B. Paolo VI Omelie 19473

Giovedì Santo, 19 aprile 1973: SACRO RITO EUCARISTICO «IN CENA DOMINI»

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Fratelli,

Siate i benvenuti a questa cerimonia del Giovedì Santo, alla quale sentiamo di dovere tutti assistere con totale adesione. Il fatto stesso che la celebriamo in questa basilica, cuore della Chiesa cattolica, e che siamo volutamente insieme, tutti penetrati del senso interiore della solennità del rito, e avidi di congiungere in noi stessi la partecipazione alla comprensione di ciò che stiamo facendo, ci mette alla ricerca, quasi ansiosa, fervorosa certamente, del suo significato.

Diremo molto brevemente, concentrando la nostra attenzione su alcune parole di Gesù, l’ospite protagonista di quell’ultima cena. Che per Lui fosse l’ultima lo disse Egli stesso (
Lc 22,15-16), e lo fece comprendere lungo tutti i discorsi di quella intima e mestissima riunione conviviale, motivata dalla celebrazione della pasqua rituale ebraica (Cfr. Jn 16,5-7; etc.), la quale culminò, come sappiamo, nelle misteriose parole dell’istituzione della santissima Eucaristia, concluse con quelle precettive ed esse stesse istitutive d’un altro sacramento, l’Ordine sacro, generatore ministeriale dell’Eucaristia medesima: «Questo fate in memoria di me» (Lc 22,19 1Co 11,24-25). Egli disse. È in virtù di queste parole che noi questa sera siamo qui riuniti. Sono parole testamentarie. Saranno vere ed efficaci fino all’ultima sua venuta, al termine del presente ordine temporale, alla fine dei secoli: donec veniat, fino a quando Egli, Gesù, non abbia a ritornare, dichiara S. Paolo. È dunque l’atto memoriale per eccellenza che noi ricordiamo e ripetiamo in questo momento, adempiendo il precetto che lo rende perenne durante lo svolgimento della storia; è la presenza del Signore che accompagna il cammino della sua Chiesa nel tempo, nel «mistero della fede», il quale suppone la presenza reale di Gesù nell’involucro sacramentale, ed esige un’intelligenza obbediente, una accoglienza di fede da parte nostra, l’omaggio amoroso d’una nostra qualificata memoria.

Questo sforzo di memoria è essenziale alla nostra celebrazione. La prodigiosa facoltà della memoria è posta in esercizio come stimolo della nostra capacità recettiva dell’Eucaristia. Essa influisce su chi la riceve per virtù propria ex opere operato, ma la sua azione è orientata all’esercizio del nostro ricordo, cioè all’accoglienza di Cristo ricevuto e pensato dentro di noi, alla sua permanenza personale, viva e reale dentrodi noi, ma insieme concettuale e rispecchiata nella nostra mente, nella nostra psicologia, nel nostro cuore, secondo l’attitudine nostra ad assimilarlo, ad accettarlo, ad amarlo, a coincidere, per così dire, con lui: donec formetur Christus in vobis, fino a che Cristo si formi in voi, dice S. Paolo (Ga 4,19). Una intenzione fondamentale di permanenza domina il mistero dell’Eucaristia; di permanenza cioè di Gesù fra noi oltre il limite abissale della sua passione e della morte, di permanenza vera, ma sotto lo schermo sacramentale, che mentre toglie a noi la gioia della sua visione sensibile, offre a noi la sicurezza della sua effettiva presenza, ed insieme l’altro inestimabile vantaggio della sua indefinita e univoca moltiplicabilità, nei tempi e nei luoghi, quanto occorra per saziare la fame di coloro che rimarranno nella sua fede e nel suo amore. Rimanere è l’intenzione sacramentale dell’Eucaristia, cioè riguardo a Gesù; rimanere è l’intenzione morale, cioè riguardo a noi, ai quali Gesù vuol essere per tutto il nostro pellegrinaggio nel tempo il viatico, il compagno, l’alimento: dobbiamo rimanere cos1 nella sua dilezione. Vedete a suffragio di questa affermazione, quante volte la parola «rimanere» è ripetuta nei discorsi di Gesù in quell’ultima cena (Cfr. specialmente Jn 15).

Perciò un dovere, Fratelli, dobbiamo ravvivare nei nostri animi, quello di «ricordare» Gesù, com’egli ha voluto esserlo; ed ecco che da questo nostro specifico memoriale sgorga con impetuosa, cioè amorosa abbondanza il nostro culto eucaristico, al quale la Chiesa, con indefessa premura, ci invita e ci esorta.

Poi, sempre limitando la nostra ricerca al significato essenziale di quel convito pasquale, con cui Cristo volle congedarsi dai suoi discepoli, noi non potremo preterire il trapasso dalla figura dell’agnello alla realtà della vittima vera per la nostra Pasqua, ch’è Cristo medesimo immolato (Cfr. 1Co 5,7), trapasso operato con la istituzione dell’Eucaristia, che nella figura del pane e del vino, rappresenta e rinnova in modo incruento il sacrificio redentore di Gesù. Come discorrere in questo troppo breve momento di così alta e drammatica teologia? beati noi se alla deficienza del nostro discorso e ancor più del nostro pensiero, supplisce, dopo l’atto di fede a cui abbiamo accennato, supplisce l’amore. L’Eucaristia è il punto privilegiato dell’incontro dell’amore di Cristo verso di noi; un amore che si rende disponibile per ciascuno di noi, un amore che si fa agnello sacrificale e cibo per la nostra fame di vita, un amore che si esprime nella forma e nella misura della sua specifica e più alta ed esclusiva autenticità, cioè un amore che tutto si dona: dilexit me - dice l’Apostolo - et tradidit semetipsum pro me, amò me e sacrificò se stesso per me (Ga 2,20 Ep 5,2 Ep 5,25); e dell’incontro del nostro povero e vacillante amore per Lui, che a tanta sua incalzante carità trova finalmente l’ardire di superare ogni timidezza, ogni debolezza e di rispondere con Pietro: «Signore . . . Tu sai che io ti amo!» (Jn 21,15-17). L’amore avrà la fortuna di penetrare in qualche suo mistico intuito e con qualche sua anticipata pienezza (Cfr. Ep 3, 17, 19) nel mistero di carità, che oltrepassa ogni intelligenza, il mistero del sacrificio eucaristico, e d’inabissarvi se stesso partecipando a quell’umile, incommensurabile rito, ch’è la nostra santa Messa.

Fratelli, non vi diciamo di più. Ma non concluderemo queste balbettanti parole senza confidarvi che un’altra ne teniamo nel cuore, desunta anche essa da quelle indimenticabili della Cena del Signore, ed è questa: «Io vi do il comandamento nuovo: amatevi gli uni con gli altri, come Io ho amato voi» (Jn 13,34 Jn 15,12). Quell'«Io» è Gesù, il Cristo, nostro Signore; quel «voi» sono gli Apostoli, sono tutti i fedeli che hanno creduto a Lui, «secondo la loro parola» (Ibid. 17, 20); siamo noi, Chiesa Romana e Chiesa Cattolica, noi, figli della terra e del secolo, che oggi, Giovedì Santo, dobbiamo tutti sentirci folgorati dall’amore crocifisso ed eucaristico di Cristo; e dobbiamo ancora tanto imparare ad amarci gli uni gli altri, secondo il suo esempio e il suo precetto.





Domenica, 6 maggio 1973: VISITA DEL PATRIARCA AMBA SHENOUDA III

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«Questo è un giorno stabilito dal Signore: esultiamo e rallegriamoci per esso». Noi volentieri ripetiamo questa acclamazione liturgica motivata dalla festività della Pasqua in questa presente occasione, nella quale la presenza del Patriarca Shenouda III, - onorato lui stesso del titolo di «Papa» della venerata e antichissima Chiesa capta, avente il suo centro ad Alessandria d’Egitto, - solleva nel nostro animo una commozione profonda. Ecco qui il Capo d’una Chiesa, tuttora da noi ufficialmente separata e da secoli assente dalla celebrazione d’una comunitaria preghiera con questa Chiesa romana, ma Capo, diciamo, d’una Chiesa, la quale fa ascendere la sua origine a quell’Evangelista Marco, che San Pietro chiama suo figlio (
1P 5,13), e la quale ebbe in Sant’Atanasio, di cui oggi noi celebriamo il XVI centenario della beata morte, l’assertore invitto della nostra comune fede nicena, fede cioè nella divinità di nostro Signore Gesù Cristo, proclamata da Simone, figlio di Giona, per divino intuito, e perciò tramutato da Cristo stesso nell’immobile Pietro, e da lui posto a fondamento di tutta la Chiesa; egli è qui, è qui apposta e spontaneamente venuto per riannodare il vincolo della carità (Cfr. Col 3,14), felice presagio di quella perfetta unità dello spirito (Cfr. Ep 4,3), che dopo il recente Concilio ecumenico vaticano secondo, noi andiamo umilmente, ma sinceramente cercando di ricomporre; è qui, con noi, con questa grande assemblea di fedeli, sulla tomba dell’Apostolo Pietro . . . oh! come non dovremmo noi esultare, e invitare voi tutti, figli di questa Chiesa romana e cattolica, a benedire con noi il Signore in questo giorno straordinario? Non avvertiamo noi che il volume della storia della Chiesa, nel quale la mano misteriosa del Signore principalmente guida le mani degli uomini a scrivervi «nova et vetera» (Cfr. Mt 13,52), apre davanti a noi pagine antiche di secoli, e altre ancora candide ne distende davanti a noi, pronte a registrare avvenimenti, Dio voglia!, migliori, i fasti cioè della Provvidenza misericordiosa di Dio nelle vicende della Chiesa ancora pellegrina nel tempo? Come non saluteremo noi questo venerabile e grande Fratello lontano, oggi a noi tanto vicino, nostro visitatore, nostro ospite, oggi qui, presso il nostro altare e unito alla nostra pontificale preghiera? e con lui il copioso e rappresentativo suo nobilissimo seguito?

La lettura del Santo Vangelo (Lc 24,35-48) che noi abbiamo ora ascoltata, ci invita a riflettere sul tema fondamentale della nostra fede, il tema della risurrezione del Signore nostro Gesù. Non dice forse San Paolo: «Se tu confessi con la tua voce il Signore Gesù, e nel tuo cuore hai fede che Dio lo ha risuscitato da morte, sarai salvo»? (Rm 10,9) E la narrazione evangelica della S. Messa, che stiamo celebrando, sembra proprio che voglia attestarci la realtà del fatto della risurrezione di Cristo, realtà oggettiva, storica, comprovata perfino dall’esperienza diretta e tangibile dei sensi, anche se appartenente ad un ordine soprannaturale, e voglia stimolarci a derivare subito dall’osservazione di questa inaudita realtà la nostra irrefrenabile e vivacissima fede, quale quella di Tommaso, l’uomo positivo della critica, del dubbio, della verifica, con le sue parole ancora sonanti: «Signore mio! e Dio mio!» (Jn 20,28).

E com’è propizia questa odierna riflessione liturgica celebrando la gloriosa memoria, come dicevamo, di S. Atanasio, fiero ed impavido assertore della fede! S. Atanasio è padre e dottore della Chiesa universale e merita perciò il nostro comune ricordo.

Il ricordo migliore di un Santo, che ha dato un contributo straordinario alla vita della Chiesa in un momento decisivo della sua storia, allorché gli eretici negavano la stessa consostanziale divinità del Verbo e quindi di Cristo, ci sembra quello di riflettere sull’eredità che ci ha lasciato: la testimonianza di fede nella sua vita e nel suo pensiero.

Quando riflettiamo sulla sua vicenda umana, incontriamo un credente solidamente fondato sulla fede evangelica, e convinto assertore e difensore della verità, pronto a subire ogni calunnia, persecuzione, violenza. Dei suoi quarantacinque anni di episcopato una ventina li trascorse in ripetuti esilii; e questa stessa nostra città di Roma lo ospitò, essendo Papa Giulio (337-352), per tre anni durante il. suo secondo esilio, che lo colpì dall’aprile del 339 all’ottobre del 346.

Sempre dappertutto e di fronte a tutti, a potenti ed erranti, professò la fede nella divinità di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, tanto che la tradizione liturgica orientale lo definisce «colonna della vera fede» (Apolytikion, del 2 maggio), mentre la Chiesa cattolica lo annovera tra i dottori della Chiesa.

Egli fu infatti un uomo di Chiesa; pastore vigile e attento, dedicò l’intera vita al suo esclusivo servizio: non solo al servizio della sua Chiesa di Alessandria, ma della Chiesa intera, portando dovunque il calore della sua fede, l’esempio edificante della sua vita intransigentemente coerente, il richiamo alla preghiera appresa tra i monaci del deserto, presso cui si dovette più volte rifugiare.

La divinità di Cristo è il nucleo centrale della predicazione di S. Atanasio di fronte agli uomini del suo tempo, tentati dalla crisi ariana. La definizione del primo Concilio ecumenico di Nicea (325), secondo cui Gesù Cristo è figlio di Dio, della stessa sostanza del Padre, Dio vero da Dio vero, costituisce il punto di riferimento costante della sua dottrina. Solo se si accetta questo insegnamento si può parlare di redenzione, di salvezza, di ristabilimento della comunione tra uomo e Dio. Solo il Verbo di Dio redime perfettamente; senza l’incarnazione, l’uomo rimarrebbe nello stato di natura corrotta, da cui la stessa penitenza non potrebbe liberarlo (Cfr. De Incarnatione: PG 25, 144, 119).

Liberato da Cristo dalla corruzione, salvato dalla morte, l’uomo rinasce a nuova vita e riacquista la primitiva immagine di Dio, secondo cui era stato creato sin dall’inizio e che il peccato aveva corrotto. «Il Verbo di Dio - afferma S. Atanasio - è venuto lui stesso affinché, essendo lui immagine del Padre, possa nuovamente creare l’uomo ad immagine di Dio» (De Incarnatione, ibid.).

S. Atanasio evolve questa teologia, incentrandola sulla partecipazione dell’uomo redento alla vita stessa di Dio, mediante il battesimo e la vita sacramentale , giungendo ad affermare con ardita espressione che il Verbo di Dio «si è fatto uomo perché noi fossimo divinizzati» (Ibid.).

Questa «nuova creazione» comporta la restituzione di ciò che il . peccato aveva compromesso. la conoscenza di Dio e un radicale cambiamento di costumi.

Gesù Cristo ci rivela e ci rende conoscibile il Padre: «Il Verbo di Dio si è reso visibile con un corpo perché noi potessimo farci una idea del Padre invisibile» (Ibid.).

Da questa nuova conoscenza di Dio consegue l’esigenza di rinnovamento morale, che S. Atanasio richiama fortemente: «Chi vuole comprendere il discorso attorno a Dio, deve nel suo modo di vivere purificarsi, rendersi simile ai Santi con la somiglianza delle proprie azioni, affinché unito a loro con la condotta della propria vita, possa comprendere ciò che loro è stato rivelato da Dio» (Ibid.).

Siamo così portati al centro dell’avvenimento cristiano: la redenzione per opera di Gesù Cristo, il radicale rinnovamento dell’uomo con la sua restaurazione ad immagine e somiglianza di Dio, la ristabilita comunione di vita tra l’uomo e Dio, che si esprime anche in un profondo cambiamento etico.

È questo il sublime messaggio, che anche a noi indirizza oggi S. Atanasio il Grande: essere forti nella fede e coerenti nella pratica della vita cristiana, anche a costo di gravi sacrifici; sta a noi accoglierlo questo messaggio, meditarlo, approfondirlo e realizzarlo nella nostra vita.

Per le preghiere di S. Atanasio, Padre e Dottore della Chiesa, ci conceda Iddio di poter degnamente confessare, anche noi nel nostro tempo, che Gesù Cristo è il Signore e il Salvatore del mondo.

E alla fine ci sia concesso di rivolgere una parola ai fedeli che vediamo qui presenti.

Fedeli della Parrocchia romana di S. Atanasio. Siamo lieti di vedervi presenti a questa grande cerimonia. Vi salutiamo tutti e vi incarichiamo di portare il nostro benedicente saluto all’intera comunità parrocchiale. A voi è specialmente raccomandato di onorare la memoria del grande titolare della vostra Parrocchia: S. Atanasio. Come onorarlo? col ricordo della sua vita e con la professione della sua fede. Con l’amore a Cristo, Verbo eterno di Dio, Figlio di Dio, e Figlio dell’uomo, nostro Maestro e nostro Salvatore. E con l’adesione franca e fedele alla Chiesa di Cristo, e con la carità operosa verso il nostro prossimo. Siamo intesi? abbiate tutti, col vostro Parroco, una nostra speciale benedizione.

Poi: abbiamo qui tutta una bella e cara moltitudine di «Giovani Amici del Rosario». Giovani e Ragazzi tutti! vi diciamo grazie per questa vostra venuta. Non crediate che il carattere particolare di questa cerimonia ci abbia fatto dimenticare la vostra presenza. Vi diciamo bravi per la vostra manifestazione in onore della Madonna e per la devozione che professate al suo santo Rosario. Sappiate arrivare a Cristo guidati dalla sua e nostra Madre Maria. Ancora: bravi! bravi! Siate perseveranti, e abbiate tutti, con i vostri Genitori, Educatori e Amici la nostra paterna Benedizione.




Sabato, 2 giugno 1973: X ANNIVERSARIO DEL TRANSITO DEL SOMMO PONTEFICE GIOVANNI XXIII

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Sono passati dieci anni dalla pia morte di Giovanni XXIII. Noi commemoriamo questa ricorrenza con intensa pietà. Noi personalmente ne abbiamo non solo il doloroso dovere, ma un titolo di speciale devozione, per l’affezione, che Egli sempre ci dimostrò e che nei rari e discreti contatti, avuti con Lui, durante i brevi anni del suo Pontificato, parve a noi essere da parte di Lui intenzionalmente effusiva e piena di particolare confidenza e forse di profetica predilezione.

Preghiera e ricordo caratterizzano questa nostra celebrazione.

Preghiera a Dio, per quel Cristo nostro Salvatore, di cui egli fu tanto degno e singolare Vicario, affinché la pace eterna ed il gaudio della misteriosa dimora dell’al di là siano assicurati a quel fedelissimo ministro della santa Chiesa. La nostra preghiera di suffragio sperimenta un duplice sentimento, caratteristico del suffragio cristiano, quando è speso per un’anima che tutto ci fa supporre essere già nell’amplesso beatifico del Dio dei viventi; il sentimento sempre ostile e tenebroso della morte, del distacco, diciamo, incolmabile della nostra odierna, limitata esperienza, che separa la forma della nostra presente esistenza da quella ignota della esistenza ultraterrena; un sentimento che conosce dinanzi alla morte il timore, l’incubo, la terribilità della nostra naturale cecità; e poi subito il sentimento simultaneo della certezza nella sopravvivenza dei nostri Defunti, il sentimento parallelo cioè della fede nell’oceano di misericordia e di bontà, quale Iddio il Padre, in virtù di Cristo, il Salvatore, nel dono finalmente godibile dello Spirito Santo, l’Amore, il sentimento, a cui non è sufficiente misura la nostra più ardita fantasia, della comunione dei Santi nella comunione felicissima con quel Dio, Vita, Verità, Amore, il Quale per Sé ci ha creati e chiamati al mistero e alla pienezza dell’Essere suo.

Questa cerimonia ci fa respirare quest’atmosfera esistenziale ed inebriante, che ci aiuta a valutare la vita presente in funzione della vita futura; e che nel caso nostro ci apre quasi ad una confidente conversazione con Papa Giovanni; ce lo rende vicino nel devoto gesto reciproco, col quale non tanto noi a Lui, quanto piuttosto Lui a noi offre i fiori che nascono sulla sua tomba; vogliamo dire la ricchezza spirituale, che ritroviamo in quel voluminoso «Giornale dell’anima», nel quale sono raccolte, lungo il corso della sua lunga vita, le espressioni immediate, candide e pie, della sua intima cronaca spirituale. Anche questa è parte, e non minima, della sua eredità, ed ha il privilegio, proprio delle esperienze spirituali, di conservarsi, appunto come fiori freschi, attuali e comunicabili, quasi un suadente invito ad entrare nella sua confidenza, ad ascoltarne la voce semplice e schietta, e a subirne il fascino familiare come quello d’un maestro di vita interiore.

Faremo bene, dopo dieci anni dalla sua morte, a metterci umilmente a questa sua scuola spirituale; primo, per conoscere Papa Giovanni nella sua autentica figura di uomo del popolo, pieno di sensibilità verso il suo ambiente domestico; per ammirarlo nel suo aspetto di sacerdote imbevuto della tradizione preconciliare, se volete, ma densa della sapienza ecclesiastica più religiosamente sincera e osservante; e poi per vederlo partire con cuore di missionario, quale rappresentante della Sede Apostolica con l’astuzia onesta e sagace della semplicità e dell’amore a Sofia, a Istanbul e, infine, a Parigi; per riconoscerlo quindi nel suo profilo sontuoso e bonario di vescovo, anzi di Patriarca di Venezia, il quale pratica la vita ordinaria e generosa del pastore di anime, per rivederlo finalmente nel manto pontificale del Papa, che tempera le vertigini della coscienza del suo supremo ministero con l’interiore ascoltazione, docile alle ispirazioni dello Spirito e con la umile e costante volontà di mostrarsi e di essere soprattutto servo dei servi di Dio.

Preghiamo così accanto a lui, per lui se nell’insondabile calcolo del giudizio di Dio l’anima di Papa Giovanni avesse tuttora bisogno di questo nostro suffragio; ma forse piuttosto per noi, per essere educati a raccogliere della sua personalità l’immagine vera, e di rispecchiarla nel nostro spirito, in conformità alla sua autentica testimonianza autobiografica, quella di un prete, d’un buono, d’un ottimo prete bergamasco e romano.

La preghiera diventa così ricordo. Le proporzioni di grandezza, che la memoria di questo nostro grande e singolare Predecessore ha assunte nella storia contemporanea, non saranno così mortificate, ma corrette, all’occorrenza, dalle deformazioni che certe interpretazioni incaute o interessate gli hanno attribuite, quasi fosse il patrono dei contestatori, il Papa della liberazione dalla catena della tradizione, il promotore d’un «aggiornamento» arbitrario e senza prestabiliti confini, così che nell’autorità del suo nome si potesse frantumare l’autorità stessa donde la Chiesa è al tempo stesso una e cattolica. Dobbiamo conservare di Papa Giovanni una memoria fedele, non abusiva. Le straordinarie espressioni del suo Pontificato, quella incalcolabile e inesauribile del Concilio fra tutte, non fanno di questo Papa un tipo incoerente con l’impegno dogmatico della dottrina originaria e secolare della Chiesa di Pietro, ma un fermo e convinto continuatore, integrale se non integrista; un Papa innovatore, se volete, il quale sa scoprire la vitale fecondità del messaggio umano-divino, proprio della Chiesa cattolica, e la fa scaturire nell’interno più intimo della sua propria autenticità, ripetendo il prodigio perenne di questa secolare sede di Pietro, che sa estrarre dal tesoro evangelico, come lo scriba della parabola, nova et vetera, inesauribilmente (
Mt 13,52).

Benediciamo perciò la memoria di questo carissimo e veneratissimo Papa, che ha saputo riaprire a torrenti le fonti della Verità salvatrice; ha saputo ringiovanire la Chiesa con lo Spirito vivificante del Vangelo; ha saputo stendere la mano ai Fratelli cristiani separati sopra l’abisso di secolari rotture e rivalità; ha saputo riaprire con un nuovo accento di familiarità e di stima il dialogo con il mondo odierno secolarizzato, ed offrirgli, come pane di casa, il dono della «speranza che non inganna» (Rm 5,5).

Benediciamo, sì, la memoria di Papa Giovanni, quasi Egli venisse fra noi ad aprire il prossimo Anno Santo, che dal suo genio di Maestro e di Pastore prende in questi giorni l’ispirazione e le mosse; ed ascoltiamo la non spenta voce della sua preghiera, che Egli, Angelo Roncalli, dopo dieci anni dalla sua ordinazione sacerdotale, scioglieva proprio su questa tomba di San Pietro per la santa Chiesa: «Sàlvala, sàlvala, o Signore; dona alla tua Chiesa, fra questo turbinare di procelle, fra questo cozzo di genti (era l’ora iniziale della prima guerra mondiale): libertà, unità e pace!» (Giornale, p. 193).

Così oggi per noi, ancora Papa Giovanni: libertà, unità e pace, con la Benedizione Apostolica del suo umilissimo Successore.




Lunedì, 11 giugno 1973: INAUGURAZIONE DELLA X ASSEMBLEA GENERALE DELLA CEI

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Venerati e diletti Confratelli,

Prima di proseguire nella celebrazione del sacro rito la norma stessa che lo regge ci obbliga ad una pausa di riflessione sul fatto che qui ci riunisce, sull’atto che stiamo compiendo, sul confronto della nostra singola vita con le parole evangeliche, testé ascoltate, sulla somma di questioni e di doveri a cui è impegnato il nostro ministero episcopale. Riflessione per ogni verso straripante, ma che ora cerchiamo di contenere nei limiti delle immediate finalità, che hanno dato occasione a questo incontro spirituale.

Due a noi sembrano essere queste finalità. La prima - perché tacerla? - è la vostra intenzione, veramente pia e fraterna, di ricordare il decennio, che si compie in questi giorni, del nostro Pontificato; l’altra è la riunione dell’Assemblea generale dell’Episcopato Italiano, la quale prende inizio appunto da questa straordinaria concelebrazione.

Quanto alla prima finalità, voi lo indovinate, Venerati Fratelli, noi avremmo preferito ch’essa passasse inosservata, o almeno senza alcun segno di particolare interesse da parte vostra. Voi ci obbligate a ripensare non solo davanti al Signore alle responsabilità conturbanti del nostro apostolico ufficio, ma altresì davanti a voi stessi, verso i quali ci sentiamo, per ogni riguardo, debitori ed inferiori ad ogni nostro dovere di esempio, di guida e di servizio, e tanto bisognosi della vostra indulgenza e della vostra collaborazione. Ma dal momento che il silenzio è rotto sopra questa decennale ricorrenza, non taceremo noi stessi la nostra viva e fraterna riconoscenza per il modo sacerdotale con cui avete voluto ricordare con noi la data decennale del nostro ministero apostolico, pregando insieme, anzi effondendo insieme, mediante l’offerta di questo sacrificio eucaristico, la carità che a Cristo ci unisce, e che ci rende fratelli nel solidale impegno pastorale verso il Popolo di Dio. Siate tutti ringraziati per codesta bontà e per codesta pietà, e voglia il Signore stesso, intorno al quale ci stringiamo per celebrare i suoi misteri e per implorare la sua misericordia, rimunerare un atto di tanta cortesia verso l’umile nostra persona, e di tanta fiducia nella incomparabile missione a noi affidata nella sua Chiesa, da sostenere e da edificare, con primaria e universale sollecitudine, nell’unità della fede e dell’amore, ispirante e suffragante lo Spirito Santo.

Quanto poi alla seconda finalità, ottenere una speciale assistenza divina sulla prossima vostra decima Assemblea generale, vi diremo, venerati Fratelli, che noi per primi ci sentiamo interessati al suo conseguimento. Un’assemblea come la vostra: cospicua per il numero dei suoi componenti, per la dignità delle sue persone, per il fervore dei suoi propositi, per la complessità dei suoi problemi, per la sofferenza delle sue difficoltà, ed anche per i vincoli canonici che ad essa ci uniscono, riempie il nostro animo di intensa commozione e di vivissima attenzione. Siate innanzi tutto salutati, ognuno personalmente, e quanti voi siete, collegialmente. Al vostro Presidente e Fratello nostro carissimo, il Signor Cardinale Antonio Poma, che alle gravi cure pastorali della sua Arcidiocesi, la storica e amatissima Bologna, aggiunge, per nostro mandato e vostro consenso, le molteplici e responsabili attività presidenziali della Conferenza Episcopale Italiana, esprimiamo la nostra devota accoglienza e la nostra cordiale e solidale collaborazione. Abbiamo il nuovo Segretario della Conferenza medesima, Monsignor Enrico Bartoletti, parimente da salutare in questo primo incontro comunitario nell’esercizio delle sue funzioni; la sua presenza ci ricorda la riconoscenza e la stima, che noi dobbiamo al suo valente predecessore, Monsignore Andrea Pangrazio; e ci fa pensare alla pronta generosità, con cui Monsignore Bartoletti, lasciando la sede eletta di Lucca, ha assunto, con la saggezza e l’alacrità che tutti conoscono, l’ufficio non semplice, né lieve della Segreteria della vostra Conferenza. Grazie e incoraggiamento anche a lui, ai Confratelli che hanno accettato di far parte delle varie Commissioni della Conferenza e a quanti vi prestano opera, favore e fiducia.

Noi non intendiamo in questo momento entrare nel merito o nel commento dei vostri prossimi lavori. Vi basti in questa sede sapere che noi li abbiamo presenti durante quest’ora di preghiera, nei loro programmi, i quali sembrano a noi bene studiati ed elaborati e promettenti felici risultati; come abbiamo presenti i primi saggi della vostra nuova attività liturgica e catechistica; e, come lo sono a noi, ci compiacciamo di rilevare che sono a voi presenti i temi di comune e continuo interesse, come i Consigli Presbiterali e Pastorali, come le vocazioni sacerdotali, la formazione liturgica dei fedeli, il canto sacro del popolo, le associazioni cattoliche; come l’assistenza al mondo del lavoro, la diffusione della stampa cattolica; come lo studio dei grandi temi programmatici circa i problemi della Famiglia, l’Evangelizzazione e Sacramenti, la Pastorale dell’iniziazione cristiana, eccetera. Tutto dice il vostro zelo e dice l’intelligenza dei bisogni spirituali e morali del nostro tempo. Noi fin d’ora benediciamo i vostri lavori.

Ci piace piuttosto in questo momento cogliere alcuni aspetti spirituali di codesta attività, aspetti che confortano la nostra presente meditazione e danno stimolo alla nostra azione sacrificale.

Il primo aspetto dell’attività della Conferenza Episcopale Italiana siete voi stessi, cari e venerati Confratelli. È la vostra presenza, è la vostra Assemblea. È l’affermazione ordinata e progressiva dell’Episcopato Italiano, come corpo coscientemente, fraternamente unito ed operante, consapevole della sua responsabilità collettiva, disposto a sommare le proprie forze per un lavoro programmato ed organico, e convinto di poter non solo conservare, ma stimolare altresì in ciascun Vescovo la sua personalità ecclesiale, la sua relativa autonomia, il suo spirito d’iniziativa locale, la sua originale derivazione apostolica. È la celebrazione della collegialità, che ci riporta all’ammirazione teologica e all’attuazione pratica della ecclesiologia, che il recente Concilio ha messo in migliore evidenza, senza nulla derogare alla sua costituzione unitaria, quale lo stesso antico Cipriano aveva delineato (Cfr. De Unitate Ecclesiae: PL 4, 515). L’istituzione delle Conferenze Episcopali, dove ancora non esistevano, è grande merito del Concilio ed è grande progresso non soltanto organizzativo e canonico della Chiesa, ma istituzionale e mistico, che deve accrescere la nostra fiducia e la nostra affezione verso la Chiesa e la sua meravigliosa compagine. Non indarno ciascuno di noi potrà soffermarsi in Cuor suo a contemplare con gaudio interiore il fenomeno umano e spirituale di un’Assemblea come la vostra, vera espressione di fraternità, di unità, di carità, dove la presenza di Cristo, immancabile fra coloro che sono congregati nel suo nome (Cfr.
Mt 18,20), ci dà l’ineffabile conforto della nostra missione e del nostro destino.

Ne abbiamo bisogno, venerati Fratelli, perché mentre la Chiesa dispiega le sue tende nella storia contemporanea, quasi a segno della sua perenne vitalità, anzi della sua capacità ad effondersi in sempre nuova giovinezza, nuove difficoltà assediano la sua esistenza nel mondo contemporaneo. È questo un altro aspetto, che ci sembra scorgere nell’esercizio della vostra attività pastorale. Il buon Pastore, cioè il Vescovo e chi con lui condivide il suo ministero, oggi, non è affatto nella condizione arcadica e serena, che quel suo titolo sembra assicurargli. Tutto oggi è messo in questione; tutto è tensione, tutto è pressione. Ditelo voi: è facile oggi fare il Vescovo? Diciamo il Vescovo, che guida il suo gregge, aprendogli il cammino buono, non quello che riduce il proprio dovere a seguire il suo vagare secondo il vento che tira (Cfr. Ep 4,14), il Vescovo vigilante, maestro, educatore, rettore, santificatore; il Vescovo, che si sente, dentro e fuori della Chiesa, stimolato a dare alla sua vita uno stile, una virtù secondo il Vangelo; il Vescovo, che guarda e conosce il mondo nel suo aggressivo processo di secolarizzazione, che spoglia l’uomo non solo delle sue esteriori vestigia di costume cristiano, ma che lo corrode altresì in ogni superstite certezza morale e religiosa, e lo lascia, secondo un’equivoca terminologia di moda, «libero» come un cieco di andare dove vuole. Dov’è più nel figlio del secolo il senso di Dio, il fermo criterio discriminante fra il bene ed il male? ed anche nell’alunno e nel maestro di certe nostre scuole, dov’è la sicurezza di un’ermeneutica garante del contenuto autentico e stabile della rivelazione? dov’è la fiducia istituzionale per il messaggio evangelico nell’autorità dottrinale e direttiva della Chiesa? Custos, quid de nocte?, domanderemo a noi stessi con la parola del Profeta (Is 21,11): come vanno le cose? La vostra stessa presenza, venerati Fratelli, provoca la denuncia delle avverse condizioni della mentalità moderna nei riguardi del Vangelo, mentalità penetrata per tante vie anche nella psicologia delle nostre popolazioni; e ci lascia intravedere l’amarezza e la sterilità di tante vostre fatiche pastorali, così che spingendo la diagnosi della vita moderna rispetto alla vocazione cristiana tradizionale nella nostra gente dovremmo registrare risultati negativi, già allo stato attuale e tanto più a quello potenziale, dolorosamente impressionante. Il vento della metamorfosi sociale non sembra spirare in nostro favore. Quante statistiche stringono il cuore! Quanti fenomeni culturali e sociali, che sembrano ostili e irreversibili, ci darebbero la cattiva esperienza della sfiducia senza rimedio, se, da un lato, la nostra fiducia si appoggiasse sulle nostre povere forze umane, e dall’altro non avessimo a nostro conforto, anche umano, una quantità di sintomi positivi, derivanti da quello stesso mondo moderno donde hanno origine le nostre angustie, i quali ci accusano di poca fede, se non ne sappiamo scorgere la presenza, la fecondità e spesso la tacita implorazione dell’insostituibile opera nostra. La fiducia, che in altra occasione, in omaggio alla specifica nostra missione di «confermare i nostri fratelli» (Lc 22,32), vi abbiamo raccomandata come coefficiente indispensabile del nostro ministero, l’annunciamo ancora, più che come augurio, come dovere, dovere della fiducia; ma questa volta vi aggiungeremo un complemento, anch’esso indispensabile per l’efficacia dello stesso nostro ministero episcopale, complemento che noi già ammiriamo commossi nella vostra attività di pastori: lo spirito di sacrificio, che compenetra quello di amore e di servizio: «il buon pastore offre la vita sua per il suo gregge» (Cfr. Jn 10,11).

Non turbetur cor vestrum, neque formidet, ci ha detto il Maestro Gesù nella pagina evangelica testé da noi ascoltata. Procureremo di ricordarla, svolgendo i paragrafi dei nostri programmi; ed ancor più sperimentando la drammatica e perenne dialettica del nostro essere nel mondo, ma non del mondo (Cfr. ibid. 17). L’inizio dell’Anno Santo, ieri dappertutto localmente inaugurato, ci offre appunto questa prospettiva di rinnovamento e di riconciliazione, nella sofferenza e nella speranza, nello sforzo sofferto e nell’ottimismo fin da ora goduto, nell’intelligenza dell’economia della salvezza, fondata sulla fecondità del grano che si dissolve per dare il suo frutto moltiplicato, sulla croce cioè e sulla risurrezione di Cristo; e di noi con Lui.






B. Paolo VI Omelie 19473