Pastores dabo vobis 41

  Capitolo V - Ne costituì dodici che stessero con lui

La formazione dei candidati al sacerdozio

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     “Salì sul monte, chiamò a sé quelli che volle ed essi andarono da lui. Ne costituì dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (
Mc 3,13-15).

          “Che stessero con lui”: in queste parole non è difficile leggere “l’accompagnamento vocazionale” degli apostoli da parte di Gesù. Dopo averli chiamati e prima di mandarli, anzi per poterli mandare a predicare, Gesù chiede loro un “tempo” di formazione destinato a sviluppare un rapporto di comunione e di amicizia profonde con se stesso. Ad essi egli riserva una catechesi più approfondita rispetto a quella della gente (cf. Mt 13,11) e li vuole testimoni della sua silenziosa preghiera al Padre (cf. Jn 17,1-26 Lc 22,39-45).

          Nella sua sollecitudine nei riguardi delle vocazioni sacerdotali la chiesa di tutti i tempi si ispira all’esempio di Cristo. Sono state, e in parte lo sono tuttora, molto diverse le forme concrete secondo cui la chiesa si è impegnata nella pastorale vocazionale, destinata non solo a discernere ma anche ad “accompagnare” le vocazioni al sacerdozio. Ma lo spirito, che le deve animare e sostenere, rimane identico: quello di portare al sacerdozio solo coloro che sono stati chiamati e di portarli adeguatamente formati, ossia con una risposta cosciente e libera di adesione e di coinvolgimento di tutta la loro persona a Gesù Cristo che chiama all’intimità di vita con lui e alla condivisione della sua missione di salvezza. In questo senso il seminario nelle sue diverse forme e in modo analogo la “casa” di formazione dei sacerdoti religiosi, prima che essere un luogo, uno spazio materiale, rappresenta uno spazio spirituale, un itinerario di vita, un’atmosfera che favorisce e assicura un processo formativo così che colui che è chiamato da Dio al sacerdozio possa divenire, con il sacramento dell’ordine, un’immagine vivente di Gesù Cristo capo e pastore della chiesa. Nel loro messaggio finale i padri sinodali hanno colto in modo immediato e profondo il significato originale e qualificante della formazione dei candidati al sacerdozio, dicendo che “vivere in seminario, scuola del Vangelo, significa vivere al seguito di Cristo come gli apostoli; è lasciarsi iniziare da lui al servizio del Padre e degli uomini, sotto la guida dello Spirito Santo; è lasciarsi configurare al Cristo buon pastore per un migliore servizio sacerdotale nella chiesa e nel mondo. Formarsi al sacerdozio significa abituarsi a dare una risposta personale alla questione fondamentale di Cristo: “Mi ami tu?”. La risposta per il futuro sacerdote non può essere che il dono totale della propria vita”.

          Si tratta di tradurre questo spirito, che non potrà mai venir meno nella chiesa, nelle condizioni sociali, psicologiche, politiche e culturali del mondo attuale, peraltro così varie oltre che complesse, come hanno testimoniato i padri sinodali in rapporto alle diverse chiese particolari. Gli stessi padri, con accenti carichi di pensosa preoccupazione ma anche di grande speranza, hanno potuto conoscere e riflettere a lungo sullo sforzo di ricerca e di aggiornamento dei metodi di formazione dei candidati al sacerdozio in atto in tutte le loro chiese.

          Questa esortazione intende raccogliere il frutto dei lavori sinodali, stabilendo alcuni punti acquisiti, mostrando alcune mete irrinunciabili, mettendo a disposizione di tutti la ricchezza di esperienze e di itinerari formativi già positivamente sperimentati. In questa esortazione si considera distintamente la formazione “iniziale” e la formazione “permanente”, senza però mai dimenticare il profondo legame che le unisce e che deve fare delle due un unico organico percorso di vita cristiana e sacerdotale. L’esortazione si sofferma sulle diverse dimensioni della formazione, umana, spirituale, intellettuale e pastorale, come pure sugli ambienti e sui soggetti responsabili della formazione stessa dei candidati al sacerdozio.

  I. Le dimensioni della formazione sacerdotale

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     “Senza un’opportuna formazione umana l’intera formazione sacerdotale sarebbe priva del suo necessario fondamento”. Quest’affermazione dei padri sinodali esprime non soltanto un dato quotidianamente suggerito dalla ragione e confermato dall’esperienza, ma un’esigenza che trova la sua motivazione più profonda e specifica nella natura stessa del presbitero e del suo ministero.

          Il presbitero, chiamato a essere immagine viva di Gesù Cristo capo e pastore della chiesa, deve cercare di riflettere in sé, nella misura del possibile, quella perfezione umana che risplende nel Figlio di Dio fatto uomo e che traspare con singolare efficacia nei suoi atteggiamenti verso gli altri, così come gli evangelisti li presentano. Il ministero poi del sacerdote è sì di annunciare la Parola, celebrare il sacramento, guidare nella carità la comunità cristiana “nel nome e nella persona di Cristo”, ma questo rivolgendosi sempre e solo a uomini concreti: “Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio” (
He 5,1). Per questo la formazione umana del sacerdote rivela la sua particolare importanza in rapporto ai destinatari della sua missione: proprio perché il suo ministero sia umanamente il più credibile e accettabile, occorre che il sacerdote plasmi la sua personalità umana in modo da renderla ponte e non ostacolo per gli altri nell’incontro con Gesù Cristo redentore dell’uomo; è necessario che, sull’esempio di Gesù che “sapeva quello che c’è in ogni uomo” (Jn 2,25 cf. Jn 8,3-11), il sacerdote sia capace di conoscere in profondità l’animo umano, di intuire difficoltà e problemi, di facilitare l’incontro e il dialogo, di ottenere fiducia e collaborazione, di esprimere giudizi sereni e oggettivi.

          Non solo, dunque, per una giusta e doverosa maturazione e realizzazione di sé, ma anche in vista del ministero i futuri presbiteri devono coltivare una serie di qualità umane necessarie alla costruzione di personalità equilibrate, forti e libere, capaci di portare il peso delle responsabilità pastorali. Occorre allora l’educazione all’amore per la verità, alla lealtà, al rispetto per ogni persona, al senso della giustizia, alla fedeltà alla parola data, alla vera compassione, alla coerenza e, in particolare, all’equilibrio di giudizio e di comportamento. Un programma semplice e impegnativo per questa formazione umana è proposto dall’apostolo Paolo ai filippesi: “Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Ph 4,8). È interessante rilevare come Paolo, proprio in queste qualità profondamente umane, presenti se stesso come modello ai suoi fedeli: “Ciò che avete imparato – prosegue immediatamente –, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare” (Ph 4,9).

          Di particolare importanza è la capacità di relazione con gli altri, elemento veramente essenziale per chi è chiamato a essere responsabile di una comunità e a essere “uomo di comunione”. Questo esige che il sacerdote non sia né arrogante né litigioso, ma sia affabile, ospitale, sincero nelle parole e nel cuore, prudente e discreto, generoso e disponibile al servizio, capace di offrire personalmente, e di suscitare in tutti, rapporti schietti e fraterni, pronto a comprendere, perdonare e consolare (cf. ). L’umanità di oggi, spesso condannata a situazioni di massificazione e di solitudine, soprattutto nelle grandi concentrazioni urbane, si fa sempre più sensibile al valore della comunione: questo è oggi uno dei segni più eloquenti e una delle vie più efficaci del messaggio evangelico.

          In questo contesto si inserisce, come momento qualificante e decisivo, la formazione del candidato al sacerdozio alla maturità affettiva, quale esito dell’educazione all’amore vero e responsabile.


44     La maturazione affettiva suppone la consapevolezza della centralità dell’amore nell’esistenza umana. In realtà, come ho scritto nell’enciclica Redemptor hominis, “l’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente”.

          Si tratta di un amore che coinvolge l’intera persona, nelle sue dimensioni e componenti fisiche, psichiche e spirituali, e che si esprime nel “significato sponsale” del corpo umano, grazie al quale la persona dona se stessa all’altra e l’accoglie. Alla comprensione e alla realizzazione di questa “verità” dell’amore umano tende l’educazione sessuale rettamente intesa. Si deve, infatti, registrare una situazione sociale e culturale diffusa “che “banalizza” in larga parte la sessualità umana, perché la interpreta e la vive in modo riduttivo e impoverito, collegandola unicamente al corpo e al piacere egoistico”. Spesso le stesse situazioni familiari, dalle quali provengono le vocazioni sacerdotali, presentano al riguardo non poche carenze e talvolta anche gravi squilibri.

          In un simile contesto si fa più difficile, ma diventa più urgente, un’educazione alla sessualità che sia veramente e pienamente personale e che, pertanto, faccia posto alla stima e all’amore per la castità, quale “virtù che sviluppa l’autentica maturità della persona e la rende capace di rispettare e di promuovere il “significato sponsale” del corpo”.

          Ora l’educazione all’amore responsabile e la maturazione affettiva della persona risultano del tutto necessarie per chi, come il presbitero, è chiamato al celibato, ossia a offrire, con la grazia dello Spirito e con la libera risposta della propria volontà, la totalità del suo amore e della sua sollecitudine a Gesù Cristo e alla chiesa. In vista dell’impegno celibatario la maturità affettiva deve saper includere, all’interno di rapporti umani di serena amicizia e di profonda fraternità, un grande amore, vivo e personale, nei riguardi di Gesù Cristo. Come hanno scritto i padri sinodali, “è di massima importanza nel suscitare la maturità affettiva l’amore di Cristo, prolungato in una dedizione universale. Così il candidato, chiamato al celibato, troverà nella maturità affettiva un fermo fulcro per vivere la castità nella fedeltà e nella gioia”.

          Poiché il carisma del celibato, anche quando è autentico e provato, lascia intatte le inclinazioni dell’affettività e le pulsioni dell’istinto, i candidati al sacerdozio hanno bisogno di una maturità affettiva capace di prudenza, di rinuncia a tutto ciò che può insidiarla, di vigilanza sul corpo e sullo spirito, di stima e di rispetto nelle relazioni interpersonali con uomini e donne. Un aiuto prezioso può essere dato da un’adeguata educazione alla vera amicizia a immagine dei vincoli di fraterno affetto che Cristo stesso ha vissuto nella sua esistenza (cf.
Jn 11,5).

          La maturità umana, e quella affettiva in particolare, esigono una formazione limpida e forte a una libertà che si configura come obbedienza convinta e cordiale alla “verità” del proprio essere, al “significato” del proprio esistere, ossia al “dono sincero di sé” quale via e fondamentale contenuto dell’autentica realizzazione di sé. Così intesa, la libertà esige che la persona sia veramente padrona di se stessa, decisa a combattere e a superare le diverse forme di egoismo e di individualismo che insidiano la vita di ciascuno, pronta ad aprirsi agli altri, generosa nella dedizione e nel servizio al prossimo. Ciò è importante per la risposta da darsi alla vocazione, e a quella sacerdotale in specie, e per la fedeltà ad essa e agli impegni che vi sono connessi, anche nei momenti difficili. In questo itinerario educativo verso una matura libertà responsabile un aiuto può venire dalla vita comunitaria del seminario.

          Intimamente congiunta con la formazione alla libertà responsabile è l’educazione della coscienza morale: questa, mentre sollecita dall’intimo del proprio “io” l’obbedienza alle obbligazioni morali, rivela il significato profondo di tale obbedienza, quello di essere una risposta cosciente e libera, e dunque per amore, alle richieste di Dio e del suo amore. “La maturità umana del sacerdote – scrivono i padri sinodali – deve includere specialmente la formazione della sua coscienza. Il candidato infatti, perché possa fedelmente assolvere alle sue obbligazioni verso Dio e la chiesa e perché possa sapientemente guidare le coscienze dei fedeli, deve abituarsi ad ascoltare la voce di Dio, che gli parla nel cuore, e ad aderire con amore e fermezza alla sua volontà”.


45     La stessa formazione umana, se sviluppata nel contesto di un’antropologia che accoglie l’intera verità dell’uomo, si apre e si completa nella formazione spirituale. Ogni uomo, creato da Dio e redento dal sangue di Cristo, è chiamato a essere rigenerato “dall’acqua e dallo Spirito” (cf. Jn 3,5) e a divenire “figlio nel Figlio”. Sta in questo disegno efficace di Dio il fondamento della dimensione costitutivamente religiosa dell’essere umano, peraltro intuita e riconosciuta dalla semplice ragione: l’uomo è aperto al trascendente, all’assoluto; possiede un cuore che è inquieto sino a che non riposa nel Signore.

          È da questa fondamentale e insopprimibile esigenza religiosa che parte e si snoda il processo educativo di una vita spirituale intesa come rapporto e comunione con Dio. Secondo la rivelazione e l’esperienza cristiana, la formazione spirituale possiede l’inconfondibile originalità che proviene dalla “novità” evangelica. Infatti, “essa è opera dello Spirito e impegna la persona nella sua totalità; introduce nella comunione profonda con Gesù Cristo, buon pastore; conduce a una sottomissione di tutta la vita allo Spirito, in un atteggiamento filiale nei confronti del Padre e in un attaccamento fiducioso alla chiesa. Essa si radica nell’esperienza della croce per poter introdurre, in una comunione profonda, alla totalità del mistero pasquale”.

          Come si vede, si tratta di una formazione spirituale che è comune a tutti i fedeli, ma che chiede di strutturarsi secondo quei significati e quelle connotazioni che derivano dall’identità del presbitero e del suo ministero. E come per ogni fedele la formazione spirituale deve dirsi centrale e unificante in rapporto al suo essere e al suo vivere da cristiano, ossia da creatura nuova in Cristo che cammina nello Spirito, così per ogni presbitero la formazione spirituale costituisce il cuore che unifica e vivifica il suo essere prete e il suo fare il prete. In tal senso, i padri del sinodo affermano che “senza la formazione spirituale la formazione pastorale procederebbe senza fondamento” e che la formazione spirituale costituisce “come l’elemento di massima importanza nell’educazione sacerdotale”.

          Il contenuto essenziale della formazione spirituale in un preciso itinerario verso il sacerdozio è bene espresso dal decreto conciliare Optatam totius: “La formazione spirituale... sia impartita in modo tale che gli alunni imparino a vivere in intima comunione e familiarità col Padre per mezzo del suo Figlio Gesù Cristo nello Spirito Santo. Destinati a configurarsi a Cristo sacerdote per mezzo della sacra ordinazione, si abituino anche a vivere intimamente uniti a lui, come amici, in tutta la loro vita. Vivano il mistero pasquale di Cristo in modo da sapervi iniziare un giorno il popolo che sarà loro affidato. Si insegni loro a cercare Cristo nella fedele meditazione della parola di Dio; nell’attiva partecipazione ai misteri sacrosanti della chiesa, soprattutto nell’eucaristia e nell’ufficio divino; nel vescovo che li manda e negli uomini ai quali sono inviati, specialmente nei poveri, nei piccoli, negli infermi, nei peccatori e negli increduli. Con fiducia filiale amino e venerino la beatissima Vergine Maria che fu data come madre da Gesù morente in croce al suo discepolo”.


46     Il testo conciliare merita un’accurata e amorosa meditazione, dalla quale si possono facilmente enucleare alcuni fondamentali valori ed esigenze del cammino spirituale del candidato al sacerdozio.

          S’impone, innanzitutto, il valore e l’esigenza di “vivere intimamente uniti” a Gesù Cristo. L’unione al Signore Gesù, fondata sul battesimo e alimentata con l’eucaristia, domanda di esprimersi, rinnovandola radicalmente, nella vita di ogni giorno. L’intima comunione con la santissima Trinità, ossia la vita nuova della grazia che rende figli di Dio, costituisce la “novità” del credente: una novità che coinvolge l’essere e l’operare. Costituisce il “mistero” dell’esistenza cristiana che sta sotto l’influsso dello Spirito: deve costituire, di conseguenza, l’ethos della vita del cristiano. Gesù ci ha insegnato questo meraviglioso contenuto della vita cristiana, che è anche il cuore della vita spirituale, con l’allegoria della vite e dei tralci: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo... Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vita, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (
Jn 15,1 Jn 15,4-5).

          Nella cultura attuale non mancano, certo, dei valori spirituali e religiosi e l’uomo, nonostante ogni apparenza contraria, rimane instancabilmente un affamato e un assetato di Dio. Ma spesso la religione cristiana rischia di essere considerata una religione fra le tante o di essere ridotta a una pura etica sociale a servizio dell’uomo. Così non sempre emerge la sua sconvolgente novità nella storia: essa è “mistero”, è l’evento del Figlio di Dio che si fa uomo e dà a quanti l’accolgono il “potere di diventare figli di Dio” (Jn 1,12), è l’annuncio, anzi il dono di un’alleanza personale di amore e di vita di Dio con l’uomo. Solo se i futuri sacerdoti, attraverso un’adeguata formazione spirituale, avranno fatto conoscenza profonda ed esperienza crescente di questo “mistero”, potranno comunicare agli altri tale sorprendente e beatificante annuncio (cf. 1Jn 1,1-4).

          Il testo conciliare, pur consapevole dell’assoluta trascendenza del mistero cristiano, connota l’intima comunione dei futuri presbiteri con Gesù con la sfumatura dell’amicizia. Non è, questa, un’assurda pretesa dell’uomo. È semplicemente il dono inestimabile di Cristo, che ai suoi apostoli ha detto: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Jn 15,15).

          Il testo conciliare prosegue indicando un secondo grande valore spirituale: la ricerca di Gesù. “Si insegni loro a cercare Cristo”. È questo, insieme al “quaerere Deum”, un tema classico della spiritualità cristiana, che trova una sua specifica applicazione proprio nell’ambito della vocazione degli apostoli. Giovanni, nel raccontare la sequela di Gesù da parte dei primi due discepoli, mette in luce il posto occupato da questa “ricerca”. È Gesù stesso che pone la domanda: “Che cercate?”. E i due rispondono: “Rabbì, dove abiti?”. L’evangelista prosegue: “Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui” (Jn 1,37-39). In un certo senso la vita spirituale di chi si prepara al sacerdozio è dominata da questa ricerca: da questa e dal “trovare” il Maestro, per seguirlo, per stare in comunione con lui. Anche nel ministero e nella vita sacerdotale questa “ricerca” dovrà continuare, tanto è inesauribile il mistero dell’imitazione e della partecipazione alla vita di Cristo. Così come dovrà continuare questo “trovare” il Maestro, in ordine ad additarlo agli altri, meglio ancora in ordine a suscitare negli altri il desiderio di cercare il Maestro. Ma ciò è veramente possibile se agli altri viene proposta un’“esperienza” di vita, un’esperienza che meriti di essere condivisa. È stata questa la strada seguita da Andrea per condurre il fratello Simone da Gesù: Andrea, scrive l’evangelista Giovanni, “incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: “Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)” e lo condusse da Gesù” (Jn 1,41-42). E così anche Simone sarà chiamato, come apostolo, alla sequela del Messia: “Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)”” (Jn 1,42).

          Ma che significa, nella vita spirituale, cercare Cristo? e dove trovarlo? “Rabbì, dove abiti?”. Il decreto conciliare Optatam totius sembra indicare una triplice strada da percorrere: la fedele meditazione della parola di Dio, l’attiva partecipazione ai misteri sacrosanti della chiesa, il servizio della carità ai “piccoli”. Sono tre grandi valori ed esigenze che definiscono ulteriormente il contenuto della formazione spirituale del candidato al sacerdozio.


47     Elemento essenziale della formazione spirituale è la lettura meditata e orante della parola di Dio (“lectio divina”), è l’ascolto umile e pieno d’amore di colui che parla. È, infatti, nella luce e nella forza della parola di Dio che può essere scoperta, compresa, amata e seguita la propria vocazione e compiuta la propria missione, al punto che l’intera esistenza trova il suo significato unitario e radicale nell’essere il termine della parola di Dio che chiama l’uomo e il principio della parola dell’uomo che risponde a Dio. La familiarità con la parola di Dio faciliterà l’itinerario della conversione, non solo nel senso di distaccarsi dal male per aderire al bene, ma anche nel senso di alimentare nel cuore i pensieri di Dio, così che la fede, quale risposta alla Parola, diventi il nuovo criterio di giudizio e di valutazione degli uomini e delle cose, degli avvenimenti e dei problemi.

          Purché la parola di Dio sia accostata e accolta nella sua vera natura: essa, infatti, fa incontrare Dio stesso, Dio che parla all’uomo; fa incontrare Cristo, il Verbo di Dio, la verità che insieme è anche via e vita (cf.
Jn 14,6). Si tratta di leggere le “Scritture” ascoltando le “parole”, la “Parola” di Dio, come ci ricorda il concilio: “Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio”. E ancora lo stesso concilio: “Con questa rivelazione infatti Dio invisibile (cf. Col 1,15 1Tm 1,17) nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici (cf. Ex 33,11 Jn 15,14-15) e si intrattiene con essi (cf. Ba 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé”.

          La conoscenza amorosa e la familiarità orante con la parola di Dio rivestono un significato specifico per il ministero profetico del sacerdote, per il cui adeguato svolgimento diventano una condizione imprescindibile soprattutto nel contesto della “nuova evangelizzazione”, alla quale la chiesa oggi è chiamata. Il concilio ammonisce: “È necessario che tutti i chierici, in primo luogo i sacerdoti di Cristo e quanti, come i diaconi o i catechisti, attendono legittimamente al ministero della Parola, conservino un contatto continuo con le Scritture, mediante la sacra lettura assidua e lo studio accurato, affinché non diventi “vano predicatore della parola di Dio all’esterno colui che non l’ascolta di dentro” (Agostino, Serm. 179, 1: PL 38,966)”.

          La prima e fondamentale forma di risposta alla Parola è la preghiera, che costituisce senz’alcun dubbio un valore e un’esigenza primari della formazione spirituale. Questa deve condurre i candidati al sacerdozio a conoscere e a sperimentare il senso autentico della preghiera cristiana, quello di essere un incontro vivo e personale col Padre per mezzo del Figlio unigenito sotto l’azione dello Spirito, un dialogo che si fa partecipazione del colloquio filiale che Gesù ha col Padre. Un aspetto non certo secondario della missione del sacerdote è quello di essere “educatore di preghiera”. Ma solo se il sacerdote è stato formato e continua a formarsi alla scuola di Gesù orante, potrà formare gli altri a questa stessa scuola. Questo chiedono al sacerdote gli uomini: “Il sacerdote è l’uomo di Dio, colui che appartiene a Dio e fa pensare a Dio. Quando la Lettera agli ebrei parla di Cristo, lo presenta come un “sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio” (He 2,17)... I cristiani sperano di trovare nel sacerdote non solo un uomo che li accoglie, che li ascolta volentieri e testimonia loro una sincera simpatia, ma anche e soprattutto un uomo che li aiuta a guardare Dio, a salire verso di lui. Occorre dunque che il sacerdote sia formato a una profonda intimità con Dio. Coloro che si preparano al sacerdozio devono comprendere che tutto il valore della loro vita sacerdotale dipenderà dal dono che essi sapranno fare di se stessi a Cristo e, per mezzo di Cristo, al Padre”.

          In un contesto di agitazione e di rumore, come quello della nostra società, una necessaria pedagogia alla preghiera è l’educazione al senso umano profondo e al valore religioso del silenzio, quale atmosfera spirituale indispensabile per percepire la presenza di Dio e per lasciarsene conquistare (cf. 1R 19,11ss).


48     Il vertice della preghiera cristiana è l’eucaristia, che a sua volta si pone come “culmine e fonte” dei sacramenti e della liturgia delle ore. E per la formazione spirituale di ogni cristiano, e in specie di ogni sacerdote, è del tutto necessaria l’educazione liturgica nel senso pieno di un inserimento vitale nel mistero pasquale di Gesù Cristo morto e risorto, presente e operante nei sacramenti della chiesa. La comunione con Dio, fulcro dell’intera vita spirituale, è dono e frutto dei sacramenti; e nello stesso tempo è compito e responsabilità che i sacramenti affidano alla libertà del credente, affinché viva questa stessa comunione nelle decisioni, scelte, atteggiamenti e azioni della sua quotidiana esistenza. In tal senso, la “grazia” che fa “nuova” la vita cristiana è la grazia di Gesù Cristo morto e risorto, che continua a effondere il suo Spirito Santo e santificatore nei sacramenti; così come la “legge nuova” che deve guidare e normare l’esistenza del cristiano è scritta dai sacramenti nel “cuore nuovo”. Ed è legge di carità verso Dio e i fratelli, quale risposta e prolungamento della carità di Dio verso l’uomo significata e comunicata dai sacramenti. Si può immediatamente comprendere il valore di una partecipazione “piena, consapevole e attiva” alle celebrazioni sacramentali per il dono e il compito di quella “carità pastorale” che costituisce l’anima del ministero sacerdotale.

          Ciò vale soprattutto della partecipazione all’eucaristia, memoriale della morte sacrificale di Cristo e della sua gloriosa risurrezione, “sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità”, convito pasquale nel quale “ci nutriamo di Cristo, l’anima è ricolma di grazia, ci è donato il pegno della gloria”. Ora i sacerdoti, nella loro qualità di ministri delle cose sacre, sono soprattutto i ministri del sacrificio della messa: il loro ruolo è del tutto insostituibile, perché senza sacerdote non vi può essere offerta eucaristica.

          Questo spiega l’importanza essenziale dell’eucaristia per la vita e per il ministero sacerdotale e, conseguentemente, nella formazione spirituale dei candidati al sacerdozio. Con grande semplicità e all’insegna della massima concretezza ripeto: “Converrà pertanto che i seminaristi partecipino ogni giorno alla celebrazione eucaristica, di modo che, in seguito, assumano come regola della loro vita sacerdotale questa celebrazione quotidiana. Essi saranno inoltre educati a considerare la celebrazione eucaristica come il momento essenziale della loro giornata, al quale parteciperanno attivamente, mai accontentandosi di un’assistenza soltanto abitudinaria. Infine, i candidati al sacerdozio saranno formati alle intime disposizioni che l’eucaristia promuove: la riconoscenza per i benefici ricevuti dall’alto, poiché eucaristia è azione di grazie; l’atteggiamento oblativo che li spinge a unire all’offerta eucaristica di Cristo la propria offerta personale; la carità nutrita da un sacramento che è segno di unità e di condivisione; il desiderio di contemplazione e di adorazione davanti a Cristo realmente presente sotto le specie eucaristiche”.

          Doveroso e quanto mai urgente è il richiamo a riscoprire, all’interno della formazione spirituale, la bellezza e la gioia del sacramento della penitenza. In una cultura che, con rinnovate e più sottili forme di auto-giustificazione, rischia di perdere fatalmente il “senso del peccato” e, di conseguenza, la gioia consolante della richiesta di perdono (cf.
Ps 51,14) e dell’incontro con Dio “ricco di misericordia” (Ep 2,4), urge educare i futuri presbiteri alla virtù della penitenza, che è sapientemente alimentata dalla chiesa nelle sue celebrazioni e nei tempi dell’anno liturgico e che trova la sua pienezza nel sacramento della riconciliazione. Di qui scaturiscono il senso dell’ascesi e della disciplina interiore, lo spirito di sacrificio e di rinuncia, l’accettazione della fatica e della croce. Si tratta di elementi della vita spirituale, che spesso si rivelano particolarmente ardui per molti candidati al sacerdozio, cresciuti in condizioni relativamente comode e agiate e resi meno inclini e sensibili a questi stessi elementi dai modelli di comportamento e dagli ideali veicolati dai mezzi di comunicazione sociale, anche nei paesi dove più povere sono le condizioni di vita e più austera la situazione giovanile. Per questo, ma soprattutto per realizzare sull’esempio di Cristo buon pastore la “radicale donazione di sé” propria del sacerdote, i padri sinodali hanno scritto: “È necessario inculcare il senso della croce, che sta al cuore del mistero pasquale. Grazie a questa identificazione con Cristo crocifisso, in quanto servo, il mondo può ritrovare il valore dell’austerità, del dolore e anche del martirio, dentro l’attuale cultura imbevuta di secolarismo, di avidità e di edonismo”.


49     La formazione spirituale comporta anche di cercare Cristo negli uomini. La vita spirituale, infatti, è sì vita interiore, vita d’intimità con Dio, vita di preghiera e di contemplazione. Ma proprio l’incontro con Dio, e con il suo amore di Padre di tutti, pone l’esigenza indeclinabile dell’incontro con il prossimo, del dono di sé agli altri, nel servizio umile e disinteressato che Gesù ha proposto a tutti come programma di vita con la lavanda dei piedi agli apostoli: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Jn 13,15).

          La formazione al dono generoso e gratuito di sé, favorito anche dalla forma comunitaria normalmente assunta dalla preparazione al sacerdozio, rappresenta una condizione irrinunciabile per chi è chiamato a farsi epifania e trasparenza del buon pastore che dà la vita (cf. Jn 10,11 Jn 10,15). Sotto questo aspetto la formazione spirituale possiede e deve sviluppare la sua intrinseca dimensione pastorale o caritativa, e può utilmente servirsi anche di una giusta, ossia forte e tenera, devozione al Cuore di Cristo, come hanno sottolineato i padri del sinodo: “Formare i futuri sacerdoti nella spiritualità del Cuore del Signore implica condurre una vita che corrisponde all’amore e all’affetto di Cristo sacerdote e buon pastore: al suo amore verso il Padre nello Spirito Santo, al suo amore verso gli uomini sino a donare nell’immolazione la sua vita”.

          Il sacerdote è, dunque, l’uomo della carità, ed è chiamato a educare gli altri all’imitazione di Cristo e al comandamento nuovo dell’amore fraterno (cf. Jn 15,12). Ma ciò esige che lui stesso si lasci continuamente educare dallo Spirito alla carità di Cristo. In tal senso la preparazione al sacerdozio non può non implicare una seria formazione alla carità, in particolare all’amore preferenziale per i “poveri” nei quali la fede scopre la presenza di Gesù (cf. Mt 25,40) e all’amore misericordioso per i peccatori.

          Nella prospettiva della carità, che consiste nel dono di sé per amore, trova il suo posto nella formazione spirituale del futuro sacerdote l’educazione all’obbedienza, al celibato e alla povertà. In questo senso sta l’invito del concilio: “In modo ben chiaro gli alunni sappiano di non essere destinati né al dominio né agli onori, ma di dover mettersi al completo servizio di Dio e del ministero pastorale. Con particolare sollecitudine vengano educati all’obbedienza sacerdotale, a un tenore di vita povera, allo spirito di abnegazione di sé, in modo da abituarsi a rinunziare prontamente anche alle cose per sé lecite ma non convenienti e a vivere in conformità con Cristo crocifisso”.


50     La formazione spirituale di chi è chiamato a vivere il celibato deve riservare un’attenzione particolare a preparare il futuro sacerdote a conoscere, stimare, amare e vivere il celibato nella sua vera natura e nelle sue vere finalità, quindi nelle sue motivazioni evangeliche, spirituali e pastorali. Presupposto e contenuto di questa preparazione è la virtù della castità, che qualifica tutte le relazioni umane e che conduce “a sperimentare e a manifestare... un amore sincero, umano, fraterno, personale e capace di sacrifici, sull’esempio di Cristo, verso tutti e verso ciascuno”.

          Il celibato dei sacerdoti connota la castità di alcune caratteristiche, grazie alle quali essi “rinunziando alla vita coniugale per il regno dei cieli (cf.
Mt 19,12), possono aderire a Dio con un amore indivisibile, rispondente intimamente alla nuova legge, danno testimonianza della futura risurrezione (cf. Lc 20,36) e ricevono un aiuto grandissimo per l’esercizio continuo di quella perfetta carità che li renderà capaci nel ministero sacerdotale di farsi tutto a tutti”. In tal senso il celibato sacerdotale non è da considerarsi come semplice norma giuridica, né come una condizione del tutto esteriore per essere ammessi all’ordinazione, bensì come un valore profondamente connesso con l’ordinazione sacra, che configura a Gesù Cristo buon pastore e sposo della chiesa, e quindi come la scelta di un amore più grande e senza divisioni per Cristo e per la sua chiesa nella disponibilità piena e gioiosa del cuore per il ministero pastorale. Il celibato è da considerare come una grazia speciale, come un dono: “Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso” (Mt 19,11). Certamente una grazia che non dispensa, ma esige con singolare forza la risposta cosciente e libera da parte di chi la riceve. Questo carisma dello Spirito racchiude anche la grazia perché colui che lo riceve rimanga fedele per tutta la vita e compia con generosità e con gioia gli impegni che vi sono connessi. Nella formazione al celibato sacerdotale dovrà essere assicurata la coscienza del “prezioso dono di Dio”, che condurrà alla preghiera e alla vigilanza perché il dono sia custodito da tutto ciò che lo può minacciare.

          Vivendo il suo celibato il sacerdote potrà meglio compiere il suo ministero nel popolo di Dio. In particolare, mentre testimonierà il valore evangelico della verginità, potrà sostenere gli sposi cristiani a vivere in pienezza il “grande sacramento” dell’amore di Cristo sposo per la chiesa sua sposa, così come la sua fedeltà nel celibato sarà di aiuto per la fedeltà degli sposi.

          L’importanza e la delicatezza della preparazione al celibato sacerdotale, specialmente nelle attuali situazioni sociali e culturali, hanno portato i padri sinodali a una serie di richieste, la cui validità permanente è peraltro confermata dalla saggezza della chiesa madre. Le ripropongo autorevolmente come criteri da seguirsi nella formazione alla castità nel celibato: “I vescovi insieme ai rettori e ai direttori spirituali dei seminari stabiliscano principi, offrano criteri e diano aiuti per il discernimento in questa materia. Di massima importanza per la formazione alla castità nel celibato sono la sollecitudine del vescovo e la vita fraterna tra i sacerdoti. In seminario, durante il periodo di formazione, il celibato deve essere presentato con chiarezza, senza alcuna ambiguità e in modo positivo: il seminarista deve avere un adeguato grado di maturità psichica e sessuale, nonché una vita assidua e autentica di preghiera, e deve porsi sotto la direzione di un padre spirituale. Il direttore spirituale deve aiutare il seminarista perché egli stesso giunga a una decisione matura e libera, che sia fondata nella stima dell’amicizia sacerdotale e dell’autodisciplina, come pure nell’accettazione della solitudine e in un retto stato personale fisico e psicologico. Per questo i seminaristi conoscano bene la dottrina del concilio Vaticano II, l’enciclica Sacerdotalis caelibatus e l’istruzione per la formazione al celibato sacerdotale, edita dalla Congregazione per l’educazione cattolica nel 1974. Perché il seminarista possa abbracciare con decisione libera il celibato sacerdotale per il regno dei cieli è necessario che conosca la natura cristiana e veramente umana, nonché il fine della sessualità nel matrimonio e nel celibato. È necessario anche istruire ed educare i fedeli laici circa le motivazioni evangeliche, spirituali e pastorali proprie del celibato sacerdotale così che aiutino i presbiteri con l’amicizia, la comprensione e la collaborazione”.


51     La formazione intellettuale, pur avendo una sua specificità, si connette profondamente, sino a costituirne un’espressione necessaria, con la formazione umana e quella spirituale: si configura, infatti, come un’esigenza insopprimibile dell’intelligenza con la quale l’uomo “partecipa della luce della mente di Dio” e cerca di acquisire una sapienza, che, a sua volta, si apre e punta sulla conoscenza e sull’adesione a Dio.

          La formazione intellettuale dei candidati al sacerdozio trova la sua specifica giustificazione nella natura stessa del ministero ordinato e manifesta la sua urgenza attuale di fronte alla sfida della “nuova evangelizzazione” alla quale il Signore chiama la chiesa alle soglie del terzo millennio. “Se già ogni cristiano – scrivono i padri sinodali – deve essere pronto a difendere la fede e a rendere ragione della speranza che vive in noi (cf.
1P 3,15), molto di più i candidati al sacerdozio e i presbiteri devono avere diligente cura del valore della formazione intellettuale nell’educazione e nell’attività pastorale, dal momento che per la salvezza dei fratelli e delle sorelle devono cercare una più profonda conoscenza dei misteri divini”. La situazione attuale poi, pesantemente segnata dall’indifferenza religiosa e insieme da una sfiducia diffusa nei riguardi della reale capacità della ragione di raggiungere la verità oggettiva e universale, e da problemi e interrogativi inediti provocati dalle scoperte scientifiche e tecnologiche, esige con forza un livello eccellente di formazione intellettuale, tale cioè da rendere i sacerdoti capaci di annunciare, proprio in un simile contesto, l’immutabile Vangelo di Cristo e di renderlo credibile di fronte alle legittime esigenze della ragione umana. Si aggiunga, inoltre, che l’attuale fenomeno del pluralismo quanto mai accentuato, nell’ambito non solo della società umana, ma anche della stessa comunità ecclesiale, chiede una particolare attitudine al discernimento critico: è un ulteriore motivo che dimostra la necessità di una formazione intellettuale quanto mai seria.

          Questa motivazione “pastorale” della formazione intellettuale riconferma quanto già detto sull’unità del processo educativo nelle sue diverse dimensioni. L’impegno di studio, che occupa non poca parte della vita di chi si prepara al sacerdozio, non è affatto una componente esteriore e secondaria della sua crescita umana, cristiana, spirituale e vocazionale: in realtà attraverso lo studio, soprattutto della teologia, il futuro sacerdote aderisce alla parola di Dio, cresce nella sua vita spirituale e si dispone a compiere il suo ministero pastorale. È questo il molteplice e unitario scopo dello studio teologico indicato dal concilio e riproposto dall’Instrumentum laboris del sinodo: “Affinché possa essere pastoralmente efficace, la formazione intellettuale va integrata in un cammino spirituale segnato dell’esperienza personale di Dio, in modo tale da superare una pura scienza nozionistica e pervenire a quella intelligenza del cuore che sa “vedere” prima ed è in grado poi di comunicare il mistero di Dio ai fratelli”.


52     Un momento essenziale della formazione intellettuale è lo studio della filosofia, che conduce a una più profonda comprensione e interpretazione della persona, della sua libertà, delle sue relazioni con il mondo e con Dio. Essa si rivela di grande urgenza, non solo per il legame che esiste tra gli argomenti filosofici e i misteri della salvezza studiati in teologia alla luce superiore della fede, ma anche di fronte a una situazione culturale quanto mai diffusa che esalta il soggettivismo come criterio e misura della verità: solo una sana filosofia può aiutare i candidati al sacerdozio a sviluppare una coscienza riflessa del rapporto costitutivo che esiste tra lo spirito umano e la verità, quella verità che si rivela a noi pienamente in Gesù Cristo. Né è da sottovalutare l’importanza della filosofia per garantire quella “certezza di verità” che, sola, può stare alla base della donazione personale totale a Gesù e alla chiesa. Non è difficile capire come alcune questioni molto concrete, quali l’identità del sacerdote e il suo impegno apostolico e missionario, sono profondamente legate alla questione, tutt’altro che astratta, della verità: se non si è certi della verità, come è possibile mettere in gioco l’intera propria vita e avere la forza per interpellare sul serio la vita degli altri?

          La filosofia aiuta non poco il candidato ad arricchire la sua formazione intellettuale del “culto della verità”, cioè di una specie di venerazione amorosa della verità, la quale conduce a riconoscere che la verità stessa non è creata e misurata dall’uomo ma all’uomo è data in dono dalla verità suprema, Dio; che, sia pure con limiti e a volte con difficoltà, la ragione umana può raggiungere la verità oggettiva e universale, anche quella riguardante Dio e il senso radicale dell’esistenza; che la fede stessa non può prescindere dalla ragione e dalla fatica di “pensare” i suoi contenuti, come testimoniava la grande mente di Agostino: “Ho desiderato vedere con l’intelletto ciò che ho creduto, e ho molto disputato e faticato”.

          Per una più profonda comprensione dell’uomo e dei fenomeni e delle linee evolutive della società, in ordine all’esercizio il più possibile “incarnato” del ministero pastorale, di non poca utilità possono essere le cosiddette “scienze dell’uomo”, come la sociologia, la psicologia, la pedagogia, la scienza dell’economia e della politica, la scienza della comunicazione sociale. Sia pure nell’ambito ben preciso delle scienze positive o descrittive, queste aiutano il futuro sacerdote a prolungare la “contemporaneità” vissuta da Cristo. “Cristo, diceva Paolo VI, si è fatto contemporaneo ad alcuni uomini e ha parlato nel loro linguaggio. La fedeltà a lui chiede che questa contemporaneità continui”.


53     La formazione intellettuale del futuro sacerdote si basa e si costruisce soprattutto sullo studio della “sacra doctrina”, della teologia. Il valore e l’autenticità della formazione teologica dipendono dal rispetto scrupoloso della natura propria della teologia, che i padri sinodali hanno così compendiato: “La vera teologia proviene dalla fede e intende condurre alla fede”. È questa la concezione che la chiesa cattolica, e il suo magistero in specie, hanno costantemente proposto. È questa la linea seguita dai grandi teologi, che hanno arricchito il pensiero della chiesa cattolica lungo i secoli. San Tommaso è oltremodo esplicito, quando afferma che la fede è come l’habitus della teologia, ossia il suo principio operativo permanente, e che tutta la teologia è ordinata a nutrire la fede.

          Il teologo è, dunque, anzitutto un credente, un uomo di fede. Ma è un credente che s’interroga sulla propria fede (“fides quaerens intellectum”), che s’interroga al fine di raggiungere una comprensione più profonda della fede stessa. I due aspetti, la fede e la riflessione matura, sono profondamente connessi, intrecciati: proprio la loro intima coordinazione e compenetrazione decide della vera natura della teologia, e conseguentemente decide dei contenuti, delle modalità e dello spirito secondo cui la “sacra doctrina” va elaborata e studiata.

          Poiché poi la fede, punto di partenza e di arrivo della teologia, opera un rapporto personale del credente con Gesù Cristo nella chiesa, anche la teologia possiede delle intrinseche connotazioni cristologiche ed ecclesiali, che il candidato al sacerdozio deve consapevolmente assumere, non solo per le implicazioni che riguardano la sua vita personale, ma anche per quelle che toccano il suo ministero pastorale. Se è accoglienza della parola di Dio, la fede si risolve in un “sì” radicale del credente a Gesù Cristo, Parola piena e definitiva di Dio al mondo (cf.
He 1,1ss). Di conseguenza, la riflessione teologica trova il suo centro nell’adesione a Gesù Cristo, sapienza di Dio: la stessa riflessione matura deve dirsi una partecipazione al “pensiero” di Cristo (cf. 1Co 2,16) nella forma umana di una scienza (“scientia fidei”). Nello stesso tempo, la fede inserisce il credente nella chiesa e lo rende partecipe della vita della chiesa, quale comunità di fede. Di conseguenza, la teologia possiede una dimensione ecclesiale, perché è una riflessione matura sulla fede della chiesa e da parte del teologo che è membro della chiesa.

          Queste prospettive cristologiche ed ecclesiali, che sono connaturali alla teologia, aiutano a sviluppare nei candidati al sacerdozio, insieme al rigore scientifico, un grande e vivo amore a Gesù Cristo e alla sua chiesa: quest’amore, mentre nutre la loro vita spirituale, li orienta al generoso compimento del loro ministero. Proprio questo era, in definitiva, l’intento del concilio Vaticano II che sollecitava il riordinamento degli studi ecclesiastici disponendo meglio le varie discipline filosofiche e teologiche e facendole “convergere concordemente alla progressiva apertura delle menti degli alunni verso il mistero di Cristo, il quale compenetra tutta la storia del genere umano, agisce continuamente nella chiesa e opera principalmente attraverso il ministero sacerdotale”.

          Formazione intellettuale teologica e vita spirituale, in particolare vita di preghiera, s’incontrano e si rafforzano a vicenda, senza nulla togliere né alla serietà della ricerca né al sapore spirituale della preghiera. San Bonaventura ci avverte: “Nessuno creda che gli basti la lettura senza l’unzione, la speculazione senza la devozione, la ricerca senza lo stupore, l’osservazione senza l’esultanza, l’attività senza la pietà, la scienza senza la carità, l’intelligenza senza l’umiltà, lo studio senza la grazia divina, l’indagine senza la sapienza dell’ispirazione divina”.


54     La formazione teologica è opera quanto mai complessa e impegnativa. Essa deve condurre il candidato al sacerdozio a possedere una visione delle verità rivelate da Dio in Gesù Cristo e dell’esperienza di fede della chiesa che sia completa e unitaria: di qui la duplice esigenza di conoscere “tutte” le verità cristiane, senza operare delle scelte arbitrarie, e di conoscerle in modo organico. Ciò esige che l’alunno sia aiutato a operare una sintesi che sia il frutto degli apporti delle diverse discipline teologiche, la cui specificità acquista autentico valore solo nella loro profonda coordinazione.

          Nella sua riflessione matura sulla fede, la teologia si muove in due direzioni. La prima è quella dello studio della parola di Dio: la parola scritta nel Libro sacro, celebrata e vissuta nella tradizione viva della chiesa, autorevolmente interpretata dal magistero della chiesa. Di qui lo studio della sacra Scrittura, “che deve essere come l’anima di tutta la teologia”, dei padri della chiesa e della liturgia, come pure della storia della chiesa e dei pronunciamenti del magistero. La seconda direzione è quella dell’uomo, interlocutore di Dio: l’uomo chiamato a “credere”, a “vivere”, a “comunicare” agli altri la fides e l’ethos cristiani. Di qui lo studio della dogmatica, della teologia morale, della teologia spirituale, del diritto canonico e della teologia pastorale.

          Il riferimento all’uomo credente conduce la teologia ad avere una particolare attenzione, da un lato, all’istanza fondamentale e permanente del rapporto fede-ragione, dall’altro, ad alcune esigenze più collegate con la situazione sociale e culturale d’oggi. Dal primo punto di vista, si ha lo studio della teologia fondamentale, che ha per oggetto il fatto della rivelazione cristiana e la sua trasmissione nella chiesa. Dall’altro punto di vista, si impongono discipline che hanno conosciuto e conoscono un più deciso sviluppo come risposte a problemi oggi fortemente sentiti. Così lo studio della dottrina sociale della chiesa, che “appartiene... al campo della teologia e, specialmente, della teologia morale” e che è da annoverarsi tra le “componenti essenziali” della “nuova evangelizzazione”, di cui costituisce uno strumento. Così lo studio della missione, dell’ecumenismo, del giudaismo, dell’islam e delle altre religioni non cristiane.


55     La formazione teologica attuale deve prestare attenzione ad alcuni problemi che non poche volte sollevano difficoltà, tensioni, confusioni all’interno della vita della chiesa. Si pensi al rapporto tra i pronunciamenti del magistero e le discussioni teologiche, un rapporto che non sempre si configura come dovrebbe essere, all’insegna cioè della collaborazione. Certamente “il magistero vivo della chiesa e la teologia, pur avendo doni e funzioni diverse, hanno ultimamente il medesimo fine: conservare il popolo di Dio nella verità che libera e farne così la “luce delle nazioni”. Questo servizio alla comunità ecclesiale mette in relazione reciproca il teologo con il magistero. Quest’ultimo insegna autenticamente la dottrina degli apostoli e, traendo vantaggio dal lavoro teologico, respinge le obiezioni e le deformazioni della fede, proponendo inoltre con l’autorità ricevuta da Gesù Cristo nuovi approfondimenti, esplicitazioni e applicazioni della dottrina rivelata. La teologia invece acquisisce, in modo riflesso, un’intelligenza sempre più profonda della parola di Dio, contenuta nella Scrittura e trasmessa fedelmente dalla tradizione viva della chiesa sotto la guida del magistero, cerca di chiarire l’insegnamento della rivelazione di fronte all’istanza della ragione, e infine gli dà una forma organica e sistematica”. Quando però, per una serie di motivi, questa collaborazione viene meno, occorre non prestarsi a equivoci e a confusioni, sapendo distinguere accuratamente “la dottrina comune della chiesa dalle opinioni dei teologi e dalle tendenze che presto passano (le cosiddette “mode”)”. Non si dà un magistero “parallelo”, perché l’unico magistero è quello di Pietro e degli apostoli, del papa e dei vescovi.

          Un altro problema, avvertito soprattutto là dove gli studi seminaristici sono affidati a istituzioni accademiche, riguarda il rapporto tra il rigore scientifico della teologia e la sua destinazione pastorale, e pertanto la natura pastorale della teologia. Si tratta, in realtà, di due caratteristiche della teologia e del suo insegnamento che non solo non si oppongono tra loro, ma che concorrono, sia pure sotto profili diversi, alla più completa intelligenza della fede. Infatti la pastoralità della teologia non significa una teologia meno dottrinale o addirittura destituita della sua scientificità; significa, invece, che essa abilita i futuri sacerdoti ad annunciare il messaggio evangelico attraverso i modi culturali del loro tempo e a impostare l’azione pastorale secondo un’autentica visione teologica. E così, da un lato, uno studio rispettoso della scientificità rigorosa delle singole discipline teologiche contribuirà alla più completa e profonda formazione del pastore d’anime come maestro della fede; dall’altro lato, l’adeguata sensibilità alla destinazione pastorale renderà veramente formativo per i futuri presbiteri lo studio serio e scientifico della teologia.

          Un ulteriore problema è dato dall’esigenza, oggi fortemente sentita, dell’evangelizzazione delle culture e dell’inculturazione del messaggio della fede. È questo un problema eminentemente pastorale, che deve entrare con maggiore ampiezza e sensibilità nella formazione dei candidati al sacerdozio: “Nelle attuali circostanze nelle quali, in varie regioni del mondo, la religione cristiana è considerata come qualcosa di estraneo alle culture sia antiche sia moderne, è di grande importanza che in tutta la formazione intellettuale e umana si ritenga come necessaria ed essenziale la dimensione dell’inculturazione”. Ma ciò pre-esige una teologia autentica, ispirata ai principi cattolici circa l’inculturazione. Questi principi si collegano con il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio e con l’antropologia cristiana e illuminano il senso autentico dell’inculturazione: questa, di fronte alle più diverse e talvolta contrapposte culture, presenti nelle varie parti del mondo, vuole essere un’obbedienza al comando di Cristo di predicare il Vangelo a tutte le genti sino agli estremi confini della terra. Una simile obbedienza non significa né sincretismo né semplice adattamento dell’annuncio evangelico, ma che il Vangelo penetra vitalmente nelle culture, si incarna in esse, superandone gli elementi culturali incompatibili con la fede e con la vita cristiana ed elevandone i valori al mistero della salvezza che proviene da Cristo. Il problema dell’inculturazione può avere un interesse specifico quando i candidati al sacerdozio provengono essi stessi da antiche culture: avranno bisogno, allora, di vie adeguate di formazione, sia per superare il pericolo di essere meno esigenti e di sviluppare un’educazione più debole ai valori umani, cristiani e sacerdotali, sia per valorizzare gli elementi buoni e autentici delle loro culture e tradizioni.


56     Seguendo l’insegnamento e gli orientamenti del concilio Vaticano II e le indicazioni applicative della Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, si è determinato nella chiesa un vasto aggiornamento dell’insegnamento delle discipline filosofiche e soprattutto teologiche nei seminari. Pur bisognoso in alcuni casi di ulteriori emendamenti e sviluppi, questo aggiornamento ha contribuito nel suo insieme a qualificare sempre più la proposta educativa nell’ambito della formazione intellettuale. Al riguardo “i padri sinodali hanno nuovamente affermato, con frequenza e con chiarezza, la necessità, anzi l’urgenza che venga applicato nei seminari e nelle case di formazione il piano fondamentale degli studi, sia universale che delle singole nazioni o conferenze episcopali”.

          È necessario contrastare con decisione la tendenza a ridurre la serietà e l’impegno degli studi, che si manifesta in alcuni contesti ecclesiali, come conseguenza anche di una preparazione di base insufficiente e lacunosa degli alunni che iniziano il curricolo filosofico e teologico. È la stessa situazione contemporanea a esigere sempre più dei maestri che siano veramente all’altezza della complessità dei tempi e siano in grado di affrontare, con competenza e con chiarezza e profondità di argomentazioni, le domande di senso degli uomini d’oggi, alle quali solo il Vangelo di Gesù Cristo dà la piena e definitiva risposta.


57     L’intera formazione dei candidati al sacerdozio è destinata a disporli in un modo più particolare a comunicare alla carità di Cristo, buon pastore. Questa formazione, dunque, nei suoi diversi aspetti, deve avere un carattere essenzialmente pastorale. Lo affermava chiaramente il decreto conciliare Optatam totius in rapporto ai seminari maggiori: “L’educazione degli alunni deve tendere allo scopo di formare veri pastori d’anime sull’esempio di nostro Signore Gesù Cristo maestro, sacerdote e pastore. Gli alunni perciò vengano preparati: al ministero della parola, in modo da penetrare sempre meglio la parola di Dio rivelata, rendersela propria con la meditazione e saperla esprimere con la parola e con la vita; al ministero del culto e della santificazione, in modo che pregando e celebrando le azioni liturgiche sappiano esercitare l’opera della salvezza per mezzo del sacrificio eucaristico e dei sacramenti; al servizio di pastore, per essere in grado di rappresentare agli uomini Cristo, il quale “non venne per essere servito, ma per servire e dare la sua vita a redenzione di molti” (Mc 10,45 cf. Jn 13,12-17) e di guadagnare molti, facendosi servi di tutti (cf. 1Co 9,19)”.

          Il testo conciliare insiste sulla profonda coordinazione che esiste tra i diversi aspetti della formazione umana, spirituale, intellettuale e, nello stesso tempo, sulla loro specifica finalizzazione pastorale. In tal senso il fine pastorale assicura alla formazione umana, spirituale e intellettuale determinati contenuti e precise caratteristiche, così come unifica e specifica l’intera formazione dei futuri sacerdoti.

          Come ogni altra formazione, anche quella pastorale si sviluppa attraverso la riflessione matura e l’applicazione operativa, e affonda le sue radici vive in uno spirito, che di tutto costituisce il fulcro e la forza di impulso e di sviluppo.

          Si esige, dunque, lo studio di una vera e propria disciplina teologica: la teologia pastorale o pratica, che è una riflessione scientifica sulla chiesa nel suo edificarsi quotidiano, con la forza dello Spirito, dentro la storia; sulla chiesa, quindi, come “sacramento universale di salvezza”, come segno e strumento vivo della salvezza di Gesù Cristo nella Parola, nei sacramenti e nel servizio della carità. La pastorale non è soltanto un’arte né un complesso di esortazioni, di esperienze, di metodi; possiede una sua piena dignità teologica, perché riceve dalla fede i principi e i criteri dell’azione pastorale della chiesa nella storia, di una chiesa che “genera” ogni giorno la chiesa stessa, secondo la felice espressione di san. Beda il Venerabile: “Nam et ecclesia quotidie gignit ecclesiam”. Tra questi principi e criteri si dà quello particolarmente importante del discernimento evangelico della situazione socio-culturale ed ecclesiale entro cui si sviluppa l’azione pastorale.

          Lo studio della teologia pastorale deve illuminare l’applicazione operativa mediante la dedizione ad alcuni servizi pastorali che i candidati al sacerdozio, con necessaria gradualità e sempre in armonia con gli altri impegni formativi, devono assolvere: si tratta di “esperienze” pastorali, che possono confluire in un vero e proprio “tirocinio pastorale”, che può durare anche per diverso tempo e che chiede di essere verificato in maniera metodica.

          Ma lo studio e l’attività pastorali rimandano a una sorgente interiore, che la formazione avrà cura di custodire e di valorizzare: è la comunione sempre più profonda con la carità pastorale di Gesù, la quale, come ha costituito il principio e la forza del suo agire salvifico, così, grazie all’effusione dello Spirito Santo nel sacramento dell’ordine, deve costituire il principio e la forza del ministero del presbitero. Si tratta di una formazione destinata non soltanto ad assicurare una competenza pastorale scientifica e un’abilità operativa, ma anche e soprattutto a garantire la crescita di un modo di essere in comunione con i medesimi sentimenti e comportamenti di Cristo, buon pastore: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Ph 2,5).


58     Così intesa, la formazione pastorale non può certo ridursi a un semplice apprendistato, rivolto a familiarizzarsi con qualche tecnica pastorale. La proposta educativa del seminario si fa carico di una vera e propria iniziazione alla sensibilità del pastore, all’assunzione consapevole e matura delle sue responsabilità, all’abitudine interiore di valutare i problemi e di stabilire le priorità e i mezzi di soluzione, sempre in base a limpide motivazioni di fede e secondo le esigenze teologiche della pastorale stessa.

          Attraverso l’iniziale e graduale sperimentazione nel ministero, i futuri sacerdoti potranno essere inseriti nella viva tradizione pastorale della loro chiesa particolare, impareranno ad aprire l’orizzonte della loro mente e del loro cuore alla dimensione missionaria della vita ecclesiale, si eserciteranno in alcune prime forme di collaborazione tra loro e con i presbiteri accanto ai quali saranno mandati. A questi ultimi compete, in collegamento con la proposta del seminario, una responsabilità educativa pastorale di non poca importanza.

          Nella scelta dei luoghi e dei servizi adatti all’esercizio pastorale si dovrà avere particolare riguardo per la parrocchia, cellula vitale delle esperienze pastorali settoriali e specializzate, nella quale essi verranno a trovarsi di fronte ai problemi particolari del loro futuro ministero. I padri sinodali hanno offerto una serie di esempi concreti, come la visita ai malati; la cura degli emigrati, degli esiliati e dei nomadi; lo zelo della carità che si traduce in diverse opere sociali. In particolare essi scrivono: “È necessario che il presbitero sia testimone della carità di Cristo stesso che è passato facendo del bene (
Ac 10,38); il presbitero deve anche essere il segno visibile della sollecitudine della chiesa che è madre e maestra. E poiché l’uomo oggi è colpito da tante disgrazie, specialmente l’uomo che è travolto da una povertà disumana, dalla cieca violenza e dall’ingiusto potere, è necessario che l’uomo di Dio ben preparato a ogni opera buona (cf. 2Tm 3,16) rivendichi i diritti e la dignità dell’uomo. Si guardi però dall’aderire a false ideologie e dal dimenticare, mentre intende promuoverne la perfezione, che il mondo è redento dalla sola croce di Cristo”.

          L’insieme di queste e altre attività pastorali educa il futuro sacerdote a vivere come “servizio” la propria missione di autorità nella comunità, allontanandosi da ogni atteggiamento di superiorità o di esercizio di un potere che non sia sempre e solo giustificato dalla carità pastorale.

          Per un’adeguata formazione è necessario che le diverse esperienze dei candidati al sacerdozio assumano un chiaro carattere ministeriale, restando intimamente collegate con tutte le esigenze che sono proprie della preparazione al presbiterato e (non, certo, a scapito dello studio) in riferimento ai servizi dell’annuncio della Parola, del culto e della presidenza. Questi servizi possono diventare la traduzione concreta dei ministeri del lettorato, dell’accolitato e del diaconato.


59     Poiché l’azione pastorale è destinata per sua natura ad animare la chiesa, che è essenzialmente “mistero”, “comunione”, “missione”, la formazione pastorale dovrà conoscere e vivere queste dimensioni ecclesiali nell’esercizio del ministero.

          Fondamentale risulta essere la coscienza che la chiesa è “mistero”, opera divina, frutto dello Spirito di Cristo, segno efficace della grazia, presenza della Trinità nella comunità cristiana: una simile coscienza, mentre non attenuerà il senso di responsabilità proprio del pastore, lo renderà convinto che la crescita della chiesa è opera gratuita dello Spirito e che il suo servizio – dalla stessa grazia divina affidato alla libera responsabilità umana – è quello evangelico del servo inutile (cf.
Lc 17,10).

          La coscienza poi della chiesa quale “comunione” preparerà il candidato al sacerdozio a realizzare una pastorale comunitaria, in cordiale collaborazione con i diversi soggetti ecclesiali: sacerdoti e vescovo, sacerdoti diocesani e religiosi, sacerdoti e laici. Ma una simile collaborazione presuppone la conoscenza e la stima dei diversi doni e carismi, delle varie vocazioni e responsabilità che lo Spirito offre e affida ai membri del corpo di Cristo; esige un senso vivo e preciso della propria e dell’altrui identità nella chiesa; chiede mutua fiducia, pazienza, dolcezza, capacità di comprensione e di attesa; si radica, soprattutto su di un amore alla chiesa più grande dell’amore a se stessi e alle aggregazioni alle quali si appartiene. Di particolare importanza è preparare i futuri sacerdoti alla collaborazione con i laici. “Siano pronti – dice il concilio – ad ascoltare il parere dei laici, considerando con interesse fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da poter assieme a loro riconoscere i segni dei tempi”. Anche il recente sinodo ha insistito sulla sollecitudine pastorale verso i laici: “Occorre che l’alunno diventi capace di proporre e di introdurre i fedeli laici, soprattutto i giovani, alle diverse vocazioni (al matrimonio, ai servizi sociali, all’apostolato, ai ministeri e alle responsabilità nell’assumere l’attività pastorale, alla vita consacrata, a guidare la vita politica e sociale, alla ricerca scientifica, all’insegnamento). Soprattutto è necessario insegnare e sostenere i laici e la loro vocazione a permeare e a trasformare il mondo con la luce del Vangelo, riconoscendo il loro compito e rispettandolo”.

          Infine, la coscienza della chiesa quale comunione “missionaria”, aiuterà il candidato al sacerdozio ad amare e a vivere l’essenziale dimensione missionaria della chiesa e delle diverse attività pastorali; ad essere aperto e disponibile a tutte le possibilità oggi offerte all’annuncio del Vangelo, senza dimenticare il prezioso servizio che al riguardo può e deve essere dato dai mezzi della comunicazione sociale; a prepararsi a un ministero che gli potrà chiedere la concreta disponibilità allo Spirito Santo e al vescovo per essere mandato a predicare il Vangelo oltre i confini del suo paese.


Pastores dabo vobis 41