B. Paolo VI Omelie 29677

Mercoledì, 29 giugno 1977: SOLENNITÀ DEI SS. APOSTOLI PIETRO E PAOLO

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Sospendiamo un momento il rito, com’è saggiamente prescritto, per meditarne, per penetrarne, con qualche pensiero, con una vigilante preghiera, il senso.

Il rito che cosa ci presenta? Ci presenta due personaggi, i due apostoli Pietro e Paolo, ai quali Roma fa risalire le proprie origini cristiane, la propria fede religiosa. Essi sono testimoni; possiamo ad entrambi riferire, sebbene a titolo personale differente, le parole del Signore al gruppo degli apostoli, prima della sua ascensione: «voi mi sarete testimoni ...» (
Ac 1,8). A loro è conferita una missione specifica, quella di diffondere un messaggio, quello evangelico, una Parola; una dottrina, una Verità, che «lo Spirito di Verità» direttamente loro insegnerà (Jn 16,13), con il potere simultaneo di promulgare certi riti, i sacramenti, comunicativi di effetti soprannaturali.

Noi, oggi, solennemente li ricordiamo; e tutto quanto qui è offerto alla nostra immediata sensibilità ci stimola a celebrarne con carattere festivo la memoria storica, veneranda, gloriosa; è la loro festa che noi vogliamo esaltare; e tutto ce ne offre motivo: il ritmo annuale del tempo, che ci ricorda essere questo giorno benedetto legato alla ricorrenza della memoria apostolica, e la nostra presenza nelle basiliche monumentali erette sulle tombe degli Apostoli stessi ravviva così il nostro pensiero sulle loro sante figure che ci è spontaneo ripensare quasi vive fra noi; e poi la storia plurisecolare che fa capo a questi due annunziatori del Vangelo nell’Urbe ci sembra assumere quasi una reale attualità davanti ai nostri occhi lieti e stupiti di contemplarne il panorama; e la pietà infine, donde scaturisce sulle labbra di tutti una qualche orazione per ottenere l’intercessione dei Santi Apostoli, accresce, fino a riempirne i nostri animi, la fiducia della nostra conversazione con loro, S. Pietro e S. Paolo.

Tutto questo è vero, e sta bene. È festa la nostra, e il gaudio festivo non solo ne caratterizza la liturgia, ma lo spirito di chi la vive e la esprime. Lasciamo perciò che questo nostro sforzo di attenzione si risolva innanzi tutto in un sentimento di interiore sicurezza. O, per meglio dire, di fede. Siamo circondati da segni, da stimoli, che valgono a svegliarla, a confortarla. La religione qui assume un accento di gioiosa certezza, che viene a noi propizia nella solitudine spirituale, propria del nostro secolo, nell’assuefazione alla mentalità vacillante e desolante del malinteso soggettivismo, pluralismo lo chiamano, in fatto di religione, il quale concede a ciascuno di pensare alla fede come meglio piace al proprio arbitrio critico, o meglio alla propria fantasia affrancata dall’inequivocabile precisione del dogma cattolico. Qui la fede, riportata alle sue sorgenti apostoliche e all’autorità magistrale che la professa, la difende e la insegna, riacquista la sua obiettiva consistenza, garantita dalla parola originaria di Cristo: «Chi ascolta voi, ascolta me» (Lc 10,16). La personalità del fedele, che accetta, che crede e che cerca di conformare la vita alla propria fede, attinta alla sorgente della Verità trascendente (Ga 2,16 Ga 3,11) si ricompone e diventa forte; forte per asserire, per diffondere questo stupendo complesso di verità, che appunto è la chiave d’interpretazione, di spiegazione superiore del mondo e del destino umano; è l’irradiazione missionaria della fede, è la ragione del programma apostolico della Chiesa. Noi conosciamo il carattere specialissimo dei poteri di evangelizzazione conferiti da Cristo ai suoi discepoli, tra i quali dodici, ch’Egli insignì del titolo di apostoli (Lc 6,13), con particolare riguardo a Pietro, pastore dei pastori (Jn 21,17 Lc 22,32 Ac 1,15 etc.), e con singolare autorità anche a Paolo, come egli scrive di sé: «positus sum ego praedicator et apostolus . . . doctor gentium in fide et veritate» (1Tm 2,7 Rm 15,16 cfr. JOURNET, L’Eglise du Verbe Incarné, I, 180 ss.).

Noi conosciamo come non solo il nome, ma il ministero altresì dei due massimi Apostoli sia legato a Roma (confronta la lettera di S. Paolo ai Romani e la sua prigionia a Roma - Ac 28), e come la controversia circa la tomba di S. Pietro sia felicemente conclusa per rivendicarne la sede e la storia precisamente nelle fondamenta della basilica, che appunto ci accoglie dove il Principe degli Apostoli ebbe la sua sepoltura e il suo michelangiolesco mausoleo.

E certamente è a tutti noto come la storia della religione cattolica cioè della Chiesa abbia in questa Basilica il suo centro locale e spirituale. Noi possiamo qui ripetere con sempre commovente convinzione e quasi con sensibile conferma la parola di S. Ambrogio: «ubi Petrus, ibi Ecclesia». La ripeteremo questa riassuntiva parola per ritrovare nella memoria apostolica la virtù di cui oggi ha bisogno la Chiesa che vive e che soffre. La promessa che Gesù Cristo stesso ebbe per i suoi due Apostoli di predilezione: «Io ho pregato per Te», Pietro (Lc 22,32); e a riguardo di Paolo: «costui è per me uno strumento eletto per portare davanti ai popoli, ai re, e ai figli d’Israele il mio nome . . .» (Ac 9,15), ancora fa garanzia anche per noi, bisognosi come siamo di fortezza, nella fede, nell’unità, nella carità. È promessa, è conforto per noi che dagli Apostoli deriviamo la natura e l’urgenza del nostro mandato apostolico; è invito, è messaggio che non dobbiamo portare al nostro tempo, ai nostri fratelli, predisposti forse dallo stesso spirito di vertigine che li travolge ad arrendersi alla nostra fortuna apostolica.

Così sia, così sia, con la nostra Benedizione!

Il Santo Padre aggiunge brevi Parole in francese e tedesco.

Nous sommes heureux de saluer tous ceux qui sont Venus participer a cette cérémonie, et entourer le Pape e les nouveaux Cardinaux de leur affection et de leur prière. La fête des saints Pierre et Paul invite au Courage de la foi, a l’unité du Peuple de Dieu autour de ses Pasteurs, et a l’attachement a l’Eglise. Que l’intercession des bienheureux Apôtres aide chacun à donner joyeusement ce témoignage.

Auch an die Gläubigen deutscher Sprache möchten Wir ein A besonderes Wort richten. Sie konnten teilnehmen an den Feiern zur Erhebung der neuen Kardinale und feiern jetzt hier mit Uns das Fest der Apostel Petrus und Paulus. Wieviel Kraft für Ihren Glauben, wieviel Zuversicht für Ihr Zeugnis als Christen können Ihnen diese Erlebnisse schenken!

Dass Sie, liebe Brüder und Schwestern, auch die Frucht dieser gemeinschaftlichen Feier heuteabend lebendig erfahren mögen, das sei Unser Segenswunsch an Sie alle.






Lunedì, 15 agosto 1977: SOLENNITÀ DELL’ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA

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Il tema della Madonna assunta in cielo, madre di Cristo e perciò di tutti i cristiani, capolavoro della creazione, è al centro della omelia pronunciata quest’oggi, solennità dell’Assunzione, dal Santo Padre Paolo VI nella nuova chiesa della Madonna del lago presso Castelgandolfo, nel corso della Santa Messa celebrata alla presenza di alcune migliaia di fedeli della zona e di numerosi gitanti e turisti. Il Papa anzitutto rivolge un caloroso saluto al nuovo Vescovo di Albano, Monsignor Gaetano Bonicelli, augurandogli di poter svolgere con successo la sua attività pastorale al servizio di una popolazione tanto cresciuta e complessa, per fare della diocesi un’isola di vita umana vera e sincera. Quindi Paolo VI rivolge il suo pensiero al predecessore di Monsignor Bonicelli, il Vescovo Monsignor Macario, ora quiescente, che per tanti anni ha prodigato le sue cure pastorali in favore della popolazione, e al Cardinale Traglia, titolare della Chiesa Suburbicaria di Albano, attualmente infermo ma sempre presente con la sua preghiera e con il suo spirito nel suo campo di lavoro e di ministero. Il saluto del Papa va poi al parroco Don Fiorangelo Pozzi, che ha tanto desiderato il compimento della costruzione della nuova chiesa e che ora la vede realizzata, al clero, a tutti i parrocchiani, a chi negli anni precedenti ha messo a disposizione la sua casa per il culto, in attesa del tempio; alle autorità civili, a cominciare dal sindaco Costa; all’ing. Vacchini, artefice della chiesa, allo scultore Gismondi, autore di alcune delle opere d’arte che l’adornano.

Sottolineando il valore comunitario della festosa cerimonia inaugurale della chiesa, il Santo Padre esorta i fedeli ad ammirarla, a comprenderne pienamente il significato di luogo di incontro spirituale, a vedere in essa un segno della premura della Chiesa nel fare di tutto un corpo solo di preghiera, di sentimenti, di propositi, di equilibrio, di sviluppo civile ordinato, tranquillo e unanime. Il tempio è sorto per agevolare ai fedeli la partecipazione agli atti di culto. Una volta la gente, per andare a Messa, faceva anche dei chilometri, dedicando all’incontro con il Signore a volte l’intera giornata festiva. Oggi non è così, e soccorre il luogo che va incontro a coloro che devono riunirsi nella preghiera. «Vi raccomandiamo - dice il Papa - di gloriarvi di potervi celebrare la vostra preghiera personale e di associarvi alla preghiera comune che ha la potenza di varcare le distanze che separano il cielo e il mondo per arrivare fino a Dio. Il sacrificio della Messa ha la virtù di mettere in relazione la vita presente con la vita che ci sovrasta».

Riferendosi poi alla solennità dell’Assunzione della Madonna in Paradiso, il Papa la definisce come la corona di tutti i misteri che hanno reso singolarissima, unica la vita della Madonna. È Dio che si fa uomo, e trova una porta pura, ricostruita dopo la caduta di Eva, perché il Signore vuole affratellarsi con noi, entrare tra di noi. E questa porta, «ianua caeli», è la Madonna, capolavoro della bontà, della sapienza di Dio, sua presenza desiderata nella vita del mondo. Per creare la Chiesa il Signore ha creato una mamma, la madre di Cristo, e ha dato a Maria la gloria e l’umiltà per un compito di questa natura, di questa portata. È un mistero che ci è tanto vicino, che parla alle anime di ciascuno di noi perché la Madonna è la madre nostra. Il Signore ha voluto veramente in lei avvicinarsi, confondersi con la folla umana. Ha voluto essere uno di noi attraverso la presenza benedetta e mai abbastanza celebrata di Maria.

Paolo VI ricorda quindi il «Magnificat», l’atto ispirato che Maria ha fatto uscire dalla pienezza della sua anima, il canto più bello che c’è nelle Sacre Scritture. La Madonna, così umile, deve ancora professare la distanza incalcolabile, metafisica che corre tra le creature e il creatore: «Ha fatto di me grandi cose il Signore», cose stupende, ineffabili, inimmaginabili. Ha dato a Maria una statura che dalla terra arriva al cielo. E ciò in vari momenti, in varie salite lungo la scalinata del cielo. Maria diventa madre senza peccato, e così via, finché la vediamo confondersi con il sacrificio del figlio sul Calvario, e poi la vediamo raccolta nel silenzio della preghiera comune nel Cenacolo, dove lo Spirito Santo scende nella Pentecoste e riempie di nuovo della presenza di Dio le creature che vi sono raccolte. Maria, madre della Chiesa. Guardando bene e con cautela, e con l’intelligenza degli indizi (professioni aperte non le possediamo, ma possediamo elementi sufficienti per dire che siamo nella verità anche se siamo nel mistero), vediamo che a Maria non toccò la morte. Morì anch’essa, invero, ma varcò subito questo abisso per salire nella pienezza della vita, nella gloria di Dio. La Madonna è in Paradiso e di là ancora conserva, e anzi moltiplica, i suoi contatti con noi. Col Signore, diventa madre della Chiesa, madre dell’umanità. Per trovarla davvero vicina, ciascuno può dire: «è madre mia, posso ricorrere a Maria perché ha il cuore anche per me».

Esagerazione forse? No, non c’è parola che possa eguagliare la gloria, la potenza straordinaria dell’effusione della grazia di Dio scesa su questa creatura. È forse togliere gloria al Signore lodare Maria, come qualcuno superficialmente dubita? No certo; la gloria di Maria è gloria riflessa, è derivazione della gloria di Dio. E onorare Maria vuol dire onorare Cristo, onorare Dio.

La teologia dell’assunzione, che ci mostra Maria coronata con questa sua gloria unica e così promettente, non finisce mai di spiegare che la Madonna ha avuto la grazia dell’ammissione in corpo ed anima alla vita eterna, a quell’al di là per noi impensabile che è il Paradiso, subito, mentre noi, che pure siamo fedeli e uniti a Maria e a Cristo, lo avremo in seguito, dopo la grande notte che si prepara e che sarà la nostra morte: una morte però che è la garanzia della risurrezione. «Credo nella Risurrezione dei morti - dice il Papa -. Credo che il mondo si rianimerà. Tutte le folle che sono state sepolte nella terra torneranno vive per un miracolo escatologico che passa al di là dei confini del tempo per ridare un’umanità celeste dopo l’umanità terrena».

Paolo VI quindi formula per tutti i presenti l’augurio che possano vivere in questa speranza, in questa fiducia, in questa sicurezza, in quest’attesa. L’attesa ci obbliga ad essere buoni, seguendo la scuola di Maria, nostra maestra che ci insegna l’umiltà, la purezza, la sofferenza, l’amore; l’amore per il prossimo, e soprattutto l’amore a Dio. Dobbiamo seguire la Madonna in questo suo esempio trascendente per essere capaci di vivere il nostro pellegrinaggio terreno sul sentiero diritto che conduce alla meta immortale.

«Chissà se avrò io ancora - conclude il Santo Padre -, vecchio ormai come sono, il bene di celebrare con voi questa festa. Vedo approssimarsi le soglie dell’al di là e perciò prendo occasione da questo incontro felicissimo per salutarvi tutti, per benedire voi, le vostre famiglie, i vostri lavori, le vostre fatiche, le vostre sofferenze, le vostre speranze, le vostre preghiere. La Madonna dia a queste mie preghiere l’efficacia e la realtà che desidero abbiano. Siate benedetti nel nome di Maria».





Domenica, 4 settembre 1977: SANTA MESSA AD ALBANO

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Ai giovani, e a tutti gli altri fedeli convenuti nella piazza di Albano per la celebrazione della Messa davanti alla Cattedrale, il Papa affida un messaggio di certezza e di speranza, legato ad una esortazione alla coerenza cristiana nella costruzione di una società più ordinata, più giusta, più umana. Il Vangelo non è per gli egoisti; la parola di Cristo è esigente, imperiosa, impegnativa. Impone la rinuncia a tutto ciò che è provvisorio, transitorio, effimero, richiede il sacrificio, richiede una profonda consapevolezza della gerarchia dei valori al vertice dei quali c’è Dio.

L’omelia del Santo Padre si apre con alcune parole di caloroso saluto alla comunità radunatasi nella piazza. Il primo pensiero del Papa va ai giovani, ai quali specialmente la celebrazione è dedicata. «Siete la speranza e la prima realizzazione - dice - di quel futuro che tutti andiamo promuovendo». Poi ricorda Monsignor Macario, già Vescovo di Albano, e l’attuale Vescovo, Monsignor Gaetano Bonicelli, «che certamente avrà il cuore, l’energia e la sapienza per guidarvi davvero a tutte le buone manifestazioni di vita comunitaria parrocchiale e diocesana». E ancora, il saluto del Papa a tutte le autorità, civili e militari, al clero, alle associazioni cattoliche, alle numerose comunità religiose residenti nella diocesi: «Si sentano assistiti e si sappiano amati, seguiti, congiunti a una comunità che li fa buoni, forti, coscienti e certamente benedetti dal Signore».

Paolo VI ricorda all’Assemblea le parole di Gesù «Dove voi siete riuniti io sono in mezzo a voi» ed ha parole di compiacimento per la tradizione cristiana della cittadina, augurandosi «che la vita passata della città sia presente e profonda nella coscienza di quelli che hanno l’onore di aiutarla a rivivere, a rifiorire in opere buone, geniali e idonee a corrispondere ai bisogni del popolo». «La Messa che celebro - aggiunge il Santo Padre - è per voi, per le vostre fortune spirituali e anche per i vostri interessi familiari e materiali legittimi e buoni, perché la città cresca nella prosperità e nella fecondità di buone opere sulla via del progresso».

Soffermandosi poi a commentare il Vangelo del giorno, il Papa fa notare come le parole appena lette siano delle più gravi, delle più difficili, in quanto marcano una netta separazione tra chi vuol seguire il Vangelo e tutti gli altri: « Se voi non lasciate . . .». Il Signore parla specialmente per quelli che vogliono davvero professare una fede comunitaria organizzata che si chiamerà Chiesa, ma parla per tutti, e dice: Dovete preferire a tutti i vostri interessi, agli amici, alle parentele, la prima necessità della vita, una necessità tanto contestata e tanto negata anche nel nostro tempo: il bisogno di Dio. È necessario preferire questo inizio della vita a qualsiasi parentela e a qualsiasi relazione umana e civile. «Perfino a voi stessi - dice il Papa - dovete trasferire la vostra capacità di amore dall’egoismo del concentrare su se stessi i propri pensieri, le preoccupazioni, i desideri, l’organizzazione della vita, alla comunicazione con i fratelli che condividono con voi il luogo, la parentela, il nome, la nazionalità e così via. Primo, Dio: è questo l’insegnamento del Signore. Non è insegnamento facile, poiché tutti siamo portati a fare di noi stessi il centro dei nostri interessi e delle nostre preoccupazioni. Siamo tutti nati egoisti. Siamo portati, specialmente nel nostro tempo, ad abbandonarci all’istinto piuttosto che alla ragione, a preferire i piaceri, la facilità della vita».

Cristo non ci ha indicato un programma facile, ma un programma difficile, arduo, pieno di sacrifici. Se non portate la Croce, ha detto il Signore, non siete degni di me. È un Vangelo esigente, invadente nei nostri interessi, difficile. Non lo si può seguire se si è deboli, fiacchi, vili, se si antepongono gli interessi subalterni a quelli superiori dello spirito : il dovere, la giustizia, il bene comune. «Questa gerarchia dei valori - dice Paolo VI -, questo primato di Dio con tutto quello che a Dio si riferisce (giustizia, impegno, onestà, dovere, ecc.) deve affermarsi sui nostri interessi, sui calcoli che dobbiamo fare nella nostra vita».

Prima di costruire una torre, dice il Signore, dobbiamo badare ai mezzi a disposizione per costruirla per intero. Non è sufficiente cominciare. Il Vangelo non vuole velleità, tentativi: vuole la realtà della nostra vita. È una parola impegnativa, che esclude gli egoisti, i deboli, quelli che preferiscono il permissivismo moderno, e cioè il vivere secondo gli istinti, le passioni, i propri particolari interessi. «Ne abbiamo proprio nei giornali di questi giorni – osserva Paolo VI - esempi, ahimé, non molto edificanti».

«Dobbiamo preferire il regno di Dio - aggiunge il Santo Padre -, la giustizia di Dio; questa gerarchia di valori, questa costruzione di ideali deve far capo al Signore. Chi vuole servire Cristo deve accogliere questa gerarchia di valori e dare a Dio la giustizia e tutto quel che deriva dai comandamenti, dai doveri indicati dal Vangelo. Cercate di dare davvero, come le vostre tradizioni vogliono, come i vostri stessi istinti migliori reclamano, come gli esempi più belli dei santi che hanno vissuto tra voi insegnano, questa ricostituzione ideologica, mentale, di principii, come il Signore ce la comanda e ce la propone».

Non sono principii soltanto cristiani: sono professati, raccomandati da tanti altri movimenti sociali e politici. Ma acquistano la loro vera espressione, il loro categorico comando e la loro forza redentrice se hanno al vertice il comandamento che impone: prima Dio, e tutto il resto sarà gerarchizzato al di sotto di lui. Il Signore ci vuole forti, ragionevoli, giusti, capaci di preferire Dio a tutti gli altri interessi. Il Signore ci domanda tante rinunce alle cose passeggere, deboli, provvisorie, fallaci, e ci fa guadagnare invece, prima di tutto, noi stessi. La nostra personalità si afferma se siamo capaci di instaurare la nostra maniera di pensare e di vivere su questa gerarchia: prima Dio e poi tutto il resto. « Padre Nostro che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome»: è detto nel «Pater». «Ne nasce davvero una comunità - dice il Papa - che si chiama carità, Chiesa, partecipazione dei fratelli ad una assistenza collettiva, amorosa e veramente umana. Nasce l’umanesimo buono dal cristianesimo vero. Che il Signore vi dia la forza di sperimentarlo, anche se questo reclama il sacrificio e col sacrificio reclama la pienezza del nostro dono con l’assicurazione della pienezza del premio divino».







Sabato, 17 settembre 1977: XIX CONGRESSO EUCARISTICO NAZIONALE DI PESCARA

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Questa nostra presenza a Pescara, in occasione del XIX Congresso Eucaristico Nazionale, non può mancare d’una parola di prefazione alla riflessione religiosa, alla quale ci obbliga il rito che stiamo celebrando; e questa parola assume anch’essa una ricchezza di temi e di scopi, che basterebbe da sé a dare significato per un lungo discorso, che noi condensiamo ora in un semplice, ma cordiale e riverente saluto, che nel nome di quel Cristo da cui viene a noi ultimi e indegni l’ufficio di rappresentarlo, a tutti i presenti noi siamo felici di rivolgere: al nostro Cardinale Legato Giovanni Colombo, Arcivescovo di Milano, a Monsignor Antonio Jannucci, Vescovo, degno Pastore di questa antica e giovane Diocesi, ai Signori Cardinali, ai Venerati Fratelli nell’Episcopato, ai Sacerdoti, ai Religiosi, alle Religiose, ai Seminaristi, al Laicato Cattolico e a tutti i fedeli assistenti che abbiamo la fortuna di qui incontrare, al Popolo di Dio intero, qui raccolto, o qui rappresentato ovvero qui spiritualmente presente, a tutti i membri di questa stessa una, santa, cattolica e apostolica Chiesa, sia grazia e pace in Cristo Signore. Qui ora è la Chiesa, qui Pietro, nell’umilissima persona del suo Successore, non poteva mancare. Eccoci dunque per un’ora di pienezza di gaudio con voi, con il saluto beatissimo: grazia e pace!

Né possiamo tacere come siano a noi vicini nella preghiera e nella speranza alcuni degni Rappresentanti di frazioni di Chiese, tuttora da noi separate: anche ad essi ed a quanti si onorano di chiamarsi cristiani e oggi qua convergono nell’ansia, che fu e che è di Cristo, di potersi con noi fondere nell’unità e nella carità, sia il nostro sincero e desiderante saluto.

Riverente e riconoscente poi il nostro saluto si rivolge alle Autorità Civili e Militari, nazionali, regionali, provinciali e cittadine, le quali hanno concesso spazio ed onore a questa manifestazione religiosa e popolare, con particolare riconoscenza a quelle Governative e a quelle Comunali, le quali hanno onorato se stesse onorando con la loro autorevole collaborazione, con la loro presenza, con la loro parola, con la loro adesione l’esito felice e ordinato, non che l’alto significato spirituale, morale e civile di questo grande Congresso Eucaristico Nazionale, degna espressione delle tradizioni di fede cattolica e del costume civile del sempre giovane e concorde Popolo Italiano e in particolare dell’Abruzzo.

Ma lasciate ora che noi invitiamo per un breve momento la vostra attenzione, come già altri maestri della parola sacra hanno fatto egregiamente, sull’intimo senso della celebrazione religiosa che stiamo compiendo. Cristo con noi, pare a noi il pensiero dominante, al quale tributiamo ora l’omaggio dei nostri spiriti, espressione questa che, riflessa come sole su questi medesimi nostri spiriti, resi più tersi dalla tensione di fede e di amore d’una eccezionale circostanza, com’è quella di questo Congresso, si ripercuote nel cielo che ci sovrasta, e, diciamo meglio, nell’atmosfera storica che ci circonda, in una risposta beata: noi con Cristo!

La parola «comunione» lo sigilla in un termine, che l’abitudine religiosa ha reso familiare; ma quale pregnante, smisurato significato esso contiene e dischiude a chi appena ne considera i termini. Alcuni noi ricordiamo, i quali subito ci riportano, sì, in un oceano di mistero, ma che non osiamo, non possiamo eludere, se appena ricordiamo le parole dell’estremo addio di Cristo, che esce dalla scena sensibile di questo mondo, ma non lo abbandona, sottratto com’è nella gloria ultraterrena del cielo: «Ecco, Egli dice, Io sono con voi ogni giorno, fino alla consumazione del tempo» (
Mt 28,20).

Parola divina, parola eterna, parola attuale: Gesù Cristo rimane con noi. Gesù si nasconde; ma Gesù continua la sua presenza in mezzo a noi. Ma come? con la sua Parola? Sì, Egli ha assicurato anche questa presenza: «Passeranno il cielo e la terra, ma non passeranno le mie Parole» (Mt 24,35). Rimane con una sua mistica e invisibile presenza, dove i suoi fedeli seguaci sono riuniti nel suo nome? Sì, Egli ci ha confidato questo segreto: «Dove sono due o tre congregati nel suo nome, Egli ci ha detto, Io lì sono in mezzo a loro» (Ibid. Mt 18,20). Ma in forma non sensibile, sì bene interiore, ineffabile. E altre Parole del Vangelo, del Nuovo Testamento, ci svelano questa intenzione somma e generale di Dio, mediante il disegno, possiamo dire costitutivo, della Religione, quello dell’Alleanza, quello dell’Incarnazione, quello di stabilire rapporti di amicizia, di convivenza, di redenzione fra Dio e l’umanità. «Il suo nome è Emmanuel, che vuol dire: Dio con noi» (Ibid. Mt 1,23).

Ma nessuno supponeva che questo disegno giungesse a tanto: di avere in Cristo il Pane della vita. Ricordate le parole incontrovertibili di Gesù stesso: «Io sono il Pane della vita»? (Jn 6,35 Jn 6,48) e ricordate le parole che succedono, e presentano la visione di Cristo vittima che non solo si offre come alimento vitale, ma come agnello destinato all’immolazione, che dà carne e sangue per sacrificarsi alla salvezza degli uomini; e questa duplice asserzione riferita ad un fatto permanente, ad un dovere inevitabile, e riguardante la Chiesa intera. Non invano i commentatori di queste parole misteriose del Signore, che nel testo del discorso evangelico le risolve nel nutrimento della sua stessa carne e del suo stesso Sangue, vi han letto l’annuncio sia dell’istituzione dell’Eucaristia, sia del sacrificio della croce, il quale avrà nell’Eucaristia stessa il suo memoriale perpetuo. O Gesù, pane necessario, o Gesù agnello insostituibile, comprenderanno i tuoi seguaci che senza di Te non possono avere vita vera e vittoriosa sulla morte? Comprenderà il mondo? Discorso difficile! «Durus est hic sermo! e chi lo può comprendere? et quis potest eum audire?» (Jn 6,60). Lo fu il primo giorno nel quale fu pronunciato, dopo il sorprendente miracolo della moltiplicazione dei pani, che non era bastato a sbalordire e a rassicurare il popolo, che ne aveva goduto, e ad eccitare in lui la fame d’un pane celeste, che subito Cristo taumaturgo faceva succedere nella logica della sua rivelazione. L’uditorio rimase deluso e si disperse. Esso avrebbe voluto la ripetizione del miracolo economico, e dimostrava incomprensione e diffidenza in un miracolo d’ordine diverso e superiore, relativo ad un pane celeste.

Così, oggi la psicologia sociologica, con visione ristretta della realtà umana, visione che guadagna aderenti anche nelle file dei seguaci di Cristo, vorrebbe da Lui la soluzione primordiale dei problemi economico-sociali, e accusa la sua scuola, rivolta ai misteri e alle conquiste del mondo soprannaturale, di fallimento della sua missione per non avere ancora saputo soddisfare la legittima fame del pane temporale, senza valutare a dovere l’ambivalenza della provvidenza di Cristo, il Quale, riportando le aspirazioni umane nella sfera superiore dell’economia della fede e della grazia, soddisfa le esigenze superiori e ineludibili dello spirito umano, e con ciò urge la soddisfazione e la rende possibile anche delle necessità temporali della vita terrena. Il regno di Dio, il regno della carità, conosce questa duplicazione di ricchezze e le rende consecutive: «cercate prima, insegna il Vangelo, il regno di Dio e la sua giustizia», e tutte le altre cose necessarie all’ordine della vita presente vi saranno date di conseguenza (Mt 6,33).

Questa visione della storia e della realtà umana non toglie a tutti la difficoltà della comprensione del mistero eucaristico. Leggi fisiche e metafisiche subiscono nella dottrina di tale mistero trasformazioni così gravi, e all’esperienza sensibile così superiori, per non dire contrarie, che il pensiero vacilla davanti alle parole di Cristo sul pane e sul vino dell’Eucaristia: «Questo è il mio Corpo; questo è il mio Sangue», le quali noi, celebrando questo Congresso Eucaristico, solleviamo al vertice della nostra fede, e perciò della nostra adorazione.

Come faremo a rendere caro e impegnativo il nostro dovere religioso, che ogni settimana e in alcune straordinarie festività, ci vuole raccolti e oranti, «un cuore solo e un’anima sola» (Ac 4,32) a celebrare questa benedetta e ricorrente memoria della Pasqua della salvezza, ch’è la Messa festiva? Un Congresso, come questo, non può rimanere inefficace nella restaurazione d’un costume, che ancora una volta si rivela «cardine» della vita religiosa; ma deve davvero segnare una data di ripresa comunitaria nell’osservanza amorosa e fedele di questo vitale precetto. Fratelli e Figli! rinnoviamo la nostra coscienza cattolica nella rispondenza al disegno di Cristo. Ravviviamo la nostra fede, e cerchiamo di scolpire nei nostri cuori le parole incomparabili dell’Apostolo San Giovanni: «abbiamo creduto all’Amore»; ed è questa fede nell’Amore che il Signore ha avuto per noi, che noi ora solennemente e umilmente professiamo. Essa rimetta sulle nostre labbra e nei nostri cuori anche quelle altre parole, quelle dell’Apostolo Pietro, che qui noi abbiamo l’onore di far rivivere nella umiltà della nostra persona ma altresì nell’autenticità della nostra missione apostolica, e che a Gesù, dopo il discorso eucaristico di Cafarnao, abbandonato dai suoi increduli uditori, ebbe a rispondere, come noi tutti oggi proclamiamo: «Signore, da chi andremo noi? Tu hai parole di vita eterna. Noi abbiamo creduto e conosciuto che Tu sei il Santo di Dio» (Jn 6,68-69).






Venerdì, 30 settembre 1977: APERTURA DEL QUINTO SINODO DEI VESCOVI

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Venerabili Fratelli,

«Gratia vobis et pax a Deo Patre nostro et a Domino Iesu Christo» (
1Co 1,3).

Con queste parole dell’Apostolo delle genti ci piace oggi porgere il Nostro saluto a voi, qui presenti, che, lasciate le consuete occupazioni del vostro ministero pastorale, siete convenuti a Roma per partecipare al Sinodo dei Vescovi, sul quale in questo momento si concentrano l’attenzione e la speranza della Chiesa santa di Dio.

Godiamo insieme di questo incontro. Gustiamo quest’ora di profonda e corroborante letizia spirituale. Il Signore che disse di voler essere misticamente presente là dove sono alcuni congregati nel suo nome (Cfr. Mt 18,20): avvolga e sigilli con la luce e l’abbondanza della sua grazia questa nostra assemblea, stupendo esempio di comunione ecclesiale.

L’argomento della riflessione sul quale amiamo intrattenerci con voi in questo momento così significativo, ci viene offerto dal brano evangelico che abbiamo or ora ascoltato, dalle parole cioè con le quali San Marco conclude il suo Vangelo. In questo brano varie cose richiamano la nostra attenzione, e specialmente le persone dei discepoli e degli Apostoli del Signore; il Vangelo da predicare; destinatari dell’annuncio evangelico: sono questi i grandi capitoli del nostro Sinodo, che ritroveremo nel corso del Sinodo stesso come altrettanti temi.

Fermiamo stamane la nostra considerazione sulla parte del testo evangelico che si riferisce alle persone dei discepoli del Signore, perché direttamente ci riguarda. Essa è per noi Vescovi; in particolar modo per i Vescovi scelti per la celebrazione di questo Sinodo. Che il Signore ci illumini!

A questo riguardo due aspetti intendiamo toccare, e anzitutto la nostra coscienza personale.

Siamo scelti, siamo chiamati, siamo investiti dal Signore di una missione trasformatrice. Come Vescovi, siamo i Successori degli Apostoli, i pastori della Chiesa di Dio. Un dovere ci qualifica: essere testimoni, essere portatori del messaggio evangelico, essere maestri di fronte all’umanità. Tutto questo vogliamo ricordare, Venerati Confratelli, per ravvivare la coscienza della nostra elezione, della nostra vocazione, delle responsabilità dell’ufficio grande, pericoloso, incomodo che ci è stato affidato; ma soprattutto per riconfermare tutta la nostra fiducia nell’assistenza di Cristo alle nostre sofferenze, alle nostre fatiche, alle nostre speranze. Giacché pensando all’umanità di oggi, alla quale è diretta la nostra azione pastorale - umanità che tutto ci sembra far credere ostile, indifferente, sorda al nostro discorso, anche se in realtà molte volte in questo atteggiamento si può intravedere un inconscio desiderio, una ricerca autentica e sofferta di Dio - pensando a tutto ciò, diciamo, dal punto di vista umano, l’animo è invaso da un senso di sgomento, che quasi paralizza ogni energia. Non si tratta di umiltà, ma di un timore che istintivamente spinge alla ricerca istintiva di funzioni meno impegnative, meno rischiose. Sì, essere veri apostoli di Cristo oggi è un grande atto di coraggio, e insieme un grande atto di fiducia nella potenza e nell’aiuto di Dio; aiuto che Iddio non potrà certamente far mancare, se il cuore dell’apostolo sarà aperto all’influsso delicato e possente della sua grazia. Del resto, come non ricordare a questo riguardo le parole di San Paolo sull’armatura del cristiano, tanto più confacente dell’apostolo? La Chiesa ha bisogno oggi di uomini coraggiosi, combattivi, capaci di esporre se stessi per il proprio ministero, ministero alle volte ardito, silenzioso altre volte, ma sempre vigilante, attivo, vissuto con fiducia e perseveranza; e perciò vi esorteremo con lo stesso San Paolo: «accipite armaturam Dei, ut possitis resistere in die malo et in omnibus perfetti stare . . . in omnibus sumentes scutum fidei, in quo possitis omnia tela nequissimi ignea extinguere» (Ep 6,13 ss.).

Il secondo aspetto, al quale s’indirizza la nostra riflessione, è costituito dall’estensione del nostro ministero. Il Maestro ci dice di andare in mundum universum (Mc 16,15), e noi sappiamo bene come è da questo preciso mandato che il nostro ministero si qualifica universale e cattolico, anzi è lecito aggiungere sulla base del termine greco - cosmico. Non ha, dunque, limiti geografici l’evangelizzazione: potenzialmente, essa tende e deve comprendere tutto il mondo, il mondo umano prima di tutto, ma, per la centralità dell’uomo nella realtà della creazione, per la funzione rappresentativa e sacerdotale ch’egli vi esercita, anche il mondo inanimato delle cose tutte.

Questo panorama del mondo, sul quale s’affaccia la responsabilità di noi evangelizzatori, ci dà l’idea dell’immensità, ci fa toccare con mano il peso della nostra missione. Quanto, quanto c’è ancora da fare! Ne risulta a prima vista un’inferiorità schiacciante, un’inadeguatezza da parte nostra che può sembrare insufficienza totale. Ma è per questo che deve affermarsi e confermarsi il nostro impegno: lo sguardo sul mondo e sull’avvenire non deve generare l’accidia, propria dell’uomo che non attinga al fonte della grazia apostolica il proprio giudizio sul mondo ed il metro per valutare le reali possibilità della sua missione. Tutt’altro: lungi dal ripiegarci in noi stessi, appunto per reagire alla tentazione dell’inerzia, noi dobbiamo esser certi che la « virtù », ossia la forza, l’aiuto, il soccorso del Signore è con noi. Ce lo garantisce lo stesso Gesù nel passo conclusivo parallelo a questo del primo Vangelo: Et ecce ego vobiscum sum omnibus diebus (Mt 28,20), e l’esame della scena mobile della storia moderna ce ne offre la conferma. Gli uomini oggi si staccano dalla religione, e non ascoltano facilmente il nostro messaggio perché sono convinti, a torto, che l’immenso progresso della civiltà razionale, quale risulta dalla tecnologia e dalla scienza, annulla il bisogno della religione, mentre a chi ben osserva la realtà dei fenomeni umani, si fa più chiara una duplice conseguenza di tale progresso. Da una parte, le religioni create dall’uomo non gli bastano, mentre l’uomo progredito si crede soddisfatto e sostituisce la fiducia nella fecondità meravigliosa del proprio lavoro guidato dalla scienza, alla mentalità religiosa che così è dissolta dall’ateismo. Dall’altra, però, e nello stesso tempo egli si sente inesorabilmente più bisognoso di conoscere il mistero, anzi i misteri del cosmo, del pensiero, della vita, e sperimenta fatalmente la propria delusione radicale, privo com’è della verità religiosa. E questa, a sua volta, s’imporrebbe come enigma perenne, se essa stessa non fosse sostenuta da una Parola misteriosa, e sola capace di sorreggere dall’alto l’edificio della scienza umana, la quale più progredisce e più postula il soccorso di questa Parola dall’alto, purché vera, purché certificata da un Maestro capace d’introdurre il pensiero umano nella sfera più elevata della Verità suprema e del Destino «soprannaturale» dell’uomo. Il bisogno di questa Parola, che esige la Fede da parte dell’uomo, è al giorno d’oggi più forte e tormentoso che mai; e solo quando esso sia soddisfatto dal Vangelo, ch’è Verità non contraria a quella scientifica, ma superiore, la luce ritorna sulla terra. Se così è, carissimi Fratelli - come l’esperienza pastorale ed una non difficile indagine psicologica ci attestano - la nostra missione può tuttora trovare una felicissima accoglienza. Ad un tale livello, non superficiale, non esterno, questo non è da considerare tempo d’ateismo, ma piuttosto tempo di fede, tempo della nostra fede, ch’è la vera. È, il nostro, tempo privilegiato per l’annuncio, ed appare, pertanto, opportuna e provvidenziale la nostra assemblea sinodale che, dopo aver centrato ed illustrato questa urgenza cruciale e primaria dell’evangelizzazione nell’autunno di tre anni fa, si accinge ora a ripensarne, a studiarne, a indicarne le forme ed i metodi ponendo all’ordine del giorno dei suoi lavori il tema della catechesi.

Bisogna, infine, tener presente che questa sicurezza nella Fede si fortifica sotto un altro aspetto: quello comunitario. La fede, infatti, genera l’assemblea dei credenti, ch’è la Chiesa. Non suona forse al plurale la parola del Signore? Egli dice Euntes . . . docete, e così associa insieme tutti i suoi discepoli in un lavoro che, senza annullare le responsabilità personali, impone uno sforzo collettivo, coordinato, attuato nella comunione delle intenzioni, delle energie, delle finalità. Ecco, anche noi ora siamo insieme a questo stesso scopo: ci siamo riuniti per approfondire, per professare, per diffondere la fede di Cristo, in risposta alla domanda dei nostri fratelli, che si è fatta più urgente. Ora specialmente siamo «comunione», e noi beati se, fin da quest’assise eucaristica iniziale e poi nei giorni del Sinodo, sapremo rinsaldare questo vincolo santo nel comune lavoro, nello scambio fraterno delle esperienze e dei consigli, nei reciproci contatti e, più ancora, nel contatto con la Parola di Dio e col mistero del Corpo e del Sangue di Cristo. «Beati qui audiunt verbum Dei et custodiunt illud» (Lc 11,28): ci conforti oggi e sempre questa promessa di beatitudine, mentre riprendiamo a pregare.







B. Paolo VI Omelie 29677