B. Paolo VI Omelie 31106

Domenica, 31 ottobre 1976: CONVEGNO ECCLESIALE «EVANGELIZZAZIONE E PROMOZIONE UMANA»

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Salute a Voi, Fratelli e Figli carissimi, che siete venuti a questo Convegno, e che ne intuite il significato ovvio e profondo, quello d’una chiamata, che ripercuote nella nostra la voce divina, amica, penetrante e imperiosa di Gesù, il Cristo: «Venite con me; vi farò pescatori di uomini» (
Mt 4,19).

Perché si tratta di questo, voi lo sapete: di evangelizzazione e di promozione umana. La Chiesa vi invita e vi impegna ad un ripensamento della sua missione nel mondo contemporaneo, ad una coscienza religiosa autentica e nuova, ad un confronto col vertiginoso mondo moderno, anzi ad un dialogo di salvezza per chi assume la non facile missione di aprirlo, e per chi abbia la felice sorte di accoglierlo.

Ora in questo primo momento del nostro convegno, momento religioso, momento liturgico, noi tutti avvertiamo il bisogno, il dovere d’una introspezione, d’un colloquio di ciascuno con la propria coscienza, primo, per valutare l’esistenza e l’importanza della scelta ch’è stata fatta di noi invitandoci a così singolare assemblea, e poi per rispondere ciascuno per sé alla domanda interiore: qual è il senso di questa mia presenza, qui, su la tomba di San Pietro, qui nel cuore operativo e mistico della Chiesa, qui per misurare la mia personale disponibilità ai due temi formidabili che in questi giorni mi saranno proposti nelle cento facce della loro possibile presentazione: evangelizzazione e promozione umana? si tratta d’una semplice assistenza ad un torneo accademico, ad un’ascoltazione passiva, informativa, istruttiva, sì, ma non impegnativa? Ovvero questo convegno, questa individuale presenza di ciascuno di noi, presuppone una preventiva adesione alla idea-madre, che qua ci ha chiamati: l’evangelizzazione? Noi, qui radunati siamo, per grazia di Dio, già credenti, e non ci soffermiamo questa volta a discutere circa la nostra fede cattolica, ma la professiamo, e ne consideriamo una sua essenziale esigenza, quella di annunciarla, all’interno del perimetro delle nostre rispettive comunità locali, e poi all’esterno alla più larga cerchia della società profana che ci avvolge e tanto ci stimola e ci turba con la sua vertiginosa e complessa evoluzione, e che sembra mostrarsi refrattaria al nostro abituale tentativo d’interessarla al nostro tema religioso, indebitamente giudicato superfluo, estraneo, ostile, superato per la vita moderna, mentre, al tempo stesso, conserva, forse inconsciamente e spesso angosciosamente, una gemente avidità dell’ineffabile o vitale Verità che noi tutti abbiamo il responsabile privilegio di possedere (Cfr. Rm 8,19-22).

Perché, Fratelli e Figli nostri, questa è la nostra sorte stupenda e drammatica, quella d’essere coinvolti in un mirabile disegno divino, che ci vuole non solo favoriti e partecipi del regno di Dio, ma testimoni e diffusori altresì; il Vangelo non è un annuncio che si spegne stagnante in chi lo riceve, ma una voce che rimbalza e si fa eco, voce a sua volta, grido! Gesù ce lo insegnò: «quello che Io vi dico nelle tenebre, voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio, voi predicatelo sopra i tetti» (Mt 10,27). Non è un episodio; è un programma, che invade la terra e si fa storia. Cristo riassume e conclude così la sua predicazione agli apostoli: «Andate e istruite tutte le genti» (Ibid. 28, 19). La fede vivente è una fede irradiante. La Chiesa credente è Madre e Maestra, e con la dottrina del Concilio ci conferma e ci ammonisce che quanti siamo suoi figli dobbiamo essere fieri del nome cristiano, e testimoni di quanto questo nome significa e ci insegna (Cfr. Lumen Gentium, LG 33). La perenne attualità del Vangelo si afferma oggi così!

È questo dunque il momento, è questa la sede in cui ciascuno di noi, secondo la forma e la misura delle proprie condizioni, deve lasciarsi penetrare dalla coscienza di questo dovere, che ci investe in profondità, e che San Paolo, al livello ch’è suo fa discendere a quello, anche umilissimo, di ciascuno di noi: «è un dovere – egli scrive - per me! Guai a me se non predicassi il Vangelo» (1Co 9,16).

Ed è questo, Fratelli e Figli carissimi, un segno maiuscolo del tempo nostro. Il risveglio della vocazione apostolica, missionaria e operativa in seno alla Chiesa, in certe situazioni, quasi repressa, ovvero assopita nel suo sforzo evangelizzatore, secolare e costante, l’ansia cioè dell’apostolato non solo ministeriale e gerarchico, ma altresì comune, e pur sacro e benedetto di tutto il Popolo di Dio (Cfr. 1P 2,5; Lumen Gentium, LG 10), caratterizza questo nostro secolo inebriato per le sue conquiste, ma folle e stanco e miope nel suo rischioso cammino. «È venuta l’ora ed è questa» ci ripete il Signore (Jn 4,23), in cui la rivelazione evangelica del rapporto religioso col Padre nostro che sta nei cieli, lungi dall’affievolirsi e dallo spegnersi per il progresso positivo, o per la decadenza negativa dell’umanità, può riaprirsi con luce mattutina e sfolgorare nello splendore di nuove virtù spirituali ed umane, per la gloria di Dio, ed anche, con inattesa novità, per la promozione dell’uomo.

E prima che questa semplice esortazione si concluda e la celebrazione del santo sacrificio della Messa riprenda il suo sempre misterioso svolgimento e che poi le vostre relazioni e discussioni abbiano a cominciare, lasciate che vi sia raccomandata dall’altare una disposizione d’animo, una virtù anzi, propria del cristiano, propria di chi si sa e si sente membro della Chiesa, che di lei vive e per lei prega, opera e soffre. La fiducia! La fiducia nel piano dell’amorosa economia divina, in cui la nostra esistenza cristiana è inserita e la nostra azione si svolge. La nostra fiducia si fonda su la fede: «Non si turbi il vostro cuore - ci ammonisce il Signore Gesù -; abbiate fede in Dio; ed anche di me fidatevi» (Ibid. Jn 14,1). È una forza d’animo e comporta una magnanimità di spirito, ci ricorda Maestro Tommaso (S. THOMAE Summa Theologiae, II-II 129,6). Per evangelizzare occorre essere coraggiosi; non avere paura di nulla e di nessuno (Cfr. Mt 10,28). Il che non vuol dire essere spregiudicati e temerari, come oggi è pur troppo costume per alcuni, ma umili e forti, audaci e leali con tutti. E ricordare che anche le sventure e le difficoltà possono giovare alla causa del Vangelo, alla nostra e a quella di coloro per cui vogliamo promuovere il bene. «Noi sappiamo - dice una ben nota parola di San Paolo - che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno» (Rm 8,28). E poi noi dobbiamo rifornire la nostra fiducia nella comunione dei Santi, nella protezione della Madonna specialmente. Così il genio inventivo e operativo della promozione umana, che scaturisce dal Vangelo e da questa assistenza celeste, trovi nella fiducia cristiana, non altrove, quella «vehemens opinio» (S. THOMAE Summa Theologiae, II-II 129,6), quella energica convinzione che lo rende efficace. Cosi sia, Fratelli e Figli, così sia.




Domenica, 14 novembre 1976: SOLENNE BEATIFICAZIONE DI MARIA DI GESÙ LOPEZ DE RIVAS

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Chi è, chi è la nuova Beata, che la santa Chiesa oggi propone alla nostra conoscenza? alla nostra venerazione? alla nostra imitazione? Questa sempre solenne e singolare cerimonia di beatificazione acquista innanzi tutto il significato d’una presentazione rivelatrice, la quale, forse anche nell’interno del duplice chiuso alveare del Carmelo scalzo, maschile e femminile, suscita una felice sorpresa: non tutti avevano di questa privilegiata Sorella un’adeguata conoscenza; e si spiega perché. Il profilo biografico, che è stato letto testé, secondo il cerimoniale della Sacra Congregazione per le Cause dei Santi, e che ciascuno può leggere nell’opuscolo pubblicato per questa liturgia, ci ha informati che la nuova Beata, Maria di Gesù, vissuta fra il secolo XVI e il secolo XVII, fu accolta diciassettenne nel Carmelo di Toledo, che era stato fondato pochi anni prima da Santa Teresa stessa, allora vivente in Avila, e ciò in virtù d’una presentazione quanto mai elogiativa della grande Fondatrice. Nel Carmelo di Toledo la nostra Beata passò, si può dire, tutta la vita ed ivi morì nel 1640. Ed ecco la singolarità, che può spiegare la limitata conoscenza della sua vicenda spirituale anche in persone del suo Ordine: nonostante la fama di santità, che l’accompagnò in vita e continuò a circondarne la memoria anche dopo la morte, difficoltà di varia indole ritardarono l’istruzione del processo canonico, che avviato regolarmente non prima degli inizi di questo secolo, conobbe ancora contrattempi e pause ed ha potuto giungere alla sua conclusione solo ai giorni nostri. È quindi soltanto ora che viene presentata alla Chiesa in tutto il suo fulgore l’avvincente figura di questa donna, che oltre tre secoli di storia separano da noi, lontani pellegrini nel tempo.

Provvidenza anche questa per noi, ai quali è dato di contemplare nella fisionomia della nuova Beata un riverbero autentico della spiritualità di Santa Teresa, la riformatrice del Carmelo, una delle personalità più significative della riforma cattolica. Con Maria di Gesù siamo riportati infatti a quel periodo, carico di tensioni e di fermenti, che seguì la conclusione del Concilio di Trento. È il periodo d’oro delle lettere, delle arti, della potenza militare della Spagna, giunta all’apogeo della sua fortuna politica e cavalleresca. È anche il periodo, che vede la Chiesa impegnata nel massimo sforzo spirituale e disciplinare, nell’intento di tradurre in vita cristiana vissuta le direttive conciliari. È in particolare il periodo nel quale santa Teresa con coraggio indomito lavora alla realizzazione del progetto di un rilancio della regola «primitiva» dell’Ordine carmelitano.

Maria Lopez de Rivas è profondamente colpita ed attratta dalla prospettiva di donazione totale, che Madre Teresa propone; e dopo matura e sofferta riflessione decide: sarà carmelitana e lo sarà nello spirito e secondo la disciplina voluta da Teresa di Gesù. Ormai per capire Maria bisognerà guardare a Teresa, la grande maestra di una vita interiore, intesa come comunione ininterrotta col Cristo, mediante il dialogo di amicizia della preghiera (Cfr. S. TERESA, Vita, 8, 5) e la disponibilità costante della volontà al servizio di Dio (Cfr. IDEM, Castello interiore, VII, 8, 4). Suor Maria di Gesù si lascerà permeare totalmente da questi insegnamenti della Madre e come lei orienterà la sua esperienza spirituale verso una maturazione progressiva nella fede, vissuta come adesione totale al Cristo e alla sua Chiesa, nella speranza, alimentata da una tensione inalterabile a Dio e al Cielo, nella carità, accolta e donata con uno slancio non soggetto a stanchezze.

La nostra Beata tuttavia non mancherà di modellare le grandi linee della spiritualità Teresiana secondo un suo disegno personale, dal quale emergerà la sua peculiare fisionomia spirituale. I tratti caratteristici di essa possono riassumersi nella più marcata ed esplicita partecipazione affettiva ed effettiva ai misteri di Cristo, proposti dalla Sacra Liturgia nei diversi momenti dell’anno. La troviamo così, durante l’Avvento, totalmente assorbita e quasi trascinata fuori di sé dalla profonda contemplazione del mistero del Dio incarnato. Durante le feste di Natale ci incontriamo nella sua singolare devozione a Gesù Bambino, che lei familiarmente chiama «dottore dell’infermità d’amore».

Nella Quaresima e soprattutto nei giorni della Settimana Santa, ammiriamo la sua appassionata partecipazione alle sofferenze del Redentore; a questo proposito la testimonianza di un carmelitano suo contemporaneo ci informa che «avendo (ella) chiesto a nostro Signore di concederle qualcosa che le facesse sentire fisicamente la sua Passione, ebbe dal Redentore, che le apparve, una corona di spine sul capo, da cui le risultò un dolore cos? forte che mai le si leva» (GEROLAMO GRACIAN, Peregrinación de Anastasio, Dial. 16).

Suor Maria di Gesù venerava con indicibile ardore l’Eucaristia, specie nel giorno della sua festa. Alle sue monache ripeteva con accenti che toccavano il cuore: «Figlie, sanno che siamo di casa con il SS. Sacramento, che viviamo insieme a Sua Maestà, sotto il medesimo tetto? Se i religiosi fossero consapevoli di tale privilegio, nessuno riterrebbe acquistarlo a troppo caro prezzo, fosse pure di lacrime e di sangue». L’intensa devozione al Sacro Cuore di Gesù e al suo Preziosissimo Sangue completano il quadro della pietà cristocentrica di quest’anima, che amava esclamare: «Solo colui che è tanto fortunato da rendere Cristo padrone del proprio essere sa conoscere Dio Divino ed Umano; costui cammina per sicuro sentiero».

Eccola dunque dinanzi a noi, Suor Maria di Gesù, tutta assorta nel dialogo d’amore con lo Sposo dell’anima, che riempie le sue giornate nella solitudine del Carmelo. Forse che questa intima esperienza di Dio la estrania dalle necessità del suo prossimo, dalle difficoltà in cui si dibatte la società del suo tempo, dalle prove alle quali è sottoposta la Chiesa? Affatto. Attorno a lei si muove tutto un mondo di sofferenze, di debolezze, di infermità, di implorazioni accorate. Attraverso la corrispondenza epistolare e nei colloqui dietro la grata la miseria umana arriva a bussare al suo cuore, per sollecitare la sua orante intercessione. E noi la troviamo così, ad esempio in un momento di grande siccità, tutta intenta a supplicare: «Signore, acqua! E’ necessaria l’acqua, Signore, in canali che io possa vedere ed in ruscelli che senta scorrere!»; o quando la guerra reca desolazione e morte la sentiamo confidarsi: «Stiamo pregando continuamente in comunità per ciò che ci sta tanto a cuore, ossia per la pace tra i principi cristiani . . . Attribuisco tutto ai miei peccati, specialmente la mancanza di pace; secondo me, finché dureranno queste guerre, non si avrà nulla di buono»; o infine, quando è in gioco il bene della Chiesa: «Ho il cuore trafitto per il momento critico che la Chiesa di Dio attraversa, per quanto la virtù ha da soffrire e per i pericoli mortali che corrono gli amici di Dio . . .».

Questa è stata, figli carissimi, Suor Maria di Gesù. Non è forse vero che la sua esperienza spirituale suscita echi profondi anche nel nostro cuore di credenti, che vivono in un mondo così diverso dal suo? Guardando a lei noi comprendiamo quale valore rappresenti per la Chiesa di ogni tempo la vita contemplativa e non ci è difficile riconoscere, insieme col Concilio, che i contemplativi «offrono a Dio un eccellente sacrificio di lode, e producendo frutti abbondantissimi di santità sono di onore e di esempio al popolo di Dio, cui danno incremento con una misteriosa fecondità apostolica. Cosicché costituiscono una gloria per la Chiesa e una sorgente di grazie celesti» (Perfectae Caritatis,
PC 7).

La testimonianza di Suor Maria di Gesù, carmelitana vissuta per 63 anni entro le mura di un monastero di clausura, ci convince di una verità fondamentale, che cioè i valori cristiani più significativi si giocano nell’interiorità dell’essere umano, là dove «lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26), il suo esempio ci induce a ridimensionare opportunamente l’importanza dell’attività esterna, fosse pure l’attività apostolica, giacché sul piano soprannaturale essa non conta che nella misura in cui è colma di amore teologale.

Questa piccola carmelitana, volata al Cielo tanti anni or sono, ci ricorda l’esigenza ineludibile della dimensione contemplativa nella vita di ogni cristiano e col suo esempio ci indica la strada concreta per coltivarla. La strada è quella della meditazione amorosa dei misteri di Cristo, che la Liturgia ripresenta ed attualizza. Figli carissimi, la partecipazione intelligente ed assidua alle celebrazioni liturgiche, in particolare alla liturgia eucaristica domenicale, partecipazione oggi facilitata dalla riforma conciliare e Post-conciliare, è la via aperta a tutti per un incontro personale con Cristo, con la luce della sua parola confortatrice e con la forza della sua grazia risanatrice.

Resti dinanzi a noi, quale esempio stimolante, l’immagine della nuova Beata, che già anziana ed inferma, non mancava di partecipare alle funzioni liturgiche nella Chiesa del monastero, ove, stando dietro la grata, univa la sua voce, resa ormai fioca dagli anni, a quella dei fedeli presenti nel tempio; narrano infatti le consorelle: «perché vecchia e con acciacchi, era solita mettersi in un posticino presso la grata del coro da dove si univa ai canti della Messa, attirando non poco l’attenzione dei fedeli, ammirati per il fatto che i suoi tanti anni mai le impedivano di cantare le lodi divine».

Paolo VI così prosegue in lingua spagnola

Nuestro corazón se llena de gozo al proclamar hoy Beata a Maria de Jestis Lopez de Rivas, Carmelita, discipula de Santa Teresa de Avila, cuyo camino de perfeccion siguio con extraordinaria fidelidad .

Por ello, se alegra el Carmelo, se regocija Toledo, exulta España y exulta la Iglesia. Se tiene la impresión del descubrimiento de un tesoro escondido; y se siente la alegria de experimentar que los siglos no apagan las luces que adornan la historia de la Iglesia. Este desafio al tiempo nos recuerda ya que la Iglesia no envejece (Cfr. Mt 28,20) y que sus Santos son ya ciudadanos de la eternidad.





Sabato, 25 dicembre 1976: SOLENNITÀ DEL SANTO NATALE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO

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Fratelli e Figli, accorsi a questa convocazione notturna!

Voi sapete perché!

È la ricorrente memoria d’un fatto estremamente umile e immerso in un povero paese lontano (ma era un paese predestinato), e inseriti in una ignota vicenda del tempo (ma era anch’esso un tempo profeticamente calcolato); d’un fatto si direbbe insignificante quale la nascita d’un Bambino in condizioni poverissime, prive d’ogni importanza esteriore e d’ogni interesse ambientale (ma era l’arrivo nel mondo, nel genere umano, del Verbo di Dio, del Figlio consustanziale del Padre Creatore e Signore dell’universo, che rimanendo qual era, si faceva Figlio di Maria; Figlio così di Dio e Figlio dell’uomo).

È questo fatto ambivalente umile e immenso, umano e divino, che nell’unica Persona del Verbo unisce due nature, di cui una, l’umana, sì, rispecchia costituzionalmente (Cfr.
Gn 1,26-27) una meravigliosa, ma certo sempre remota immagine dell’altra, la divina, l’eterna, l’infinita; immagine ineffabile dell’invisibile Iddio (Cfr. Col 1,15 2Co 4,4) e pone nell’abissale mistero della divinità questa simbiosi ch’è Cristo Gesù; «natus est Christus; . . . de Padre, Deus; de Matre, homo» (S. AUGUSTINI Sermo 184: PL 38, 997). Essa lo pone nell’umanità e nella storia, centro in cui si ricollegano tutte le cose celesti e terrestri (Cfr. Ep 1,10), ed a cui ogni singolo essere umano può avere accesso e salvezza (Cfr. Lc 3,6); è questo il fatto, il mistero che noi ora ricordiamo e celebriamo.

«Lux in tenebris lucet», la luce splende nelle tenebre (Jn 1,5).

Non ci fermeremo a considerare questo aspetto del mistero del Natale, cioè il modo scelto da Dio per rivelarsi nel suo Messia; quasi volesse nascondersi nell’atto stesso in cui si manifestava personalmente e umanamente agli uomini, che pur lo attendevano. È un aspetto che lascia intravvedere molte altre divine intenzioni, degne d’essere in altro momento esplorate e meditate. Voleva il Signore che noi, anche davanti alla sua suprema rivelazione temporale, non fossimo esonerati dal dovere di ricercarlo? voleva Egli che la nostra ricerca ci obbligasse a curvarci sui sentieri dell’umiltà, per correggere l’ostacolo principale che ci impedisce un autentico incontro col Cristo rivelatore, non altrimenti possibile che nella mortificazione del nostro fallo capitale, l’orgoglio? o voleva che non per altro interesse egoista lo avessimo a cercare, ma per quello del puro amore?

Come si debba infatti cercare la divina rivelazione ce lo ricordano le memorabili parole di S. Agostino «amore petitur, amore quaeritur, amore pulsatur, amore revelatur . . .»: «con l’amore si domanda, con l’amore si cerca, con l’amore si bussa, con l’amore si rivela» (S. AUGUSTINI De moribus Ecclesiae Catholicae, 1, c. XVII: PL 32, 1321).

Ma ci fermeremo sul fatto stesso, sul mistero del Natale. Ancora ascoltiamo S. Agostino, che anticipa sui Concilii posteriori la formula conclusiva: «Homo verus Deus verus, Deus et homo totus Christus, Hoc est catholica fides» (IDEM Sermo 92, 3: PL 38, 573). Ci fermeremo con quell’adesione della nostra fede, che celebrando con la Messa di questa notte i santi misteri noi stiamo a Lui tributando. Sì, noi confermiamo con questo rito natalizio la nostra piena, ferma, cordiale adesione a Cristo Gesù. Noi crediamo in Lui! Egli solo è il Salvatore nostro e del mondo (Cfr. Ac 4,12).

Lasciamo che questo atto religioso e cosciente confermi e rinnovi la nostra accettazione di quella fede in Gesù Cristo, che abbiamo ereditato dalle generazioni cristiane a noi precedenti, e che il magistero della Chiesa sigilla in formule limpide e indiscutibili, e insieme feconda di perenne vitalità di effusione spirituale, di operosità evangelica, di predicazione missionaria, di cattolicismo sociale. E lasciamo che la fede stessa della Madonna, la Madre di Gesù, Colei che fu predicata «beata . . . per aver creduto nell’adempimento di ciò che le era stato detto da parte del Signore» (Lc 1,45) «con fede non inquinata da alcun dubbio», come insegna il Concilio (Lumen Gentium, LG 62), penetri nelle nostre anime, e conforti la nostra schietta conversazione col mondo presente, vacillante d’insanabili dubbi. Lasciamo che la nostra certezza nel mistero cristiano ci abiliti al duplice atteggiamento reclamato da chi si professa cristiano, quello della logica di pensiero e di azione, coerente e sapiente, proprio di chi appunto cristiano si qualifica, e quello della leale capacità comprensiva comunicativa d’ogni giusto ed amichevole rapporto sociale.

E procuriamo infine d’onorare la grande festa del Natale con l’espressione nel cuore e nel culto dei sentimenti che scaturiscono dalla sua realtà religiosa; della nostra meraviglia dapprima, che per quanto essa cerchi di ammirare il prodigio dell’Incarnazione, del Verbo di Dio che si fa uomo, non troverà mai una sufficiente misura, per iperbolica ch’essa si faccia, per adeguare l’espressione dello stupore e della gioia alla realtà che la suscita. Ancora S. Agostino che esorta: «Svégliati, uomo; per te Dio si è fatto uomo!: «expergiscere, homo: pro te Deus factus est homo!» (S. AUGUSTINI Sermo 185: PL 38, 907). Sentimento questo che accompagnerà poi sempre, anche nelle ore amare della vita e nelle celebrazioni dolorose della liturgia ogni altro sentimento, come una inesauribile riserva di ottimismo contemplativo ed attivo proprio di chi è stato ammesso a pregustare la trascendente fortuna del mistero cristiano (Cfr. Ep 5,14). Riascoltiamo S. Paolo per fare delle sue parole stile della nostra vita cristiana, augurio e ricordo della nostra celebrazione di questo Natale: «Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora: rallegratevi!» (Ph 4,4 Ph 2,18 Ph 3,1). L’Angelo del presepio ha intonato dal cielo il messaggio della nuova letizia, anche per noi: «Non temete! Ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà per tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,10-11).






OMELIE 1977






Domenica, 1° gennaio 1977: Solennità della Madre di Dio

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«SE VUOI LA PACE, DIFENDI LA VITA»: TEMA DELLA X GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

Prima i saluti! Pace a questa Casa ed a quanti abitano in essa! È la Casa centrale della Pia Società S. Paolo, fondata dal venerato Don Giacomo Alberione, le cui spoglie mortali hanno il loro riposo nella Sottocripta di questo monumentale edificio. A lui il nostro riverente ricordo, invocando la pace eterna all’umile e grande anima sua, e col voto che lo spirito di lui riviva nelle istituzioni religiose e apostoliche di cui egli ha lasciato così varia e fiorente eredità, ed a cui va fin d’ora il nostro benedicente saluto.

Vediamo qua convenute molte Personalità ecclesiastiche: il Signor Cardinale Giovanni Villot, nostro Segretario di Stato con i suoi autorevoli Collaboratori; vediamo il nostro Cardinale Vicario per la Diocesi di Roma, Ugo Poletti, con molti rappresentanti del Vicariato e del Clero Romano; vediamo il Pro Presidente e gli Officiali della Pontificia Commissione «Iustitia et Pax», alla quale dobbiamo l’animazione di questa «Giornata»; vediamo i Superiori ed i Sacerdoti della Pia Società San Paolo, con tanti loro Confratelli e molte Religiose delle Opere, che fanno capo a questa Casa Generalizia: la pace e la prosperità del Signore siano con tutti i presenti.

Tra questi il nostro rispettoso saluto si rivolge con la dovuta attenzione alle Autorità Civili, che hanno voluto onorare questa cerimonia con la loro distinta presenza tanto rispondente al significato di questo rito, auspicante la pace nel mondo e innanzi tutto in questa fatidica Città di Roma. Ne ringraziamo specialmente il Signor Sindaco e i Rappresentanti della civica Amministrazione, come pure ringraziamo le Personalità Governative, Civili e Militari, che vediamo associate a questo momento di spirituale riflessione e d’invocazione per la pacifica, comune e laboriosa concordia alle soglie dell’anno civile 1977.

Un gruppo di distintissime Personalità, intervenute a questa celebrazione romana della Giornata Mondiale della Pace è quello dei Signori Diplomatici e di Rappresentanti di vari organismi internazionali. La loro presenza ci dà la prova del carattere internazionale di questo incontro; e noi li ringraziamo d’un’adesione così preziosa e significativa come quella di ciascuno di loro.

Ma a corona di queste tanto autorevoli presenze è per noi motivo di pastorale soddisfazione vedere il Popolo di questo nuovo e denso quartiere; vada ad esso, alle famiglie che lo compongono, alle Scuole specialmente, ai centri di lavoro, alle case di cura, a tutti, l’espressione del nostro affettuoso interesse, e l’augurio di felice prosperità. A questa comunità, che questo dignitoso e religioso Santuario affratella nella preghiera e nell’amicizia, noi siamo lieti di presentare il nostro ringraziamento per la cordiale accoglienza, ch’essa oggi ci offre, ed il nostro augurio di «buon Anno» nel Signore.

Ed ora una parola per mettere in luce lo scopo di questa religiosa cerimonia, alla quale intendiamo attribuire singolare importanza, concedendo a noi stessi il piacere di presiederla personalmente, e di ringraziare subito e direttamente quanti vi prendono parte.

Come tutti sanno, questo rito, sul quale aleggia liturgicamente la dolce e materna figura di Maria, la Madre di Colui che S. Paolo chiama «nostra Pace» (
Ep 2,14), Cristo Signore, è dedicato alla Pace. Sì, alla Pace, il grande dono, auspicato come riflesso della gloria dovuta a Dio per la venuta del Verbo in forma storica e visibile nell’umanità; un riflesso di pace agli uomini appunto, oggetto di tanta divina benevolenza. Questo, potremmo dire, è l’asse teologico della Pace, che noi vogliamo e speriamo vedere instaurata nel mondo. La Pace, noi pensiamo, è nella sua espressione più alta e più completa, un dono di Dio. Se è dono, che deriva dalla bontà di Dio, dalla sua misericordia, dal suo amore, la Pace, nella sua fonte originaria e superiore, è grazia, è mistero, che lungi dall’alterare o attenuare l’essenza umana della Pace temporale, la genera, la facilita, la sublima, la drammatizza, ed ancora più ci conforta allo studio e all’azione relativi al fatto storico ed umano, che chiamiamo Pace, equilibrio cioè dei rapporti fra i Popoli, la famosa tranquillitas ordinis di S. Agostino, perché al concetto statico e stabile della Pace, quale vorremmo che fosse, e spesso ci illudiamo che sia, aggiunge un nuovo coefficiente dinamico, che fa della Pace non una condizione fissa e immutabile, ma un ordinamento mobile e vivo, non solo per il gioco immenso e incalcolabile dei fattori operanti, donde la Pace risulta, ma altresì per l’intervento segreto, sì, ma reale e spesso riconoscibile di una Provvidenza, che sa convertire in bene anche situazioni umane per sé negative e perfino disperate (Cfr. Rm 8,28). Se è lecito ricorrere ad un’immagine per meglio raffigurare il concetto della Pace, come ora da noi considerata, la rappresenteremo, non come una roccia stabile fra le onde di quell’oceano tempestoso ch’è la storia del mondo, ma come una nave galleggiante, la quale ha bisogno per evitare il naufragio di tante condizioni e di tanti sforzi, tra cui la guida d’un pilota, e l’azione estremamente abile ed impegnata d’un equipaggio.

Questo per dire, come da ogni sagace osservatore della storia si insegna, che la Pace è sempre in fieri, cioè nel divenire e che non è mai acquisita una volta per sempre; essa è un equilibrio in moto, secondo norme molto complesse e molto delicate, che l’uomo operatore della Pace, politico o privato che sia, deve intuire, conoscere, e soprattutto attuare. Richiamiamo così l’attenzione sulle condizioni, che favoriscono e promuovono la Pace. Ammesso che la Pace sia quel bene primario, che tutti ormai dobbiamo ammettere come sommo e indispensabile per una società prospera e civile, l’indagine prosegue con una formidabile questione, e cioè: quali sono le condizioni della Pace?

Risuona certamente nel ricordo di tutti la sentenza invalsa nella coscienza dei Popoli e dei loro Capi specialmente: «se vuoi la Pace, prepara la guerra». È un assioma disperato, disastroso; e lo sarà ancora di più domani, se esso non sarà progressivamente corretto e sostituito da un’altra sentenza, che oggi ancora appare utopistica, ma che ha per sé le esigenze profonde della civiltà: «se vuoi la Pace, prepara la Pace».

Sembra una sentenza insipiente; una sentenza vile ed imbelle; impossibile ad applicarsi. Ma se oggi non è subito e completamente applicabile, noi tutti avvertiamo che essa interpreta l’avvenire del mondo. Visione che trascende ora le possibilità concrete per la nostra discussione, ma non per l’ideale dell’uomo civile, e soprattutto per chi desume dal Vangelo l’ideale umano. La parola non è certo detta a caso a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada, di spada periranno» (Mt 26,52). E in fondo è questo il senso del tema che gli studiosi hanno scelto per la nostra giornata mondiale della Pace per quest’anno: «Se tu vuoi la Pace, difendi la vita».

Noi diciamo: la vita, la vita umana! E qui il concetto di questo bene primario dovrebbe perfezionarsi e sublimarsi ben più che già non sia: la vita umana è sacra, cioè protetta da un rapporto trascendente con Dio che ne è l’Autore primo, il geloso Padrone (Cfr. Gn 4 Mt 5,21 ss.), l’invisibile, sovrano modello in cui essa si rispecchia scoprendo una sua nativa e superlativa somiglianza divina essenziale, tanto da conservare anche nelle privazioni, nelle deformazioni e nelle profanazioni, in cui essa può decadere, una sua inviolabile dignità, che nel crescente bisogno la rende oggetto di maggiore pietà (Cfr. Mt 25,31 ss.). Il nostro sguardo si sposta dalla considerazione straordinaria d’un conflitto bellico, che infrange la Pace, alla visione ordinaria dell’uomo vivente, che con intuito profetico un Dottore cristiano del II secolo, S. Ireneo, definisce: gloria di Dio! quasi dicesse: guai a chi lo tocca! E qui verrebbe spontaneo l’elogio, che potrebbe salire come un inno, in una circostanza come questa, per tutto quanto l’umanesimo moderno, anche se inconsciamente cristiano, prodiga alle deficienze e alle sofferenze della vita umana: benedetti voi, educatori, benedetti voi, sanitari; benedetti voi, uomini promotori di ogni assistenza di cui l’uomo ha bisogno, per l’opera vostra, interprete della vocazione divina che vi chiama all’onore e al merito di servire l’uomo fratello! la vita umana!

Ma è sempre così? non è proclamata, con pari energia alla difesa che voi tributate alla vita, l’offesa che la insidia e la disonora? La vicenda umana, anche ai nostri giorni, conosce la paradossale contraddizione dell’esaltazione della vita umana e della sua, si può dire simultanea, depressione! Possiamo tacere, ad esempio, la legalizzazione, ammessa e protetta in vari Paesi, dell’aborto? Non è una vita umana vera e propria quella che al suo stesso concepimento si accende nel seno materno? e non avrebbe bisogno d’ogni cura, d’ogni amore, per il fatto che quella vita embrionale è innocente, è indifesa, è già iscritta nell’anagrafe del libro divino su le sorti dell’umanità? chi potrebbe supporre che una madre uccide, o lascia uccidere la sua creatura? quale farmaco, quale orpello legale potrà mai sopire il rimorso d’una Donna, che liberamente, coscientemente, si è resa infanticida del frutto del suo seno? E deplorazioni analoghe potremmo avere per tanti altri misfatti che sono oggi perpetrati contro la vita dell’uomo. Li conosciamo; e invocheremo su di essi la condanna della coscienza civile e sociale e il senso di riverenza e di solidarietà, che fortunatamente insorgono contro tante insidie e tanti delitti che avviliscono l’umana convivenza, e compromettono così la pienezza e fors’anche la stabilità della Pace. Sia forte, dunque, sia operosa, sia amorosa la nostra reazione difensiva e riparatrice ! La Pace, oltre che l’onore morale e civile, reclama questo sistematico rinnovamento. Per proteggere la Pace, noi ripetiamo, noi dobbiamo difendere la Vita.

Non è difficile riscontrare il vincolo causale che può esistere fra la Pace e la Vita; fra la guerra cioè, radicale rovina della Pace, e le miserie fisiche e morali del costume popolare ed anche della vita individuale. Bisogna dare coscienza e vigore al costume popolare per offrire alla Pace l’humus della sua prosperità, come la Pace a sua volta, è poi condizione ambientale per ogni vero benessere. Questo rapporto fra la Pace e la Vita apre a tutti la facilità di dare alla causa generale della Pace il contributo particolare del proprio sostegno, mediante l’onestà, l’operosità, la collaborazione della propria vita sociale e personale. «Chi è fedele nel poco - dice il Vangelo - è fedele anche nel molto» (Lc 16,10).

Così ci aiuti Iddio, nel nuovo anno civile, che oggi inauguriamo, a contribuire alla costruzione della Pace nel mondo, offrendo con la propria Vita individuale e comunitaria quei valori a ciascuno possibili da cui quel grande edificio deriva la sua maestà e la sua stabilità.






B. Paolo VI Omelie 31106