Lezionario "I Padri vivi" 39

Domenica dopo Pentecoste: Santissima Trinità

39 Letture:
    
Ex 34,4-6 Ex 34,8-9
     2Co 13,11-13
     Jn 3,16-18

1. Padre, Figlio e Spirito Santo, una sola Sapienza

       Dunque il Padre è luce, il Figlio è luce, lo Spirito Santo è luce; ma tutti e tre insieme non costituiscono tre luci, ma una sola Luce. Di conseguenza il Padre è sapienza, il Figlio è sapienza e lo Spirito Santo è sapienza, ed insieme non fanno tre sapienze, ma una sola Sapienza. E poiché qui essere è la stessa cosa che essere sapiente, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono una sola essenza. Né qui essere è altra cosa che essere Dio: perciò "il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo Dio" (Eusebio di Vercelli)...

       E purché si intenda almeno "in enigma" (1Co 13,12) ciò che si dice, ci si è accontentati di queste espressioni per rispondere qualcosa quando si chiede che cosa sono i Tre; questi Tre di cui la fede ortodossa afferma l’esistenza, quando dichiara che il Padre non è il Figlio e lo Spirito Santo, che è il "dono di Dio" (Ac 8,10 Jn 4,10), non è né il Padre né il Figlio. Quando si chiede dunque che cosa sono queste tre cose o questi Tre, ci affanniamo a trovare un nome specifico o generico che abbracci queste tre cose, ma non si presenta allo spirito, perché l’eccellenza sopraeminente della divinità trascende la capacità del linguaggio abituale. Quando si tratta di Dio il pensiero è più vero della parola e la realtà più vera del pensiero...

       Che ci resta dunque? Ci resta forse da riconoscere che queste espressioni sono state originate dall’indigenza del linguaggio, quando erano necessarie delle lunghe dispute contro le insidie e gli errori degli eretici? Infatti, quando la povertà umana tentava di esprimere con parole adatte ai sensi degli uomini, ciò che nel segreto dello spirito sa, secondo la sua capacità, del Signore Dio suo Creatore, sia per la fede religiosa sia per qualsiasi altra conoscenza, essa ha temuto di parlare di tre essenze, perché non si sospettasse una qualche diversità in quella suprema uguaglianza. D’altra parte non poteva negare l’esistenza di tre realtà perché, per averla negata, Sabellio cadde nell’eresia. E dalla Scrittura risulta, con assoluta certezza, ciò che si deve credere con fedeltà, e l’occhio dello spirito percepisce con piena chiarezza: che esiste il Padre esiste il Figlio, esiste lo Spirito Santo, ma che il Figlio non è io stesso che il Padre, e lo Spirito Santo non è lo stesso che il Padre o il Figlio. La povertà umana si è chiesta come designare queste tre realtà e le ha chiamate sostanze o Persone, con i quali termini volle escludere tanto la diversità di essenza quanto l’unicità delle Persone, in modo da suggerire non solo l’idea di unità con l’espressione «una essenza» ma anche l’idea di Trinità con l’espressione «tre sostanze o Persone»...

       Ora, se per le esigenze della controversia si preferisce, pur lasciando da parte i nomi relativi, accettare il plurale, per poter rispondere con una sola parola alla domanda: «che cosa sono i Tre?», e dire «tre sostanze o tre Persone», si badi a tener lontana ogni idea di massa o di estensione, ogni carattere, per quanto piccolo, di dissomiglianza che ci faccia pensare che vi sia qui una cosa inferiore ad un’altra, qualunque sia la maniera in cui uno può essere inferiore ad un altro, cosicché venga esclusa la confusione delle Persone e una distinzione che implichi ineguaglianza. Se l’intelligenza è incapace di comprenderlo, lo si tenga per fede, fino a quando brilli nei nostri cuori Colui che ha detto per bocca del Profeta: "Se non crederete, non comprenderete" (Is 7,9)

       Agostino, De Trinit. 7, 3.6 s.9.12

2. La manifestazione della divina carità

       Chi lavora un campo, lo lavora per conservarlo coltivato. Chi pianta una vigna, la pianta per custodirne le viti. Chi mette insieme un gregge, lo fa per dedicarsi poi a moltiplicarlo. E chi edifica una casa o pone delle fondamenta, anche se già non vi abita, abbraccia il lavoro a cui si sobbarca nella speranza della futura dimora. E perché debbo fermarmi a parlare dell’uomo, quando gli stessi animali più piccoli fanno tutto per la brama di beni futuri? Quando le formiche nascondono nei loro cunicoli sotterranei chicchi di ogni genere, li depositano, li ammassano tutti per amore della loro stessa vita? Le api, quando costruiscono il fondo dei favi o colgono il polline dei fiori, perché vanno in cerca del timo se non per desiderio del miele? E perché si affannano dietro i fiori, se non per amore della futura prole? Dio dunque, che infonde anche agli animali più piccoli l’amore per le loro opere, avrà privato solo se stesso dell’amore per le sue creature? Tanto più che l’amore per ogni realtà buona discende in noi dal suo amore sublime. È lui infatti la fonte, l’origine di tutto; e poiché, come sta scritto: "In lui viviamo, ci muoviamo e siamo" (Ac 17,28), da lui abbiamo ricevuto tutto l’affetto con cui amiamo le nostre creature.

       Ma tutto il mondo, tutto il genere umano è una sua creatura. Così dall’amore con cui amiamo le nostre creature egli ha voluto che noi comprendessimo quanto egli ama le sue creature. Infatti, come leggiamo, "l’intelletto contempla la Sua realtà visibile per il tramite di ciò che è stato fatto" (Rm 1,20); così egli volle che noi comprendessimo il suo amore per noi dall’amore che egli ci ha dato per i nostri cari. E come volle - come sta scritto - "che ogni paternità e in cielo e in terra prendesse nome da lui" (Ep 3,15), volle anche che noi riconoscessimo il suo affetto paterno. E dirò solo paterno? Anzi più che paterno. Lo prova la voce del Salvatore nel Vangelo, che dice: "Tanto infatti Dio ha amato questo mondo da dare il suo Figlio unico per la vita del mondo" (Jn 3,16). E l’Apostolo dice: "Dio non perdonò a suo Figlio, ma lo sacrificò per noi. Come dunque con lui non ci avrà donato tutto?" (Rm 8,32).

       Ecco dunque, come ho detto: Dio ci ama più che un padre il proprio figlio. Ed è evidente che il suo affetto per noi è maggiore dell’affetto per i figli, perché per amore nostro non risparmiò il suo Figlio. E che più? Aggiungo: il Figlio giusto, il Figlio unigenito, il Figlio di Dio. Che si può dire ancora? Per noi: cioè per i malvagi, per gli iniqui, per gli empi. Chi potrà dunque misurare l’amore di Dio verso di noi?

       Salviano di Marsiglia, De gubernatione, 4, 9-10


3. L’amore incorruttibile

       Ora, nel pieno possesso della mia vita, vi scrivo che bramo di morire. Il mio amore è crocifisso, e non vi è più in me un fuoco terreno; ma un’acqua viva mormora in me e mi dice dentro: «Vieni al Padre!».

       Non gusto più il cibo corruttibile dei piaceri della vita; voglio il pane di Dio, che è la carne di Gesù Cristo, figlio di David, e voglio come bevanda il suo sangue, cioè l’amore incorruttibile.

       Non voglio più vivere quaggiù...

       Ignazio di Antiochia, Ad Rom. 7 s.


4. Essere un’anima sola in Dio

       State attenti, fratelli, perché riconoscerete qui il mistero della Trinità, in qual modo cioè si possa dire: il Padre è, il Figlio è, lo Spirito Santo è, e tuttavia Padre, Figlio e Spirito Santo sono un solo Dio. Ecco che quelli erano molte migliaia, ma avevano un solo cuore; erano molte migliaia, ma avevano una sola anima. Ma dove avevano un solo cuore e una sola anima? (Ac 2,32). In Dio. A maggior ragione questa unità si deve trovare in Dio. Forse sbaglio nell’esprimermi, quando dico che due uomini hanno due anime e tre uomini ne hanno tre, e molti uomini ne hanno molte? Di certo mi esprimo giustamente. Ma se essi si avvicinano a Dio, avranno una sola anima. Se coloro che si avvicinano a Dio, per mezzo della carità, di molte anime diventano un’anima sola e di molti cuori un cuore solo, che cosa non farà la stessa fonte della carità nel Padre e nel Figlio? La Trinità non è dunque, a più forte ragione, un solo Dio? È da essa infatti che ci viene la carità, dallo stesso Spirito Santo, così come dice l’Apostolo: "La carità di Dio è diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato" (Rm 5,5).

       Se dunque «la carità è diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato» e di molte anime fa un’anima sola e di molti cuori fa un cuore solo, a quanta maggior ragione il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo dovranno essere un solo Dio, una sola luce, e un solo principio?

       Agostino, In Ioan. 39, 5


II Domenica

42 Letture:
    
Is 49,3 Is 49,5-6
     1Co 1,1-3
     Jn 1,29-34

1. La discesa dello Spirito Santo sul Figlio di Dio fatto uomo

       Gli apostoli avrebbero potuto dire in effetti che il «Cristo» era disceso su «Gesù», o il «Salvatore dell’alto» sul «Gesù dell’economia», o colui che proviene dalle «regioni invisibili «su colui che dipende dal «Demiurgo». Ma nulla del genere essi hanno saputo o detto - infatti se lo avessero saputo, lo avrebbero detto senza alcun dubbio -. In compenso, hanno detto ciò che era, cioè che lo Spirito di Dio discese su di lui come una colomba (Mt 3,16 Mc 1,10 Lc 3,22 Jn 1,32). È lui lo Spirito di cui Is aveva detto: "E lo Spirito di Dio si poserà su di lui" (Is 11,2), come abbiamo già spiegato; e ancora: "Lo Spirito del Signore è su di me, perché mi ha unto" (Is 61,1 Lc 4,18). È lui lo Spirito del quale il Signore diceva: "Infatti, non sarete voi a parlare, ma lo Spirito del Padre vostro parlerà in voi" (Mt 10,20). E ancora del pari, quando conferiva ai suoi discepoli il potere di far rinascere gli uomini in Dio, diceva loro: "Andate, ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (Mt 28,19). Questo Spirito, in effetti, egli aveva promesso per mezzo dei profeti di diffonderlo negli ultimi tempi sui suoi servi e sulle sue serve perché profetizzassero (Jl 3,1-2 Ac 2,17-18). Ed è per questo che tale Spirito è disceso sul Figlio di Dio divenuto Figlio dell’uomo: Così, con lui, egli si abituava ad abitare nel genere umano, a riposare (Is 11,2 1P 4,14) sugli uomini, a risiedere nell’opera modellata da Dio; egli realizzava in essi la volontà del Padre e li rinnovava facendoli passare dalla loro vecchiezza alla novità del Cristo.

       È questo Spirito che David aveva chiesto per il genere umano, dicendo: "Con magnanimo Spirito sostienimi" (Ps 50,14). È ancora questo Spirito di cui Luca dice che dopo l’Ascensione del Signore è disceso sui discepoli, "il giorno di Pentecoste" (Ac 2,1-4), con potere su tutte le nazioni per introdurle nella vita e aprir loro il Nuovo Testamento: è perciò in tutte le lingue che, animati da uno stesso sentimento, i discepoli celebravano le lodi di Dio, mentre lo Spirito riconduceva ad unità le tribù disperse e offriva al Padre le primizie di tutte le nazioni (Ac 2,5-12). Inoltre, ecco perché il Signore aveva promesso di inviarci un Paraclito (Jn 15,26) che ci avrebbe rimesso in accordo con Dio. Infatti, come dalla farina secca non si può, senza l’acqua, fare un’unica pasta e un unico pane, così noi, che eravamo una moltitudine non potevamo affatto diventare uno in Cristo Gesù (Rm 12,5 1Co 10,17 Ga 3,28) senza l’Acqua venuta dal cielo. E come la terra arida, se non riceve l’acqua non può fruttificare, così anche noi, che non eravamo dapprima che legna secca (Lc 23,31) non avremmo mai potuto portar frutti di vita senza la Pioggia generosa (Ps 67,10) venuta dall’alto. Infatti, i nostri corpi hanno ricevuto dal bagno (Ep 5,26 Tt 3,5) del Battesimo l’unione all’incorruttibilità, mentre le nostre anime l’hanno ricevuta dallo Spirito (Jn 3,5). Ecco perché l’uno e l’altra sono necessari dal momento che l’uno e l’altra contribuiscono a donare la vita di Dio... Lo stesso dono (Jn 4,10) che il Signore ha ricevuto dal Padre, egli lo ha dato, a sua volta, a coloro che partecipano di lui, inviando lo Spirito Santo su tutta la terra.

       Ireneo di Lione, Adv. Haer. III, 17, 1-2


2. L’Agnello che toglie il peccato del mondo

       Benché il Padre gli dica che è una grande cosa che egli sia divenuto servo, è poco, se lo si paragona con un agnellino innocente o un agnello. Infatti, l’Agnello di Dio è come un agnellino innocente condotto al sacrificio per "togliere il peccato del mondo" (Is 53,7 Jn 1,29); perché fossimo tutti purificati dalla sua morte, colui che dà a tutti la parola è divenuto simile ad un agnello muto davanti al tosatore, dato alla maniera di un carme magico contro le potenze avverse e contro il peccato di coloro che non vogliono accogliere la verità. Infatti, la morte di Cristo ha indebolito le potenze che combattono la stirpe degli uomini e, con la sua forza ineffabile, essa ha, in ciascuno dei credenti, strappato la vita al peccato.

       Poiché fino a che tutti i suoi nemici siano annientati e, in ultimo, la morte (1Co 15,26), egli toglie il peccato, affinché il mondo intero sia senza peccato: per tale motivo designandolo Giovanni dice: "Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato dei mondo" (Jn 1,29); egli non è né colui che lo toglierà, ma non lo ha tolto ancora, né colui che lo ha tolto e non lo toglie più, bensì colui che continua a toglierlo in ciascuno di coloro che sono nel mondo fino a che il peccato non sia soppresso dal mondo intero e il Salvatore rimetta al Padre suo un regno pronto (1Co 15,24) per essere governato da lui, perché non vi si trova più il minimo peccato, ed a ricevere, in tutti i suoi elementi, tutti i doni di Dio, quando sarà compiuta questa parola: "Dio sarà in tutto in tutti " (1Co 15,28).

       Origene, In Ioan. I, 233-235


3. La condizione umana di peccato

       Abbi oltremodo per certo e non dubitare in alcun modo, che i primi uomini, cioè Adamo e la donna di lui, creati buoni, retti e senza peccato, con il libero arbitrio, col quale potevano, volendo, sempre servire e obbedire a Dio con umile e buona volontà, col quale arbitrio anche potevano, volendo, peccare con la propria volontà; e loro non per necessità, ma per la propria volontà peccarono; e con quel peccato la natura umana fu talmente mutata in peggio, che non solo in quei primi uomini attraverso il peccato regnò la morte, ma anche in tutti gli uomini si trasmise la signoria del peccato e della morte.

       Abbi oltremodo per certo e non dubitare in alcun modo che ogni uomo che viene concepito dall’unione dell’uomo e della donna, nasce col peccato originale, assoggettato all’empietà e sottomesso alla morte, e per questo nasce per natura figlio dell’ira. Della quale dice l’Apostolo: "Eravamo infatti anche noi per natura figli dell’ira come gli altri" (Ep 2,3). Dalla quale ira nessuno viene liberato, se non per la fede del mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Gesù Cristo, il quale, concepito senza peccato, si è fatto peccato per noi, cioè fatto sacrificio per i nostri peccati. Già nel Vecchio Testamento venivano detti peccati i sacrifici che si offrivano per i peccati, nei quali tutti fu sacrificato Cristo, poiché egli è "l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo" (Jn 1,29).

       Fulgenzio di Ruspe, De fide ad Petr. 68-69


4. Il mistero di Giovanni continua anche oggi

       Io credo che il mistero di Giovanni si compia fino ai nostri giorni nel mondo. È necessario che lo spirito e la potenza di Giovanni vengano dapprima nell’anima di chiunque è destinato a credere in Gesù Cristo, per preparare al Signore un popolo perfetto, e spianare le strade e raddrizzare i sentieri nelle asperità dei cuori. Non è soltanto in quei tempi che le strade furono spianate e i sentieri raddrizzati, ma anche oggi lo spirito e la potenza di Giovanni precedono l’avvento del Signore e Salvatore.

       Origene, In Luc. 4, 6


5. Andare innanzi al Signore, come Giovanni

       È poi giustissimo dire che san "Giovanni andrà innanzi al Signore" (Lc 1,76), perché è nato come precursore, e come precursore è morto. E forse questo sacro mistero si potrebbe compiere in questa nostra vita, anzi oggi stesso. Effettivamente, quando ci disponiamo a credere in Cristo, un potente influsso di Giovanni va innanzi alla nostra anima, per preparare alla fede le vie dell’anima nostra, e fare delle tortuosità di questa vita le vie diritte del nostro passaggio, sì che non abbiamo a cadere nel percorso intricato dell’errore, e ogni valle della nostra anima possa produrre frutti di virtù, ogni cima di meriti profani curvarsi con trepida umiltà davanti al Signore, ben conoscendo che non può assolutamente esaltarsi ciò che è la debolezza in persona.

       Ambrogio, In Luc. 1, 38


6. In Gesù è la pienezza della grazia

       "Sulle tue labbra è diffusa la grazia"" (Ps 44,3). Vedi che lui [il Salmista] dice queste cose della natura umana da lui [Cristo] assunta? Ma che cos’è questa grazia? Per la quale ha insegnato, per la quale ha compiuto miracoli? Qui dice grazia, quella che venne nella carne: "[L’uomo] sul quale, dice, vedrai lo Spirito scendere come colomba, e rimanere, è colui che battezza in Spirito Santo" (Jn 1,33). Tutta la grazia infatti è effusa in quel tempio. Perché non dà a lui lo Spirito con misura: "Della sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto" (Jn 1,16); ma quel tempio riceve tutta e completa la grazia. È questo che anche Is intendeva dicendo: "Su di lui poserà lo Spirito di sapienza e di intelligenza, Spirito di consiglio e di fortezza, Spirito di conoscenza e di pietà. Si compiacerà del timore del Signore" (Is 11,2-3). Ma lì certamente è integra e universale la grazia: negli uomini invece poca cosa, e una goccia, quella grazia.

       Crisostomo Giovanni, Exp. in Psal. XLIV, 2


III Domenica

43 Letture:
    
Is 9,1-4
     1Co 1,10-13 1Co 1,17
     Mt 4,12-23

1. La luce di Dio e le tenebre del peccato

       Se è al Padre che si riferisce la frase "In lui non vi sono tenebre" (1Jn 1,5), taluni si chiederanno come pretendiamo che questo privilegio gli sia riservato, mentre pensiamo che il Salvatore è anche lui assolutamente senza peccato, di modo che si potrebbe dire egualmente di lui: «Egli è luce e in lui non vi sono tenebre». In ciò che precede, abbiamo già parzialmente stabilito la differenza. A ciò aggiungeremo ora con maggiore arditezza che se "colui che non aveva conosciuto peccato", il Cristo, (Dio) "l’ha fatto peccato per noi" (2Co 5,21), non è possibile dire a suo riguardo: «In lui non vi sono tenebre «. E se, "in una carne simile a quella del peccato" (Rm 8,3), Gesù ha giustamente condannato il peccato, dato che egli ha assunto una carne simile a quella del peccato, non sarà del tutto esatto dire a suo riguardo: «In lui non vi sono tenebre».

       Aggiungeremo inoltre che: Lui stesso ha preso su di sé le nostre infermità e si è caricato dei nostri malanni (Mt 8,17 Is 53,4), cioè delle debolezze della nostra anima e dei malanni dell’uomo nascosto nel fondo del nostro cuore (1P 3,4). A motivo di queste infermità e di questi malanni di cui egli si è caricato, egli riconosce che la sua anima è molto afflitta e turbata (Mc 14,34 Jn 12,27) e, come è scritto in Zaccaria, egli è rivestito delle vesti insozzate che son dette peccati nel momento in cui sta per esserne spogliato. (L’angelo) aggiunge in ogni caso: "Ecco che io ho tolto i tuoi peccati" (Za 3,3-4).

       In effetti, perché ha preso su di sé i peccati del popolo dei credenti, egli dice a più riprese: "Lontano dalla mia salvezza è il conto dei miei peccati e Tu conosci la mia follia e le mie trasgressioni non sono nascoste davanti a te" (Ps 21,2 Ps 68,6).

       Che nessuno supponga che noi diciamo questo per empietà verso il Cristo di Dio. Siccome il Padre "solo possiede l’immortalità" (1Tm 6,16) poiché, nel suo amore per gli uomini, Nostro Signore ha assunto la morte per noi, così solo il Padre possiede (il privilegio) di non avere in lui alcuna tenebra, poiché, nella sua benevolenza verso gli uomini, il Cristo si è caricato delle nostre tenebre, affinché, con la sua potenza, egli abolisse la nostra morte (2Tm 1,10) e annientasse le tenebre che sono nella nostra anima, e si adempisse la profezia di Isaia: "Il popolo assiso nelle tenebre ha visto una grande luce" (Mt 4,14-16 Is 9,2).

       Questa luce, che è nel Verbo e che è egualmente la vita, «brilla nelle tenebre» delle nostre anime e si stabilisce anche là dove (avevano dimora) i principi di questo mondo di tenebre (Ep 6,12) che, combattendo il genere umano, si sforzano di trascinare nelle tenebre coloro che sono di una stabilità abbastanza assoluta da essere chiamati, una volta illuminati, "figli della luce" (Lc 16,8). Tuttavia, poiché è nelle tenebre che brilla questa luce, è inseguita da quelle, ma non afferrata.

       Origene, In Ioan. II, 26, 163-167


2. Chiamata ed elezione di Pietro

       "Da allora Gesù prese a predicare e a dire: «Convertitevi, perché è vicino il regno dei cieli»" (Jn 1,9). Ma quando Gesù comincia a predicare? Da quando Giovanni fu chiuso in prigione. Ma perché non predicò prima? E che bisogno aveva di Giovanni Battista, dato che le sue opere gli rendevano già un’efficace testimonianza? Ecco: perché noi potessimo comprendere maggiormente la sua grandezza: Gesù Cristo ha i suoi profeti, così come il Padre ha avuto i suoi. Proprio questo rileva Zaccaria nel suo cantico: "E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo" (Lc 1,76). Era necessario il precursore, inoltre, perché agli insolenti Giudei non restasse alcuna scusa, come testimonia lo stesso Gesù Cristo con le parole: "È venuto Giovanni, che non mangiava né beveva, e hanno detto: Ha il demonio addosso. È venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve ed essi dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori. Alla sapienza, però, è resa giustizia dai figli suoi" (Mt 11,18-19). E ancora era necessario che tutto quanto riguardava il Cristo fosse manifestato in anticipo da un altro, prima di esserlo da lui stesso. Infatti, se dopo tante testimonianze e dopo tali prove, i Giudei dissero: "Tu rendi testimonianza a te stesso; la tua testimonianza non è valevole" (Jn 8,13), che cosa avrebbero osato dire se, prima che Giovanni avesse parlato, si fosse presentato in pubblico e avesse reso per primo testimonianza in favore di sé?

       Ecco ancora perché Gesù non comincia a predicare prima di Giovanni e non compie alcun miracolo, se non dopo che il suo precursore è stato rinchiuso in prigione: nel timore che nascesse qualche scisma tra il popolo. Per la stessa ragione Giovanni non compie miracoli, allo scopo di lasciar accorrere tutta la folla a Gesù, trascinata dai prodigi che il Signore faceva. Infatti, se anche dopo i miracoli operati da Gesù Cristo, i discepoli di Giovanni, sia prima che dopo il suo incarceramento, erano ancora presi da gelosia verso Gesù e molti pensavano che il Messia non fosse lui, bensì Giovanni, che cosa sarebbe accaduto se Dio non avesse preso queste sagge misure?

       Ecco le ragioni per cui anche Matteo vuol sottolineare che «da allora» Gesù incominciò a predicare. E, all’inizio della sua predicazione, Gesù insegna ciò che Giovanni ha detto. Nei suoi primi discorsi non parla ancora di se stesso, ma si contenta di predicare la penitenza. Per quel tempo era già abbastanza desiderabile far accettare la penitenza, dato che allora il popolo non aveva ancora di Cristo un’idea sufficientemente adeguata. E all’inizio, non annuncia niente di terribile o di spaventoso, come aveva fatto Giovanni parlando della scure tagliente già posta alle radici dell’albero, del ventilabro che ripulisce l’aia, e di un fuoco inestinguibile. Dapprima, parla soltanto dei beni futuri, rivelando a coloro che lo ascoltano il regno che ha loro preparato nei cieli.

       "Gesù camminava lungo il mare di Galilea, quando vide due fratelli: Simone, detto Pietro, e Andrea, suo fratello, che gettavano la loro rete in mare, essendo pescatori. E disse loro: «Seguitemi e vi farò pescatori di uomini». Ed essi, abbandonando subito le reti, lo seguirono" (Mt 4,18-20). Giovanni evangelista descrive in maniera diversa la chiamata di questi apostoli; è evidente, quindi, che quanto ci narra Matteo è la loro seconda chiamata, come chiunque può costatare anche da molte altre circostanze. Giovanni, infatti, dice esplicitamente che questi due discepoli si avvicinarono a Gesù prima che il precursore fosse incarcerato, mentre quanto Matteo narra qui avvenne dopo l’arresto del Battista. Inoltre, Giovanni precisa che fu Andrea a chiamare Pietro, mentre Matteo dice che Gesù li chiamò tutt’e due. E ancora Giovanni riferisce: "Gesù, vedendo Pietro venire verso di lui, gli disse: Tu sei Simone, figlio di Giona, sarai chiamato Cefa - che vuol dire pietra" (Jn 1,42). Matteo, dal canto suo, lascia intendere che Simone era già chiamato con questo secondo nome, quando dice che Gesù vide «Simone, detto Pietro». Si può, tuttavia, arrivare alla stessa conclusione, riferendosi al luogo ove i due fratelli furono chiamati da Gesù e a parecchie altre circostanze; lo si deduce anche dal fatto che essi gli obbedirono con immediatezza, lasciando tutto quanto possedevano: essi, infatti, erano ormai ben preparati e pronti. Giovanni evangelista ci presenta Andrea, che va a trovare Gesù nella sua casa e che da lui apprende molte cose, mentre qui Matteo riferisce che i due discepoli, udita una sola parola di Gesù, immediatamente lo seguirono. È quindi verosimile che questi apostoli avessero già seguito Gesù prima e che poi lo avessero lasciato; è verosimile inoltre che, quando essi seppero che Giovanni era stato messo in prigione e Gesù si era allontanato, siano tornati nuovamente alla loro antica professione di pescatori nel loro paese; perciò Cristo li ritrova mentre stanno pescando. Quando essi vollero lasciare Gesù la prima volta, egli non lo impedì loro e neppure li abbandonò definitivamente perché allora lo avevano lasciato. Infatti, dopo aver permesso loro di andarsene, torna a loro una seconda volta per riprenderli e guadagnarli alla sua causa: e questo è il modo migliore di pescare gli uomini.

       Osservate, ora, la fede e l’obbediente docilità dei discepoli. Gesù parla, mentre essi si trovano nel bel mezzo del loro lavoro (e voi sapete quale occupazione appassionante sia la pesca); ebbene essi, appena sentito il suo invito, non si ritraggono, né rinviano e neppure dicono: Lasciaci andare a casa un momento per parlare con i nostri parenti; ma, abbandonata ogni cosa, lo seguono, come fece un tempo Eliseo nei confronti di Elia. È una obbedienza pronta e perfetta come questa, che Gesù Cristo esige da noi, una obbedienza che esclude ogni ritardo, anche quando vi fossero fortissime ragioni ad ostacolarla. Per questo, quando s’avvicinò a Gesù un altro discepolo, chiedendogli di poter seppellire il padre, Gesù non lo lasciò andare, per dimostrarci che fra tutte le opere la prima e la più necessaria è seguirlo. E se voi osservate che la promessa che egli fa loro è grande, io vi risponderò che li ammiro ancor di più in quanto, senza aver veduto alcun miracolo di Gesù, prestano fede a tale promessa e pospongono tutto per seguirlo. Essi credettero che le parole, dalle quali erano stati pescati, avrebbero consentito anche a loro di pescare un giorno gli altri uomini. Questa, infatti, fu la promessa che Gesù fece.

       Ma a Giacomo e a Giovanni non promise niente di simile, perché l’obbedienza dei due primi apostoli aveva già aperto loro la via; e, d’altra parte, essi avevano già udito molte cose sul conto di Gesù e non avevano quindi bisogno di promesse. Considerate ora con quanta cura il Vangelo ci sottolinea le condizioni di povertà di questi discepoli. Gesù li trovò intenti a rattoppare le loro reti (Mt 4,21-22), che erano costretti a riparare non potendo procurarsene altre nuove. Ebbene, è una non mediocre dimostrazione di virtù quella di sopportare senza sforzo la miseria, di vivere del faticoso ma lecito lavoro, di essere uniti fra loro dalla forza dell’amore e di tenere perciò con sé il padre, che servono e mantengono.

       Non appena Gesù ebbe chiamato i discepoli, cominciò subito a compiere miracoli in loro presenza, per confermare in tal modo quanto Giovanni Battista aveva detto di lui.

       Crisostomo Giovanni, In Matth. 14, 1-2


3. La scelta degli apostoli (Lc 6,12-16)

Con gli Undici scelti
La cui scelta facesti per una (vita) sopraterrestre,
Tu m’hai invitato con essi
a prender parte alla (vita) perfetta.

Ma io, ultimo degli uomini, dall’anima incurante
Sono stato rigettato come Giuda!
Benché non abbia (consegnato) il Signore,
Nondimeno ho tradito con tutto il gusto la mia anima!

Io Ti prego per le loro suppliche
Di rimettermi nel dritto sentiero della luce;
Di realizzare nei fatti quanto è detto in parole,
Quel che per tuo comando hanno insegnato.

       Nerses Snorhali, Jesus, 345-347


IV Domenica

44 Letture:
    
So 2,3 So 3,12-13
     1Co 1,26-31
     Mt 5,1-12a

1. Chi sono i veri beati

       "Tutti vogliono essere beati. Chi - però - è povero di spirito?" Nella festa di questa vergine santa, che dette testimonianza a Cristo e la meritò da lui, uccisa pubblicamente e coronata in segreto, ammaestriamo la Carità vostra con quella esortazione che il Signore pronunciava nel suo Vangelo, annunziando molte cause della vita beata, che nessuno dice di non volere. In verità, non esiste chi non voglia essere beato. Ma che gli uomini non ricusino di sottostare alle condizioni richieste, così come desiderano ricevere la pattuita mercede! Chi non correrebbe celermente, quando gli si dice: Sarai beato? Ascolta volentieri, e quando vien detto: Se avrai fatto questo, non si ricusi l’impegno, se si aspira al premio; e si accenda l’animo all’alacrità dell’opera con l’aiuto della ricompensa. Ciò che vogliamo ciò che desideriamo, ciò che chiediamo, sarà dopo: ciò che, al contrario, ci viene ordinato di fare, in vista di ciò che verrà dopo, sia ora. Ecco, comincia a rimeditare i detti divini, ivi compresi i precetti e i pesi evangelici: "Beati i poveri di spirito poiché di essi è il regno dei cieli" (Mt 5,3). Dopo, sarà tuo il regno dei cieli; ora, sii povero di spirito . Vuoi che dopo sia tuo il regno dei cieli? Guarda di chi sei tu ora. Sii povero di spirito. Chiedi forse di sapere che significa essere povero di spirito? Chi è superbo non è povero di spirito: quindi l’umile è povero di spirito. Alto è il regno dei cieli: "ma, chi si umilia sarà esaltato" (Lc 14,11).

       "Chi è il mite?" Sta attento a qual che segue: "Beati", egli aggiunge, "i miti, perché possederanno la terra" (Mt 5,5). Ora tu vuoi possedere la terra: bada, però, di non essere posseduto dalla terra. Possederà il mite, sarà posseduto il non-mite. E, quando ascolti del premio promesso e cioè che possederai la terra, non dilatare il grembo dell’avarizia, con la quale vuoi possedere ora la terra, con esclusione persino del tuo vicino: non ti inganni una tale opinione. Possederai la terra solo quando aderirai a colui che ha fatto il cielo e la terra. Questo infatti significa essere mite: non resistere al tuo Dio, affinché in ciò che fai di bene, ti piaccia egli e non te stesso; mentre in ciò che giustamente soffri di male, non sia egli a dispiacerti, bensì te stesso. Infatti, non è piccola cosa se cercherai di piacere a lui dispiacendoti; dispiaceresti a lui, per contro, piacendo a te stesso.

       "Coloro che piangono". Fa’ attenzione al terzo: "Beati coloro che piangono, perché saranno consolati" (Mt 5,4). Nel lutto è l’impegno, nella consolazione la ricompensa. Infatti, coloro che piangono carnalmente, quali consolazioni hanno? Temibili molestie. Sarà consolato chi piange, se teme di non piangere ancora. Ad esempio, il figlio morto contrista mentre dà gioia il nato: quello è tolto via, questo è accolto, in quello è tristezza in questo timore: in nessuno quindi è consolazione. Dunque, vera consolazione sarà quella che vien data e non può essere tolta; cosicché quelli che amano essere consolati dopo, ora piangono da pellegrini.

       "Gli affamati". Ed ecco il quarto, opera e servizio: "Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati" (Mt 5,6). Tu vuoi essere saziato. Donde? Se brami la sazietà di carne - una digerita sazietà -, tornerai ad aver fame. "E chi beve di quest’acqua, tornerà ad avere sete" (Jn 4,13), egli dice. La medicina che si applica ad una ferita, non fa più male, se è riuscita a risanarla; per contro, ciò che si applica alla fame, quasi esca, si risolve a poco. Infatti, passata la sazietà, ritorna la fame. Arriva perciò quotidianamente il rimedio di sazietà, ma non è risanata la ferita dell’infermità. Abbiamo fame quindi, e saziamoci di giustizia, affinché dalla medesima giustizia possiamo essere saziati, della quale ora abbiamo fame e sete. Saremo in effetti saziati di quello di cui abbiamo fame e sete. Il nostro uomo interiore abbia fame e sete: egli ha in effetti il suo cibo e la sua bevanda. "Io sono", spiega egli, "il pane che è disceso dal cielo" (Jn 6,41). Ora che hai il pane dell’affamato, desidera anche la bevanda dell’assetato: "Poiché presso di te è la fonte della vita" (Ps 35,10).

       "I misericordiosi". Ora, attento al seguito che dice: "Beati i misericordiosi, poiché di loro Dio avrà misericordia" (Mt 5,7). Fa’ e sarà fatto: fa’ con l’altro, perché sia fatto a te. Infatti, tu abbondi e difetti: abbondi di cose temporali, difetti delle eterne. Ascolti il mendicante e sei tu stesso mendico di Dio. Ti si chiede, e chiedi a tua volta. E come avrai agito con il tuo richiedente, così Dio agirà con il suo. Sei pieno e vuoto ad un tempo: riempi il vuoto della tua pienezza, affinché la tua vuotaggine sia riempita della pienezza di Dio.

       "I puri di cuore". Ascolta quel che segue: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt 5,8). Questo è il fine del nostro amore, il fine per cui ci perfezioniamo, per cui ci consumiamo. Si finisce il cibo, si finisce il vestito: il cibo, perché si consuma mangiando; il vestito, perché si finisce [si porta a termine] tessendo. E di questo e di quello si dice del pari che finisce: ma questa fine tende alla consumazione, quella alla perfezione. Qualunque cosa facciamo, o facciamo bene, sosteniamo, lodevolmente ci scaldiamo, incolpevolmente desideriamo, quando sarà pervenuto alla visione di Dio, non lo ricercheremo più. Cosa cerca in effetti colui al quale si fa presente Dio? O cosa potrà bastare a colui al quale non basta Dio? Noi vogliamo vedere Dio, chiediamo di vedere Dio, ardiamo dal desiderio di vedere Dio. Chi mai non è d’accordo? Ma, osserva quel che è detto: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio". Questo prepara, affinché tu veda. In effetti, per parlare secondo la carne, a che pro desideri il sorgere del sole con occhi cisposi? Siano sani gli occhi, e quella luce sarà una gioia: non sono sani gli occhi, quella luce risulterà un tormento. Non ti sarà permesso infatti di vedere con cuore non-puro, poiché non si vede che con cuore puro. Sarai respinto, sarai allontanato, non vedrai. "Beati", infatti, "i puri di cuore, perché vedranno Dio". Quanti beati ho già enumerato? Quali cause di beatitudine, quali opere, quali doveri, quali meriti, quali premi? Non è detto in alcun luogo. "Essi vedranno Dio. Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati i miti: possederanno la terra. Beati quelli che piangono: saranno consolati. Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia: saranno saziati. Beati i misericordiosi: troveranno misericordia". Da nessuna parte è detto: Essi vedranno Dio. Arrivati però ai puri di cuore, ecco che qui si promette la visione di Dio.

       "In che senso la visione di Dio è promessa specificamente ai puri di cuore". Quindi, non che tu debba intendere quei precetti e quei premi nel senso che ascoltando: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio", tu ritenga che i poveri di spirito non vedranno, o non vedranno i miti, o coloro che piangono, o quelli che hanno fame e sete della giustizia, oppure i misericordiosi. Non argomenterai che, visto che questi vedranno in quanto puri di cuore, quelli siano separati dalla visione. Tutte queste cose sono infatti comuni a tutti loro. Essi vedranno, però non vedranno specificamente per questo e cioè perché poveri di spirito, perché miti, o perché piangono, hanno fame e sete della giustizia, o perché sono misericordiosi: ma anche perché sono puri di cuore. Di modo che, se determinate opere corporali si addicono a determinate membra del corpo, sì che si può dire, ad esempio: Beati coloro che hanno i piedi, perché cammineranno; beati coloro che hanno le mani, perché opereranno, beati coloro che hanno la voce, perché grideranno; beati coloro che hanno bocca e lingua, perché parleranno; beati coloro che hanno gli occhi, perché così potranno vedere? In tal modo, quasi componendo delle membra spirituali, egli [Gesù] insegnò ciò che è pertinente ad uno in rapporto con l’altro. Adatta è l’umiltà per avere il regno dei cieli; atta la mansuetudine per possedere la terra; adatte fame e sete di giustizia per essere saziati; atta la misericordia per implorare misericordia; adatto un cuore puro per vedere Dio.

       Agostino, Sermo 53, 1-6.9


2. Le Beatitudini (Mt 5,1-12)

Sei salito a sederti sopra un alto monte
Come un tempo eri disceso sul Sinai;
Tra i nembi avevi esposto la Legge Antica,
Nel corpo tuo, o Verbo, hai insegnato la Nuova.

Hai aperto la tua divina bocca,
Hai beatificato gli uomini da bene;
In cambio delle Tavole dei Dieci Comandamenti
Hai dato le Nove Beatitudini della (Legge) Nuova.

Hai istallato una scala dalla terra al cielo
Con nove modi e gradini;
Per essa Tu hai fatto ascendere il genere umano;
Tu l’hai posta in mezzo ai nove Cori.

Ma io ho aderito talmente alla terra
A causa del peccato così grave da portare,
Che non ho salito neppure uno
Di tra i nove gradini.

Non mi son fatto povero di spirito riguardo al male,
Il che m’avrebbe fatto conquistare il Regno;
Epperò, resto sempre ricco di peccati,
E totalmente povero di bene.

L’anima mia non è entrata interiormente in lutto
Per pianger nelle lacrime la sua stessa morte,
Per esser consolato nell’altro mondo,
Grazie al nome gioioso del Verbo

Proprio al contrario, ho riso davanti alle cose vane di quaggiù,
E mi rallegro facendo torto alla (mia) anima,
Tra quei che son ripagati e con il «guai a voi»
E con il «pianto e lo stridor di denti».

E non è con dolci parole che con il mio simile
Ho conversato secondo il tuo comando,
Affinché con chi osserva la tua santa Legge
Della Terra Celeste fossi erede.

Non ho avuto fame del pane della Giustizia,
E per nulla è presente in me la sete del Verbo,
Alfine d’essere saziato dal tuo amore,
Dalla tua divina Bevanda.

Non ho usato misericordia al povero,
Figura per me della tua Speranza,
Per trovarti nel Gran Giorno del Giudizio
Misericordioso verso la misera mia anima.

Non ho lavato la lordura del male
Dal cuor mio e dal mio spirito impuri.
Perché di tua Vision divina
Io fossi degno, mentre rimango nel (mio) corpo.

Non sono stato artefice di pace tra me
E il mio avversario, né tantomeno verso lo straniero,
Per esser figlio del Padre tuo celeste
Come Te, imitando il tuo agire.

Sono stato perseguitato, ma sono scontento
Dei collaboratori del Perverso;
Se li (avessi sopportati) di buon grado,
Sarei erede del tuo celeste Regno.

Mi hanno oltraggiato con molte parole,
Con ripetuto biasimo mi hanno afflitto;
E ciò non a causa di Te, né che mentissero,
Ma semplicemente perché dicevano il vero.

Ora, in lacrime, ti supplico, Signore;
Abbraccio, Signore, i tuoi piedi;
Alleggeriscimi, io che sto in un corpo,
Del fardello sì grave dei peccati,

Per rendere possibile quaggiù alla mia anima
Di ascendere in spirito verso Te in cielo,
Seguendo le tue Parole come una scala,
(Salendo) almeno un gradino dopo l’altro.

       Nerses Snorhali, Jesus, 351-366



Lezionario "I Padri vivi" 39