Lezionario "I Padri vivi" 25

Domenica di Passione o delle Palme

25 Letture:
    
Is 50,4-7
     Ph 2,6-11
     Mt 21,1-11 Mt 26,14-27 Mt 26,66

1. Sermone per la Domenica delle Palme

       Fratelli, che siete venuti in chiesa con maggiore impulso del solito, e che avete portato con voi con gioia rami d’albero, vi prego. Ma giova farlo con coloro che non sanno perché lo fanno, né cosa significhino queste cose?

       Voi dovete sapere che in questo giorno, cioè il giovedì prima della sua Passione, il nostro Salvatore si pose a sedere su un’asina presso il monte degli Ulivi per dirigersi verso Gerusalemme (Jn 12,1). Ora la folla, saputo che Gesù era diretto a Gerusalemme, gli andò incontro con rami di palme (cf. Jn 12,14 Mt 21,1-7 Mc 11,1-7 Lc 19,29-35), "e siccome egli già si apprestava a discendere il monte degli Ulivi, nella sua gioia la folla di coloro che discendevano si mise a lodare Dio a gran voce" (Jn 12,12-13). Durante quei cinque giorni, cioè da questo fino alla sera del giovedì in cui fu consegnato dopo la Cena, egli insegnò tutti i giorni nel tempio e dimorò tutte le notti sul monte degli Ulivi. E poiché il decimo giorno del mese si rinchiudeva l’agnello che doveva essere immolato il quattordicesimo giorno dai figli d’Israele, è a pieno titolo che questo vero Agnello, cioè il Cristo Signore, entrò quel giorno, lui che doveva essere crocifisso il venerdì nella Gerusalemme dove era rinchiuso l’agnello tipico. Oggi perciò, "le persone in gran numero, stesero i loro mantelli sulla strada e altre oggi tagliavano rami dagli alberi e ne cospargevano" (Mt 21,8) del pari il cammino del Salvatore.

       E se la santa Madre Chiesa celebra oggi corporalmente questi avvenimenti, è perché si adempiano, il che è molto più importante, spiritualmente. Infatti, ogni anima santa è l’asina di Dio. Il Signore si asside sull’asina e si dirige verso Gerusalemme, quando abita nelle vostre anime, fa loro disprezzare questo mondo e amare la patria celeste. Voi gettate le vostre vesti davanti a Dio sulla strada se mortificate i vostri corpi con l’astinenza preparandogli così il cammino per venire a voi. Voi tagliate rami d’alberi se vi preparate il cammino per andare a Dio, praticando le virtù dei santi Padri. Cosa fu Abramo? Cosa fu Giuseppe? E David? Cosa furono gli altri giusti, se non alberi che portano frutto? Imparate l’obbedienza alla scuola di Abramo, la castità alla scuola di Giuseppe, l’umiltà alla scuola di David, se vi aggrada ottenere la salvezza eterna.

       La palma significa la vittoria. Così noi portiamo palme nella mano, se cantiamo la vittoria gloriosa del Signore, sforzandoci di vincere il diavolo con una buona condotta. Ecco perché dovete anche sapere, o fratelli, che porta invano il ramo d’ulivo colui che non pratica le opere di misericordia. Come pure, è senza alcun profitto che porta la palma colui che si lascia vincere dalle astuzie del diavolo. Rientrate in voi stessi, carissimi, ed esaminate se fate spiritualmente ciò che compite corporalmente.

       Credetelo molto fermamente, fratelli, sarebbe pericoloso per noi non annunciarvi i misteri del nostro Salvatore, ma è altresì pericoloso per voi non prestar loro che poca attenzione. Noi vi esortiamo in definitiva a prepararvi tanto maggiormente, quanto più si avvicina la festa di Pasqua, a purificarvi da tutto ciò che è invidia, odio, collera, parole ingiuriose, maldicenze e calunnie, per poter celebrare degnamente quel giorno.

       Perdonate coloro che hanno peccato contro di voi, affinché il Signore perdoni i vostri peccati: colui che avrà serbato odio o collera, sia pure nei confronti di un sol uomo, celebrerà la Pasqua per sua sventura, poiché non mangerà la vita con Pietro, ma riceverà nella santa comunione la morte con Giuda. Allontani da voi tale sciagura, colui che vi ha creato con potenza, riscattato con amore, Gesù Cristo nostro Signore, che vive e regna con il Padre e lo Spirito Santo, Dio, nei secoli dei secoli. Amen.

       Anonimo IX sec., Hom. 10


2. Colloquio intimo con Dio

Ritengo dunque auspicabile dire qui
qualcosa delle sofferenze che per me Tu hai sofferto,
o Dio di tutti.
Ti sei tenuto in piedi nel tribunale della creatura, in una
natura che era la mia;
Non hai parlato, Tu che doni la parola;
Non hai alzato la voce, Tu che crei la lingua;
Non hai gridato, Tu che scuoti la terra;
Non hai ruggito, Tu che sei la tromba che risuona
agli orecchi di tutti nella Maestà;
Non li hai biasimati, nonostante i tuoi benefici,
e non hai loro, nonostante le loro malvagità, chiuso la bocca;
Non hai abbandonato alla confusione chi Ti abbandonava
ai tormenti della morte;
Non hai opposto resistenza, quando Ti legavano;
e quando Ti schiaffeggiavano, non Ti sei indignato;
quando Ti coprivano di sputi, Tu non hai ingiuriato,
e quando Ti davano pugni, Tu non hai fremuto;
Quando si facevano burle di Te, non ti sei corrucciato;
E quando Ti schernivano, non hai alterato il tuo viso.
Lo hanno spogliato della tunica che Lo ricopriva
come se Egli fosse impotente,
e di nuovo ve Lo hanno rivestito
come un detenuto incapace di fuggire...
Con la flagellazione, all’ultima ignominia
L’han consegnato in mezzo a plebaglia abietta;
han piegato il ginocchio per insultarlo
e gli han posto sul capo una corona per disprezzo
(Mt 27,26-31).

Lungi dal darTi un attimo di tregua, o Fonte della vita,
T’hanno apprestato, per portarlo
lo strumento di morte.
Con magnanimità Tu l’hai accolto,
l’hai preso con dolcezza,
l’hai sollevato con pazienza;
Ti sei caricato, come fossi un colpevole, del legno dei dolori!
Sulla sua spalla Egli ha portato l’arma di vita,
come il fiore di giglio delle valli (Ct 2,1).
Ti han cacciato fuori come la vittima dell’olocausto;
Ti hanno sospeso come l’ariete impigliato al cespuglio per le corna

(Gn 22,13);

Ti hanno disteso sull’altare della Croce come una vittima;
Ti hanno inchiodato quasi Tu fossi un malfattore;
Ti hanno inchiodato come un ribelle;
Tu che sei la Pace celeste, quasi Tu fossi un brigante;
Tu che sei la grandezza inviolabile, come un uomo dei dolori;
Tu che sei adorato dai Cherubini, come un essere spregevole
(Is 53,3)

Tu che sei la causa della vita, come degno
d’esser distrutto dalla morte;
Tu che hai esposto l’Evangelo,
come un bestemmiatore della Legge;
il Signore e il compimento dei Profeti,
come un trasgressore delle Scritture;
Tu che sei il raggio di gloria e il sigillo
di pensieri insondabili del Padre (He 1,3),
come avversario della volontà di Colui
che Ti ha generato;
Tu che sei veramente Benedetto, come un esiliato;
Tu che hai sciolto il legame della Legge, come uno scomunicato
(Ga 3,13);

Tu che sei un fuoco divoratore (Dt 4,24), come un prigioniero condannato;
Tu che sei temibile in cielo e in terra,
come un uomo giustamente castigato (Is 53,4);
Tu che sei nascosto in una luce inaccessibile (1Tm 6,16),
come uno schiavo terrestre!

       Gregorio di Narek, Liber orat. 77, 1 ss.

3. Le lodi dei fanciulli

       "I fanciulli gridavano e dicevano: Osanna al figlio di David. La cosa spiacque ai sommi sacerdoti e agli scribi, e gli dissero: Non senti ciò che dicono?" (Mt 21,15-16). Visto che le lodi non ti sono gradite, falli tacere. Alla sua morte come alla sua nascita, i fanciulli prendono parte alla corona dei suoi dolori. Incontrandolo, Giovanni, ancora "bambino, ha esultato nel seno" (Lc 1,41) di sua madre, e dei bambini furono messi a morte alla sua nascita, e divennero come il vino del suo banchetto nuziale. Furono dei fanciulli a proclamare le sue lodi quando giunse il tempo della sua morte. Alla sua nascita, "Gerusalemme si turbò" (Mt 2,3), e lo fu ancora e "temette" (Mt 21,10), il giorno in cui egli vi entrò. "La cosa spiacque agli scribi e gli dissero: Fermali! Egli rispose loro: «Se essi tacciono grideranno le pietre»" (Lc 19,39-40). Per cui, essi hanno preferito far gridare i fanciulli, piuttosto che le pietre, poiché al clamore delle creature gli spiriti ciechi avrebbero potuto comprendere. Il clamore delle pietre era riservato al tempo della sua crocifissione (Mt 27,51-52); infatti, allora, rimasti muti coloro che erano dotati di parola, furono le cose mute che proclamarono la sua grandezza.

       Efrem, Diatessaron, 18, 2


Domenica di Pasqua

29 Letture:

    
Ac 10,34a. Ac 10,37-43
     Col 3,1-4
     Jn 20,1-9

1. Chiesa e Sinagoga

       La lettura del santo Vangelo che or ora avete ascoltato, fratelli, è molto chiara nel suo aspetto storico, ma noi dobbiamo scrutarne brevemente i misteri. "Maria Maddalena si recò al sepolcro quand’era ancor buio" (Jn 20,1). In relazione alla storia è indicata l’ora, mentre in relazione al senso mistico è sottolineata l’intenzione di colei che cercava. Maria infatti cercava il Creatore di tutti, che aveva visto morto nella carne; lo cercava nel sepolcro; e siccome non lo trovò, ritenne che lo avessero rubato. "Si recò al sepolcro quand’era ancora buio". Corse in tutta fretta, e portò la notizia ai discepoli. Ma tra quelli corsero coloro che avevano amato più degli altri: Pietro e Giovanni. "Correvano insieme tutti e due, ma Giovanni corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro" (Jn 20,4); tuttavia non osò entrare per primo. Venne poi anche Pietro, "ed entrò" (Jn 20,6). Qual è, fratelli, il significato di questa corsa? Si può credere che una descrizione dell’evangelista così dettagliata sia priva di significati mistici? Niente affatto! Giovanni non avrebbe detto che era arrivato primo e non era entrato, se non avesse creduto che in quella sua trepidazione era contenuto un mistero. Cos’altro rappresenta Giovanni se non la Sinagoga, e cosa Pietro se non la Chiesa? Non sembri strano che il più giovane raffiguri la Sinagoga, mentre il più vecchio raffigura la Chiesa, perché se è vero che al culto di Dio venne prima la Sinagoga che non la Chiesa dei pagani, è vero anche che nella realtà della storia umana viene prima la moltitudine dei pagani che non la Sinagoga, come afferma Paolo, che dice: "Non è prima ciò che è spirituale, bensì ciò che è animale" (1Co 15,46). Perciò il più vecchio, Pietro, rappresenta la Chiesa dei pagani, mentre il più giovane, Giovanni, rappresenta la Sinagoga dei Giudei. Corsero insieme tutti e due, perché dal loro inizio sino alla fine il paganesimo e la Sinagoga corsero con pari e comune via, se non con pari e comune sentimento.

       La Sinagoga giunse per prima al sepolcro, ma non entrò, perché pur avendo ricevuto i comandamenti della legge e udito le profezie sulla Incarnazione e Passione del Signore, non volle credere in un morto. Giovanni, dunque, "vide le bende per terra, ma non entrò" (Jn 20,5); perché la Sinagoga, pur conoscendo gli obblighi della Sacra Scrittura, tuttavia indugiò, nel credere, a giungere alla fede nella Passione del Signore. Colui che da tanto tempo aveva profetato, lo vide presente, e pure negò [di credere in lui]; lo disprezzò in quanto uomo, non volle credere che Dio avesse assunto la carne mortale. Così facendo, corse più veloce, e tuttavia rimase incredula davanti al sepolcro: "Giunse intanto Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro" (Jn 20,6): cioè la Chiesa dei pagani, pur venendo dopo, nel Mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo, riconobbe colui che era morto secondo la carne e lo adorò come Dio vivo.

       Gregorio Magno, Hom. 22, 2-3

2. La Legge, i profeti, Cristo

       Ecco ciò che vuole per noi la Legge, nostro pedagogo (Ga 3,24); ecco ciò che vogliono i profeti, che si collocano tra la Legge e Cristo; ecco ciò che vuole Cristo, che compie la legge spirituale di cui è il termine (He 12,2); ecco ciò che vuole questa divinità che si è annientata (Ph 2,7); ecco ciò che vuole la carne assunta; ecco ciò che vuole questa nuova mescolanza di Dio e dell’uomo dove la dualità sfocia nell’unità e dove l’unità introduce la dualità. Ecco perché Dio si è fuso nella carne per l’intermediario dell’anima, e perché delle realtà separate sono state legate dalla parentela che questo intermediario aveva con ambedue. A causa di tutti, e in particolare a causa dell’unico antenato, tutto si è orientato verso l’unità: l’anima a causa di quella che aveva disobbedito, la carne a causa di quella che aveva collaborato e aveva condiviso la condanna - la prima a causa di un’anima e la seconda a causa di una carne -, e Cristo, più forte e più in alto del peccato, a causa di Adamo caduto in potere del peccato.

       Ecco perché il nuovo è stato sostituito al vecchio e perché colui che aveva provato la passione è stato ristabilito dalla Passione nel suo stato primiero: per ogni cosa nostra è stata data in cambio ogni cosa di colui che è al di sopra di noi, e l’economia della bontà verso colui che la sua disobbedienza aveva fatto cadere si è trasformata in un nuovo mistero. Ecco l’origine della Natività e della Vergine, l’origine della greppia e di Betlemme. La creazione spiega la Natività, la donna spiega la Vergine. Il motivo di Betlemme è l’Eden; il motivo della greppia è il Paradiso. Ciò che è grande e nascosto rende conto di ciò che è piccolo e visibile. Ecco perché gli angeli proclamano la gloria dell’essere celeste e poi terrestre; perché i pastori vedono la gloria di colui che è agnello e pastore; perché la stella mostra la via; perché i Magi si prostrano recando doni per distruggere il culto degli idoli. Ecco perché Gesù è battezzato, riceve testimonianza dall’alto, giovane, è tentato e trionfa da trionfatore. Ecco perché i demoni sono cacciati, i malati guariti, il grande annuncio affidato ai piccoli e da essi portato felicemente a termine.

       Ecco perché le nazioni fremono e i popoli meditano vani progetti (Ps 2,1); ecco perché il legno si erge contro il legno e le mani contro la mano (Gn 3,24): quelle che si sono tese generosamente si oppongono a quella che si è fatta avanti senza ritegno, quelle che sono state inchiodate a quella che si è aperta, quelle che uniscono le estremità della terra a quella che ha cacciato Adamo. Ecco perché l’elevazione si oppone alla caduta, il fiele al gusto, la corona di spine all’impero del male, la morte alla morte; ecco perché le tenebre si diffondono a causa della luce, la tomba si oppone al ritorno alla polvere e la risurrezione risponde all’insurrezione. Tutto ciò era per Dio un mezzo per educarci e guarire la nostra debolezza ristabilendo il vecchio Adamo nello stato da cui era caduto e conducendolo presso "l’albero della vita" (Gn 2,9) da cui l’albero della conoscenza, a causa del suo frutto preso intempestivamente e svantaggiosamente, ci aveva separati.

       Gregorio Nazianzeno, II orat. in S. Pascham, 23-25


3. La festa degli uomini e la festa eterna

       Ecco, noi stiamo celebrando le feste pasquali; ma dobbiamo vivere in modo tale da meritare di giungere alla festa eterna. Passano tutte le feste che si celebrano nel tempo. Cercate, voi che siete presenti a queste solennità, di non essere esclusi dalla solennità eterna. Cosa giova partecipare alle feste degli uomini, se poi si è costretti ad essere assenti dalle feste degli angeli? La presente solennità è solo un’ombra di quella futura. Noi celebriamo questa una volta l’anno per giungere a quella che non è d’una volta l’anno, ma perpetua. Quando, al tempo stabilito, noi celebriamo questa, la nostra memoria si risveglia al desiderio dell’altra. Con la partecipazione, dunque, alle gioie temporali, l’anima si scaldi e si accenda verso le gioie eterne, affinché goda in patria quella vera letizia che, nel cammino terreno, considera nell’ombra del gaudio. Perciò, fratelli, riordinate la vostra vita e i vostri costumi. Pensate come verrà severo, al giudizio, colui che mite risuscitò da morte. Certamente nel terribile giorno dell’esame finale egli apparirà con gli angeli, gli arcangeli, i troni, le dominazioni, i principati e le potestà, allorché i cieli e la terra andranno in fiamme e tutti gli elementi saranno sconvolti dal terrore in ossequio a lui. Abbiate davanti agli occhi questo giudice così tremendo; temete questo giudice che sta per venire, affinché, quando giungerà, lo possiate guardare non tremanti ma sicuri. Egli infatti dev’essere temuto per non suscitare paura. Il terrore che ispira ci eserciti nelle buone opere, il timore di lui freni la nostra vita dall’iniquità. Credetemi, fratelli: più ci affannerà ora la vista delle nostre colpe, più saremo sicuri un giorno alla sua presenza.

       Certamente, se qualcuno di voi dovesse comparire in giudizio dinanzi a me domani insieme al suo avversario, passerebbe tutta la notte insonne, pensando con animo inquieto a cosa gli potrebbe essere detto, a come controbattere, verrebbe assalito da un forte timore di trovarmi severo, avrebbe paura di apparirmi colpevole. Ma chi sono io? o cosa sono io? Io, tra non molto, dopo essere stato un uomo, diventerò un verme, e dopo ancora, polvere. Se dunque con tanta ansia si teme il giudizio della polvere, con quale attenzione si dovrà pensare, e con quale timore si dovrà prevedere il giudizio di una così grande maestà?

       Gregorio Magno, Hom. 26, 10-11


II Domenica di Pasqua

31 Letture:
    
Ac 2,42-47
     1P 1,3-9
     Jn 20,19-31

1. L’autorità conferita ai sacerdoti

       Se qualcuno riflettesse cosa è mai per chi è ancor uomo e circondato di carne e sangue poter star così vicino a quella natura beata e illibata, potrebbe vedere bene quale onore la grazia dello Spirito ha fatto ai sacerdoti. Per opera loro, infatti, si compiono questi misteri - e altri non inferiori -: per la loro dignità e la nostra salvezza. Ad uomini che vivono sulla terra, che hanno quaggiù la loro dimora, è stata affidata l’amministrazione dei tesori celesti ed è stato dato un potere che Dio non ha concesso né agli angeli né agli arcangeli. Mai infatti ha detto loro: "Tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo; e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo" (Mt 18,18). Certo, anche i dominatori sulla terra hanno il potere di legare, ma solo i corpi; quest’altro vincolo invece tocca l’anima stessa e trascende i cieli: quello che i sacerdoti compiono quaggiù, Iddio lo conferma lassù. Il Padrone convalida la decisione dello schiavo. Che altro infatti gli ha dato se non tutto il potere del cielo? Infatti: "A coloro cui rimetterete i peccati, saranno rimessi; e a coloro cui non li rimetterete, non saranno rimessi" (Jn 20,23). Quale potere sarà maggiore di questo? Il Padre ha dato ai Figlio ogni decisione (Jn 5,22): ma vedo che il Figlio l’ha concessa ai sacerdoti. Come se già fossero stati accolti nel cielo e avessero superata l’umana natura e fossero liberati dalle nostre passioni, a tanto potere sono stati elevati.

       Inoltre, se un imperatore concedesse a qualcuno dei suoi sudditi questo onore: cacciare in prigione chi vuole o di liberarne chi vuole, tutti ammirerebbero e rispetterebbero quel tale; ma colui che ha ricevuto da Dio un potere tanto maggiore, quanto il cielo è più augusto della terra e quanto l’anima lo è del corpo, sembrerà forse ad alcuni che abbia ricevuto un piccolo onore, tanto da ritenere di poter disprezzare lui, cui è stato affidato questo dono? Ma è una pazzia! E una pazzia conclamata disprezzare questa autorità, senza di cui non ci è possibile raggiungere né la salvezza né i beni promessi.

       Crisostomo Giovanni, De sacerd. 3, 5


2. L’unità della Chiesa

       Il Signore dice a Pietro: "Io ti dico: tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. Io ti darò le chiavi del regno dei cieli ciò che tu legherai sulla terra, sarà legato anche in cielo, e ciò che tu scioglierai sulla terra, sarà sciolto anche in cielo" (Mt 16,18s). Su uno solo egli edifica la Chiesa, quantunque a tutti gli apostoli, dopo la sua Risurrezione, abbia donato uguali poteri dicendo: "Come il Padre ha mandato me, così io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo! A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi li riterrete, saranno ritenuti" (Jn 20,21-23). Tuttavia, per manifestare l’unità, costituì una cattedra sola, e dispose con la sua parola autoritativa che il principio di questa unità derivasse da uno solo. Quello che era Pietro, certo, lo erano anche gli altri apostoli: egualmente partecipi all’onore e al potere; ma l’esordio procede dall’unità, affinché la fede di Cristo si dimostri unica. E a quest’unica Chiesa di Cristo allude lo Spirito Santo nel Cantico dei Cantici quando, nella persona del Signore, dice: "Unica è la colomba mia, la perfetta mia, unica di sua madre, la prediletta della sua genitrice" (Ct 6,9). Chi non conserva quest’unità della Chiesa, crede forse di conservare la fede? Chi si oppone e resiste alla Chiesa, confida forse di essere nella Chiesa? Eppure è anche il beato apostolo Paolo che lo insegna, e svela il sacro mistero dell’unità dicendo: "Un solo corpo e un solo spirito, una sola speranza della vostra vocazione, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio" (Ep 4,4-6).

       Quest’unità dobbiamo conservare salda e difendere soprattutto noi, vescovi, che nella Chiesa presidiamo, dimostrando così che lo stesso nostro episcopato è unico e indiviso. Nessuno inganni i fratelli con la menzogna, nessuno corrompa la loro fede nella verità con perfida prevaricazione! L’episcopato è unico, e i singoli ne possiedono ciascuno una parte, ma «in solido». Anche la Chiesa è unica, e si propaga in una moltitudine vastissima per la sua feconda prolificità, proprio come i raggi del sole sono molti, ma lo splendore è unico, i rami degli alberi sono molti, ma unico è il tronco saldamente attaccato alla radice, e come dalla sorgente unica defluiscono molti ruscelli e quantunque sembri che una numerosa copia di acqua largamente si diffonda tuttavia essa conserva alla sua origine l’unità. Dalla massa dei sole togli un raggio: l’unità della luce non ammette divisione; dall’albero stacca un ramo: il ramo non potrà più germogliare; dalla fonte isola un ruscello: questo subito seccherà.

       Così, anche la Chiesa del Signore diffonde luce per tutta la terra, dappertutto fa giungere i suoi raggi; tuttavia unico è lo splendore che dappertutto essa diffonde, né si scinde l’unità del corpo. Estende i suoi rami frondosi per tutta la terra riversa in ogni direzione le sue acque in piena, ma unico è il principio unica è l’origine, unica è la madre ricca di frutti e feconda. Dal suo grembo nasciamo, dal suo latte siamo nutriti, dal suo Spirito siamo vivificati.

       Cipriano di Cartagine, De Eccl. unitate, 4-5


3. Comunione d’amore tra Cristo e i discepoli

       [Gesù] disse loro: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi" (Jn 20,21). Cioè, come il Padre, che è Dio, ha mandato me, anch’io, che sono uomo, mando voi che siete uomini. Il Padre mandò il Figlio, quando stabilì che egli s’incarnasse per la redenzione del genere umano. Egli volle che il Figlio venisse nel mondo a patire, e tuttavia, pur mandandolo a patire, lo amava. Così, il Signore manda gli apostoli che si è scelto non a godere del mondo, ma, come fu mandato lui stesso, a patire nel mondo. Poiché il Figlio è amato dal Padre, pur essendo mandato a patire, così anche i discepoli sono amati dal Signore, pur essendo mandati a patire nel mondo. Per questo, è detto: "Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi"; cioè: Quando vi mando tra gli scandali dei persecutori, vi amo di quello stesso amore con il quale il Padre ama me, pur inviandovi a sopportare tante sofferenze.

       Gregorio Magno, Hom. 26, 2


4. Tommaso, modello di fede per noi

       "Ma Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù" (Jn 20,24). Questo discepolo fu l’unico assente; al suo ritorno sentì ciò che era avvenuto, ma non volle credere a quel che aveva udito. Il Signore ritornò e presentò al discepolo incredulo il costato perché lo toccasse, mostrò le mani e, facendo vedere le cicatrici delle sue ferite, sanò la ferita della sua infedeltà. Cosa, fratelli carissimi, cosa notate in tutto ciò? Credete dovuto a un caso che quel discepolo fosse allora assente, e poi tornando udisse, e udendo dubitasse, e dubitando toccasse, e toccando credesse? Non a caso ciò avvenne, ma per divina disposizione. La divina clemenza mirabilmente stabilì che quel discepolo incredulo, mentre toccava le ferite nella carne del suo Maestro, sanasse a noi le ferite dell’infedeltà. A noi infatti giova più l’incredulità di Tommaso che non la fede dei discepoli credenti perché mentre egli, toccando con mano, ritorna alla fede, l’anima nostra, lasciando da parte ogni dubbio si consolida nella fede. Certo, il Signore permise che il discepolo dubitasse dopo la sua risurrezione, e tuttavia non lo abbandonò nel dubbio... Così il discepolo che dubita e tocca con mano, diventa testimone della vera risurrezione, come lo sposo della Madre (del Signore) era stato custode della perfettissima verginità.

       [Tommaso] toccò, ed esclamò: "Mio Signore e mio Dio! Gesù gli disse: Perché mi hai veduto, Tommaso, hai creduto" (Jn 20,28-29). Quando l’apostolo Paolo dice: "La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono" (He 11,1), parla chiaramente, perché la fede è prova di quelle cose che non si possono vedere. Infatti delle cose che si vedono non si ha fede, ma conoscenza (naturale). Dal momento però che Tommaso vide e toccò, perché gli viene detto: "Perché mi hai veduto, hai creduto?" Ma altro vide, altro credette. Da un uomo mortale certo la divinità non può essere vista. Egli vide dunque l’uomo, e confessò che era Dio, dicendo: "Mio Signore e mio Dio"! Vedendo dunque credette, lui che considerando (Gesù) un vero uomo, ne proclamò la divinità che non aveva potuto vedere.

       Riempie di gioia ciò che segue: "Beati quelli che non hanno visto, e hanno creduto" (Jn 20,29). Senza dubbio in queste parole siamo indicati in special modo noi che non lo abbiamo veduto nella carne ma lo riteniamo nell’anima. Siamo indicati noi, purché accompagniamo con le opere la nostra fede. Crede veramente colui che pratica con le opere quello che crede. Al contrario, per quelli che hanno la fede soltanto di nome, Paolo afferma: "Dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti" (Tt 1,16). E Jc aggiunge: "La fede senza le opere è morta" (Jc 2,26).

       Gregorio Magno, Hom. 26, 7-9




III Domenica di Pasqua

32 Letture:
    
Ac 2,14a. Ac 2,22-28
     1P 1,17-2
     Lc 24,13-35

1. Gesù premia l’ospitalità

       Avete udito, fratelli carissimi, che il Signore apparve a due discepoli che camminavano lungo la via, i quali non credevano in lui e tuttavia parlavano di lui, ma non si mostrò loro con le sue sembianze sì da farsi riconoscere. Il Signore dunque riprodusse fuori, negli occhi del corpo, ciò che avveniva dentro di loro, negli occhi del cuore. E poiché nel loro intimo amavano e dubitavano, il Signore era fuori ed era presente, e non si manifestava per quello che era. A coloro che parlavano di lui si mostrò presente, ma poiché dubitavano nascose loro l’aspetto che poteva darlo a conoscere. Parlò con loro, li rimproverò della loro durezza a intendere, spiegò i segreti della Sacra Scrittura che lo riguardavano; e tuttavia, poiché nei loro cuori era ancora pellegrino quanto alla fede, finse di andare più lontano. Fingere, infatti, significa [in latino] plasmare, per questo chiamiamo «figuli» coloro che plasmano la creta. Nulla, dunque, la semplice Verità fece con doppiezza, ma si mostrò loro nel corpo tale e quale era nella loro mente. Volle provare se essi, che non lo amavano ancora come Dio, almeno potessero amarlo come pellegrino. Ma siccome non potevano essere estranei alla carità quelli con i quali camminava la stessa Verità, ecco che lo invitarono ospitalmente quale pellegrino. Ma perché diciamo «lo invitarono», quando sta scritto: "Lo costrinsero?" Dal quale esempio si comprende che i pellegrini non solo devono essere invitati, ma attirati con insistenza. Apparecchiano la tavola, offrono il cibo, e allo spezzar del pane riconoscono quel Dio che non avevano riconosciuto mentre spiegava la Sacra Scrittura.

       Ascoltando dunque i precetti di Dio non furono illuminati, mentre lo furono mettendoli in pratica, poiché sta scritto: "Non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati" (Rm 2,13). Pertanto, chi vuol comprendere le cose udite, si affretti a mettere in pratica quelle che ha già potuto capire. Ecco che il Signore non fu conosciuto mentre parlava, e si degnò di farsi conoscere mentre era servito a tavola. Amate dunque l’ospitalità, fratelli carissimi, amate le opere della carità. A questo proposito, infatti, da Paolo vien detto: "L’amore fraterno rimanga in voi, e non dimenticate l’ospitalità. Alcuni infatti piacquero per essa, avendo accolto degli angeli" (He 13,1). Pietro dice: "Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare" (1P 4,9). E la stessa Verità afferma: "Fui pellegrino, e mi accoglieste" (Mt 25,35). Vi narro ora una cosa molto conosciuta, trasmessa a noi dai nostri padri. Un padrone di casa era dedito, con tutta la sua famiglia, a praticare l’ospitalità; e siccome accoglieva quotidianamente pellegrini alla sua mensa, un giorno venne con gli altri un pellegrino, e fu condotto alla mensa. Mentre il padrone di casa per umiltà voleva versargli acqua nelle mani, si volse per prendere la brocca ma improvvisamente non trovò più colui nelle cui mani voleva versare l’acqua. E poiché si meravigliava fra sé dell’accaduto, quella stessa notte il Signore gli disse in visione: «Gli altri giorni hai accolto me nelle mie membra, ieri invece hai accolto me in persona». Ecco che Colui che viene nel giorno del giudizio dirà: "Ciò che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me" (Mt 25,40). Ancor prima del giorno del giudizio, quando è ricevuto nelle sue membra, va a visitare coloro che lo hanno ricevuto, e tuttavia noi siamo pigri alla grazia dell’ospitalità. Pensate, fratelli, quanto è grande la virtù dell’ospitalità! Voi ricevete Cristo alla vostra mensa per essere poi ricevuti da lui al convito eterno. Date ora ospitalità a Cristo pellegrino, affinché nel giorno del giudizio non vi dica che siete pellegrini a lui sconosciuti, ma vi accolga come suoi amici nel regno, con l’aiuto di lui che vive e regna, Dio, nei secoli dei secoli. Amen.

       Gregorio Magno, Hom. 23


2. Lo riconobbero nella frazione del pane

       Il Signore Gesù, dopo essere risuscitato dai morti, trovò per via due dei suoi discepoli, che conversavano insieme dei fatti del giorno, e disse loro: "Che sono questi discorsi che andate facendo tra di voi, e perché siete tristi?", ecc.; il fatto è narrato dal solo evangelista Luca. Marco si limita a dire che apparve a due discepoli lungo la via (Mc 16,12 Mc 16,13): ma quel che essi dissero al Signore, od anche ciò che questi disse loro, egli lo ha tralasciato.

       "Cristo con i discepoli per via". Cosa dunque ci ha apportato questa lezione? Qualcosa di grande, se cerchiamo di comprendere. Gesù apparve: era visto con gli occhi, ma non era riconosciuto. Il Maestro camminava con loro per via, anzi era lui stesso la via: essi però non camminavano ancora per la via; li trovò bensì che esorbitavano dalla via. Quando infatti era stato con loro, prima della sua Passione, aveva loro tutto predetto: che avrebbe patito, che sarebbe morto e risuscitato il terzo giorno (Mt 20,18-19): tutto aveva predetto; ma la morte di lui fu oblio per loro. Così rimasero turbati quando lo videro pendente dal legno, sì da dimenticare il docente, da non aspettare il risorgente, né da tener fede all’autore delle promesse.

       "Noi", dicono essi, "speravamo che avrebbe operato la redenzione d’Israele". O discepoli, voi speravate; dunque ora non sperate più? Ecco che Cristo vive, mentre la speranza è morta in voi ! Certamente Cristo vive. E Cristo vivo trovò morti i cuori dei discepoli: ai loro occhi apparve e non apparve; ed era visto e si nascondeva. Ma se non era visto, in qual modo lo ascoltavano mentre interrogava, o rispondevano alle sue domande? Egli viaggiava per via con loro come un compagno, mentre era il capo medesimo. Senz’altro lo vedevano, però non lo riconoscevano. "I loro occhi erano infatti appesantiti e incapaci di riconoscerlo", come abbiamo sentito. Non dice che erano incapaci di vedere, bensì che erano incapaci di riconoscerlo.

       "Perché Cristo volle essere riconosciuto nella frazione del pane. Il premio dell’ospitalità". Orsù, fratelli, dove volle essere riconosciuto il Signore? Nella frazione del pane. Siamone certi, spezziamo il pane, e conosciamo il Signore. Non ha voluto essere conosciuto se non lì; il che vale per noi che non eravamo destinati a vederlo nella carne, e tuttavia avremmo mangiato la sua carne. Perciò, chiunque tu sia, o fedele; chiunque tu sia che non vuoi essere detto vanamente cristiano; chiunque tu sia che non senza ragione entri in chiesa; chiunque tu sia che ascolti con timore e speranza la parola di Dio, ti consoli la frazione del pane. L’assenza del Signore non è assenza: abbi fede, ed è con te colui che non vedi. Quei tali, quando parlava con loro il Signore, non avevano fede: perché non credevano che fosse risorto, non speravano che potesse risorgere. Avevano perduto la fede, avevano perduto la speranza. Camminavano morti in compagnia della stessa vita. Con loro camminava la vita, ma nei loro cuori la vita non era stata ancora richiamata.

       Anche tu, quindi, se vuoi avere la vita, fa’ ciò che essi fecero, affinché tu conosca il Signore. Essi gli dettero ospitalità. Il Signore era infatti simile ad uno che vuole andare oltre, essi però lo trattennero. E dopo esser giunti al luogo cui erano diretti, dissero: "Resta ancora qui con noi, si fa sera infatti e il giorno volge al declino". Accogli l’ospite, se vuoi conoscere il Salvatore. Ciò che aveva portato via l’infedeltà, lo restituì l’ospitalità. Il Signore, dunque, si fece conoscere nella frazione del pane.

       Imparate dove cercare il Signore, imparate dove possedere, dove conoscere, quando mangiate. I fedeli infatti hanno conosciuto in questa lezione qualcosa che meglio comprendiamo e che quei tali non conobbero. "Cristo si è assentato con il corpo perché si edificasse la fede". Il Signore è stato conosciuto; e dopo essere stato conosciuto, mai più ricomparve. Si separò da loro con il corpo, colui che era trattenuto dalla fede. Per questo infatti il Signore si assentò con il corpo da tutta la Chiesa, e ascese al cielo, perché si edificasse la fede. Se infatti non conosci se non ciò che vedi, dove sta la fede? Ma se credi anche ciò che non vedi, godrai quando vedrai. Si edifica la fede, perché si respinge l’apparenza. Verrà ciò che non vediamo; verrà, fratelli, verrà: ma, attento a come ti troverà. Infatti, verrà ciò che dicono gli uomini: Dove, quando, come, quando sarà, quando verrà? Sta’ certo, verrà: e non soltanto verrà, ma verrà anche se tu non vuoi.

       Agostino, Sermo 235, 1-4


3. I discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35)

Da questa valle di tristezza,
Poni nel cuor mio gradini per salire al cielo,
Dove Tu ci hai promesso, o Figlio unico,
Il tuo Regno di lassù.

Tommaso (Jn 20,24-29)

L’ottavo giorno
Tu sei entrato di nuovo, Signore, in casa loro;
Hai appagato il desiderio del discepolo,
L’incredulo Tommaso.

Ha tastato la ferita del tuo Costato
E il sacro foro dei chiodi;
Ecco perché ci fu data la «Beatitudine»,
A noi che, come loro, non Ti abbiamo visto.

Io che credo con tutta la mia anima,
Ti confesso Signor mio e mio Dio;
Di mia voce come lui lo proclamo,
Così come l’appresi per la sua parola.

Ti piaccia farmi degno nel finale giorno,
Quando ritornerai nella tua gloria,
Di vederTi nel tuo stesso corpo,
Per abbracciarTi con l’amor del cuore.

       Nerses Snorhali, Jesus, 778-782



Lezionario "I Padri vivi" 25