B. Paolo VI Omelie 20274

Sabato, 2 febbraio 1974: CERIMONIA DI OFFERTA DEI CERI

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L’odierna assemblea di anime vibranti di pietà e d’amore a Cristo e alla Vergine ci offre motivi di particolare consolazione.

Desideriamo anzitutto esprimere il nostro saluto ai nostri venerati fratelli i cardinali Paolo Marella, Arciprete di questa Patriarcale Basilica Vaticana, Arturo Tabera Araoz, Prefetto della Sacra Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari, e Ugo Paletti, nostro Vicario Generale per la diocesi di Roma, i quali, con la loro presenza, tanto significativa, ci danno una nuova testimonianza della loro pastorale sensibilità e del loro spirito di servizio ecclesiale.

Salutiamo e ringraziamo altresì i membri dei capitoli delle quattro Basiliche Romane, che ci offrono, secondo l’antica tradizione, il cero, simbolo di quella fede che arde e splende, irradiandosi dai templi insigni che rappresentano, e segno della loro devozione schietta alla cattedra ed al Successore di Pietro.

Si rinnova oggi per noi la gioia di un incontro spirituale con la grande famiglia delle religiose di Roma nel giorno della Presentazione del Signore, che ha tanti punti di contatto, tante affinità spirituali con la vostra vocazione di anime consacrate a Dio. Per questo abbiamo voluto celebrare con voi questa festa di luce e di amore, accentuando il carattere che già le imprimemmo l’anno scorso: se allora occupaste un posto di privilegio nel tradizionale incontro festoso, quest’anno l’abbiamo voluto dedicare principalmente e quasi esclusivamente a voi, suore carissime.

Perché? Ma il perché lo sapete, né vorremmo ripetere quanto avemmo occasione di dirvi un anno fa (Cfr. AAS 65, 1973, PP 91-93). Tale perché si riassume in una sola parola, quella grande, splendida, consolante parola del Concilio Vaticano II, rivolta a tutti i religiosi: «poiché i consigli evangelici, per mezzo della carità alla quale conducono, congiungono in modo speciale i loro seguaci alla Chiesa e al suo mistero, la loro vita spirituale deve pure essere consacrata al bene di tutta la Chiesa» (Lumen Gentium,
LG 44). Sì, figlie carissime in Cristo: siete consacrate al bene di tutta la Chiesa! Questa la vostra definizione, questo il vostro vanto, questo il vostro sacrificio quotidiano, questo il vostro traguardo, questa la vostra corona; non altro, non altro motivo vi ha tratte a donare la vostra vita a Cristo Gesù, per le mani di Maria, se non questo: servire, servire le anime, servire la Chiesa, tutta la Chiesa. Lasciamo che chi non conosce o dimentica queste realtà possa chiamare in causa il vostro stato, criticarlo, discuterlo, forse deprezzarlo; ma la vostra vocazione è qui, è tutta qui, in questa oblazione totale alla Chiesa, sia che le vostre vite si dipanino nel segreto operoso e crocifiggente della clausura, sia che si svolgano sulle innumeri vie della carità, che vi fa instancabili e vi lancia al servizio di tutte le necessità umane. La vostra verginità - usiamo le parole stesse di Papa Giovanni XXIII di v.m., nella sua allocuzione alle religiose in occasione della chiusura del Sinodo di Roma - la vostra verginità «si volge ai malati, agli anziani, ai poveri, agli orfani, alle vedove, alle adolescenti, ai bambini: passa come Angelo luminoso e benefico nelle corsie degli ospedali e dei ricoveri, si china piena di bontà e di pazienza sugli alunni delle scuole, e su la solitudine dei sofferenti, a tergere lacrime sconosciute al mondo, ad accendere sorrisi e sguardi riconoscenti.

Verginità santa che trova la via sicura ed irresistibile dei cuori, per illuminare gli indotti, consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, richiamare gli erranti, sollevare entusiasmi di cooperazione apostolica e missionaria» (29 gennaio 1960; cfr. Discorsi, II, p. 183).

Questa realtà vogliamo proporre davanti alla comunità ecclesiale di Roma, e, oltre essa, a tutta la Chiesa, che deve trovare in voi religiose l’esempio vivo di un’esistenza consacrata a Dio senza cedimenti e senza rimpianti, con fervore lietamente rinnovantesi ogni mattina. Ma parimente a questa realtà vogliamo incoraggiare voi, che ne siete le protagoniste, affinché, se mai la tentazione del dubbio, dello scoraggiamento, della debolezza, della mimesi con deplorevoli esempi altrui, avesse potuto sfiorarvi, o, Dio non voglia, snervare il primitivo vostro proposito, sappiate confrontarvi continuamente con la grandezza dei compiti che avete liberamente scelti, e riprendere ogni giorno le energie necessarie.

La Liturgia del giorno fa, per questo, convergere i nostri occhi, i nostri pensieri verso Colui che è il centro non solo dell’odierno episodio evangelico, ma di tutto il Vangelo, anzi di tutta la storia umana e divina, Cristo Gesù, che si offre al Padre nell’accettazione fondamentale e determinante della sua Volontà: il suo atteggiamento è quello della disponibilità totale: «olocausti e sacrifici per il peccato tu non hai gradito. Allora dissi: Ecco che io vengo – di me sta scritto nel rotolo del Libro - per fare, o Dio, la tua Volontà» (Ps 39,7-9 He 10,5-7).

Cristo, che avanza nel tempio del Padre, portato sulle braccia di Maria - accolto dall’amore veggente, mosso dallo Spirito Santo, di anime grandi e umili come il vecchio Simeone e Anna la profetessa - è il modello, il tipo, l’ispiratore di ogni consacrazione.

Lui vi attira potentemente e dolcemente a conformarvi alla oblazione costante che richiede la vostra vocazione, Lui vi sostiene, Lui vi conforta, Lui vi incoraggia, Lui vi stimola, Lui, se necessario, vi rimprovera.

E accanto al Divino Esemplare di ogni santità «per noi sapienza e giustizia e santificazione e redenzione» (1Co 1,30), la Liturgia ci mostra la Vergine della Presentazione, Colei che, strettamente congiunta alla oblazione del Figlio, diventa per tutte le anime verginali esempio di donazione consapevole e generosa, di collaborazione stretta ai disegni di Dio, di presenza silenziosa ed efficace accanto al Salvatore, per la salvezza del mondo. Nel chiarore mattinale dell’episodio evangelico, che è come l’offertorio del grande atto sacrificale e redentivo della vita di Gesù, Maria è accanto al Figlio, resa consapevole del suo ruolo doloroso dalla profezia, e già socia precorritrice della Passione. Essa dunque tutte vi interpella, Figlie carissime, a far vostro il suo atteggiamento interiore, a imitare anche voi questa disponibilità totale, a non lasciarvi mai andare, ma a proseguire gioiosamente sulla via che avete preso.

E così il cero che portate, col suo profondo e molteplice simbolismo, diventa perciò il segno visibile di questa vostra sequela di Cristo e di Maria; è tutto un brulicare di fiammelle, alimentate alla fonte stessa della santità e della grazia, che fanno corteo festoso e interminabile sulle orme del Salvatore e della Madre Sua, facendo risplendere nel mondo, spesso avido ed egoista, la luce della carità disinteressata e pura, della immolazione senza contraccambio, della fedeltà alle gravi responsabilità della vita con «la testimonianza evangelica» della propria esistenza, protesa in alto a dar luce e calore, come la fiamma del cero.

Noi vi siamo vicini, religiose di Roma e del mondo, in questo vostro impegno quotidiano, per il quale eleviamo la nostra umile preghiera; vi ringraziamo per il posto che tenete nella Chiesa, per l’esempio che date, per l’irradiazione dei più grandi valori umani e cristiani; e auspichiamo che questi ideali vi trovino sempre pronte e allenate, sempre desiderose di far meglio, sempre sincere nella ricerca dell’autentico spirito evangelico, che qualifica e sostiene la vostra vita consacrata.

L’Apostolica Benedizione vi sia pegno di questa grande, paterna benevolenza: la estendiamo a tutte le vostre consorelle, alle persone e alle opere alle quali vi dedicate, affinché in tutte sia la pace e il gaudio di Dio.





Mercoledì delle Ceneri, 27 febbraio 1974: IL RITO DELLE CENERI A SANTA SABINA

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Mercoledì delle Ceneri, - così il Santo Padre nella sua Omelia - un grande momento del calendario della preghiera : l’inizio della Quaresima. Ancora una volta, durante la cerimonia penitenziale nella Basilica di Santa Sabina, egli richiama l’attenzione dei fedeli sui temi essenziali del periodo quaresimale, che ci invita a un incontro personale più intimo con il Signore per una purificazione della nostra vita cristiana. «Fate penitenza e allora il Regno di Dio si avvicinerà a voi»: questa voce - aggiunge Paolo VI - «risuona stasera ancora in quest’aula benedetta che da sé parlerebbe e parla, dove tutto sembra ispirarci ad accogliere queste parole, questi pensieri». «È un annuncio che riguarda non solo la profezia della venuta del Regno di Dio, ma anche, più da vicino, il mistero che stiamo vivendo e compiendo noi, Chiesa di Dio, noi alunni di Cristo, noi specialmente che abbiamo a Cristo Signore consacrato la nostra esistenza, che abbiamo ascoltato la sua voce e a Lui abbiamo giurato tutta la nostra fedeltà». La celebrazione non è soltanto commemorativa, ma è anche rinnovatrice del perenne mistero che la storia cristiana prolunga e profonde a coloro che lo sanno accogliere: il mistero pasquale.

Questo mistero, in cui si incentrano la verità, i disegni di Dio, la teologia della nostra salvezza, i destini delle anime, le nostre stesse sorti spirituali, l’arte con cui la Chiesa forma e guida le anime, mette nei nostri spiriti una certa agitazione. Non possiamo rimanere tranquilli - spiega il Santo Padre - e lasciare che questo giorno benedetto passi senza che la nostra anima entri in un certo tumulto di pensieri, di desideri, di propositi, di problemi e veda subito delinearsi davanti a sé tanti precetti, indicazioni, consigli con cui la Chiesa vuol disciplinare questo periodo.

È il tempo del digiuno. «Pratichiamo ancora la disciplina antica del digiuno, che oggi è assai temperata ma non ha perduto nulla del suo spirito, cioè della capacità di dominare questa nostra natura umana così complessa, così ribelle, di dominare cioè in noi l’uomo che la Scrittura chiama “animale” perché prevalga l’uomo “spirituale”. Vogliamo esser capaci di padroneggiare noi stessi frenando le esigenze della nostra vita temporale che a volte diventano prepotenti, invadenti, prevalenti. Dobbiamo far sì che l’uomo della ragione, l’uomo dello spirito, l’uomo della preghiera abbia in se stesso il sopravvento».

È periodo della penitenza, cioè dell’analisi della nostra anima, della scoperta della nostra umiltà costituzionale. «Siamo della povera gente, siamo degli esseri imperfetti, siamo degli esseri che, commisurati all’infinito, proprio perché abbiamo la sensazione dell’immensità di Dio, ci sentiamo venire alle labbra le parole della Madonna: Humilitatem ancillae suae (
Lc 1,48). Siamo veramente tanto più piccoli quanto tu, Dio, sei grande. In noi poi si aggiunge un’altra sorgente di umiltà che ci confonde, che ci disturba: è la coscienza che siamo gente peccatrice. Ci siamo rivoltati contro Dio Padre grande e buono e misericordioso e prodigo delle sue grazie e dei suoi benefici, il primo dei quali è che ci ha dato la vita, la sua sembianza e la sua vocazione battesimale, chiamandoci ad essere soci della sua esistenza. E noi ci siamo ribellati come ragazzi indocili, come degli sciocchi ». La penitenza è un’analisi che ci porta a delle verità amare ma salutari; e comporta un senso di abbattimento, di umiltà, di abbassamento che conviene a chi ha sbagliato e deve ricuperare l’amicizia, il perdono, la misericordia di Dio.

Il Papa si rivolge, quindi, in modo particolare ai giovani che hanno risposto alla vocazione cristiana. « Beati voi che avete compreso la vita cristiana non come una formalità qualsiasi, non come una teoria che si può avere o non avere, non come una semplice speculazione che può avere delle belle giustificazioni culturali, artistiche e spirituali ma che non impegna la vita, che non la stringe nelle sue esigenze assolute. Beati voi che avete compreso che la autenticità della vita cristiana, esige un grande coraggio. Non possiamo essere cristiani se non con coraggio pieno, con forza. Il nostro non deve essere un cristianesimo molle, un cristianesimo nell’accezione che ricorre abusivamente nel linguaggio comune, un cristianesimo borghese che cerca di evitare le angolosità dei sacrifici e persegue la vita comoda, onorata, tranquilla, goduta. Il cristianesimo conosce tutte le dolcezze dello stile della bontà, della carità, ma in se stesso è uno stile forte, severo, vuol essere vissuto in pienezza, con un potenziale di eroismo che risponde di sì, senza mettere condizioni o limiti alla chiamata di Dio e che vive in una totalità che perpetua per tutta la vita la sua risposta d’amore: «Sì, o Signore, ti voglio servire senza risparmio, senza nessun infingimento e nessuna ipocrisia».

Dobbiamo dare alla nostra vita cristiana la sapienza che la conduce sulle vie del Vangelo che sono vie, sì, dolci, amabili, piene di senso umano, di carità, ma anche piene di forza e di quella legge che tutto pervade il cristianesimo, e alla quale andiamo incamminandoci con questo periodo di preghiera e di penitenza: la legge della Croce.

La Parola del Vangelo viene a confortare quanti hanno compreso tutto ciò, e anche a correggere alcune possibili deviazioni a cui la nostra vita anche cristiana, anche consacrata potrebbe essere esposta. Del brano del Vangelo ascoltato poco prima il Papa sottolinea in proposito due precetti. Il primo consiste in un’esigenza di intensità, contenuta principalmente nei versetti che precedono il brano letto. Con una sincerità che deve essere stata per quei tempi e per quell’ambiente veramente indisponente, pericolosa, vi si dice: se la vostra giustizia non è maggiore di quella dei professionisti della giustizia (vale a dire i Farisei), non entrerete nel Regno dei Cieli.

Quella giustizia non basta. Per il cristiano, una giustizia qualsiasi davanti alle esigenze del Signore non è sufficiente. È questo il grido della Quaresima: non basta vivere in qualche modo, in qualche misura la vita cristiana, come se si trattasse soltanto di pagare una tassa di una data pratica, di una data formula, di un dato ossequio. O la si vive in pienezza, e allora è gioia («Un gaudio grande», dice San Basilio, proprio annunciando la Quaresima); oppure è ben misera cosa.

La seconda indicazione del Vangelo che la Chiesa mette «in capite ieiunii» è questa: anche la vita cristiana, la vita religiosa, può avere in sé una congenita deviazione. Può essere tradita dalla sua stessa professione, cioè dall’esteriorità, dal farsi vedere, dal farsi riconoscere. È la vanagloria della pietà, la vanagloria dell’essere buoni, del sentirsi degni della stima degli altri, perdendo così quello che al Signore preme di più. «Entra in te stesso – conclude il Papa -. È lì che deve vivere il tuo colloquio con Dio, non nell’esteriore manifestazione e nell’esteriore pubblicità oggi tanto di moda. Questa non può dare la ricompensa che è il Signore stesso ad attribuire. Hai già avuto la tua ricompensa . . . Bisogna avere il segreto della coscienza, la cella interiore della propria preghiera e del proprio raccoglimento, avere questo colloquio a tu per tu che soltanto il Padre celeste ascolta e con il quale noi ci apriamo. E il resto? Il resto che sia semplice . . . . Basti la disciplina della nostra regola di vita cristiana, come il costume della Chiesa l’ha stabilita. Per il resto, che l’esteriore sia sereno, calmo, bello, che sia - dice il Signore - profumato, che sia sorridente. Ciò che ci preme è l’interiorità, l’autenticità, la spiritualità personale con cui il nostro colloquio con Dio deve essere condotto direttamente, nell’intimità della nostra meditazione e della nostra preghiera».





Domenica, 17 marzo 1974: STAZIONE QUARESIMALE A SANTA MARIA AUSILIATRICE

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Uno stile di vita profondamente rispondente al Vangelo e uno sforzo generoso per costruire una vera comunità ecclesiale: questo Paolo VI ha raccomandato a quanti hanno preso parte alla Stazione Quaresimale di ieri, domenica 17 marzo, nella parrocchia di S. Maria Ausiliatrice al Tuscolano. Parlando ai fedeli dopo il Vangelo, il Santo Padre anzitutto rivolge il suo saluto al Cardinale Vicario Poletti, al Vescovo Ausiliare Mons. Terrinoni, a tutto il clero e in modo particolare al parroco Don Giovanni Sansoé, nonché ai superiori salesiani, al piccolo clero, alle comunità religiose della parrocchia («le brave, le buone suore che danno la loro vita e il loro esempio alla comunità, e assistono tanta gioventù»), a tutti i presenti.

S. Maria Ausiliatrice al Tuscolano è una parrocchia «importante», anche per il grande numero dei fedeli che la compongono.

Il Papa vi si è recato come Vescovo di Roma per portare a tutti la testimonianza del suo affetto e la sua benedizione. «Sono vostro Vescovo, sono Vescovo di Roma, e cioè ciascuno di voi ha diritto di chiedere a me tutto quello che io posso dare del mio ministero, della mia vita stessa, poiché io appartengo alla vostra comunità e a ciascuna delle vostre anime. E voi siete miei, io vi posso chiamare tutti fratelli e figli. E per questa parentela saluto tutti e vorrei che nessuno si sentisse dimenticato, perché siete tutti nel mio cuore».

Commentando gli episodi evangelici letti poco prima, Paolo VI sottolinea un concetto: quello della penitenza. «Preme alla Chiesa e preme a Cristo - egli spiega - che facciamo penitenza. È una parola difficile, che può risultare antipatica, che spaventa e provoca quasi soggezione e diffidenza. Che cosa voleva dire il Signore quando, andando per le strade della Galilea e di Gerusalemme, raccomandava e predicava ai suoi uditori la penitenza? Due cose, principalmente. Anzitutto, l’orientamento della nostra vita. Dobbiamo scegliere la nostra strada. La maggior parte degli uomini non si pone nemmeno questo problema. A che serve la mia esistenza? Dove sono incamminato? Dove devo dirigermi? Se un uomo vuol compiere qualcosa nella vita, deve fare la sua scelta. Invece andiamo avanti ad occhi chiusi, a caso, e non ci poniamo questo problema fondamentale. E il Signore ci dice: mettetevi sulla strada buona. Il Vangelo ci dice: convertitevi, cioè prendete la direzione giusta, guardate di scegliere la strada che conduce alla meta. Non vivete a caso, abbiate il senso della vita, abbiate la sapienza che deve dirigere i vostri passi. Come uno che cammina nella notte non può andare se non ha una lampada, se non ha un lume che gli rischiari il sentiero, così dobbiamo essere noi. E Gesù ci dice questa cosa semplicissima, ma fondamentale e tante volte dimenticata: scegliete la strada. E in altra pagina del Vangelo dirà: Sono io la via, sono io la strada, dovete scegliere me, perché io sono la strada che conduce alla vera esistenza: io posseggo il senso della vostra vita, io vi posso dire perché e come si deve vivere. È un problema centrale, che la Chiesa ritorna anno per anno a proporci e ci dice: convertitevi, cioè rettificate il vostro cammino».

In secondo luogo, penitenza significa una disciplina, una regola, un ordine, uno stile di vita che deve dirigere i passi. Non si può camminare disordinatamente. Bisogna essere padroni del proprio cammino e del proprio modo di comportarsi sulla strada che si è scelta. «Questo vuol dire fare penitenza. So che specialmente questo secondo precetto adesso non è ascoltato volentieri, non è colto bene dall’opinione pubblica e dal modo di pensare moderno. Non si vogliono maestri, non si vogliono superiori, non si vogliono guide. Si vuole sostituire ad essi il proprio istinto, il proprio capriccio, la propria passione. Questo è sbagliato. Bisogna dare alla propria vita lo stile che il Signore vuole. L’uomo è un essere complesso, con i suoi capricci, con i suoi sensi, con la sua impressionabilità; si sente attratto di qua e di là e disperde il suo tempo, passano gli anni e consuma le sue forze per niente, e tante volte contro di sé, perché ha voluto scegliere ciò che più gli piaceva. Ma è la verità, dice il Vangelo, che vi farà liberi. Dobbiamo scegliere la verità, cioè quello che il Signore ci ha insegnato, per dare alla nostra vita la sua guida».

«Sappiamo di essere - prosegue Sua Santità - degli esseri infermi, che hanno subito, senza volerlo, ereditandolo, il malanno del peccato originale. Siamo degli esseri indisciplinati. Dobbiamo imprimere alla nostra vita una disciplina, un ordine. Dobbiamo far presiedere alla nostra esistenza un pensiero, una sapienza. Dobbiamo essere padroni di noi. E per conseguire questa padronanza occorre la penitenza. Dobbiamo privarci di ciò che ci porta al male e al peccato, moderare certe passioni che ci portano a perdere di vista i fini maggiori e minori. Dobbiamo dare alla nostra vita quello stile superiore che al grado sublime si chiama santità. Una volta i cristiani si qualificavano proprio con questo nome: i santi, coloro che vivevano in grazia di Dio e secondo la parola di Dio. Questa è la nostra strada, la nostra legge. Cerchiamo di essere autentici cristiani, di farci dirigere, dalla parola e dalla sapienza di Dio, ad accettare le imposizioni, le mortificazioni, la croce se è necessario, per essere fedeli alla scelta che deve presiedere alla nostra vita».

Infine Paolo VI, nel sottolineare la bellezza e la vastità della chiesa parrocchiale, così maestosa, solenne e solida, suggerisce ai presenti un ultimo spunto di meditazione. «Avete costruito il tempio materiale; costruite la Chiesa viva. La Chiesa siete voi; questo tempio è soltanto l’ambiente che la raccoglie. Dovete costruire la vostra comunità come una unità che ha al suo centro il parroco e coloro che presiedono al vostro bene spirituale. Dovete lasciarvi penetrare da questo senso di unità, di comunione, che in linguaggio evangelico si chiama essere fratelli, che vuol dire volersi bene, aiutarsi, avere il senso della giustizia e dell’armonia fra quanti compongono una data società. Non siete una società anonima e dispersa, siete una famiglia, un corpus, un’unità».

«Avete sentito il mese scorso - aggiunge Paolo VI – che Roma è stata tutta interessata dalla Settimana promossa dal Cardinale Vicario per la giustizia e per il bene comune della comunità ecclesiale. Voi siete una porzione di questa comunità e dovete sentire questo senso di solidarietà, di amicizia, di fraternità, di volersi bene, di perdonarsi, di aiutarsi, di essere felici, di essere in tanti, di essere insieme, di celebrare insieme, di cantare insieme, di vivere cristianamente insieme. Questo senso della “ecclesia”, della Chiesa, che vuol dire Assemblea, deve essere profondamente trasfuso nei vostri spiriti, specialmente nella gioventù, nei ragazzi, nella generazione che cresce. Che senta la fortuna di avere questa casa spirituale come ha una casa per la propria famiglia naturale. Qui sono le anime che si fondono insieme, sono i cuori che cantano insieme, sono le labbra che pregano insieme. È l’unità di Cristo che viene a trasfondersi e a fare di noi una cosa sola, un corpo solo. Noi diventiamo il Corpo Mistico di Cristo se costruiamo nella fede e nella carità questo senso di unità e di collaborazione di amore che deve distinguere la Chiesa cattolica proprio come una religione di Dio e dell’uomo».





Domenica, 24 marzo 1974: BEATIFICAZIONE DEL SACERDOTE LIBORIO WAGNER

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Un martire, un nuovo martire è riconosciuto oggi dalla Chiesa, e proposto alla venerazione dei fedeli. Il suo nome è quello del sacerdote Liborio Wagner, della diocesi di Würzburg, ucciso a trentotto anni di età, per causa della sua confessione cattolica, il 9 dicembre 1631. Varie cause hanno ritardato il riconoscimento ufficiale del suo martirio, ma ora finalmente esso risulta storicamente e canonicamente provato. E se davvero, come dicono i fatti e la fama di questo servo di Dio, egli è un martire, dunque egli è un cittadino del cielo, egli è «beato».

La prima e più forte impressione, che una tale notizia produce negli animi nostri è la meraviglia; sentimento questo che non nasce soltanto da questo momento di generale consenso della Chiesa, né dall’improvviso e ineffabile splendore di questa nuova stella che si accende al nostro sguardo nel firmamento escatologico della celeste città, ma dalla considerazione obiettiva di chi sia un martire.

Questo termine acquista in questo momento il suo pieno e stupendo significato.

Chi è un martire, nel linguaggio autentico che la Chiesa attribuisce a questa troppo spesso enfatica e abusata parola? Martire è un seguace di Cristo, che dà a Lui testimonianza col proprio sangue. Egli confessa Cristo col sacrificio cruento della propria vita.

Annuncia la propria fede morendo per essa. Dimostra con la prova più forte di cui l’uomo sia capace la fermezza della propria convinzione; non solo, il martire attesta in modo originale la verità religiosa di tale convinzione, perché egli non avrebbe da se stesso la forza sufficiente per soffrire volontariamente, senza opporre violenza a violenza, l’atrocità del martirio se l’energia dello Spirito Santo non subentrasse nella sua debolezza per trasformarla in eroismo puro (Cfr.
Mt 10,19). Egli proclama, con una evidenza che stupisce, l’esistenza d’un valore, la fede, che vale più della vita, fino a dimostrare che la fede è essa stessa la vera vita.

Noi siamo abituati alle notizie di scene di sangue e di storie in cui la violenza e la malizia si manifestano in forme drammatiche e impressionanti e ci lasciano profondamente turbati; ma quando questi avvenimenti riguardano una persona, che chiamiamo martire, non possiamo non rilevare due note salienti, le quali, senza attenuare l’orrore per la crudeltà del fatto, vi aggiungono uno stupore, che confina con l’ammirazione e con la pietà; e sono queste due note, una quella della non resistenza da parte del paziente, il quale piuttosto oppone alla fierezza dell’aggressione una singolare mitezza; l’altra quella d’un’intenzionale affermazione spirituale da parte della vittima, affermazione espressa nel sangue e nella morte, che conferisce al tragico episodio il significato ed il valore d’un sacrificio. La figura della vittima assume l’aspetto dell’agnello; ed il simbolo dell’«Agnus Dei», che subito si affaccia allo spirito, richiama il ricordo di Cristo e quasi l’identificazione del martire col divino Crocifisso; e, come avviene alla memoria della straziante morte di Liborio Wagner, sopra il dolore e lo sdegno per la sua spietata condanna prevale la visione della sua fortezza e della sua umiliata bontà. Per questo, noi dicevamo, un senso di meraviglia ci invade, e ci ritornano alla memoria le parole di Sant’Agostino: «nei martiri Cristo stesso diventa testimonio»; ed il martire tale è non tanto per la pena a lui inflitta, quanto per la causa per cui essa 6 sofferta: Martyrem non facit paena, sed causa.

Lasciamo dunque che l’ammirazione invada ora i nostri animi e con l’ammirazione il gaudio che la vittoria del martirio reca con sé. «Questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede» (1Jn 5,4).

Wir müssen der verehrungswürdigen Kirche von Würzburg unsere herzliche Mitfreude zum Ausdruck bringen. Denn ihre jahrhundertealte religiöse Überlieferung wird durch die Seligsprechung dieses ihres Sohnes Liborius Wagner geehrt, der ihr als Märtyrer des katholischen Glaubens zur Verehrung und Nachahmung vorgestellt wird. Wir selbst sind von Freude über diese Verherrlichung erfüllt und haben den Wunsch, daß sie sich fruchtbar auswirken möge für die Erneuerung des christlichen Glaubens, und zwar nicht nur für die Diözese, aus der Liborius hervorgegangen ist, sondern ebenso für die gesamte heilige katholische Kirche.

Der Verlauf seines kurzen Lebens, das auf dieser Erde erlosch, um sich durch seinen schmerzvollen und glorreichen Tod im Rimmel fortzusetzen, ist in jedem Abschnitt sehr bedeutungsvoll und verdient es, jetzt im Lichte der heutigen Verherrlichung unter seinen verschiedenen Gesichtspunkten betrachtet zu werden für eine neue Erwägung des geschichtlichen und geistlichen Rahmens, in dem es sich abspielte.

Viele bedeutungsvolle Umstände im Leben des seligen Liborius legen uns ernste und fruchtbare Überlegungen nahe. Ist seine Herkunft aus einer guten und vorbidlichen protestantischen Familie nicht schon für uns ein Grund achtungsvoller Wertschätzung des religiösen und christlichen Erbes, das sich bei der deutschen Bevölkerung trotz aller aufwühlenden Veränderungen dieser stürmischen Zeit erhalten hat? Und die Hinwendung von Liborius zum katholischen Glauben, dem diese Gebiete durch so viele Jahrhunderte mit so hochbedeutsamer und reicher Blüte christlichen Lebens und menschlicher Kultur angehörten, ist dies für uns alle nicht ein Grund zu geschichtlicher Oberlegung und zur Hoffnung für die Wiederherstellung der vollkommenen Einheit der Kirche, die immer ersehnt ist? Und muß diese Einheit, die sich von Christus ableitet und auf Christus ausgerichtet ist, nicht leiden unter der jetzt bestehenden Trennung, und darf man nicht hoffen, daß diese Trennung ihre glückliche Wiedervereinigung finde in dem einen und einzigen Glauben sowie einer neuen lebendigen Liebe?

Es möge uns gestattet sein, bei dieser Gelegenheit an die christlichen Brüder, die noch nicht in voller Gemeinschaft mit dem Apostolischen Stuhl leben, ein ehrerbietiges und herzliches Grußwort zu richten, und zwar im Namen des seligen Liborius, der uns allen den Wunsch nach einem Ukumenismus im Herzen zu bekräftigen scheint, der die Eintracht und den Frieden erneuert. Er, der selige Liborius, ist ein Beispiel, ist ein Märtyrer, den wir freilich nicht feiern wollen als eine «gezielte Glaubenskundgebung», nämlich um aus seinem Martyrium einen Grund zur Polemik und zur Anklage zu machen, wohl aber als ein Zeugnis des Beispiels für alle und der Einladung zur Versöhnung und zum Geiste der Brüderlichkeit.

Die Tatsache, daß Liborius Schüler einer hochangesehenen Schule war und dann sein junges Leben dem Priestertum und der Seelsorge weihte, wieviel Anregungen konnten wir hieraus schöpfen, um der ganzen Kulturwelt unsere Wertschätzung und unsere über-Zeugung zum Ausdruck zu bringen, daß eine Übereinstimmung zwischen wissenschaftlichem Denken und christlichem Glauben nicht nur möglich, sondern immer auch notwendig ist! Und wie gern möchten wir hier in diesem Augenblick ein wenig länger verweilen, um einen väterlichen und mitbrüderlichen Gruß an die Priester und Ordensleute zu richten, die auch heute noch ihr Leben Christus und der Kirche vollständig und für immer weihen! In besonderer Weise möchten wir sie nicht nur auf das leuchtende Beispiel des seligen Liborius Wagner hinweisen, sondern auf sie ebenso die geheimnisvolle und stärkende Kraft seines Schutzes herabrufen!

Und im Vertrauen, daß wir alle den neuen Seligen als Beispiel christlicher Stärke und Schützer unseres christlichen Glaubens in steter Treue zur Kirche Christi haben dürfen, segnen wir den Oberhirten der Diözese Würzburg und alle anderen anwesenden deutschen Bischöfe sowie die Vertreter der staatlichen Behörden und alle Gläubigen, die dieser erhebenden liturgischen Feier beiwohnen.




Domenica delle Palme, 7 aprile 1974: SACRO RITO DELLA «DOMINICA PALMARUM»

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Fratelli e Figli! e voi Giovani amici, che oggi, con intenzione speciale, Abbiamo invitati a questa celebrazione!

Voi sapete che due letture evangeliche sono oggi offerte alla nostra attenzione. La prima riguarda la solenne entrata di Gesù a Gerusalemme, alcuni giorni prima della sua passione; l’altra, durante la Messa, ci presenta la lunga narrazione di San Luca evangelista della passione stessa del Signore, che noi rileggeremo nel venerdì santo successivo, nella narrazione dell’evangelista Giovanni; perciò noi oggi fermiamo l’attenzione sulla prima lettura, quella così detta delle palme, la quale caratterizza in modo speciale questa domenica.

È molto importante conoscere il significato di questa scena evangelica. Voi la ricordate; ne avete ascoltato poco fa la lettura.

Gesù, come re mansueto (
Mt 21,5), cavalcando un asinello, sale dalla parte orientale della città, dopo Bethania, da Bethfage verso una delle porte orientali, a Gerusalemme. Ciò ch’è da notare è la folla, una folla immensa, colà addensata, anche per l’enorme afflusso di gente, che confluiva a Gerusalemme, venendo da ogni parte della Palestina, in occasione della Pasqua ebraica, che si celebrava proprio in quei giorni. Ed è da notare che Gesù, sulla sua modesta cavalcatura, diventa il centro d’una straordinaria manifestazione. Tutti si stringono d’intorno a lui, il Maestro che per i suoi miracoli e i suoi discorsi faceva tanto parlare di sé, dopo la risurrezione di Lazzaro, specialmente per una questione che turbava assai l’opinione pubblica, e che i capi ebrei di Gerusalemme non volevano nemmeno che si prospettasse. La questione era questa: chi è questo Gesù di Nazareth? chi è questo giovane maestro, che fa tanto parlare di sé? chi è? un profeta? un seduttore del popolo? chi è? Il Messia? Ecco una parola importante per capire il significato e la passione di quell’avvenimento.

Messia, che vuol dire il consacrato da Dio, era un personaggio profetico, il cui nome prestigioso attraversa, da Davide in poi (Cfr. 2 Sam. 2S 7) la storia avventurosa e infelice del popolo ebraico, come un segno di speranza, di liberazione, di grandezza. Questa idea della venuta del Messia s’era impadronita dell’opinione pubblica, sotto la dominazione dei Romani, proprio al tempo di Gesù. La predicazione di Giovanni, questo gagliardo e selvatico profeta, con la sua fiera parola e con il suo battesimo penitenziale, verso le foci del Giordano, aveva riacceso l’attesa, come imminente, del Messia; la predicazione incantevole e la figura sorprendente di Gesù avevano animato questo presentimento, ma nello stesso tempo avevano sollevato, nell’elemento dominante farisaico, una sorda opposizione alla ipotesi che Gesù, un operaio di Nazareth, privo d’ogni segno di potenza politica e di regalità gloriosa, ma forte di parola polemica e di miracoli conturbanti, fosse riconosciuto come Messia; era un personaggio equivoco e pericoloso; bisognava sopprimerlo (Cfr. Jn 7,25 ss.). Ed ecco invece che Gesù, contrariamente al suo solito, quel giorno si faceva conoscere, semplice e umile, ma per quello che era: il Figlio di Davide, cioè il Messia.

Qui si innesta una circostanza decisiva, ch’è quella per noi ora interessante: l’acclamazione della folla. Infatti la folla, che doveva essere immensa e invasa da un unico sentimento, riconobbe e proclamò Gesù di Nazareth, l’umile profeta, che saliva verso Gerusalemme su quella popolare cavalcatura, senza vittorie militari e politiche, per quello ch’Egli veramente era, quale «Figlio di David», cioè come mandato da Dio, come erede delle secolari speranze del Popolo ebraico, come Colui che veniva a liberare e a salvare la sua gente ed a instaurarne i nuovi destini. Autentica l’identificazione della Persona, illusoria tuttavia l’interpretazione del regno: non si trattava più del regno terrestre di David, ma del «regno dei cieli» (Ev. Matth.), del «regno di Dio», predicato da Cristo nel Vangelo. Sulla croce di Gesù però lo scritto di Pilato, in tre lingue, che enunciava il motivo della condanna del Signore a quel supplizio spietato, dirà ancora l’accusa che lo qualificava: «Re dei Giudei»: come tale fu crocifisso.

Ma ciò che a noi preme notare è che la proclamazione messianica di Gesù fu, sì, da lui predisposta, ma avvenne per voce di popolo; e nel popolo chi più fece risuonare quella profetica, storica e religiosa acclamazione fu il grido dei giovani, fu la voce squillante dei fanciulli. E questo per noi ha valore simbolico e permanente.

Ed ancora oggi, giovani e ragazzi che qui ci ascoltate, noi possiamo ripetere: tocca a voi, tocca a voi proclamare la gloria, svelare la missione, affermare l’identità di Gesù Cristo: Egli è il Messia, Egli è il centro dei destini dell’umanità, Egli è il liberatore, Egli è il Salvatore; e ne comprenderemo poi le ragioni profonde: perché Egli è ad un tempo Figlio dell’uomo, cioè l’uomo per eccellenza, e Figlio di Dio, cioè il Verbo di Dio che si è fatto uomo; è il Maestro, il Pane celeste del mondo; è colui di cui nessuno può fare senza; è colui di cui tutti dobbiamo e possiamo essere amici; Egli ci conosce, Egli ci ama, Egli ci salva; Lui è la Luce dell’umanità, Lui la via, la verità e la vita. L’entusiasmo per Cristo, quando si è capito qualche cosa di Lui, non ha limite; Egli è la gioia del mondo, la nostra gioia!

Giovani e ragazzi che ci ascoltate! Voi specialmente dovete comprendere questo messaggio messianico. Voi dovete capire Cristo, con un intuito speciale, sì, che possiamo dire carismatico: è il vostro dono, la vostra sapienza; capire Cristo! (Cfr. Mt 11,25)

Con questo primo risultato: deve nascere in voi la persuasione di dovere dare, in qualche modo, testimonianza a Cristo.

Dare nuova e vittoriosa testimonianza a Cristo, nel nostro tempo, tocca alla nuova generazione, tocca ai fanciulli, tocca all’adolescenza, tocca alla gioventù! oggi tocca, se domani dovrà essere compito degli adulti.

Il discorso diventa complicato e delicato: come possono i ragazzi ed i giovani essere testimoni di Cristo? e ciò che diciamo per l’elemento maschile vale senz’altro per quello femminile; le ragazze lo sanno. Dunque: come essere testimoni di Cristo? Noi potremmo restringere l’immensa e difficile estensione di questo dovere in una sola parola : siate cristiani, davvero. Siete stati battezzati: vi pensate? pregate, cioè parlate a Cristo e a Dio, il nostro amatissimo Padre celeste? siete sinceri e bravi, alla sua presenza? volete bene alle vostre Famiglie e alle vostre Scuole? fate qualche atto di bontà per chi soffre? eccetera. Voi tutte queste cose le conoscete e certamente le fate: ebbene, voi date testimonianza a Cristo, se e perché vivete da cristiani.

Ma v’è qualche cosa di più da fare: la testimonianza comporta qualche atto positivo di adesione a Cristo. Ebbene, ascoltate. Vi indichiamo una breve scala, che sale verso la testimonianza a Cristo.

Il primo gradino è quello del coraggio per il nome cristiano (Cfr. 1P 4,16): vi vergognate d’essere cristiani? d’andare in Chiesa? Questa è una prima viltà da superare; non bisogna avere vergogna e fuggire quando l’apparire religiosi e cattolici provoca gli scherni altrui, o crea qualche pericolo per il nostro nome, o il nostro interesse (Cfr. Mc 14,51).

Secondo gradino da superare: è quello della critica malevola e spesso ingiusta verso la Chiesa, le sue istituzioni, i suoi uomini; è diventata una moda, la contestazione, che mette l’amarezza e la superbia nel cuore, e inaridisce la carità, anche se assume forme puritane, che pur troppo scivolano spesso nella simpatia ed anche nella solidarietà con i nemici della Chiesa. Siate fedeli ed umili, e sarete forti, e potrete dare buone e positive testimonianze alla vostra professione cristiana e cattolica. E terzo gradino: siate desiderosi e fieri di dare il vostro nome e la vostra attiva adesione a qualche istituzione militante nel campo dell’azione, o della pietà, o della carità. Oggi, lo sappiamo, non si vuole più militare per qualche causa, o qualche idea, che sappia di religioso, o di cattolico, o di cristiano, o anche di puramente e nobilmente civile; si preferisce rimanere liberi ed esonerati da obblighi organizzativi. Questo non è sempre bene; la testimonianza viene più facile e più forte dall’unione, dall’impegno comunitario, e dalla fedeltà collettiva. Per di più noi non dobbiamo dare nei nostri animi la preferenza per le vie facili dell’indifferenza ideale, spirituale e sociale. L’individualismo, l’isolamento, la noncuranza per le cause buone non sono conformi allo stile cristiano, specialmente in ordine a ciò che ora ci interessa, la testimonianza a Cristo Signore.

Ebbene sappiate, giovani e ragazzi carissimi, che la Chiesa, e forse la storia, attende proprio da voi in questo tempo una professione cristiana, non smentita, non simulata, non indifferente, ma franca, coerente, gioiosa, ed anche, per il nostro mondo moderno, esemplare e convincente.

Ci ascoltate? siete disposti a levare in alto le vostre palme, i vostri rami d’ulivo, e ad acclamare Cristo con noi: Evviva, evviva Cristo Signore?

Tutti insieme, agitando i rami della gioia e della pace, ripetiamo: evviva Cristo Gesù!




B. Paolo VI Omelie 20274