Lezionario "I Padri vivi" 115

X DOMENICA

115 Letture:
    
Gn 3,9-15
     2Co 4,13-5,1
     Mc 3,20-35

1. Quale peccato contro lo Spirito Santo sia irremissibile

       Cerchino dunque di comprendere che Cristo non intese dire che non sarà perdonato alcun peccato contro lo Spirito Santo, ma solo un certo peccato speciale. Così anche quando disse: "Se non fossi venuto, non avrebbero colpa" (Jn 15,22), non voleva intendere qualsiasi colpa, dal momento che i Giudei erano macchiati di molti e gravi peccati, ma voleva alludere a un certo peccato particolare che se non lo avessero commesso si sarebbero potuti rimetter loro tutti gli altri peccati commessi; alludeva cioè al peccato consistente nel rifiutare di credere in Lui, venuto nel mondo, peccato che non avrebbero commesso, s’Egli non fosse venuto tra loro. Così pure quando disse: "Chi peccherà contro lo Spirito Santo" (Mt 12,32), o: "Chi bestemmierà contro lo Spirito Santo" (Jn 20,22-23), non voleva intendere qualsiasi peccato commesso contro lo Spirito Santo con azioni o parole, ma un peccato ben determinato, quello cioè che consiste nell’ostinazione del cuore fino alla fine della vita, per cui uno rifiuta di ricevere il perdono dei peccati nell’unità del Corpo di Cristo (Jn 6,64), vivificato dallo Spirito Santo. Infatti, subito dopo aver detto ai discepoli: "Ricevete lo Spirito Santo", soggiunse: "A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; saranno ritenuti a chi voi li riterrete". Chi dunque respingerà questo dono della grazia di Dio e vi si opporrà, e in qualsiasi modo si mostrerà ad esso maldisposto fino alla fine di questa vita terrena, non gli sarà perdonato né in questa vita né in quella futura poiché è un peccato naturalmente sì grave, che impedisce la remissione di tutti gli altri. Che però uno l’abbia commesso, non si potrà avere alcuna prova, se non dopo la morte. Finché uno vive quaggiù, la "pazienza di Dio" - come dice l’Apostolo - "cerca solo di spingerlo al pentimento" (Rm 2,4); ma s’egli, rimanendo ostinatamente ribelle a Dio "nella misura dell’ostinazione del suo cuore, del suo cuore impenitente" - come soggiunge subito l’Apostolo - "accumula sul proprio capo la collera di Dio per il giorno dell’ira e della manifestazione del giusto giudizio di Dio" (Rm 2,5), allora non sarà perdonato né in questa vita né in quella futura.

       Non si deve comunque disperare di coloro con cui trattiamo o di cui ora parliamo, poiché sono ancora in vita. Essi però non cerchino lo Spirito Santo fuori dell’unità del Corpo di Cristo di cui posseggono bensì il sacramento esternamente, ma non hanno in cuore la realtà di cui quello è segno e perciò mangiano e bevono la loro condanna (1Co 11,29). Un unico pane è infatti il segno sacramentale dell’unità; "poiché" - dice l’Apostolo - "c’è un solo pane, noi, sebbene molti, siamo un solo Corpo" (1Co 10,17). Solamente la Chiesa cattolica è quindi l’unico Corpo di Cristo, essendo egli stesso il Capo e il Salvatore del proprio Corpo (Ep 5,23). Fuori di questo Corpo nessuno è vivificato dallo Spirito Santo "poiché", sempre al dire dell’Apostolo: "la carità di Dio è diffusa nei nostri cuori per opera dello Spirito Santo, che ci è stato elargito" (Rm 5,5). Ora, non può esser partecipe della divina carità chi è nemico dell’unità. Di conseguenza, quelli che son fuori della Chiesa, non hanno lo Spirito Santo, poiché di essi sta scritto: "Quelli che si separano sono animaleschi, privi dello Spirito" (Gd 19).

       Agostino, Epist. 185, 11, 49 s.


2. Il perdono a chi bestemmia contro lo Spirito Santo

       Coloro che bestemmiano contro lo Spirito Santo o contro la divinità di Cristo dicendo: "Caccia i demoni nel nome di Beelzebub, principe dei demoni", certo non potranno ottener perdono né in questo né nell’altro mondo. Bisogna tener conto che Cristo non disse che uno che "bestemmia e poi si pente" non può essere perdonato, ma uno che bestemmia e persevera nella bestemmia; poiché una adeguata penitenza lava tutti i peccati.

       Atanasio, Fragm. in Matth.


3. Legame di sangue e legame di spirito di Maria con Gesù

       Il brano che ho qui proposto ha molti nodi. Come ha potuto il Signore Gesù Cristo con tutta la sua pietà tenere a distanza sua madre, la Vergine madre, alla quale egli stesso diede tale fecondità che non ne distruggesse la verginità, Vergine nel concepire, Vergine nel partorire, Vergine sempre-Vergine. Una tal madre egli tenne a distanza, perché il materno amore non si insinuasse nell’opera ch’egli faceva e gli fosse d’impedimento. Che cosa, infatti, faceva? Parlava ai popoli, distruggeva i vecchi uomini, edificava i nuovi, liberava le anime, scioglieva gl’incatenati, illuminava i ciechi, faceva il bene, s’impegnava al bene in opere e parole. Mentre era impegnato in queste cose gli fu portato il messaggio del suo legame con la madre. Avete sentito la sua risposta; non ho bisogno di ripeterla. La ritengano le madri, perché non sian d’ostacolo alle opere buone dei figli. Se cercheranno d’impedirli e faranno dei guasti, saranno allontanate dai figli. Oso dire: Saranno allontanate, per rispetto saranno allontanate. E non dovrà essere tenuta a distanza dal figlio intento a un’opera buona, una madre irata, sia sposata o vedova, quando la Vergine Maria fu tenuta a distanza? Forse mi dirai: Vuoi paragonare mio figlio a Cristo? Non paragono tuo figlio a Cristo, ma neanche te a Maria. Non condannò il Signore Gesù l’affetto materno, ma il suo esempio dimostrò che, per l’opera di Dio, anche una madre dev’essere tenuta a distanza...

       State più attenti, fratelli miei carissimi a ciò che dice il Signore, stendendo le mani verso i suoi discepoli: "Questa è mia madre, questi i miei fratelli. Chi fa la volontà del Padre, che mi ha mandato, mi è fratello, sorella e madre" (Mt 12,49-50). Non fece forse la volontà del Padre la Vergine Maria, la quale per fede credette, per fede concepì, fu scelta perché da lei venisse a noi la salvezza, fu creata da Cristo, prima che Cristo fosse fatto? Fece, fece certamente la santa Maria la volontà del Padre ed essa è più discepola che madre di Cristo. C’è più felicità ad essere discepola che madre di Cristo. Perciò Maria era beata, perché, anche prima che lo concepisse, portava il maestro nel suo seno. Vedi se non è come dico io. Mentre Gesù passava tra turbe di gente e faceva miracoli divini, una certa donna disse: "Beato il ventre che t’ha portato!" E il Signore, perché non si cercasse la felicità in un rapporto di carne, che cosa rispose? "Anzi, beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la tengono ben custodita" (Lc 11,27-28). Anche Maria beata, allora, perché ascoltò e conservò la parola di Dio. Maria custodì più Cristo con la mente, che non ne abbia tenuto la carne nel seno.

       Agostino, Sermo 25, 3.7


4. Che significa «fratelli» di Gesù?

       "Dopo ciò egli scese a Cafarnao"- dice l’evangelista - "con la madre e i fratelli e i discepoli suoi, ma non vi si fermarono che per pochi giorni (Jn 2,12).

       Dunque, ha una madre, ha dei fratelli, ha discepoli; ha dei fratelli perché ha una madre. La Scrittura non usa chiamare fratelli soltanto quelli che nascono dagli stessi genitori, o soltanto dalla stessa madre, o dallo stesso padre benché da madri diverse, oppure coloro che hanno un medesimo grado di parentela, come i primi cugini per parte di padre o per parte di madre. Ma non solo questi la Scrittura usa chiamare fratelli. E secondo il suo modo di parlare, così bisogna capirla. La Scrittura ha un suo linguaggio; chi non lo conosce, può turbarsi e dire: Come fa il Signore ad avere fratelli? Allora Maria partorì nuovamente? Lungi da noi il pensare ciò. Da lei ha avuto origine la dignità delle vergini. Ella ha potuto essere madre, non "donna". Se poi è chiamata donna, è per il suo sesso, non per la perdita della sua integrità. E questo si ricava dal linguaggio usato dalla Scrittura. Infatti anche Eva, non appena formata dalla costola del suo uomo, e non ancora toccata da lui, è chiamata "donna: E ne formò la donna" (Gn 2,22). In che senso, allora, si parla di fratelli? Essi erano parenti di Maria, in un qualsivoglia grado. Come provarlo? Sempre con la Scrittura. Lot è chiamato fratello di Abramo, sebbene fosse figlio del fratello di lui (Gn 13,8 Gn 14,14). Leggete, e troverete che Abramo era zio paterno di Lot, eppure la Scrittura li chiama fratelli. Perché? Perché erano parenti. Parimenti, Giacobbe aveva come zio Laban il Siro, che era fratello di Rebecca, madre di Giacobbe, sposa di Isacco (Gn 28,2). Leggete ancora la Scrittura, e troverete che lo zio e il nipote sono chiamati fratelli (Gn 29,15).

Una volta conosciuta questa regola, capirete che tutti i parenti di Maria erano fratelli del Signore.

       Agostino, Comment. in Ioan., 10, 2


5. Chi fa la volontà di Dio diventa fratello e madre del Signore

       Non costituisce meraviglia che colui che fa la volontà del Padre sia detto fratello e sorella del Signore; per entrambi i sessi è infatti la chiamata alla fede. La meraviglia cresce piuttosto per il fatto che quegli venga anche detto «madre». Invero, (Gesù) si è degnato di chiamare fratelli i suoi fedeli discepoli, dicendo: "Andate, annunziate ai miei fratelli" (Mt 28,10). Ora però è il caso di chiedersi: Come può diventare sua madre chi, venendo alla fede, ha potuto divenire fratello del Signore? Quanto a noi, dobbiamo sapere che chi si fa nella fede fratello e sorella di Cristo, diventa sua madre nella predicazione. Quasi partorisce il Signore, chi lo ha infuso nel cuore dell’ascoltatore. E si fa sua madre, se attraverso la di lui voce l’amore di Dio viene generato nella mente del prossimo.

       Gregorio Magno, Hom. in Ev., 3, 2


6. Il diavolo è principe del mondo, cioè dei cattivi

       Guardiamoci bene dal pensare che il diavolo sia il principe del mondo, nel senso che egli possa dominare il cielo e la terra. Il mondo, in questo caso, deriva il suo nome dagli uomini malvagi che sono diffusi in tutta la terra, nello stesso senso in cui una casa trae la sua qualificazione da coloro che la abitano. Così diciamo: questa è una buona casa, oppure è una casa malvagia, non in quanto lodiamo o rimproveriamo l’edificio, le pareti o il tetto, ma in quanto lodiamo o rimproveriamo i costumi degli uomini buoni o malvagi che vi abitano. In questo senso dunque si dice: «principe di questo mondo», cioè principe degli uomini malvagi che abitano nel mondo. E il mondo si può intendere anche quello dei buoni, che analogamente sono diffusi in tutto l’orbe: in questo senso l’Apostolo dice: "Dio stava in Cristo, riconciliando con sé il mondo" (2Co 5,19). Questi sono i buoni, dai cui cuori il principe di questo mondo è cacciato fuori.

       Agostino, Comment. in Ioan., 52, 10


7. La superbia degli angeli cattivi

       La causa più vera della beatitudine degli angeli buoni la riscontriamo nella loro unione a colui che sommamente è. Se invece si ricerca la causa della miseria degli angeli cattivi, ci si presenta, ovviamente, il fatto che essi, allontanatisi da colui che sommamente è, si ripiegarono su sé stessi, che pur non hanno l’essere in grado sommo. Questo vizio, come lo chiameremo se non superbia? Infatti "l’inizio di ogni peccato è la superbia" (Si 10,13). Non vollero dunque custodire presso di lui la loro fortezza e, pur potendo essere qualcosa di più se avessero aderito a colui che sommamente è, scelsero di essere qualcosa di meno, preferendo a lui sé stessi. Questo è il difetto principale, la prima mancanza, il primo vizio di quella natura che è stata creata tale da non avere l’essere sommo, ma da poter ottenere la beatitudine, poter cioè godere di colui che ha l’essere sommo; se da lui invece si allontana, non cade nel nulla, ma il suo essere viene diminuito, e perciò essa diventa ben misera.

       Agostino, De civit. Dei, 12, 6

XI DOMENICA

116 Letture:
    
Ez 17,22-24
     2Co 5,6-10
     Mc 4,26-34

1. I tempi della semina e i tempi del bene

       Il regno di Dio è come se un uomo getta un seme sulla terra e se ne va a dormire; lui va per i fatti suoi e il seme germina e cresce e lui non ne sa niente; la terra produce da sé prima l’erba, poi la spiga e poi il grano pieno nella spiga. Quando il frutto è maturo, l’uomo manda i mietitori, perché è tempo della messe (cf. Mc 4,26s).

       L’uomo sparge il seme, quando concepisce nel cuore una buona intenzione. Il seme germoglia e cresce, e lui non lo sa, perché finché non è tempo di mietere il bene concepito continua a crescere. La terra fruttifica da sé, perché attraverso la grazia preveniente, la mente dell’uomo spontaneamente va verso il frutto dell’opera buona. La terra va a gradi: erba, spiga, frumento. Produrre l’erba significa aver la debolezza degli inizi del bene. L’erba fa la spiga, quando la virtù avanza nel bene. Il frumento riempie la spiga, quando la virtù giunge alla robustezza e perfezione dell’opera buona. Ma, quando il frutto è maturo, arriva la falce, perché è tempo di mietere. Infatti, Dio Onnipotente, fatto il frutto, manda la falce e miete la messe, perché quando ha condotto ciascuno di noi alla perfezione dell’opera, ne tronca la vita temporale, per portare il suo grano nei granai del cielo.

       Sicché, quando concepiamo un buon desiderio, gettiamo il seme; quando cominciamo a far bene, siamo erba, quando l’opera buona avanza, siamo spiga e quando ci consolidiamo nella perfezione, siamo grano pieno nella spiga...

       Non si disprezzi, dunque, nessuno che mostri di essere ancora nella fase di debolezza dell’erba, perché ogni frumento di Dio comincia dall’erba, ma poi diventa grano!

       Gregorio Magno, In Exod., II, 3, 5 s.


2. Il granello di senape (Lc 13,18-19)

       "A che cosa somiglia il regno di Dio, a che cosa dirò che è simile? È simile a un granello di senape, che, preso e gettato da un uomo nel suo orto, crebbe ed è divenuto un albero, e gli uccelli del cielo si sono posati sui suoi rami" (Lc 13,18-19).

       Questo passo ci insegna che bisogna guardare alla natura delle similitudini, non alla loro apparenza. Vediamo dunque perché il sublime regno dei cieli è paragonato a un granello di senape. Ricordo di aver letto, anche in un altro passo, del granello di senape, dove dal Signore è paragonato alla fede con queste parole: "Se avrete fede quanto un granello di senape, direte a questo monte: Spostati e gettati in mare (Mt 17,20). Non è certo una fede mediocre, ma grande, quella che è capace di comandare a una montagna di spostarsi: ed infatti non è una fede mediocre quella che il Signore esige dagli apostoli, sapendo che essi debbono combattere l’altezza e l’esaltazione dello spirito del male. Vuoi esser certo che bisogna avere una grande fede? Leggi l’Apostolo: "E se avessi così tanta fede da trasportare le montagne" (1Co 13,2).

       Orbene, se il regno dei cieli è come un granello di senape e anche la fede è come un granello di senape, la fede è certamente il regno dei cieli, e il regno dei cieli è la fede. Quindi, chi ha la fede ha il regno dei cieli; e il regno dei cieli è dentro di noi come dentro di noi è la fede. Leggiamo infatti: "Il regno dei cieli è dentro di voi" (Lc 17,21); e altrove: "Abbiate la fede in voi" (Mc 11,22). E infine Pietro, che aveva tutta la fede, ricevette le chiavi del regno dei cieli, per aprirne le porte agli altri.

       Consideriamo ora, tenendo conto della natura della senape, la portata di questo paragone. Il suo granello è senza dubbio una cosa modesta e semplice, ma si comincia a tritarlo, diffonde il suo vigore. E così la fede sembra semplice di primo acchito: ma triturata dalle avversità, diffonde la grazia della sua virtù, in modo da penetrare del suo profumo anche coloro che leggono o ascoltano.

       Granello di senape sono i nostri martiri Felice, Nabor e Vittore. Essi avevano il profumo della fede, ma li si ignorava. Venne la persecuzione; essi deposero le armi, porsero il collo e, abbattuti dal fendente della spada, diffusero la grazia del loro martirio per tutto il mondo, tanto da potersi dire giustamente: "La loro eco si è propagata per tutta la terra" (Ps 18,5).

       Ma la fede talvolta è tritata, talvolta premuta, talvolta seminata.

       Lo stesso Signore è un granello di senape. Egli non aveva subito ingiurie, ma, come il granello di senape, prima di essersi accostato a lui, il popolo non lo conosceva. Egli volle essere stritolato, in modo che noi potessimo dire: "Noi siamo per Dio il buon profumo di Cristo" (2Co 2,15); volle essere premuto, sicché Pietro disse: "La folla ti preme intorno" (Lc 8,45) ed infine volle essere anche seminato come il granello che fu «preso e gettato da un uomo nel suo orto». Infatti in un orto Cristo fu catturato e poi seppellito; in un orto crebbe, dove pure risorse. È divenuto un albero, così come sta scritto: "Come un albero di melo tra gli alberi della foresta, così è mio fratello tra i giovani" (Ct 2,3).

       Dunque, anche tu semina Cristo nel tuo orto - l’orto è un luogo pieno di fiori e di frutti diversi - in modo che vi fiorisca la bellezza della tua opera e profumi l’odore vario delle diverse virtù. Là dunque sia Cristo, dove c’è il frutto. Tu semina il Signore Gesù: egli è un granello quando viene arrestato, un albero quando risuscita, un albero che fa ombra a tutto il mondo. È un granello quando viene sepolto in terra, ma è un albero quando si eleva al cielo...

       Vuoi sapere che Cristo è il granello, e che è stato seminato? "Se il granello di grano non cade in terra e vi muore, esso resta solo: ma quando è morto produce molto frutto" (Jn 12,24). Non abbiamo dunque sbagliato dicendo ciò che egli stesso ha già detto. Egli è anche il granello di grano, perché fortifica il cuore degli uomini (Ps 103,14-15), e granello di senape, perché accende il cuore degli uomini. E, sebbene sia l’una che l’altra similitudine appaiano adatte, egli sembra tuttavia il granello di grano quando si tratta della sua risurrezione: egli è infatti il pane di Dio disceso dal cielo (Jn 6,33), affinché la parola di Dio e il fatto della risurrezione nutrano l’anima, accrescano la speranza e consolidino l’amore. È invece granello di senape, affinché sia più amaro e austero il discorso sulla passione del Signore: più amaro, perché spinga alle lacrime, più austero perché generi commozione. Così, quando leggiamo o ascoltiamo che il Signore ha digiunato, che il Signore ha avuto sete, che il Signore ha pianto, che il Signore è stato flagellato, che il Signore ha detto al momento della passione: "Vigilate e pregate per non entrare in tentazione" (Mt 26,41), noi, colpiti, per così dire, dall’aspro sapore di questo discorso, siamo spinti a moderare la troppo gradevole dolcezza dei piaceri del corpo.

       Dunque, chi semina il granello di senape, semina il regno dei cieli.

       Non disprezzare questo granello di senape: "È certamente il più piccolo di tutti i semi, ma diviene, una volta cresciuto, il più grande di tutti gli ortaggi" (Mt 13,32). Se Cristo è il granello di senape, in che modo egli è il più piccolo, e in che modo cresce? Non è nella sua natura, ma secondo la sua apparenza che cresce. Vuoi sapere in qual modo è il più piccolo? "Lo abbiamo visto e non aveva né bella apparenza né decorosa" (Is 53,2). Apprendi ora come è il più grande: "Risplendeva di bellezza al di sopra dei figli degli uomini" (Ps 44,3). Infatti colui che non aveva né bella apparenza né decorosa, è stato fatto superiore agli angeli (He 1,4), oltrepassando tutta la gloria dei profeti...

       Cristo è il seme, in quanto è seme di Abramo: "Poiché le promesse furono fatte ad Abramo e al suo seme. Egli non dice: ai suoi semi, come parlando di molti; ma, come parlando di uno solo: al suo seme, che è il Cristo" (Ga 3,16). E non soltanto Cristo è il seme, ma è il più piccolo di tutti i semi, perché non è venuto né nella regalità, né nella ricchezza, né nella sapienza di questo mondo. Orbene, subito egli ha allargato, come un albero, la cima elevata della sua potestà, in modo che noi possiamo dire: "Sotto la sua ombra con desiderio mi sedetti" (Ct 2,3).

       Sovente, credo, egli appariva contemporaneamente albero e granello. È granello quando si dice di lui: "Non è costui il figlio di Giuseppe l’artigiano?" (Mt 13,55). Ma, nel corso di queste stesse parole, egli subito è cresciuto, secondo la testimonianza dei giudei, perché essi non riescono neppure a toccare i rami di quest’albero divenuto gigantesco: "Donde gli viene" - essi dicono - "questa sapienza"? (Mt 13,54).

       È dunque granello nella sua apparenza, albero per la sua sapienza. Tra le foglie dei suoi rami, l’uccello notturno nel suo nido, il passero sperduto sul tetto (Ps 101,8), colui che fu rapito in paradiso (2Co 12,4), e colui che dovrà essere trasportato sulle nubi in aria (1Th 4,17), hanno ormai un luogo sicuro dove riposare. Là riposano anche le potenze e gli angeli del cielo, e tutti coloro che per le azioni spirituali meritarono di volare. Vi riposò san Giovanni, quando reclinava la testa sul petto di Gesù, o meglio, egli era come un ramo nutrito dal succo vitale di quest’albero. Un ramo è Pietro, un ramo è Paolo "dimenticando ciò che sta dietro e tendendo a ciò che sta davanti" (Ph 3,13): e noi, che eravamo lontani, che siamo stati radunati dalle nazioni, che per lungo tempo siamo stati sballottati nella vanità del mondo dalla tempesta e dal turbine dello spirito del male, spiegando le ali della virtù, voliamo nel loro seno e come nei recessi della loro predicazione, affinché l’ombra dei santi ci protegga dal fuoco di questo mondo.

       Così, nella tranquillità di un sicuro riposo, la nostra anima, che una volta era curva, come quella donna, sotto il peso dei peccati, «scampata come un uccello dalle reti dei cacciatori» (Ps 123,7) si è levata sui rami e i monti del Signore (Ps 10,1).

       Ambrogio, Exp. in Luc., 7, 176-180; 182-186


3. Il seme più piccolo per l’evento più grande

       "Il regno dei cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo" (Mt 13,31). Siccome Gesù aveva detto che i tre quarti della semente sarebbero andati perduti, che una sola parte si sarebbe salvata e che nella parte restante si sarebbero verificati tanti gravi danni, i suoi discepoli potevano bene chiedergli: Ma quali e quanti saranno i fedeli? Egli allora toglie il loro timore inducendoli alla fede mediante la parabola del granello di senape e mostrando loro che la predicazione della buona novella si diffonderà su tutta la terra.

       Sceglie per questo scopo un’immagine che ben rappresenta tale verità. "È vero che esso è il più piccolo di tutti i semi; ma cresciuto che sia, è il più grande di tutti i legumi e diviene albero, tanto che gli uccelli dell’aria vengono a fare il nido tra i suoi rami" (Mt 13,32). Cristo voleva presentare il segno, la prova della loro grandezza. Così - egli spiega - sarà anche della predicazione della buona novella. In realtà i discepoli erano i più umili e deboli tra gli uomini, inferiori a tutti; ma, siccome in loro c’era una grande forza, la loro predicazione si è diffusa in tutto il mondo.

       Crisostomo Giovanni, Comment. in Matth., 46, 2


4. La parabola del granello di senapa (Mt 13,31-32)

La fede quanto un granellin di senapa,

Simbolo del tuo Regno,

Io non l’ho accolta dentro la mia anima,

Perché le perverse montagne fossero spostate (Mt 17,20).

E neppure, come uccel del cielo,

Mi son posato sui rami del precetto,

Dove le anime pure si riposano,

Eredi del santo Tabernacolo dei cieli.

Né mi son reso aspro al palato,

O troppo duro alla bocca dei vermi;

Sbriciola i lor dentini, te ne prego,

Ricollocami sui rami dell’albero.

       Nerses Snorhali, Jesus, 477-479





XII DOMENICA

117 Letture:
    
Jb 38,1 Jb 38,8-11
     2Co 5,14-17
     Mc 4,35-40


1. Il sonno di Cristo sulla barca

       Tutte le volte che Cristo dorme nella nostra nave, e a causa del sonno della nostra ignavia s’addormenta nel nostro corpo, insorge una totale tempesta per la violenza dei venti, infieriscono minacciose le onde, e mentre troppo frequentemente si innalzano e cadono con flutti spumeggianti, amaramente suscitano nei naviganti con l’attesa i naufragi, come ha detto la lettura del nostro evangelista...

       "E lo prendono", disse, "così com’era nella nave" (Mc 4,36). Altro è il Cristo in Cielo, altro è il Cristo in nave: altro nella maestà del Padre, altro nella umiltà dell’umanità si avverte; altro si vede coeterno al Padre, altro temporale in rapporto alle età; altro dorme nel nostro corpo, altro veglia nella santità del suo spirito. "Lo prendono così com’era", disse, "nella nave". Lode di fede è ricevere il Cristo come è e si ha nella nave, cioè, nella Chiesa, dove è nato, dove crebbe, dove soffrì, dove fu crocifisso e sepolto, dove ascese al Cielo, siede alla destra di Dio Padre, donde verrà come giudice dei vivi e dei morti: professare tutto questo è di singolare salvezza. Colui che avrà accolto nella nostra nave e confessato il Cristo, qualora venga sommerso dagli scandali delle onde, non è immerso dai pericoli e coperto dalle onde... "Quella burrasca gettava le ondate nella nave" (Mc 4,37): poiché come le onde dei popoli e la ferocia delle persecuzioni agitano e squassano la nave del Signore esternamente, così all’interno i burrascosi flutti degli eretici irrompono ed infieriscono [contro di essa]. Il beato Paolo dichiara di aver sofferto questa tempesta, quando dice: "Al di fuori le lotte, internamente i timori: talmente che la nave fosse sommersa" (2Co 7,5). Giustamente l’evangelista, a causa dei flutti spumeggianti, riferisce che la nave fosse ripiena [d’acqua], soffrendo la Chiesa un numero così grande di eresie, quante controversie della legge leggiamo che ci siano.

       "Ed egli", disse, "dormiva a poppa sopra un capezzale. Lo svegliano e gli dicono: Maestro, niente t’importa che affondiamo? E, alzandosi, minacciò il vento e disse al mare: Taci e ritorna tranquillo. E cessarono i venti ed il mare ritornò calmo" (Mc 4,38-39). Mentre avveniva ciò gli insegnamenti si resero palesi, e il tempo lo addita all’esempio. Dal momento che grande e abbastanza violenta incombe una burrascosa tempesta, mentre da ogni parte il turbine pericoloso dei venti ruggisce e infierisce, muggisce il mare, le stesse isole sono scosse dalle fondamenta e i litorali sono scossi da pauroso fragore. Ma poiché dicemmo: Cristo dorme nella nostra nave, avviciniamoci a lui più con la fede che col corpo, e bussiamo alla sua porta [svegliamolo] più con le opere di misericordia che con il contatto di disperati; scegliamolo non con un frastuono indecoroso ma con grida di canti spirituali: non mormorando maliziosamente, ma supplicandolo con animo vigile.

       Offriamo a Dio qualcosa del tempo della nostra vita, affinché questa infelice vanità e miseranda sollecitudine non sciupi tutto il tempo [della nostra vita]; affinché l’eccessivo sonno e il vano torpore non sciupi tutta la notte ma parimenti parte del giorno e della notte noi stessi dedichiamo all’autore del tempo.

       Vigila, uomo, vigila! Hai l’esempio, e ciò che il gallo ti impedisce all’ospite, tu offrilo al tuo creatore, soprattutto quando egli ti suggerisce che ti sarà di aiuto, quando ti spinge al lavoro, quando già vicina la luce del nuovo giorno; quanto più con inni celesti ti conviene rivolgerti a Dio con virtù celeste per la tua salvezza. Ascolta il profeta che dice: "Durante la notte il mio spirito veglia presso di te, o Dio" (Is 26,9). E il salmista: "Sono con le mie mani di notte davanti a lui, e non sono stato ingannato" (Ps 76,3). Del giorno, invero, tre momenti lo stesso salmista ammonisce che bisogna riservare a Dio, dicendo: "Di sera, al mattino e nel mezzogiorno narrerò ed annunzierò, ed egli esaudirà la mia voce" (Ps 54,18). Mentre Daniele supplicava diligentemente Dio, in questi tre momenti [della giornata], ottenne non solo la prescienza del futuro, ma meritò la liberazione del suo popolo a lungo prigioniero. Ripetiamo, dunque, col profeta: "Sorgi, sorgi e non respingermi fino alla fine" (Mc 4,38). Diciamo con gli apostoli: "Maestro, niente t’importa che affondiamo?" (Mc 4,38). E veramente il maestro, non solo è il creatore di tutti gli elementi, ma anche il moderatore e il reggitore di essi. Ed egli quando ci avrà ascoltato, quando si sarà degnato di vigilare, si calmeranno le onde, e gli spaventosi marosi si appianeranno e così i colli, i venti si allontaneranno, cesserà la tempesta e quella che è imminente e la grande burrasca si trasformeranno nella più grande calma.

       Pietro Crisologo, Sermo, 21, 1 ss.


2. L’esempio dei buoni pastori

       La Chiesa che naviga, come una grande nave, attraverso il mare di questo mondo, che è flagellata in questa vita da diversi flutti di tentazioni, non dev’essere abbandonata, ma diretta. E di questo ci diedero esempio i primi Padri, Clemente, Cornelio e altri assai nella città di Roma, Cipriano a Cartagine, Atanasio in Alessandria, i quali governarono, sotto imperatori pagani, la nave di Cristo, o meglio la sua carissima sposa, la Chiesa, insegnando, difendendo, lavorando e soffrendo fino allo spargimento del loro sangue...

       [I pastori che pascolano sé stessi] non guariscono col consiglio spirituale colui che è ammalato nei peccati, non ristabiliscono con l’aiuto sacerdotale chi è oppresso da varie tribolazioni, non riportano, colui che sbaglia, sulla via della salvezza, non richiamano al perdono con pastorale sollecitudine colui che s’è perduto nella disperazione, né difendono gli afflitti dalla violenza dei potenti, che come belve, s’avventano contro di loro...

       Perciò, fratello carissimo, poiché le cose stanno proprio così e la verità può essere tormentata, ma non può esser vinta né ingannata, la nostra mente afflitta ricorra a colui che attraverso Salomone dice: "Abbi fiducia nel Signore con tutto il tuo cuore e non contare sulla tua scaltrezza in tutte le tue cose. Ricordati di lui ed egli guiderà i tuoi passi" (Pr 3,5), e altrove: "È torre fortissima il nome di Dio" (Pr 18,10). In questa si rifugia il giusto, e sarà salvo. Stiamo nella giustizia, prepariamoci alla tentazione, per aiutare l’aiuto di Dio e diciamogli: «Signore, sei il nostro rifugio da sempre». Confidiamo in colui che ci ha messo il peso sulle spalle. Ciò che non possiamo portare da noi, soli, portiamolo per mezzo di colui che è onnipotente e ci dice: "Il mio giogo è soave e il mio peso è leggero" (Mt 11,30). Stiamo nella battaglia nel giorno del Signore, poiché è giunto per noi il tempo dell’angustia e della tribolazione. Moriamo, se Dio lo vuole, per le sante leggi dei nostri padri, per poter meritare con loro l’eredità eterna. Non siamo cani muti, non siamo osservatori silenziosi, non siamo mercenari che fuggono innanzi al lupo, ma pastori solleciti, vigilanti sul gregge di Cristo, messaggeri del pensiero di Dio ai grandi e ai piccoli, ai ricchi e ai poveri, a tutte le condizioni sociali a tutte le età con tutta la forza che Dio ci darà.

       Bonifacio di Magonza, Epist. ad Cutheb.


3. Se la fede è in noi, Cristo è in noi

       Se la fede è dentro di te, dentro di te c’è Cristo che freme e si turba; poiché se la fede è in noi, Cristo è in noi. Lo attesta l’Apostolo: "Per mezzo della fede, Gesù Cristo abita nei nostri cuori" (Ep 3,17). Se la tua fede deriva da Cristo, Cristo è nel tuo cuore.

       Ricordatevi l’episodio del Vangelo, in cui si narra di Cristo che dormiva nella barca: i discepoli vedendosi esposti al pericolo di un imminente naufragio, gli si avvicinarono e lo svegliarono. Cristo si alzò, comandò ai venti e alle onde, subito si fece gran calma sul mare. Fai anche tu così. I venti entrano nel tuo cuore, come se tu navigassi in questa vita su un mare procelloso e pieno di scogli pericolosi: il vento entra, sconvolge le onde, e la tua navicella ne è quasi travolta. Chi sono questi venti? Ti è stata rivolta un’offesa e tu sei colto dall’ira: l’offesa è il vento, l’ira è l’onda travolgente. Sei in pericolo, perché ti prepari a rispondere, ti prepari a restituire l’offesa con un’altra più grave, e già la tua nave si avvicina al naufragio. Sveglia a questo punto Cristo che dorme. Tu eri travolto dalle onde, stavi per rispondere con una ingiuria all’oltraggio che ti è stato fatto, perché Cristo dormiva sulla tua navicella. Il sonno di Cristo nel tuo cuore è l’oblio della fede. Infatti, se svegli Cristo, cioè se fai appello alla fede, che cosa ti dice Cristo, sveglio nel tuo cuore? Ti dice: Ho sentito i miei nemici dirmi: tu hai il demonio in corpo, e io ho pregato per loro. Il Signore sente l’offesa e la sopporta: il servo invece sente l’offesa e si indigna! Anzi, tu ti vuoi vendicare. Ma come? Io - continua Cristo nel tuo cuore - mi sono forse vendicato? Quando la fede parla così nel tuo cuore, è come se comandasse ai venti e alle onde: subito si fa una gran calma.

       Agostino, Comment. in Ioan., 49, 19


4. Simbologia della Chiesa

       Il mare è il mondo, in cui la Chiesa, come una nave nelle onde del mare, è sbattuta dai flutti, ma non fa naufragio; perché ha con sé Cristo, il suo accorto timoniere. Ha anche nel centro il trofeo eretto contro la morte, la croce del Signore. La sua prora è Oriente, la poppa Occidente, la carena Mezzogiorno, i chiodi i due Testamenti, le corde son la Carità di Cristo che tiene stretta la Chiesa, il lino rappresenta il lavacro di rigenerazione che rinnova i fedeli. Il vento è lo Spirito che vien dal cielo, per il quale i fedeli son condotti a Dio. Con lo Spirito ha anche ancore di ferro nei precetti di Cristo. Né le mancano marinai a destra e a sinistra, poiché i santi angeli la circondano e difendono. La scala, che sale sull’antenna, è immagine della salutare passione di Cristo, che porta i fedeli fino al cielo. Le segnalazioni in cima all’antenna son le luci dei Profeti, dei Martiri, degli Apostoli, che riposano nel regno di Cristo.

       Ippolito di Roma, De Christ. et antichr., 59


5. La tempesta sedata (Mt 8,23-27)

Quando del mare l’onde s’agitarono

E la barca sballottata si affondava,

Tu le rimbrottasti, ed esse tacquero;

Le onde minacciose si placarono.

Come già a Pietro, tendimi la mano (Mt 14,31)

Per ritrarmi dall’onde del Maligno

Affinché l’onda agitata del peccato

In sé non mi affoghi.

       Nerses Snorhali, Jesus, 446-447






Lezionario "I Padri vivi" 115