Lezionario "I Padri vivi" 45

V Domenica

45 Letture:
    
Is 58,7-10
     1Co 2,1-5
     Mt 5,13-16

1. Il sale della terra

       "Voi siete il sale della terra" (Mt 5,13). Con tali parole egli mostra che era necessario dar loro quei grandi precetti. Dice, in sostanza, che non soltanto per la loro vita personale, ma anche per la salvezza di tutti gli uomini quell’insegnamento verrà affidato a loro. Io non vi mando - sembra dire - come un tempo furono mandati i profeti a due città, o a dieci, o a venti, o a un popolo in particolare, ma vi invio alla terra, al mare, al mondo intero, a questo mondo che vive nella corruzione. Dicendo: «Voi siete il sale della terra», fa capire che la sostanza degli uomini è stata resa insipida e corrotta dai peccati. Per questo egli esige soprattutto dai suoi apostoli quelle virtù che sono necessarie e utili per convertire molti. Quando un uomo è mansueto, umile, misericordioso e giusto, non tiene chiuse in sé simili virtù, ma fa sì che queste eccellenti sorgenti, scaturite dalla sua anima, si diffondano a vantaggio degli altri uomini. Inoltre chi ha il cuore puro, chi è pacifico, chi subisce persecuzioni a causa della verità, pone la sua vita per il bene di tutti. Non crediate, dunque - è come se dicesse Gesù -, che io vi trascini a battaglie occasionali e che sia per ragioni di poco conto che io vi «il sale della terra» . Ma perché allora? Essi hanno forse guarito ciò che era corrotto e putrefatto? No, non è questo che hanno fatto gli apostoli. Il sale non può rimediare alla putrefazione. Gli apostoli, ripeto, non hanno fatto questo. Ma quando la grazia di Dio avrà essi si dimostreranno veramente il «sale della terra», mantenendo e conservando gli uomini in questa nuova vita che hanno ricevuta da Dio. È opera di Cristo liberare gli uomini dalla corruzione del peccato, ma tocca agli apostoli, con la loro sollecitudine e con i loro sforzi, impedire ad essi di ricadere in quello stato di corruzione. Osservate come, a poco a poco, Gesù manifesta che gli apostoli sono al di sopra dei profeti. Egli non li chiama soltanto dottori della Palestina, ma maestri di «tutta la terra» e maestri severi e terribili. E ciò che è degno di ammirazione è il fatto che essi, senza adulare e senza compiacere gli uomini, ma, al contrario, comportandosi come fa il sale, si sono fatti amare da tutti. Non stupitevi, quindi, - sembra continuare Gesù, - se, tralasciando gli altri, mi rivolgo in particolare a voi e vi trascino in così grandi rischi. Considerate quante e quali sono le città, i popoli e le genti a cui sto per inviarvi. Perciò, non voglio che vi limitiate ad essere prudenti e sapienti, ma voglio che facciate anche gli altri simili a voi. Quanto devono essere saggi coloro dai quali dipende la salvezza degli altri! Occorre loro una virtù sovrabbondante, in modo da parteciparne i vantaggi anche agli altri uomini. Ebbene se voi non avrete abbastanza virtù per comunicarla anche agli altri, - sembra concludere Gesù, - non ne avrete neppure abbastanza per voi stessi.

       Non lamentatevi, quindi, quasi fosse troppo duro e difficile quanto vi chiedo. Agli altri, infatti, che si trovano nell’errore, sarà possibile la conversione per mezzo vostro. Ma se voi perderete il vostro vigore, perderete voi stessi e gli altri con voi. Quanto più sono importanti i compiti che vi vengono affidati, tanto più dovete dedicarvi agli altri con zelo.

       Per questo Gesù dice le parole seguenti: "Ma se il sale diviene insipido, con che gli si renderà il sapore? A null’altro più è buono che ad essere buttato via perché sia calpestato dagli uomini" (Mt 5,13). Quando gli altri uomini ricadranno in mille colpe, essi potranno ottenerne il perdono. Ma se il maestro stesso diventa colpevole, niente potrà scusarlo e la sua colpa sarà punita con estrema giustizia. Nel timore che gli apostoli, sentendo dire che il mondo li avrebbe coperti di ingiurie che li avrebbe perseguitati e che avrebbe detto di loro tutto ii male possibile avessero avuto paura di farsi avanti e di mettersi in mezzo a parlare alla gente, Gesù dichiarò apertamente che, se essi non erano pronti ad affrontare questo, invano li aveva scelti. Voi non dovete temere - sembra dire - di essere calunniati; dovete piuttosto temere di apparire adulatori, perch‚ allora diverreste un sale insipido, «a null’altro buono che ad essere buttato via, perché sia calpestato dagli uomini». Ma, se voi conservate tutta la vostra sapidità di fronte alla corruzione, e se allora la gente dirà male di voi, rallegratevi perché questo è l’effetto che fa il sale, che morde e punge le piaghe. Le maledizioni degli uomini vi seguiranno inevitabilmente; ma, lungi dal procurarvi del male, esse testimonieranno la vostra fermezza. Se, invece, il timore delle calunnie vi farà perdere il vigore che vi è indispensabile, allora patirete conseguenze ben peggiori e sarete coperti dalle ingiurie e dal disprezzo di tutti: questo significano le parole «calpestato dagli uomini».

       Subito dopo il Salvatore passa a un paragone ancor più elevato: "Voi siete la luce del mondo" (Mt 5,14), - egli dice. Non li chiama soltanto luce di una gente o di venti città, ma «luce del mondo», di tutta la terra, e luce intelligibile, più splendente dei raggi del sole, come anche il sale, di cui ha appena parlato, è un sale del tutto spirituale. Parla dapprima del sale, e dopo della luce, per mostrare quale vantaggio proviene da parole aspre come il sale e quale utile effetto deriva da una dottrina severa, che consolida le anime e non permette che si rilassino e si corrompano, ma le eleva e le conduce come per mano sulla strada della virtù.

       "Non può una città che sia posta sopra un monte restar nascosta; né si accende una lucerna per porla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere e così essa fa lume a quanti sono in casa" (Mt 5,14-15). Gesù Cristo stimola ancora una volta con queste parole i suoi apostoli a vigilare sulla loro condotta, avvertendoli di stare sempre sul chi vive, poiché sono esposti agli occhi di tutti gli uomini e combattono in un’arena elevata nel mezzo della terra. Non fermatevi - egli dice - a considerare dove noi ora ci troviamo seduti e che noi, qui, siamo in un piccolo angolo del mondo. Voi sarete al cospetto di tutti gli uomini, così come lo è una città posta in cima a una montagna o una lampada che splenda su un candelabro in una casa...

       "Risplenda allo stesso modo la vostra luce agli occhi degli uomini, affinché vedendo le vostre buone opere diano gloria al Padre vostro che è nei cieli (Mt 5,16). Io, infatti, - sembra dire Gesù, - ho acceso la luce perché essa continui ad ardere; voi dovete essere vigilanti e pieni di zelo non solo per voi, ma anche per quelli che hanno ottenuto questa stessa legge e sono stati condotti alla verità. Le calunnie non potranno oscurare il vostro splendore, se voi vivrete con perfezione e in modo da convertire tutti gli uomini. La vostra vita sia degna della grazia e della verità che avete ricevuto: e, come questa va predicata ovunque, così anche la vostra vita vada di pari passo con essa. Ma, oltre la salvezza degli uomini, Gesù mette in risalto un altro effetto, valido a mantenerli vigilanti nel combattimento e a stimolarne tutto lo zelo. Non solo, infatti, convertirete tutto il mondo -egli aggiunge - vivendo in questo modo nuovo, ma procurerete la gloria di Dio. Se invece voi agirete diversamente, sarete colpevoli della perdizione degli uomini e del fatto che il nome di Dio sarà disonorato dai bestemmiatori.

       Crisostomo Giovanni, In Matth. 15, 6 s.


2. La ricchezza di doti, segno della vocazione alla predicazione

       Vi sono non pochi che hanno ricevuto doni esimi di virtù e per i loro grandi doni eccellono nella guida degli altri: sono puri per la cura della castità, sono forti per l’impegno nell’astinenza, nutriti di dottrina spirituale, umili per pazienza longanime, elevati per forza di autorità, benigni per pietosa indulgenza, rigidi per giusta severità. Se dunque costoro, chiamati ad assumersi il sommo governo pastorale, se ne sottraggono, privano per lo più se stessi di quei doni che hanno ricevuto non solo per sè, ma anche per gli altri. Pensando al proprio guadagno e non al bene altrui, si privano dei beni che vogliono godere essi soli. Per questo la Verità dice ai suoi discepoli: "Non si può nascondere una città posta sul monte, né accendere la lucerna e porla sotto il moggio, ma sopra il candelabro, affinché risplenda a tutti coloro che sono nella casa" (Mt 5,14s). Per questo disse a Pietro: "Simone di Giovanni, mi ami?" E questi, avendo subito risposto di amarlo, si sentì dire: "Se mi ami, pasci le mie pecore" (Jn 21,16). Se dunque la cura pastorale è testimonianza di amore, chiunque, pur ricco di virtù, rifiuta di pascolare il gregge di Dio, mostra di non amare il suo pastore. Per questo Paolo dice: "Se Cristo è morto per tutti, sono dunque morti tutti; e se egli è morto per tutti, quelli che vivono non devono vivere più per loro stessi, ma per colui che è morto ed è risuscitato per loro" (2Co 5,14s)...

       Vi sono dunque non pochi che, arricchiti di grandi doni, come abbiamo detto, ardendo solo di amore per la contemplazione, ricusano di procurare utilità al prossimo con la predicazione: preferiscono la quiete indisturbata, il ritiro in meditazione. Se costoro vengono giudicati con rigore, senza dubbio sono tanto colpevoli, quanto avrebbero potuto giovare agendo in pubblico. E con quale giustificazione colui che potrebbe segnalarsi per il bene al prossimo antepone il proprio ritiro all’utilità degli altri, quando lo stesso Unigenito del sommo Padre per giovare a molti uscì dal seno del Padre e venne in mezzo a noi? E vi sono non pochi che se ne sottraggono solo per umiltà, perch‚ non vogliono venir preposti a coloro di cui si stimano inferiori. Certo la loro umiltà se è circondata anche dalle altre virtù, è vera agli occhi di Dio, purché non sia pertinace nel rifiutare il peso cui vien loro comandato di sobbarcarsi per l’utilità altrui. Non è infatti veramente umile chi comprende che la volontà di Dio gli impone di comandare, ed egli tuttavia si rifiuta. Ma, soggetto alle divine disposizioni, libero dal male dell’ostinazione, quando gli viene imposto il governo pastorale supremo, se è stato già arricchito di doni con cui giovare agli altri, deve pur contro la sua volontà obbedire.

       Gregorio Magno, Regula pastor. 1, 5-6


3. Dar gloria a Dio con la condotta della vita

       Iniziamo, dunque, una vita nuova. Facciamo della terra cielo e così mostreremo a coloro che non credono di quali grandi beni essi son privi. Quando infatti vedranno la nostra vita e la nostra comunità bella e armoniosa, essi avranno la visione stessa del regno dei cieli. Quando ci vedranno modesti, senz’ira, puri di ogni cattivo desiderio, privi d’invidia, esenti d’avarizia, e attivi in tutte le virtù, diranno: Se i cristiani sono angeli in questa vita, che cosa saranno dopo la morte? Se qui, dove sono pellegrini, risplendono in tal modo, che diverranno quando giungeranno nella loro patria? E così anche i pagani diverranno migliori e la predicazione della religione si diffonderà non meno che al tempo degli apostoli. Dodici uomini poterono allora convertire città e regioni intere: se tutti noi faremo della perfezione della nostra vita un insegnamento, pensate fin dove potrà diffondersi la nostra religione. Un pagano, infatti, non è così attratto dal vedere un morto che risuscita quanto dal contemplare un uomo che vive virtuosamente. Di fronte a quel prodigio rimarrà, sì, sorpreso, ma la vita virtuosa di un cristiano gli porterà vantaggio. Il prodigio avviene e passa, ma la vita cristiana resta, e continuamente edifica e fa crescere la sua anima.

       Vigiliamo dunque su noi stessi per avvantaggiare anche gli altri. Non vi dico niente di troppo duro e pesante. Non vi proibisco di sposarvi, non vi ordino di abbandonare le città e di lasciare gli impegni politici e civili. No, rimanendo dove ora vivete e nelle funzioni attualmente esercitate, mettete in atto la virtù. A dire il vero io preferirei che per la perfezione della loro vita brillassero coloro che vivono nelle città, piuttosto che quelli che si sono ritirati a vivere sulle montagne. Per qual motivo? Perché da questo fatto potrebbe derivare un grande vantaggio. "Nessuno", infatti, "accende una lampada per metterla sotto il moggio" (Mt 5,15). Per questo io voglio che tutte le lampade siano sopra il candelabro, in modo che si diffonda una grande luce. Accendiamo, dunque, questo fuoco e facciamo che quanti si trovano seduti nelle tenebre siano liberati dall’errore. E tu non venire a dirmi: Ho impegni, moglie e figli; devo occuparmi della casa, e non posso fare ciò che tu dici. Io ti assicuro che se tu fossi libero da tutti questi impegni, ma rimanessi nella stessa apatia in cui ora giaci, tutto ugualmente svanirebbe. Se al cantrario, pur con tutti questi impegni, tu fossi pieno di fervore, riusciresti a praticare la virtù. Una sola cosa è richiesta: la disposizione di un’anima generosa. Allora, né l’età, né la miseria, né la ricchezza, né la mole degli affari e delle occupazioni, n‚ qualunque altra cosa vi impedirà di essere virtuosi. E in verità si son visti vecchi e giovani, coniugati e padri di famiglia, operai, artigiani, professionisti e soldati che hanno messo in pratica i comandi di Dio. Daniele, infatti, era giovane, Giuseppe era schiavo, Aquila esercitava un lavoro manuale, Lidia, venditrice di porpora, dirigeva un laboratorio, uno era carceriere, un altro un centurione, come Cornelio; uno era quasi sempre ammalato, come Timoteo, e un altro ancora era uno schiavo fuggiasco, come Onesimo. E tuttavia, queste diverse condizioni non furono di ostacolo a nessuno di essi; anzi, tutti rifulsero per la santità della loro vita: uomini e donne, giovani e vecchi, schiavi e liberi, soldati e privati cittadini.

       Non adduciamo dunque vani pretesti, ma cerchiamo di avere la più decisa e ferma volontà. Qualunque sia il nostro stato e le nostre condizioni sociali, disponiamoci con tutto il nostro essere a praticare la virtù e così otterremo un giorno i beni celesti, per la grazia e l’amore di nostro Signore Gesù Cristo.

       Crisostomo Giovanni, In Matth. 43, 5




VI Domenica

46 Letture:
    
Si 15,16-21
     1Co 2,6-10
     Mt 5,17-37

1. Il rancore

       Evagrio ha detto: "È cosa estranea ai monaci adirarsi, come pure rattristare qualcuno"; e ancora: "Se uno ha vinto l’ira, costui ha vinto i demoni; se invece è sconfitto da questa passione, del tutto estraneo alla vita monastica", con quel che segue. Che dobbiamo dunque dire di noi stessi, che non ci fermiamo neppure alla collera e all’ira, ma che talvolta ci spingiamo fino al rancore? Che altro, se non piangere questa nostra miserabile e disumana condizione? Vegliamo dunque, fratelli, e veniamo in aiuto a noi stessi, dopo Dio, per esser liberati dall’amarezza di questa rovinosa passione. Talora uno fa una "metania" al proprio fratello perché tra i due, evidentemente, c’è stato turbamento o attrito, ma anche dopo la "metania" rimane rattristato e con pensieri contro di lui. No, egli non deve considerarli di poca importanza, ma deve tagliarli via al più presto. Si tratta di rancore, e c’è bisogno di molta vigilanza, come ho detto, di penitenza, di lotta per non soffermarsi a lungo in questi pensieri e per non correre pericolo. Infatti, facendo la "metania" per adempiere al precetto, si è, sì, posto rimedio all’ira sul momento, ma non si è ancora lottato contro il rancore; e per questo si è rimasti con risentimento contro il fratello, perché altra cosa è il rancore, altra l’ira, altra la collera e altra il turbamento.

       Vi dico un esempio, perché capiate meglio. Chi accende un fuoco dapprima ha solo un carboncino, che è la parola del fratello che lo ha rattristato; ecco, è appena un carboncino: che è mai la parola del tuo fratello? Se la sopporti, spegni il carbone. Se invece continui a pensare: «Perché me l’ha detto? Posso ben rispondergli! Se non avesse voluto affliggermi, non l’avrebbe detto. Vedrai! Anch’io posso affliggerlo», ecco, hai messo un po’ di legnetti o simile materiale, come chi accende il fuoco, e hai fatto fumo, che è il turbamento. Il turbamento è questo sommovimento e scontro di pensieri, che risveglia e rende aggressivo il cuore. Aggressività è l’impulso a rendere il contraccambio a chi ci ha rattristato, che diventa anche audacia, come ha detto l’"abbas" Marco: "La cattiveria intrattenuta nei pensieri rende aggressivo il cuore, mentre allontanata con la preghiera e la speranza lo rende contrito". Se infatti avessi sopportato la piccola parola del tuo fratello, avresti potuto spegnere, come ho detto, anche quel piccolo carboncino, prima che nascesse il turbamento. Ma anche questo, se lo vuoi, puoi spegnerlo facilmente, appena inizia, col silenzio, con la preghiera, con una "metania" fatta di tutto cuore; se invece continui a far fumo irritando ed eccitando il tuo cuore a forza di pensare: «Perché me lo ha detto? Posso ben rispondergli!», per lo scontro stesso, diciamo così e la collisione dei pensieri il cuore si logora e si surriscalda, e allora divampa la collera. La collera è un ribollimento del sangue che si trova intorno al cuore, come dice san Basilio. Ecco, è nata la collera: è quella che chiamiamo irascibilità. Ma se lo vuoi puoi spegnere anch’essa, prima che diventi ira; ma se continui a turbare e a turbarti, ti vieni a trovare come chi ha messo legna al fuoco, e il fuoco divampa sempre più, e così poi viene la brace, che è l’ira.

       Questo è quanto diceva l’"abbas" Zosima, quando gli fu chiesto che cosa vuol dire la sentenza che dice: "Dove non c’è collera, si acquieta la battaglia. All’inizio del turbamento, quando comincia, come abbiamo detto, a far fumo e a mandare qualche scintilla, se subito uno rimprovera se stesso e fa una "metania" prima che si accenda e diventi collera, se ne rimane in pace. Ma dopo che è venuta la collera, se non se ne sta tranquillo, ma continua a turbarsi e ad irritarsi, si viene a trovare, come abbiamo detto, come uno che dà legna al fuoco, e continua a bruciare finché non produce grossa brace. Come dunque i tizzoni di brace diventano carboni e si mettono via e durano per anni interi senza guastarsi e marcire, nemmeno se vi si butta sopra acqua, così anche l’ira, se dura nel tempo, diventa rancore e poi, se non si versa sangue, non si riesce ad allontanarsene. Ecco, vi ho detto la differenza, attenti bene; avete sentito che cos’è il primo turbamento, che cos’è la collera, l’ira, il rancore. Vedete come da una sola parola si arriva ad un male così grande? Se fin da principio si fosse rivolto il rimprovero su sé stessi, se non si fosse voluto giustificarsi e in cambio di una parola sola dirne due o cinque e restituire male per male, si sarebbe potuto sfuggire a tutti questi mali. Per questo vi dico sempre: quando le passioni sono giovani, tagliatele via prima che s’irrobustiscano a vostro discapito e dobbiate poi penare. Una cosa infatti è strappar via una piccola pianta e un’altra sradicare un grande albero.

       Doroteo di Gaza, Instruct. 8, 89-91


2. La responsabilità della volontà

       Perché l’origine del fatto è la volontà? Giudichino infatti se sono attribuite al caso o alla necessità o all’ignoranza quelle cose eccettuate le quali non si sbaglia più se non con la volontà. Stante perciò l’origine del fatto, non è essa maggiore rispetto alla pena quanto più importante rispetto alla colpa? Ma neppure allora può essere liberata da questa colpa, dal momento che qualche difficoltà impedisce che venga effettuata: essa infatti è attribuita a se stessa, né può essere scusata di quella incapacità di portare a termine, per il fatto che aveva sacrificato il suo. Infine, in che modo il Signore dimostra di costruire un’aggiunta alla legge, se non col vietare le colpe anche della volontà? Quando definisce adultero non solo colui che è andato a compromettersi effettivamente in un matrimonio altrui, ma anche colui che si è contaminato con la concupiscenza degli occhi? Pertanto, ciò che non è permesso fare, l’animo se lo rappresenta con molto pericolo e sconsideratamente manda a vuoto l’effetto per mezzo della volontà. Poiché la forza di questa volontà è così grande che, riempiendoci del suo sollievo, cede a motivo del fatto, sia punita proprio a motivo del fatto. È cosa del tutto inutile dire: «Volevo farlo e tuttavia non l’ho fatto»; al contrario, devi fare perché vuoi, oppure non devi volere perché non fai. Ma tu stesso attesti con la tua coscienza; infatti, se fossi stato bramoso del bene, avresti desiderato compierlo; e d’altra parte, se non fai il male, non dovresti neppure desiderarlo: comunque la metti ti sei reso colpevole in quanto o hai voluto il male o non hai compiuto il bene!

       Tertulliano, De Poenit. III, 11-16


3. Quando è lecito punire

       Per la gloria di Dio è anche lecito punire. In qual modo, di grazia? Verso i nostri servi spesso ci commuoviamo; come perciò è lecito punire per Dio? Se vedi uno ubriaco o furibondo - si tratti di un servo, di un amico o di un prossimo qualsiasi - o uno che corre al teatro, o che non si prende alcuna cura della sua anima, o che giura, o spergiura, o mentisce: adirati, punisci, richiama, correggi ed avrai fatto tutto questo per Dio. Se vedrai uno peccare contro di te o che ha trascurato parte dei suoi compiti, perdonagli ciò, ed avrai perdonato per Dio. Ora, molti, a dire il vero, fanno così quando si tratta di amici, o di servi; quando invece sono loro stessi gli offesi, si mostrano giudici acerbi e inesorabili; quando poi offendono Dio, o perdono le loro stesse anime, non si fanno di ciò alcuna ragione. Per contro, devi conquistarti degli amici? Conquistali per Dio. Devi catturare dei nemici? Catturali per Dio. Ma in che modo amici e nemici si possono conquistare per Dio? Se non collezioniamo tali amicizie per conquistare ricchezze, avere inviti a banchetti, o per poter conseguire una protezione umana: bensì manteniamo e acquistiamo quegli amici che possono apportare moderazione al nostro spirito, consigliare cose oneste, riprendere i peccatori, redarguire i delinquenti, risollevare gli spiantati, recar consiglio o preghiere, e possano ricondurre a Dio.

       Viceversa, è lecito farsi dei nemici per Dio. Se vedi uno che è intemperante, empio, pieno di nequizia, infarcito di opinioni impure, che ti spianta o nutre il desiderio di nuocerti distaccati e ritraiti da lui: così infatti ordina Cristo: "Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo e gettalo lontano da te" (Mt 5,29). Questo appunto prescrisse, che proprio quegli amici che tieni caro quanto gli occhi, indispensabili in ogni bisogna della vita, tu tagli e getti via.

       Crisostomo Giovanni, Hom. in annum novum, 4


4. Spiegazione della celebrazione eucaristica

       Poi il diacono dice ad alta voce: «Riconoscetevi l’un l’altro e baciatevi a vicenda». Non credere che quel bacio sia pari a quello che ci si dà tra amici in piazza. Non è un bacio di tal sorta: fonde le anime e promette l’oblio di ogni offesa. Questo bacio è dunque segno che le anime sono unite e han deciso di dimenticare ogni oltraggio. Per questo Cristo disse: "Se offri il tuo dono all’altare e ivi ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono all’altare, e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello; poi torna ed offri il tuo dono" (Mt 5,23s). Il bacio dunque è segno di riconciliazione, e perciò è santo, come in un altro passo esclama san Paolo, dicendo: "Salutatevi l’un l’altro con il bacio santo" (1Co 16,20), e Pietro: "Salutatevi l’un l’altro col bacio dell’amore" (1P 5,14).

       Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistag. 5, 2-11.19-20


5. L’intenzione del cuore

       Ammettiamolo pure: l’occhio si casualmente posato. L’animo, però non si soffermi con desiderio. Non è colpa il vedere, ma dobbiamo guardarci che da esso scaturisca il peccato. L’occhio corporale vede, il pudore dell’animo, tuttavia, tenga a freno gli occhi del cuore. Abbiamo il Signore maestro di spiritualità e, a un tempo, di dolcezza. Il profeta ha detto: "Non guardare alla bellezza di una cortigiana" (Pr 5,3). Il Signore, tuttavia, ha affermato: "Chiunque guarderà una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,28). Non ha detto: «Chiunque guarderà» ha commesso adulterio, ma «chiunque guarderà per desiderarla». Non vuole imporre limiti di sorta alla vista, bensì fa questione di sentimento. Santo il pudore che ama tenere a freno gli occhi del corpo, così che spesso non vediamo addirittura ciò che ci è innanzi. Apparentemente, l’occhio vede ogni cosa che gli si pari davanti, ma se non si aggiunge l’intenzione, questo nostro vedere, di cui la carne ci dà la possibilità, riesce vano.

       Dunque, vediamo con la mente più che con il corpo. La carne abbia pure veduto il fuoco, non teniamoci, però, la fiamma stretta in grembo, nel segreto, cioè, della mente nell’intimo dell’animo. Non facciamo penetrare il fuoco nelle ossa, non incateniamoci da noi stessi, non parliamo con gente da cui emani ardente la fiamma della colpa. L’eloquio della ragazza è nodo che avvince i giovani. Le parole dell’adolescente sono lacci d’amore per la giovinetta.

       Ambrogio, De Paenit. 1, 70-71




VII Domenica

47 Letture:
    
Lv 19,1-2 Lv 19,17-18
     1Co 3,16-23
     Mt 5,38-48

1. Non ci viene richiesto il martirio, ma l’amore del prossimo

       Forse qualcuno obietta che oggi non è più il tempo in cui ci sia dato di sopportare per Cristo ciò che gli apostoli sopportarono ai loro giorni. È vero: non vi sono imperatori pagani, non vi sono tiranni persecutori; non si versa il sangue dei santi, la fede non è messa alla prova con i supplizi. Dio è contenta che gli serviamo in questa nostra pace, che gli piacciamo con la sola purità immacolata delle azioni e la santità intemerata della vita. Ma per questo gli è dovuta più fede e devozione, perché esige da noi meno, pur avendoci elargito di più. Gli imperatori, dunque, sono cristiani, non c’è persecuzione alcuna, la religione non viene turbata, noi non veniamo costretti a dar prova della fede con un esame rigoroso: perciò dobbiamo piacere di più a Dio almeno con gli impegni minori. Dimostra infatti di essere pronto a imprese maggiori, se le cose lo esigeranno, colui che sa adempire i doveri minori.

       Omettiamo dunque ciò che sostenne il beatissimo Paolo, ciò che, come leggiamo nei libri di religione scritti in seguito, tutti i cristiani sostennero, ascendendo così alla porta della reggia celeste per i gradini delle loro pene, servendosi dei cavalletti di supplizio e dei roghi come di scale. Vediamo se almeno in quegli ossequi di religiosa devozione che sono minori e comuni e che tutti i cristiani possono compiere nella pace più stabile ed in ogni tempo, ci sforziamo realmente di rispondere ai precetti del Signore. Cristo ci proibisce di litigare. Ma chi obbedisce a questo comando? E non è un semplice comando, giungendo al punto di imporci di abbandonare ciò che è lo stesso argomento della lite pur di rinunciare alla lite stessa: "Se qualcuno" - dice infatti -"vorrà citarti in giudizio per toglierti la tunica, lasciagli anche il mantello" (Mt 5,40). Ma io mi chiedo chi siano coloro che cedano agli avversari che li spogliano, anzi, chi siano coloro che non si oppongano agli avversari che li spogliano? Siamo tanto lontani dal lasciare loro la tunica e il resto, che se appena lo possiamo, cerchiamo noi di togliere la tunica e il mantello all’avversario. E obbediamo con tanta devozione ai comandi del Signore, che non ci basta di non cedere ai nostri avversari neppure il minimo dei nostri indumenti, che anzi, se appena ci è possibile e le cose lo permettono, strappiamo loro tutto! A questo comando ne va unito un altro in tutto simile: disse infatti il Signore: "Se qualcuno ti percuoterà la guancia destra, tu offrigli anche l’altra" (Mt 5,39). Quanti pensiamo che siano coloro che porgano almeno un poco le orecchie a questo precetto o che, se pur mostrano di eseguirlo, lo facciano di cuore? E chi vi è mai che se ha ricevuto una percossa non ne voglia rendere molte? È tanto lontano dall’offrire a chi lo percuote l’altra mascella, che crede di vincere non solo percuotendo l’avversario, ma addirittura uccidendolo.

       "Ciò che volete che gli uomini tacciano a voi" - dice il Salvatore - fatelo anche voi a loro, allo stesso modo" (Mt 7,12). Noi conosciamo tanto bene la prima parte di questa sentenza che mai la tralasciamo; la seconda, la omettiamo sempre, come se non la conoscessimo affatto. Sappiamo infatti benissimo ciò che vogliamo che gli altri ci facciano, ma non sappiamo ciò che noi dobbiamo fare agli altri. E davvero non lo sapessimo! Sarebbe minore la colpa dovuta ad ignoranza, secondo il detto: "Chi non conosce la volontà del suo padrone sarà punito poco. Ma chi la conosce e non la eseguisce, sarà punito assai" (Lc 12,47). Ora la nostra colpa è maggiore per il fatto che amiamo la prima parte di questa sacra sentenza per la nostra utilità e il nostro comodo; la seconda parte la omettiamo per ingiuria a Dio. E questa parola di Dio viene inoltre rinforzata e rincarata dall’apostolo Paolo, il quale, nella sua predicazione, dice infatti: "Nessuno cerchi ciò che è suo, ma ciò che è degli altri" (1Co 10,24); e ancora: "I singoli pensino non a ciò che è loro, ma a ciò che è degli altri" (Ph 2,4). Vedi con quanta fedeltà abbia egli eseguito il precetto di Cristo: il Salvatore ci ha comandato di pensare a noi come pensiamo agli altri, egli invece ci comanda di badare più ai comodi altrui che ai nostri. È il buon servo di un buon Signore e un magnifico imitatore di un Maestro unico: camminando sulle sue vestigia ne rese, quasi, più chiare e, scolpite le orme. Ma noi cristiani facciamo ciò che ci comanda Cristo o ciò che ci comanda l’Apostolo? Né l’uno né l’altro, credo. Siamo tanto lungi tutti noi da offrire agli altri qualcosa con nostro incomodo, che badiamo sommamente ai nostri comodi, scomodando gli altri.

       Salviano di Marsiglia, De gubernatione, 3, 5-6


2. La pagliuzza e la trave

       Ma io che predico eseguo forse le cose che predico? Miei fratelli, le eseguo se prima le attuo in me stesso, e le attuo in me stesso se dal Signore ricevo [il dono di attuarle]. Ecco, le eseguo: odio i miei vizi, offro il mio cuore al mio medico perché lo risani; gli stessi vizi per quanto mi è possibile perseguito, ne gemo, riconosco che sono in me ed, ecco, me ne accuso. Tu che vorresti rimproverarmi, correggi te stesso. La giustizia è infatti questa: che non ci si possa dire: "Vedi la pagliuzza nell’occhio di tuo fratello e non vedi la trave che è nell’occhio tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi vedrai di togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello" (Mt 7,3-4). L’ira è una pagliuzza, l’odio è una trave. Ma alimenta la pagliuzza e diventerà una trave . Un’ira inveterata diventa odio: una pagliuzza accresciuta diviene una trave. Affinché pertanto la pagliuzza non divenga trave, "non tramonti il sole sopra la vostra ira" (Ep 4,26). Vedi, t’accorgi di esser divorato dall’odio, e vorresti riprendere chi è adirato? Liberati prima dall’odio e farai bene a rimproverare chi è in preda all’ira. Costui ha nell’occhio una pagliuzza, tu hai una trave. Se in effetti tu sei pieno di odio, come farai a vedere colui al quale devi togliere [la pagliuzza]? Nel tuo occhio c’è una trave. E perché nel tuo occhio c’è una trave? Perché hai preso alla leggera la pagliuzza che vi era nata: con quella ti addormentasti, con quella ti levasti, la facesti sviluppare nel tuo intimo, la innaffiasti con sospetti infondati. Credendo alle parole degli adulatori e di coloro che ti riferivano parole cattive sul conto del tuo amico incrementasti la pagliuzza, non la strappasti via. Col tuo affetto la facesti diventare trave. Togli dal tuo occhio questa trave! non odiare il tuo fratello. Ti spaventi o non ti spaventi? Io ti dico di non odiare e tu rimani tranquillo..., e rispondendo mi dici: Che significa odiare? E che male c’è se un uomo odia il suo nemico? Tu odii il tuo fratello! Se prendi alla leggera l’odio, ascolta come non fai caso alle parole: "Chi odia il suo fratello è un omicida" (1Jn 3,15). Chi odia è un omicida. Non ti sei procurato del veleno; ma forse che per questo puoi dirmi: Che c’entro io con l’essere omicida? "Chi odia è omicida". Non ti sei procurato il veleno, non sei uscito di casa con la spada per colpire il tuo nemico, non ti sei comprato l’esecutore del delitto, non hai programmato né il luogo né il tempo. E, infine, il delitto effettivamente non l’hai compiuto. Hai solamente odiato. Eppure, hai ucciso: ucciso te prima dell’altro [che odiavi] . Amate dunque la giustizia e non nutrite odio se non contro i vizi. Quanto alle persone, amate tutti. Se vi comporterete così e praticherete questa giustizia, preferirete cioè che gli uomini, anche se viziosi, siano piuttosto risanati che non condannati, compirete opere buone nella vigna [del Signore]. Occorre però che a questo vi esercitiate, o miei fratelli.

       Ecco, terminato il discorso si darà il congedo ai catecumeni e resteranno solo i fedeli. Si giungerà al momento della preghiera. Voi sapete dove si giungerà. Che diremo a Dio in antecedenza? "Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori" (Mt 6,12). Fate presto a rimettere, fate presto! Dovrete infatti arrivare a queste parole della preghiera. Come farete a dirle? e come farete a non dirle? Alla fin delle fini la mia domanda è questa: Le direte o non le direte? Odii, e le dici? Mi replicherai: Allora non le dico. Preghi, e non le dici? Odii, e le dici? Preghi, e non le dici? Via, presto, rispondi! Ma se le dici, mentisci; se non le dici, resti senza meriti. Controllati, esaminati. Ecco, ora dovrai pronunziare la tua preghiera: perdona con tutto il cuore. Vorresti altercare con il tuo nemico; intenta prima la lite al tuo cuore. Ripeto: Alterca, alterca col tuo cuore! Di’ al tuo cuore: Non odiare! Ma il tuo cuore, il tuo spirito, continua con l’odio. Di’ alla tua anima: Non odiare! Come farò a pregare, come dirò: "Rimetti a noi i nostri debiti?" Questo veramente lo potrei dire, ma come potrò dire il seguito: "Come anche noi?" Cosa? "Come anche noi rimettiamo". Dov’è il tuo cristianesimo? Fa’ ciò che dici: "Come anche noi".

       Ma la tua anima non vuol perdonare, e si rattrista perché le dici di non portar odio. Rispondile: "Perché sei triste, anima mia, e perché mi turbi?" (Ps 41,6). "Perché mi turbi?", o: "Perché sei triste?" Non odiare per non portarmi alla perdizione. "Perché mi turbi? Spera in Dio". Sei nel languore, aneli, ti opprime l’infermità. Non sei in grado di liberarti dall’odio. Spera in Dio, che è medico. Egli per te fu sospeso a un patibolo e ancora non si vendica. Come vuoi tu vendicarti? Difatti in tanto odii in quanto ti vorresti vendicare. Guarda al tuo Signore pendente [dalla croce]; guardalo così sospeso e quasi in atto d’impartire ordini dall’alto di quel legno-tribunale. Guardalo mentre, sospeso, prepara a te malato la medicina ricavata dal suo sangue. Guardalo sospeso! Vuoi vendicarti? Lo vuoi davvero? Guarda a colui che pende [dalla croce] e ascolta ciò che dice: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34).

       Agostino, Sermo 49, 7-9





Lezionario "I Padri vivi" 45