo, presente.

Questa notte poi è Natale: Egli vuole essere qui, per portare anche a voi un augurio di pace e di speranza ed un conforto amichevole, quello della Sua, mediante la nostra benedizione.

Alla fine il Santo Padre aggiunge queste parole: «Se scrivete alle vostre famiglie, dite pure: abbiamo incontrato il Papa, che ci ha detto di salutarvi tutti. Voi siete come dei soldati di prima linea. Dietro di voi c’è tutta la società che vi ama, vi ammira, vi sostiene» . A questo punto i minatori offrono al Papa in dono un’artistica Madonna con bambino, fatta con le loro mani, utilizzando il calcare della galleria. Il Pap,a esce sul piazzale del cantiere. Intanto il monte Soratte è diventato una grande fiaccola gigantesca. Da Sant’Oreste, che si profila in alto sopra il cantiere, fasci di luce multicolore solcano il cielo e salve di fuochi d’artificio avvivano la scena con i loro fantastici disegni. Paolo VI entra nella baracca abitualmente adibita a mensa degli operai e vi incontra una folta rappresentanza di autorità e di lavoratori, ai quali rivolge la sua parola in questi termini.

Eccoci a Voi. Siamo stati invitati, e siamo venuti. Siamo noi stessi un po’ meravigliati di questa escursione notturna. Per noi questo è un posto sconosciuto, vi arriviamo per la prima volta, sebbene esso non sia molto lontano da Roma, dove abbiamo trascorso la maggior parte della nostra vita. Ma noi abbiamo l’impressione di non essere qui forestieri. La vostra presenza, illustri e cari Signori, ce ne offre la prova, e subito ci obbliga a porgere a voi i nostri saluti. Il primo saluto lo dobbiamo alle Autorità civili, che ci hanno favorito con molta cortesia per rendere possibile e certamente felice questa nostra visita natalizia a Ponzano Romano e a S. Oreste. Salutiamo e ringraziamo di cuore. All’onorevole Bozzi, Ministro dei Trasporti del Governo Italiano, diciamo la nostra riconoscenza per aver voluto assistere a questa sacra cerimonia, nonostante la notte, il clima e la rinuncia alle abituali serene consuetudini familiari del Natale domestico, e per averci concesso di visitare questo cantiere iscritto nell’area della sua competenza governativa. Parimente e rispettosamente salutiamo ogni altra Autorità del luogo, regionali, provinciali, e comunali: ai Sindaci dei due Comuni nominati, Ponzano Romano e S. Oreste, e alle loro rispettive autorità locali, non che alle loro popolazioni, che sappiamo qui largamente rappresentate, esprimiamo la nostra grata compiacenza per averci voluto accogliere con tanta cortesia. Così siano ringraziate le Autorità militari e dell’ordine pubblico, quelle in particolar modo delle Ferrovie dello Stato, e quelle che dirigono i lavori in corso, specialmente coloro che fanno parte della Impresa SA.MO.GI., ideatrice ed esecutrice dell’opera ora da noi visitata e ammirata.

Abbiamo inoltre altri saluti da fare, e questi nel raggio ecclesiale. A lei, venerato Monsignor Roberto Massimiliani, Vescovo del luogo, e cioè delle tre Diocesi unite di Civita Castellana, Orte e Gallese, il nostro riverente saluto, come a persona da noi conosciuta e stimata da lungo tempo, e con lei siano salutati i due Parroci locali, i loro Coadiutori o Collaboratori e tutto il Clero, i Religiosi e le Religiose di questa zona, la cui storia è tanto legata, oltre che alle memorie classiche del Soratte, a quelle del Pontificato Romano: basta ricordare che Viterbo non è lontana, e che le due Parrocchie menzionate di Ponzano e di S. Oreste dipendevano dall’Abbazia, sacra alla memoria di S. Paolo alle Tre Fontane e dedicata ai Santi Vincenzo e Anastasio; ora questa Abbazia è tuttora sotto la protezione diretta del Papa, il quale perciò può riguardare, a titolo speciale, come suoi Fedeli i Parrocchiani locali, e profitta pertanto dell’incontro presente per salutarli di cuore e per esortarli ad essere degni continuatori delle loro tradizioni religiose.

Facciamo tutti il Natale insieme! Il Signore sia davvero con noi! e a tutti perciò sia salute, letizia e pace, con la nostra benedizione.



Lunedì, 25 dicembre 1972: SOLENNITÀ DEL SANTO NATALE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO

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Adesso la mia parola si rivolge principalmente a voi, Uomini del cantiere, a voi, Lavoratori, Minatori, Operai, Manovali, e a quanti con voi sono associati nell’ardua fatica, in quella fisica specialmente, la quale impone alle membra del corpo sforzo, tensione, stanchezza, e intorpidisce il pensiero.

Io voglio svegliare un momento la vostra attenzione, e rompere il sonno a cui avreste ben diritto, per dirvi innanzi tutto perché io sono venuto questa notte fra voi. Perché venuto? Perché ho una notizia da portare anche a voi. Vedete: io sono un messaggero; diciamo la parola giusta: sono un apostolo. Apostolo vuole appunto significare messaggero, cioè un uomo mandato, un portatore di notizie; nel caso mio, un portatore d’un annunzio straordinario, inviato apposta per comunicarvi una buona notizia, in termine proprio si dice un «vangelo», una comunicazione bellissima, che tutti ci riguarda, e riguarda anche voi.

Io sento venire da voi due domande; la prima: Chi ti manda? e da che parte vieni? Tu non sei il Papa, che sta a capo degli altri? chi può comandare al Papa, e mandarlo come un inviato qualunque? Ebbene, voi sapete come sono andate le cose: è stato Gesù Cristo, il Verbo di Dio fatto uomo (del Quale parleremo subito), che ha scelto dodici suoi apostoli e li ha specializzati in una particolarissima funzione, quella appunto d’essere i portatori della sua Parola e dei suoi ordini, e per ciò li ha chiamati «apostoli» (
Lc 6,13). Primo fra gli apostoli fu scelto Simone, a cui Gesù cambiò il nome: «Tu ti chiamerai Pietro!» (Jn 1,42 Mt 16,18), per significare la solidità e la perennità della funzione a lui affidata. Ebbene chi è il successore di Pietro? Voi lo sapete, è il Papa. Ebbene, ecco allora Chi mi manda; mi manda il Signore, Gesù Cristo, del quale, sì, sono l’apostolo e il vicario, ma sono nello stesso tempo il servitore, anzi, proprio in forza del ministero, cioè del servizio a me affidato, sono anche il servitore di tutti, il vostro servitore. Un servitore, che non ha altro scopo che il bene di tutti, il vostro bene, in questo momento.

E allora la vostra seconda domanda: Ebbene, quale notizia ci porti? Noi già la sappiamo: è la notizia che tutti sanno, la notizia che oggi è Natale. Vero, Figli e Fratelli carissimi: questa è la notizia, la grande notizia che io vi porto; ed è per essa che si fa festa. Ma è tale notizia ch’è sempre nuova, perché non è mai capita abbastanza; anzi molti neppure ci pensano, e molti forse nemmeno vorrebbero ricordarla. Mentre invece essa riguarda un fatto talmente straordinario che sorpassa in importanza tutti gli avvenimenti passati e futuri della storia; e il fatto è questo: il Verbo di Dio, cioè il Pensiero di Dio, ch’è Dio Lui stesso, si è fatto uomo, uomo come noi, nostro simile, nostro fratello, nascendo da Maria, Vergine e Madre, e venendo al mondo, come oggi ricordiamo, in una stalla, povero come nascendo nessuno lo fu, Lui padrone del mondo, umile, piccolo, debole, e subito disponibile per essere avvicinato dalla povera gente . . . A pensarci, viene il capogiro, per la meraviglia, per la felicità, perché davvero è così; e perché, altro aspetto stupendo, Gesù (si chiamò così, Gesù, il Cristo, cioè il Messia), venne al mondo per salvare il mondo; Gesù è il Salvatore del mondo. Tutto gira intorno a Lui, tutto si concentra in Lui: Lui è il Signore, Lui il Maestro, Lui la vita . . .

Quanto, quanto vi sarebbe da dire! Ma ora mi preme far presto, e rispondere ad un’altra domanda, che forse voi avete in testa: sì, sì, così sarà; ma questo è un fatto antico, avvenuto 1972 anni fa, in un Paese lontano, in mezzo ad altra gente . . . noi, come c’entriamo? sarà un avvenimento unico e grande, ma non ci riguarda; perché il Papa, l’apostolo di quel Signore Gesù, viene qua, da noi, a raccontarci questo avvenimento sperduto nei secoli? Noi che ne sappiamo? e infine quale interesse ne abbiamo noi?

Ebbene, proprio questo a me preme di dirvi, di farvi in qualche modo capire. Occorrerebbe un lungo discorso; ma voi comprendete subito, se io vi ripeto le parole con cui l’Angelo annunziò ai Pastori quella nascita prodigiosa; disse infatti questo splendido Essere apparso nell’oscurità di quella notte: «oggi è nato un Salvatore per voi . . .» (Lc 2,11). Io ripeto qui: Gesù Cristo è nato per voi, per ciascuno di voi . . . Come può essere? così è perché la venuta di Dio nella carne umana è un tale fatto che dobbiamo dire universale, tocca tutto il genere umano! E poi Lui, Gesù, entrando nella scena della storia umana ha voluto incontrarsi di preferenza con gli uomini semplici, umili, poveri; e proprio con i Lavoratori, perché poi, cresciuto, fu Lui stesso uomo di comune fatica: fu chiamato «figlio del fabbro» (Mc 6,3); Giuseppe infatti, suo padre legale, putativo, faceva il falegname.

Ogni uomo può dire: Cristo è venuto per me, proprio per me (Cfr. Ga 2,20).

Tanto più ciascuno di voi lo può dire: Dio è venuto al mondo per me, per incontrarsi con me, per visitare me, per salvare me . . . Forse non avete mai chiaramente riflesso a questo scopo diretto del Natale. Cioè quello che io tento ora di farvi capire, di scolpire nella vostra memoria. Cristo si è fatto come uno di voi per rivelarvi un segreto che vi riguarda: voi siete amati da Lui! voi siete l’oggetto, il punto d’arrivo della sua venuta dal cielo. Non siete gente qualsiasi; non siete dimenticati dal cuore di Cristo, non siete «emarginati», non siete un semplice numero fra milioni d’altri numeri; siete l'Uomo, come Lui, siete la persona con cui Egli vuole trovarsi. Non dubitate: è così, è la verità. Non abbiate paura: Egli vi conosce, vi vuole bene, vi chiama per nome; Egli è venuto a cercarvi. E se voi foste poveri figli del mondo, che hanno smarrito il sentiero del bene, e non sanno come ritornare nella casa di Dio, il Padre, Egli, se volete, vi prende per mano; anzi, come è figurato nella parabola della pecora perduta (Lc 15,5), è pronto a prendervi sulle sue spalle e a portarvi di peso nell’ovile della sua giustizia e della sua felicità.

Vorrei che voi aveste a comprendere la vostra dignità proprio derivante dal Natale di Cristo. «Egli è la luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo» (Jn 1,9). Voi siete in prima fila. E comprendete allora quale conforto, innanzi tutto, vi può nascere nel cuore pensando: qualcuno (ed è Cristo) mi ha voluto bene, qualcuno ha un ricordo affettuoso proprio per me, qualcuno ha stima di me, qualcuno (e sempre è Cristo) riconosce il rispetto, la giustizia, il diritto, che mi sono dovuti . . . È Cristo. È il Maestro, è il Liberatore, è il Salvatore; ed è mio!

E potete allora comprendere come da questo rapporto fra voi e Cristo, il rapporto che nasce dal suo amore, e che vi associa alla grande famiglia umana amata e salvata da Lui, la Chiesa, può e deve nascere una nuova maniera d’essere uomini: diventiamo tutti figli di Dio, tutti fratelli .,. Non dev’esserci bisogno di fare ricorso all’odio, alla guerra, alla violenza, all’intrigo per instaurare un ordine migliore nella convivenza umana, cioè nella società. Se davvero Cristo la penetra e la cementa col suo amore, dobbiamo e possiamo sperare che un mondo migliore finalmente nascerà. Quando? come? non è facile, né questo è il momento di rispondere; ma questo possiamo dire: oggi comincia, oggi ricomincia.

A voi lo diciamo, perché vi consideriamo i rappresentanti del mondo del lavoro, anzi del mondo di chi ha fame e sete di giustizia, di chi è povero, di chi soffre, di chi piange, di chi spera, di chi crede e prega. A voi, a tutti, e specialmente a cotesto mondo avido di salvezza e di rinnovamento, di cui oggi in voi vogliamo vedere la presenza davanti a noi, sì, davanti al vicario di Cristo (un vicario, come vedete, anche lui misero uomo e bisognoso di misericordia e di amicizia), noi annunziamo (Cfr. Lc 4,18, ss. ): «questo è il giorno che il Signore ha fatto: esultiamo e rallegriamoci» (Cfr. Ps 117,24). È il Natale!






B. Paolo VI Omelie 29102