B. Paolo VI Omelie 8145

Lunedì, 8 dicembre 1975: CELEBRAZIONE DEL GIUBILEO «INVISIBILE» DELLE COMUNITÀ CLAUSTRALI

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Solennità dell’Immacolata Concezione di Maria


Fratelli e Figli carissimi!

Eccoci riuniti in questa patriarcale Basilica di Santa Maria Maggiore per rendere alla Madonna Immacolata un atto particolare di devozione, associando al nostro, non solo quello di voi qui presenti, ma quello altresì delle Comunità Claustrali, tanto di Roma che di tutto il mondo cattolico, le quali sono state preavvisate ed invitate ad unire in questo momento le loro anime e le loro preghiere in coro di lode, di oblazione e di invocazione a Maria Santissima.

Lo stesso diremo dei Santuari, sparsi sulla faccia della Terra, di quelli dedicati al culto della Madonna specialmente, con le loro folle di oranti e di meditanti; anche essi, i Santuari, sono convocati a questo appuntamento spirituale e giubilare, supernazionale.

E si rivolga in modo speciale a queste anime Religiose la nostra presente parola.

Con lo sguardo della fede, ben più illuminato e comprensivo di quello dei sensi, vi contempliamo questa sera riuniti intorno a noi, quasi in un’udienza invisibile ma vera, viva e vibrante, sotto lo sguardo materno della Madre di Dio, per lucrare il Santo Giubileo.

La festa odierna dell’Immacolata Concezione e il ricordo del Concilio Ecumenico Vaticano II, nel X anniversario della sua solenne chiusura, conferiscono a cotesto mistico pellegrinaggio una nota particolarmente suggestiva, ricca di spirituali significati. Ci piace rilevarne alcuni, a vostro conforto e a comune edificazione.

Rinnovamento e riconciliazione: questi i temi programmatici dell’Anno Santo, che noi abbiamo cercato di illustrare in numerosi discorsi tenuti ai pellegrini convenuti per le settimanali Udienze Generali. È forse tale programma estraneo o superfluo per i vostri spiriti, votati alla vita contemplativa? Tutt’altro! La santità, infatti, a cui voi aspirate con più assillante impegno, in un genere di vita tutto intessuto di preghiera liturgica e privata, di pratica dei consigli evangelici, di severa disciplina monastica e di penitenza, non domanda forse anche da voi, Religiosi e Religiose votati alla vita claustrale anzi da voi in grado più intenso, un progressivo rinnovamento del vecchio uomo, che ciascuno porta in sé, sempre afflitto dalle conseguenze del primo peccato, in vista della nuova vita, riconciliata con Dio, con gli Angeli, con i fratelli e con tutte le creature, in piena conformità al divino modello, Gesù Cristo, nel quale il Padre riconciliò con sé il mondo? (Cfr.
2Co 5,19) È in voi, in verità, che trova più facile attuazione la misteriosa palingenesi descritta dall’Apostolo delle genti: «Ancorché l’uomo esteriore si consumi, tuttavia quello interiore si rinnova di giorno in giorno. La nostra tribolazione, momentanea e di lieve peso, procura a noi una quantità smisurata ed eterna di gloria perché noi non miriamo alle cose visibili, ma alle invisibili; ché le cose visibili sono effimere, le invisibili, invece, eterne» (2Co 14,16-18).

Sublime, senza dubbio, e sempre attuale e necessaria per la Chiesa e per il mondo, è la vostra vocazione. Voi siete in essa confermati e confortati dalla promessa, perennemente vera, fatta dal divino Maestro : «Una sola cosa è necessaria! Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,41).

Tuttavia anche voi, a somiglianza dei discepoli nell’orto degli ulivi, esperimenterete non di rado l’amara verità delle parole di Cristo: «Lo spirito, sì, è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,41). Ma non vi perdete d’animo! Sia la vostra vita sorretta da una fiducia piena e da una devozione ardentissima allo Spirito di Cristo, spirito di fortezza e di pietà, anima del Corpo mistico; e sia inoltre addolcita da una devozione filiale e sconfinata a Maria, tempio dello Spirito Santo e perciò Madre di Dio e della Chiesa, modello insuperabile di amorosa contemplazione e di ogni cristiana virtù.

A Lei oggi, Madre della Chiesa, con particolare predilezione, raccomandiamo ciascuno di voi e tutte le vostre religiose famiglie. In Maria imitate soprattutto «la carità, con la quale Ella cooperò alla nascita dei fedeli nella Chiesa» (Lumen Gentium, LG 53). Contemplandola assiduamente, dilatate anche nelle anime vostre gli spazi della carità, sentendovi uniti tutti e tutte alla Chiesa e all’intera umanità affinché la vostra vita, apparentemente segregata entro le sacre mura dei cenobi e dei monasteri, in verità si apra e sia feconda di preghiere, di meriti, di soddisfazioni, di buoni esempi a beneficio di tutto il Corpo mistico di Cristo e del mondo intero.

Carissimi Figli e Figlie. Anche l’Anno Santo 1975 ha voluto essere principalmente un atto solenne di carità, verso Dio e verso gli uomini, come lo fu il Concilio Vaticano II. È l’amore di Dio, infatti, la prima ed inesauribile sorgente di ogni spirituale rinnovamento e di universale riconciliazione, poiché: «Omnia vincit amor!». Dal trionfo, quindi, dell’amor di Dio noi attendiamo anche il trionfo della vera pace tra tutti gli uomini di buona volontà. Siate voi tra i primi a godere la beatitudine evangelica proclamata da Cristo: «Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).

In prossimità del Santo Natale, con l’animo ricolmo di paterno affetto, noi vi rivolgiamo l’augurio che: «La pace di Dio, che eccede ogni intelligenza, custodisca i vostri cuori e le vostre menti in Cristo Gesù» (Ph 4,7).

Recitiamo ora insieme la invocazione a Maria Santissima per rinnovare a Lei la nostra filiale devozione, e per impetrare mediante la sua intercessione da Cristo Gesù, suo Figlio e Fratello nostro, i doni promessi delle sue grazie, necessarie per la nostra salvezza.




25 dicembre 1975: SOLENNE RITO DI CHIUSURA DELL'ANNO SANTO

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Natale del Signore


Figli della Chiesa!

Fratelli nel mondo!

Ascoltate ora la parola conclusiva dell'Anno Santo. Noi lo abbiamo iniziato, invocando la misericordia di Dio sopra di noi, sopra la Chiesa, sopra il mondo. Noi abbiamo dato a quel rito dell'apertura della Porta Santa un duplice significato simbolico, ma tremendamente reale, quello della necessità d'ottenere un perdono, senza del quale una barriera di disperazione ostacolerebbe il nostro ingresso nel tempio di Dio. Noi abbiamo infatti riconosciuto la nostra angosciosa ed esistenziale necessità di ricomporre il nostro rapporto normale e felice col Dio vivente; noi abbiamo spiritualmente sperimentato così la nostra incapacità assoluta a riallacciare da soli in amicizia vitale tale indispensabile rapporto; noi abbiamo rasentato con la vertigine della paura l'abisso d'una fatale rovina; noi abbiamo osato, noi uomini di questo splendido e babelico secolo, trepidanti e coraggiosi, battere ancora alla porta, da noi stessi deserta, della casa paterna, cioè della reviviscenza all'economia del Vangelo, quella della riconciliazione con l'armonia primaria, con Te, o Dio della giustizia e della bontà.

Noi lo ricorderemo per sempre: un atto, un patto di religione ha cercato di ricollegare, con esito positivo, questa nostra vita, così detta moderna, la nostra vita attuale, storica, civile, qualunque sia, negatrice, scettica, aberrante, indifferente, ovvero ancora pia e fedele, con Te, Dio, prima, vera, unica, ineffabile sorgente della Vita, che non si spegne, e che dovunque risplende. Tu sei, o Dio, per ogni verso, Necessario. Tu sei oggi nostro, o Dio, insostituibile, Dio mistero di pace e di beatitudine. Noi lo confessiamo: noi abbiamo curvato le nostre fronti folli d'orgoglio, di sufficienza, e d'insipienza, ed abbiamo rigenerato nella umiltà sincera e sapiente la nostra coscienza davanti alle esigenze del messaggio del Regno di Dio. La metánoia cristiana, che al bivio dell'indirizzo direttivo dell'esistenza, guida i passi dell'uomo nel senso esatto della salvezza, ha determinato la nostra scelta, che il battesimo, per chi fra noi è cristiano, aveva già deliberata; ora è confermata; e lo sarà per sempre. Siamo convertiti cristiani.

Ed è questo il secondo significato che per noi ha assunto l'Anno Santo: la Fede è la Vita. È la Vita, perché raggiunge Te, o Dio, sia pure sulla riva-limite della nostra capacità di conoscere e di amare; Te, oceano dell'Essere, pienezza superante e incombente d'ogni Esistenza, cielo dell'insondabile profondità, non solo della terra e del cosmo, ma pari solo a Te stesso, infinito oltre lo spazio, Padre di tutto quanto esiste. La Vita sei Tu, Dio, sospeso come una lampada beatificante sulla penombra della nostra balbettante esperienza, a contatto con il mondo, con la storia, con la nostra stessa misteriosa solitudine interiore, tanto più bisognosa di codesta luce sovrana, quanto più vasto e incognito è il panorama che la scienza e la civiltà aprono al nostro avido e sempre miope sguardo. Ed anche questo rimarrà. Noi trarremo dalla Fede - di cui Cristo, Parola del Padre, è sorgente - la luce supplementare di cui il sapere umano ha bisogno per procedere libero e fidente, nel suo progrediente cammino, lieto di poter alternare lo studio razionale e sperimentale, guidato da suoi autonomi principii, con la preghiera, sì, questo gemito, questo canto dell'anima che li conferma quei principii, li integra e li sublima.

L'uomo nuovo di questo Anno Santo non dimenticherà dunque la preghiera, e a questo linguaggio innocente dei figli di Dio, ricondurrà la infantile memoria; la Chiesa gli sarà coro e maestra. E dove andremo noi ora nell'ebbrezza di ricuperata e sempre incipiente beatitudine, di questa pace, ch'è tutta energia ed impulso all'effusione più prodiga e più fraterna? Comprenderemo noi, o Cristo, fatto pastore davanti ai nostri passi frettolosi di toccare fin d'ora, nel periodo così breve e fugace, riservato al nostro esperimento di tuoi autentici seguaci, una meta degna e concreta, comprenderemo noi il «segno dei tempi», ch'è l'amore a quel prossimo, nella cui definizione Tu hai racchiuso ogni uomo, sì, ogni uomo bisognoso di comprensione, di aiuto, di conforto, di sacrificio, anche se a noi personalmente ignoto, anche se fastidioso ed ostile, ma insignito dall'incomparabile dignità di fratello? La sapienza dell'amore fraterno, la quale ha caratterizzato in virtù ed in opere, che cristiane sono giustamente qualificate, il cammino storico della santa Chiesa, esploderà con novella fecondità, con vittoriosa felicità, con rigenerante socialità.

Non l'odio, non la contesa, non l'avarizia sarà la sua dialettica, ma l'amore, l'amore generatore d'amore, l'amore dell'uomo per l'uomo, non per alcun provvisorio ed equivoco interesse, o per alcuna amara e mal tollerata condiscendenza, ma per l'amore a Te; a Te, o Cristo scoperto nella sofferenza e nel bisogno di ogni nostro simile. La civiltà dell'amore prevarrà nell'affanno delle implacabili lotte sociali, e darà al mondo la sognata trasfigurazione dell'umanità finalmente cristiana. Così, così si conclude, o Signore, questo Anno Santo; così o uomini fratelli riprenda coraggioso e gioioso il nostro cammino nel tempo verso l'incontro finale, che fin d'ora mette sulle nostre labbra l'estrema invocazione: Vieni, o Signore Gesù (
Ap 22,20).

Buon Natale a tutti!

En tette sainte nuit, Nous souhaitons à tous un bon Noël dans la joie et la paix du Christ!

As we proclaim to the World the Birth of Jesus Christ the Son of God, we wish for all of you peace and joy of a blessed Christmas.

Con la alegría y la paz propias de la Nochebuena, deseamos a todos una santa y feliz Navidad.

In dieser heiligen Christmette wünschen Wir allenfrohe Weihnachten, gnadenreiche Weihnachten.

Que a graça e a paz do Ano Santo confortem a todos na caminhada da fé e na convivêcia do amor em Cristo: feliz Natal!






OMELIE 1976




Giovedì, 1° gennaio 1976: SOLENNITÀ DI MARIA MADRE DI DIO IX GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

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Venerabili Fratelli,

Figli carissimi!

Tre sono i temi, tre i pensieri che alimentano la nostra odierna meditazione di capodanno.

Il primo pensiero è quello del calendario civile, che si apre segnando un giorno, non dissimile dagli altri che si susseguono e che registrano il corso della nostra vita presente, la vita nel tempo. Il fatto che la numerazione dei giorni ricomincia da un numero uno, che inaugura un anno nuovo e che questo periodo del ciclo solare, a cui diamo il nome di anno, riprende nello spazio solare il suo giro puntuale e inesorabile, ci fa pensare ad una grande e indefinibile realtà cosmica e filosofica, la quale investe la nostra presente esistenza: è il tempo! E il tempo che cosa è? È il movimento d’un essere creato, è la vita transeunte e precaria delle cose che non hanno in se stesse il principio del proprio essere e non posseggono perciò l’immobilità, l’eternità. È un venir meno continuo per riaversi in uno stato successivo. Cotidie morior (
1Co 15,31), ogni giorno io affronto la morte, ha detto S. Paolo. È la precarietà della nostra esistenza, che sfugge nel moto alla propria radicale deficienza. Una meditazione difficile questa, che ha affaticato le menti dei più grandi ingegni (Cfr. S. AUGUSTINI Confessionum, XI, 24: PL 32, 821); ma che si traduce facilmente nella mentalità religiosa, la nostra, al ricordo delle parole del Signore: Non sono forse dodici le ore del giorno? se uno cammina di giorno non inciampa . . . (Jn 11,9) Parole dove è tutto l’insegnamento che a noi deve premere ricordare: il tempo è prezioso, il tempo passa, il tempo è una fase di esperimento circa la nostra sorte decisiva e definitiva. Dalla prova che noi diamo della fedeltà ai nostri doveri dipende la nostra sorte futura ed eterna. Il tempo è un dono di Dio; è un’interrogazione dell’amore di Dio alla nostra libera e, si può dire, fatale risposta. Dobbiamo essere avari di tempo, per impiegarlo bene, nell’intensità dell’operare, dell’amare e del soffrire. Non mai per un cristiano l’ozio, non mai la noia! Il riposo, sì, se necessario (Cfr. Marc. Mc 6,31), ma sempre in vista d’una vigilanza che solo all’ultimo giorno s’aprirà ad una luce senza tramonto (Sull’impiego del tempo: cfr. Si 3,2 ss.; Da 8,19).

Secondo pensiero: quello della festività, a cui è dedicato questo primo giorno dell’anno liturgico, la maternità di Maria, Madre di Dio. È come una conclusione, un coronamento del mistero del Natale. Bellissimo, ricchissimo, dolcissimo tema. Quante cose da ricordare, quante da celebrare, quante da godere a questa primizia liturgica, con cui si apre il nostro cammino nel tempo, che ancora ci è concesso di vivere in questa vigilia dell’eternità, ch’è la vita presente. La persona di Maria, quale nel Vangelo, e quale nel culto cattolico ci è presentata, nel suo profilo immacolato e virgineo, nella sua umiltà e nella sua povertà, nel suo candore così dolce e così umano, così innocente quale in nessun’altra creatura potremo incontrare, ci è messa davanti dalla liturgia nel suo incomparabile, ineffabile e per noi indispensabile mistero, quello di madre di Gesù Cristo, Figlio di Dio e nostro Salvatore. Qui occorre una promessa, un impegno: porteremo con noi, nel nostro pensiero, nella nostra devozione, nella nostra fiducia il pensiero, il culto, l’affezione a Maria Santissima, in ogni giorno dell’anno, come quello d’uno «specchio», d’un esemplare d’ogni umana e cristiana virtù, come quello della donna purissima e dolcissima, che si accompagna al nostro faticoso pellegrinaggio, come quello d’una Madre dal cuore così grande d’accogliere in sé la pienezza dell’amore di Cristo, suo Figlio, di Dio Padre, Verbo e Spirito Santo, e poi dell’amore all’umanità, alla Chiesa intera, a ciascuno di noi. Mater pulchae dilectionis, la chiama la devozione intelligente della Chiesa; non dimentichiamolo più. (E abbiamo cura di rileggere ciò che il capitolo VIII della grande costituzione sulla Chiesa, la «Lumen Gentium» del Concilio ecumenico Vaticano II ci riassume sulla teologia e sulla devozione a Maria; e se non vi dispiace, rileggete anche la nostra esortazione sul Culto alla Madonna, scritta nel febbraio del 1974). Maria merita questo nostro filiale interesse; e noi non ne abbiamo che a trarre profitto e speranza.

E il terzo pensiero non può esser altro, voi lo indovinate, che quello che qui tutti ci ha tratti, come ogni anno in varie chiese della nostra Roma, cioè quello della Pace.

È oggi la giornata della Pace; è l’esaltazione della Pace; il monito della Pace; la riflessione su la fragilità e la preziosità unica della Pace. Non abbiamo bisogno di sottolineare questi concetti: voi sapete quanto ci stanno a cuore, perché li abbiamo ripetutamente esposti alla vostra attenzione; e ancora recentemente li abbiamo affidati al Messaggio inviato, per l’odierna celebrazione della Giornata di quest’anno che sorge, a tutti i Governanti, a tutti i Reggitori di Popoli, ai responsabili nei vari livelli della vita sociale e internazionale, ai seguaci delle Religioni, ai credenti, ai figli fedeli della Chiesa. Là abbiamo parlato delle vere armi della Pace, quelle che assicurano alla convivenza civile la sua serena stabilità col far entrare a fondo, sempre più a fondo nella coscienza degli uomini, il senso della fratellanza universale; là abbiamo indicato ancora una volta i pericoli, le trepidazioni, le scintille portatrici di rovine fatali in un mondo purtroppo ancora fondato su equilibri precari, quando non su ostilità latenti o aperte; là abbiamo descritto come in una visione profetica il corteo della Pace che avanza «armata soltanto con un ramo d’ulivo», garanzia unica e insostituibile del progresso della civiltà. E scrutando con ansia i sintomi non sempre incoraggianti del tempo in cui viviamo, abbiamo esortato accoratamente alla pace, «armata solo di bontà e di amore».

Oggi, all’alba dell’anno, noi nutriamo la ferma speranza che questo cammino proceda con più sicura fermezza, con più spedito passo, con più nutrito séguito di adepti fervorosi e volonterosi: la Pace è possibile, la Pace è doverosa, la Pace è necessaria. Entra nella coscienza dei popoli la convinzione ferma e decisa che non si può costruire nulla di efficace e di duraturo per il bene dell’uomo se non nella mutua concordia, nel rispetto dei reciproci diritti, nel paziente esperimento di colloqui costruttivi e di trattative eque e leali: e guardando a ciò che avviene in questo giorno in cui - come ce ne giungono ogni anno gli echi festosi e sempre più vasti - nelle Capitali dei vari Stati del mondo, nelle Sedi delle Organizzazioni internazionali, nelle comunità ecclesiali, i responsabili civili e religiosi si soffermano in una pausa di meditata riflessione, anzi di comune preghiera, allora una gioia intensa ci pervade l’animo: ecco le vere armi della Pace che si fa strada, sia pur difficilmente e lentamente, e progredisce nei cuori degli uomini illuminati dalla luce di Dio.

Da questa Cattedra di verità e di pace, interprete autentica del Messaggio del Figlio di Dio, noi ripetiamo il nostro appello, il nostro invito: a quanti hanno in mano le sorti dei Popoli, anzi la vita o la morte di milioni di fratelli, noi ripetiamo la nostra esortazione appassionata: gli occhi innocenti e imploranti dei piccoli, dei poveri, dei sofferenti nel corpo o nello spirito per le ferite della guerra, li supplicano, il giudizio della storia li attende al varco, ma più severo e infallibile li aspetta quello di Dio. Nulla sia lasciato di intentato per comporre i dissidi, per superare le difficoltà, per promuovere il progresso umano e sociale, specie là dove più grande è il bisogno, più pressanti le difficoltà.

Ma anche ci rivolgiamo ai singoli: a voi che ci ascoltate in questa assemblea devota e luminosa, a quanti sono collegati nell’ascolto, alle persone che formano il tessuto connettivo della società, all’ «uomo della strada». Tutti siamo responsabili della Pace, tutti siamo chiamati a collaborare alla Pace, portando nell’ambiente, nella professione, nei rapporti quotidiani il nostro contributo personale all’edificazione di una società, fondata sull’amore. Tutti siamo chiamati a combattere con le armi potenti dell’amore e della fraternità per lo stabilimento, la tutela, la diffusione della Pace intorno a noi. Ciascuno incominci da sé; il numero crescerà a dismisura; è un’opera a cui nessuno deve rimanere estraneo.

Questi voti ardenti noi affidiamo alla Sapienza e alla Bontà di Colui che è il Principe della Pace: avvalori Egli con la sua grazia le buone disposizioni; e affidiamo altresì le nostre speranze a Colei che, mostrandolo al mondo come autore della Pace, può da Lui implorare sull’umanità il dono, indispensabile e grande, della vera Pace. Così ci risponda pietosa la Santa Genitrice di Dio, in questo primo giorno dell’anno a Lei dedicato; così ci accompagni per i giorni che attendiamo. Amen, amen.







Lunedì, 2 febbraio 1976: FESTA DELLA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE

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Ed ora venite, figli venerati e carissimi, e portatemi l’offerta simbolica del vostro cero, voi che della vostra vita avete fatto offerta generosa alla Chiesa ed amorosa a Cristo, Sacerdoti e Religiosi consacrati nel sacro celibato; venite voi, Figlie in Cristo devote, che la oblazione della vostra verginità distingue come fiori immacolati nel giardino della comunità cattolica; venite voi fedeli, che della onestà cristiana fate irradiante splendore della vostra sequela sui sentieri del Vangelo. Venite; e date tutti al gesto pio e devoto della consegna del cero benedetto il suo pieno significato, il suo trasfigurante valore: quello dell’ossequio e della obbedienza alla santa Chiesa, quello dell’austerità e della rettitudine del vostro stile morale, personale e comunitario, di vita cristiana, quello soprattutto della virtù della castità, conforme allo stato di vita da voi professato.

Questo significato, questo valore, specialmente della purezza cristiana noi vorremmo che fosse presente nei vostri animi, mentre compite la presente religiosa cerimonia. Perché questo pensiero dovrebbe oggi essere in noi prevalente? Oh! per molte ragioni, una occasionale per prima, relativa alla sua attualità, richiamata alla nostra attenzione dalla recente Dichiarazione della nostra Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, dichiarazione assai importante su certe questioni di etica sessuale e coronata alla fine di una bellissima e sintetica apologia della virtù della castità, «che non si limita, dice la Dichiarazione, ad evitare le colpe indicate; essa implica altresì esigenze positive e più alte. È una virtù che dà una impronta a tutta la personalità, nel suo comportamento sia interiore, che esteriore» (SACRAE CONGREGATIONIS PRO DOCTRINA FIDEI Declaratio de quibusdam quaestionibus ad sexualem ethicam spectantibus, 11).

Ed è questo aspetto positivo della purezza che noi vorremmo fosse ispiratore del rito che stiamo compiendo, confermando in noi la coscienza della sua necessità, non solo a difesa dalle aberranti opinioni e dalle alienanti debolezze, che oggi la deprezzano, e la dicono, da un lato, impossibile, dall’altro dannosa o superflua (Cfr. S. THOMAE, Summa Theologiae,
II-II 151,0 ss.), ma ad esaltazione altresì della sua funzione riparatrice del disordine etico-psicologico introdotto nella complessa compagine dell’essere umano dal peccato originale e della sua indispensabile efficacia pedagogica in vista di un autodominio equilibratore e liberatore veramente degno d’uomo nuovo e cristiano. Dovremmo riconoscere la parentela di questa virtù con la fortezza e con la bellezza dell’anima vivificata dallo Spirito Santo (Cfr. S. AMBROSII De Virginitate, 1, 1), ben ammettendo ch’essa oltrepassa, specialmente nella sua espressione perfetta, la comprensione e ancor più l’osservanza da tanta parte degli uomini (Cfr. Mt 19,11); ma sempre per concludere ch’essa, la purezza, alimentata dall’ascetica e dalla preghiera, e sostenuta dall’immancabile aiuto divino, è possibile (1Co 12,9 Ph 4,13 Mt 5,29 Mt 18,8-9), è facile anche (SACRAE CONGREGATIONIS PRO DOCTRINA FIDEI Declaratio de quibusdam quaestionibus ad sexualem ethicam spectantibus, 11 in fine), e rende felici.

Perché felici? Perché, ha detto il Signore: beati i puri di cuore, perché vedranno Dio! (Mt 5,8) Nulla rende più opaco lo sguardo sulle cose spirituali e divine che l’impurità dei pensieri, dei sensi, del corpo (1Co 2,14); e nulla meglio predispone la nostra anima all’affezione, alla comprensione, alla contemplazione dei misteri religiosi che la purezza. Essa favorisce la trasparenza della nostra preghiera sulle Realtà ineffabili alle quali si rivolge la nostra vocazione cristiana, e specialmente la nostra immolazione celibataria e verginale (Cfr. S. THOMAE Summa Theologiae, II-II 152,1-2 II-II 153,5). Essa non spegne la fiamma del cuore; essa è anzi l’atmosfera dell’amore, della carità.

Sì, verso Dio, lo possiamo in qualche modo comprendere: l’anima votata solo a Dio lo cerca, lo serve, lo ama con tutto il cuore; una concentrazione unitaria e tutta convergente sull’infinito Iddio, reso a noi per qualche verso accessibile, si produce nel nostro spirito; una continua ricerca rimane sempre vigilante; ed insieme una inalterabile pace occupa tutto il suo spazio interiore (Cfr. S. TERESA, Cammino di perfezione).

Ma verso il prossimo? Verso la società? Verso l’umanità? Oh, Fratelli, oh, Sorelle in Cristo, voi conoscete questo altro prodigio della castità votata alla carità: essa non solo non chiude le finestre delle nostre celle sul mondo, ma le apre, non per cercarvi quell’incontro pur benedetto dell’amore coniugale, che noi oggi più che mai onoriamo e sappiamo fonte, in Cristo, di grazia sacramentale e programma normale di santificazione, ma per effondersi in carità che si sublima e si dona nel servizio altrui e nel sacrificio di sé, e che rende il celibato e la verginità sorgenti incomparabili di santità evangelica, la quale assicura loro, nell’economia cristiana, il primato nella gerarchia dell’amore. Chi può meglio amare e servire gli uomini di colui che rinunciando ad ogni proprio amore umano offre la propria vita a quel Cristo Gesù, che di ogni fratello bisognoso ha fatto sacramento d’una sua mistica e sociale presenza? (Cfr. Mt 25,40 cfr. Bossuet.)

Non è egoismo la castità consacrata, ma immolazione di sé per quel regno di Dio ch’è tutto una celebrazione di carità ecclesiale, cioè positiva e universale.

Così, così, Fratelli e Sorelle in Cristo Signore: portando all’altare i nostri ceri, quasi simboli della nostra purezza offerta alla luce, alla consumazione nel sacrificio di sé, rinnoviamo nei nostri cuori l’impegno della nostra donazione e la fiducia del centuplicato premio che le è da Cristo stesso promesso (Mt 19,29 cfr. J. COPPENS, Sacerdoce et Célibat, Louvain Mt 1971 P. FELICI, Beati i puri di cuore, in «L’Osservatore Romano», 1° febbraio Mt 1976).





Domenica, 29 febbraio 1976: QUINTO CENTENARIO DELLA NASCITA DI MICHELANGELO

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Figli carissimi,

amici Artisti e Cultori dell’arte!

Per la terza volta, durante il nostro Pontificato, Voi siete stati convocati, e quest’oggi per un avvenimento che riteniamo quanto mai ricco di significato. Il primo incontro nella Cappella Sistina volle esprimere la volontà di un dialogo, o meglio la ripresa di una conversazione per il cammino dell’amicizia e di una rinnovata comunione di sentimenti e di pensieri. Nel secondo incontro i protagonisti principali siete stati Voi, Artisti e Cultori dell’arte, con opere di pittura e di scultura destinate alla Collezione d’Arte religiosa contemporanea dei Musei Vaticani, testimonianza di sincera adesione alle nostre attese e alle nostre speranze. Oggi ci ritroviamo insieme nella atmosfera grave e solenne di una celebrazione liturgica che ha lo scopo di dare degna commemorazione al quinto Centenario della nascita di Michelangelo.

Il sacro rito si svolge sotto le volte gigantesche e maestose della Cupola michelangiolesca. Nessun luogo era più adatto, a noi pare, per cogliere il valore e il significato di questa celebrazione. Tutto parla di Michelangelo qui, dove la mole stessa dell’edificio poderoso ed elegante, maestoso e religioso, già mette i nostri spiriti in esaltante contatto, in umile confronto, in riconoscente venerazione con l’incomparabile artista. Qui l’anima percepisce più che mai lo stimolo a salire verso l’alto, per qualcosa che trascende l’uomo stesso e la sua storia, in intimo e beatificante colloquio con Dio, sospinta dal medesimo desiderio di Michelangelo, che anelava ad uscire dall’orribil procella in dolce calma.

È pertanto con grande rispetto che in questa solenne circostanza noi ci avviciniamo a questa gigantesca figura del genio umano; col rispetto cioè che è dovuto a così eccelso rappresentante del mondo dell’arte, in ciò che questa ha di più elevato nella sua potenza espressiva, nella sua capacità di essere tramite di realtà invisibili, nella superiore grandezza della sua missione, come già in tanti altri messaggi della sua vocazione, divinatrice dell’arcana bellezza, ch’è nelle scoperte proporzioni delle cose e delle loro innate misure, e specialmente nelle forme dell’uomo, creato ad immagine stessa di Dio (Cfr. Gen. 1, 27). La funzione di ogni arte - diceva il nostro Predecessore Pio XII di v. m. - sta nell’infrangere il recinto angusto e angoscioso del finito, in cui l’uomo è immerso, finché vive quaggiù, e nell’aprire come una finestra al suo spirito anelante verso l’infinito (PIO XII, Discorso dell’8 aprile 1952).

In questo sta la nota inconfondibile del genio artistico di Michelangelo e l’attualità del suo messaggio. Maestro per ogni generazione di un’arte che, conquisa dei valori umanistici, fino a compiacersi delle forme di pagane espressioni, trae tuttavia la sua più alta e genuina ispirazione dai valori religiosi, Michelangelo non solo con essa intese liberare l’immagine dalla materia, la figura dalla pietra, l’idea dal disegno, ma si sforzò altresì, attraverso ammirabili forme sensibili, di rivelarci gli aspetti più veri della dignità dell’uomo, della sacralità della vita, della bellezza misteriosa e perfino terribile della concezione cristiana.

Volentieri ognuno si sofferma a considerare l’artista tutto assorto nelle sue creazioni, vivo dentro la cerchia delle fattezze umane dei suoi personaggi, emulo degli antichi nello sforzo titanico di ingigantire idealmente l’umana statura, e nel rapimento estatico di eguagliare la perfezione ellenica. Ma ciò che a noi piace maggiormente notare in questo momento è la coerenza e la forza grandiosa di realizzazione di tante opere, nelle quali il tema fondamentale, Dio e l’uomo, stanno continuamente di fronte. Meditando e contemplando il mistero del Dio vivente, creatore, redentore, giudice, Michelangelo definì il destino di ogni umana esistenza attorno all’adorabile figura di Cristo.

A questo punto il nostro pensiero vede sorgere dinanzi a sé le figure incantevoli delle più celebri sculture di Michelangelo, a cominciare da quella incredibile per un giovane non ancora venticinquenne, della Madonna che ora veglia, dolorosa e piissima, alle soglie di questa Basilica. Con questa Pietà, commenta il Papini (G. PAPINI , Vita di Michelangelo, p. 435), non è soltanto il genio giovane di Michelangelo che si afferma con vittorioso splendore agli occhi di tutti, ma nasce la grande scultura cristiana moderna, sintesi miracolosa della perfezione ellenica e della spiritualità medioevale. E poi gli altri colossali simulacri famosi, che definiscono questo massimo scultore, dal giovane atleta ch’è il Davide fiorentino, al Mosè gigante corrucciato di S. Pietro in Vincoli, alla singhiozzante Pietà del Rondanini, e via, via . . . E si arresta lo sguardo alla rivelazione, non nuova, ma qui insuperabile di Michelangelo pittore, alla Sistina, a quel sacrario dell’arte che col suo possente compendio della storia umana ricapitolata in Cristo, esprime nella maniera più sublime la grandezza religiosa dell’arte michelangiolesca. Ci piace immaginare l’artista aggirarsi negli spazi architettonici solenni, che lo videro per lunghi anni, in periodi diversi della sua vita e in momenti successivi dell’attività artistica, sui ponti di lavoro, in compagnia del suo vasto poema pittorico, a cui collaborarono, come per il poema di Dante, cielo e terra. Chi guarda quelle sequenze pittoriche, si chiede che rapporto possa avere con noi quella popolazione di figure vigorose: noi veniamo alcuni secoli dopo, e tanto la società come il mondo cristiano hanno problemi ben diversi da allora. Eppure la Sistina ci dà come il resoconto di una lotta e di una conquista, quasi un mondo in fieri, dove i figli della luce, per il carattere sacramentale che è il loro, coraggiosamente combattono, senza stancarsi, per il trionfo della verità.

Le forme, qui più che mai, sono in funzione diretta delle idee religiose. Possiamo sostare ammirati davanti alla folla della Sistina, evocata dal genio di Michelangelo; ma non si può tralasciare l’ascolto della parola, così bene individuabile nell’atteggiamento dei corpi e nell’espressione del volto: ci sono gli angeli, i profeti, gli Apostoli, i Pontefici, i martiri, i confessori della fede, il mondo delle Sibille. Domina sovrana la presenza di Dio, di un Dio giusto e misericordioso, che all’umanità decaduta offre il soccorso della redenzione per una vita nuova. Il collegamento dell’immenso scenario è la Bibbia, emergente nei suoi valori sacri attraverso le immagini che col loro linguaggio figurativo aggiungono un contributo di poesia e di profezia all’esegesi del testo sacro.

Michelangelo è l’artefice, è il demiurgo, di questa grande predicazione religiosa che a noi, non meno che agli uomini del suo tempo, appare prodigiosa per l’arditezza della sua impostazione iconografica e per la sua potenza espressiva. Non c’è parola umana che possa suscitare tanta emozione, che faccia tanto riflettere e meditare, quanto la rappresentazione che di quelle verità ha dato il Buonarroti. La Cappella Sistina con il suo Giudizio Universale diventa così quasi un libro aperto ai dotti e agli incolti, ai fedeli e ai non credenti, come pure un efficace richiamo al popolo di Dio per continuare a vivere le certezze del Vangelo, per non cadere come fanciulli sbattuti da ogni vento di dottrine per gli inganni degli uomini (
Ep 4,14-15). La nostra celebrazione liturgica vuol essere una doverosa testimonianza di gratitudine la quale, dopo che a Dio, si rivolge a Michelangelo per l’aiuto che egli stesso ha donato alla nostra preghiera, incoraggiandoci con la sua visione di arte ad elevarci verso il divino, come si eleva al cielo la maestosa Cupola ideata dal suo genio, sotto la quale insieme a tante anime cantiamo il Credo e gli inni della nostra fede.

Ed ora, amici Artisti e Cultori dell’arte qui presenti, in un momento così solenne e suggestivo il nostro pensiero si rivolge particolarmente a voi. L’esempio che ci viene da Michelangelo è una lezione che deve avere anche ai nostri giorni una sua continuità, per la dignità della vostra missione, come pure per la gioia di una nuova primavera dell’arte cristiana, che, sotto l’impulso del Concilio Vaticano II, si annunzia ricca di promesse in seno alla Chiesa. E tanto più urgente ed opportuno ci appare questo richiamo, in quanto falsi principii ispirati ad una concezione della vita senza speranza superiore minacciano di far decadere l’arte dai suoi sublimi compiti. Se l’arte, secondo la scultorea definizione dantesca, è a Dio quasi nipote, essa ha bisogno di avvicinarsi a Dio, di conoscerlo e di amarlo in uno sforzo costante di purificazione e di donazione.

Chi conosce la biografia di Michelangelo ben sa che al vespro della sua lunga vita (egli morì a 89 anni nel 1564), lo spirito inquieto e veggente dell’Artista ebbe un tormentato pensiero, il quale non paralizzò la sua mano sempre armata di scalpello, ma sconvolse il suo giudizio di valore niente meno che su l’arte, la sua arte, quasi fosse vana fatica, ostacolo alla sua salvezza. Ultimo pensiero triste e agitato del Grande, ma pensiero sapiente: egli vide che l’arte, per quanto regale e sublime, non è, nel quadro dell’umana esistenza, fine a se stessa; è e dev’essere una scala che sale; essa conta per quanto è rivolta al supremo vertice della nostra vita, a Dio. Ricordate le sue gravi parole, rese più espressive dalla poesia (forse del 1555)? Né pinger, né scolpir fia più che quieti / l’anima volta all’amor divino / c’aperse, a prender noi, ‘n croce le braccia (G. PAPINI, Vita di Michelangelo, p. 999).

Cioè l’arte, specialmente l’arte, come ogni attività umana, deve essere tesa in uno sforzo di sublimazione, come la musica, come la poesia, come il lavoro, come il pensiero, come la preghiera, deve rivolgersi in alto. Michelangelo perciò vi ricorda di quanto aiuto sia la fede per l’artista, trovando questi in essa il continuo stimolo a superarsi, a meglio esprimersi, a fondere le sue esperienze in quelle magnifiche sintesi, di cui la storia dell’arte, nei suoi momenti più alti, ci ha dato incomparabili modelli. Solo così, come esige l’altissima vostra missione, saprete mettervi a servizio nobile e cosciente dell’uomo, che ha continuamente bisogno di essere aiutato ed istruito a ben pensare, a ben sentire e a ben vivere. Porgendogli la mano fraterna che lo elevi ad amare tutto ciò che vi è di vero, di puro, di giusto, di santo, di amabile (Ph 4,8), voi avrete contribuito all’opera della pace, e il Dio della pace sarà con voi (Ibid.).

Con questo nostro paterno augurio ricevete la nostra Apostolica Benedizione.








B. Paolo VI Omelie 8145