Lezionario "I Padri vivi" 85

I DOMENICA DI QUARESIMA

85 Letture:
    
Gn 9,8-15
     1P 3,18-22
     Mc 1,12-15

1. Gesù e lo Spirito Santo

       "E subito lo Spirito lo spinse nel deserto" (Mc 1,12). È lo Spirito che era disceso sotto forma di colomba. «Vide - dice Marco - i cieli aperti e lo Spirito come colomba discendere e fermarsi su di lui». Considerate quanto dice: fermarsi, cioè restare con lui, non sostare e poi andarsene. Giovanni stesso dice in un altro Vangelo: "E chi mi ha mandato mi ha detto: - Colui sul quale vedrai discendere e fermarsi lo Spirito Santo" (Jn 1,33). Lo Spirito Santo discese su Cristo e si fermò su di lui: quando invece discende sugli uomini non sempre si ferma. Infatti nel libro di Ezechiele, che raffigura in immagine il Salvatore (nessun altro profeta, e mi riferisco ai maggiori, viene chiamato «Figlio dell’uomo», come Ezechiele), si legge: "La parola del Signore fu diretta a Ezechiele profeta" (Ez 1,3). Qualcuno dirà: - Perché tanto spesso citi il profeta? Perché lo Spirito Santo discendeva sul profeta, ma di nuovo se ne allontanava. Quando si dice che «la parola del Signore fu diretta» si intende chiaramente che lo Spirito Santo di nuovo tornava dopo essersene andato. Quando siamo colti dall’ira, quando offendiamo qualcuno, quando siamo presi da tristezza mortale, quando i nostri pensieri sono prigionieri della carne, crediamo forse che lo Spirito Santo rimanga in noi? Possiamo forse sperare che lo Spirito Santo sia in noi quando odiamo il nostro fratello, o quando meditiamo qualche ingiustizia? Dobbiamo invece sapere che, quando ci applichiamo ai buoni pensieri o alle buone opere, allora abita in noi lo Spirito Santo: ma quando al contrario siamo colti da un pensiero malvagio, è segno che lo Spirito Santo ci ha abbandonato. Per questa ragione, a proposito del Salvatore sta scritto: «Colui sul quale vedrai discendere e fermarsi lo Spirito Santo, quegli è...».

       «E subito lo Spirito lo spinse nel deserto». È lo Spirito Santo che spinge nel deserto i monaci che vivono con i loro parenti, se tale Spirito è sceso e si è fermato su di loro. È lo Spirito Santo che li spinge a uscire dalla casa e li conduce nella solitudine. Lo Spirito Santo non abita volentieri laddove c’è folla e ci sono discussioni e risse: lo Spirito Santo ha la sua dimora nella solitudine. Per questo il nostro Signore e Salvatore, quando voleva pregare, "solo" - dice Luca -, "si ritirava sul monte e ivi pregava tutta la notte" (Lc 6,12). Di giorno stava con i discepoli, di notte dedicava la sua preghiera al Padre per noi. Perché ho detto tutto questo? Perché parecchi fratelli sono soliti dire: - Se resterò nel convento, non potrò pregare da solo. Forse che nostro Signore mandava via i discepoli? No, egli stava sempre con i discepoli, ma quando voleva pregare più intensamente si ritirava da solo. Anche noi, se vogliamo pregare più intensamente di quanto facciamo assieme ad altri, abbiamo a nostra disposizione la cella, abbiamo i campi, abbiamo il deserto. Possiamo fruire della compagnia e delle virtù dei fratelli, ma possiamo anche godere della solitudine...

       "Dopo la cattura di Giovanni ritornò Gesù in Galilea" (Mc 1,14). Il racconto è noto, e appare chiaro agli ascoltatori, anche senza la nostra spiegazione. Preghiamo però colui che ha la chiave di David, colui che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre (Ap 3,7), affinché ci apra la recondita via del Vangelo, ed anche noi si possa dire insieme a David: "Mostrati ai miei occhi, e io contemplerò le bellezze della tua legge" (Ps 118,18). Alle folle il Signore parlava in parabole, e parlava esteriormente. Non parlava nell’intimo, cioè nello spirito; parlava con il linguaggio esteriore, secondo la lettera. Preghiamo noi il Signore, affinché ci introduca nei suoi misteri, ci faccia entrare nel suo segreto abitacolo, e possiamo anche noi dire, insieme con la sposa del Cantico dei Cantici: "Il re mi ha introdotto nel suo ricettacolo" (Ct 1,3). L’apostolo dice che un velo fu posto sugli occhi di Mosè (2Co 3,13). Io dico che non soltanto nella legge, ma anche nel Vangelo c’è un velo sugli occhi di chi non sa. Il giudeo lo ascoltò, ma non lo capì: per lui c’era un velo sul Vangelo. I gentili ascoltano, ascoltano gli eretici, ma anche per loro c’è il velo. Abbandoniamo la lettera insieme ai giudei, e seguiamo lo spirito con Gesù: e non perché dobbiamo condannare la lettera del Vangelo (tutto ciò che fu scritto s’è avverato), ma per poter salire gradualmente verso le cose più elevate.

       «Dopo la cattura di Giovanni, ritornò Gesù in Galilea». Domenica scorsa dicemmo che Giovanni è la legge, mentre Gesù è il Vangelo. Giovanni infatti dice: "Viene dopo di me uno che è più forte di me, e io non sono degno, abbassandomi, di sciogliergli la correggia dei calzari". E altrove: "Egli deve crescere, io scemare" (Jn 3,30). Il paragone tra Giovanni e Gesù, è il paragone tra la legge e il Vangelo. Dice ancora Giovanni: "Io battezzo con acqua" (ecco la legge), mentre "egli vi battezzerà nello Spirito Santo" (Mc 1,8): questo è il Vangelo. Dunque Gesù torna, perché Giovanni è stato chiuso in carcere. La legge è rinchiusa, non ha più la passata libertà: ma dalla legge noi passiamo al Vangelo. State attenti a quanto dice Marco: «Dopo la cattura di Giovanni ritornò Gesù in Galilea». Non andò in Giudea né a Gerusalemme, ma nella Galilea dei gentili. Gesù torna, insomma, in Galilea: Galilea nella nostra lingua traduce il greco Katakyliste. Perché prima dell’avvento del Salvatore non vi era in quella regione niente di elevato, ma, anzi, ogni cosa precipitava in basso: dilagava la lussuria, l’abiezione, l’impudicizia e gli uomini erano preda dei vizi e dei piaceri bestiali.

       "Predicando la buona novella del regno di Dio" (Mc 1,14). Per quanto io mi ricordo, non ho mai sentito parlare del regno dei cieli nella legge, nei profeti, nei salmi, ma soltanto nel Vangelo. È infatti dopo l’avvento di colui che ha detto: "E il regno di Dio è tra voi" (Lc 17,21), che il regno di Dio è aperto per noi. Gesù venne dunque predicando la buona novella del regno di Dio. "Dai giorni di Giovanni Battista il regno dei cieli è oggetto di violenza, e i violenti se ne fanno padroni" (Mt 11,12): prima dell’avvento del Salvatore e prima della luce del Vangelo, prima che Cristo aprisse al ladrone la porta del paradiso, tutte le anime dei santi erano condotte all’inferno. Dice Giacobbe: "Piangendo e gemendo discenderò all’inferno" (Gn 37,35). Chi non va all’inferno, se Abramo è all’inferno? (Lc 16,22). Nella legge, Abramo è condotto all’inferno: nel Vangelo, il ladrone va in paradiso. Noi non disprezziamo Abramo, nel cui seno tutti desidereremmo riposare: ma ad Abramo preferiamo Cristo, alla legge preferiamo il Vangelo. Leggiamo che, dopo la risurrezione di Cristo, molti santi apparvero nella città santa. Il nostro Signore e Salvatore ha predicato in terra e ha predicato all’inferno: e quando è morto, è disceso all’inferno per liberare le anime che laggiù erano prigioniere.

       "Predicando la buona novella del regno di Dio e dicendo: È compiuto" il tempo della legge, viene il principio del Vangelo, "si avvicina il regno di Dio" (Mc 1,14-15). Non disse: è già venuto il regno di Dio; ma disse che il regno si avvicinava. E cioè: Prima che io soffra la passione, prima che io versi il mio sangue, non si aprirà il regno di Dio; per questo, esso ora si avvicina, ma non è qui perché ancora non ho sofferto la passione.

       "Pentitevi e credete alla buona novella" (Mc 1,15): non credete più alla legge, ma al Vangelo, o, meglio, credete al Vangelo per mezzo della legge, così come sta scritto: "Dalla fede alla fede" (Rm 1,17). La fede nella legge rafforza la fede nel Vangelo.

       Girolamo, Comment. in Marc., 1-2

2. La malizia non deriva dalla natura, ma dalla volontà

       "E non lasciarci cadere in tentazione, ma liberaci dal male" (Mt 6,13). "Perché tuo è il regno, la potenza, e la gloria per i secoli dei secoli. Amen. Qui Gesù ci fa comprendere chiaramente la nostra bassezza e reprime la nostra presunzione, insegnandoci che se non dobbiamo fuggire i combattimenti, non dobbiamo tuttavia gettarci da noi stessi in preda alle tentazioni. Sarà così per noi più splendida la vittoria e per il diavolo più vergognosa la sconfitta. Quando siamo trascinati alla lotta, dobbiamo resistere con tutta la nostra fermezza e con tutto il nostro vigore; ma quando non siamo chiamati alla battaglia, dobbiamo tenerci in riposo, attendere il momento dello scontro, mostrando insieme umiltà e coraggio. Dicendo «liberaci dal male», intende: liberaci dal diavolo: ad un tempo, ci spinge a combattere contro lo spirito del male una guerra senza tregua, e dimostra che nessuno è malvagio per natura. La malizia non deriva dalla natura, ma dalla volontà. Chiama il diavolo «il male», a causa della sua grande malizia: egli infatti, senza aver ricevuto da noi la minima ingiuria, ci fa una guerra senza quartiere; ebbene, il Signore ci invita a pregare, non dicendo liberaci dai malvagi, ma «liberaci dal male», per farci intendere che non dobbiamo nutrire del malanimo verso il prossimo anche quando costui ci fa del male, ma dobbiamo rivolgere il nostro odio verso il diavolo, quale causa di tutti i mali. Dopo averci preparato al combattimento, ricordandoci la presenza di questo temibile nemico e aver eliminato in noi ogni pigrizia, toma a incoraggiarci e risolleva il nostro spirito, mostrando chi è il re che comanda e facendoci intendere che egli è più potente di tutti: «Perché tuo è il regno, la potenza, la gloria». Se il regno appartiene a Dio, non dobbiamo avere nessun timore, poiché nessuno sarà mai capace di resistergli, nessuno potrà mai togliergli il supremo potere. Quando dice «tuo è il regno», ci fa capire che anche il nemico che ci aggredisce è sottoposto a Dio e, se ci fa la guerra, è perché Dio lo permette. Egli infatti è uno dei suoi servi, anche se di quelli malvagi e reprobi, e non potrebbe aggredire nessun uomo, se non ne avesse ricevuto prima il permesso da Dio. Quand’anche voi foste mille volte più deboli di quanto siete, sarebbe giusto aver piena fiducia, in quanto avete un re tanto potente, un re che può fare facilmente per voi tutto quanto vuole.

       Crisostomo Giovanni, Comment. in Matth., 19, 6


II DOMENICA DI QUARESIMA

86 Letture:
    
Gn 22,1-2 Gn 22,9a Gn 22,10-13 Gn 22,15-18
     Rm 8,31-34
     Mc 9,1-9

1. La Trasfigurazione, manifestazione del «Figlio diletto»

       Per gli apostoli, che invero avevano bisogno di essere rafforzati nella fede e di essere iniziati alla conoscenza di ogni cosa, da quel miracolo scaturisce un altro insegnamento. In effetti, Mosè ed Elia, ossia la Legge e i Profeti, apparvero intrattenendosi con il Signore: ciò affinché si compisse perfettamente, attraverso la presenza di cinque persone, quanto è scritto: "Ogni parola è certa, se pronunciata in presenza di due o tre testimoni" (Dt 19,15 Mt 18,16). Per proclamarla, la duplice tromba dell’Antico e del Nuovo Testamento risuona in pieno accordo e tutto ciò che serviva a darle testimonianza nei tempi antichi si ricongiunge con l’insegnamento del Vangelo! Le pagine dell’una e dell’altra Alleanza, infatti, si confermano vicendevolmente, e colui che gli antichi simboli avevano promesso sotto il velo dei misteri, lo sfolgorio della sua gloria presente lo mostra manifesto e certo: si è che - come afferma san Giovanni -: "La legge fu data da Mosè, ma la grazia e la verità ci sono venute da Gesù Cristo" (Jn 1,17), nel quale si sono compiuti tanto le promesse delle figure profetiche, tanto il significato dei precetti della Legge; infatti, con la sua presenza, egli insegna la verità della profezia, e, con la sua grazia, rende possibile la pratica dei comandamenti.

       Animato dalla rivelazione dei misteri e preso dal disprezzo e dal disgusto delle terrene cose, l’apostolo Pietro era come rapito in estasi nel desiderio di quelle eterne, e, ripieno del gaudio di tutta quella visione, desiderava abitare con Gesù là dove la di lui gloria si era manifestata, costituendo la sua gioia. Ecco perché disse: "Signore, è bello per noi stare qui; se vuoi, facciamo qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia" (Mt 17,4). Ma il Signore non rispose a tale suggerimento, certo non per mostrare che quel desiderio era cattivo, bensì per significare che era fuori posto, non potendo il mondo essere salvato senza la morte di Cristo; così, l’esempio del Signore invitava la fede dei credenti a capire che, senza alcun dubbio nei confronti della felicità promessa, dobbiamo nondimeno, in mezzo alle prove di questa vita, chiedere la pazienza prima della gloria; la felicità del Regno non può, infatti, precedere il tempo della sofferenza.

       Ed ecco che, mentre ancora parlava, una nube luminosa li avvolse e una voce dalla nube diceva: "Questi è il mio Figlio diletto in cui mi sono compiaciuto, ascoltatelo" (Mt 17,5). Il Padre, senza alcun dubbio era presente nel Figlio e, in quella luce che il Signore aveva misuratamente mostrato ai discepoli, l’essenza di colui che genera non era separata dall’Unigenito generato, ma, per evidenziare la proprietà di ciascuna persona, la voce uscita dalla nube annunciò il Padre alle orecchie, così come lo splendore diffuso dal corpo rivelò il Figlio agli occhi. All’udire la voce, i discepoli caddero bocconi, molto spaventati, tremando non solo davanti alla maestà del Padre, ma anche davanti a quella del Figlio: per un moto di più profonda intelligenza, infatti, essi compresero che unica era la Divinità di entrambi, e poiché non vi era esitazione nella fede non vi fu discrezione nel timore. Quella divina testimonianza fu dunque ampia e molteplice e il potere delle parole fece capire più del suono della voce. Infatti, quando il Padre dice: "Questi è il mio figlio diletto, nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo", non si doveva forse intendere chiaramente: "Questi è il mio Figlio", per il quale essere da me e essere con me è una realtà che sfugge al tempo? Infatti, né Colui che genera è anteriore al Generato, né il Generato è posteriore a Colui che lo genera. "Questi è il mio Figlio", che da me non separa la divinità, non divide la potenza, non distingue l’eternità. Questi è il mio Figlio, non adottivo, ma proprio; non creato d’altronde, ma da me generato; non di natura diversa e reso a me simile, ma della mia stessa essenza e nato uguale a me. "Questi è il mio Figlio per mezzo del quale tutto è stato fatto e senza il quale nulla è stato fatto" (Jn 1,3), il quale, tutto ciò che io faccio egli del pari lo compie (Jn 5,19) e quanto io opero, egli opera con me senza differenza. Nel Padre infatti è il Figlio e nel Figlio il Padre (Jn 10,38), e la nostra unità mai si separa. E quantunque io che genero sia altro da colui che ho generato, non vi è tuttavia permesso avere a suo riguardo opinione diversa da quella che vi è possibile avere di me. "Questi è il mio Figlio", che non considerò bottino di rapina l’uguaglianza che ha con me (Ph 2,6), né se ne appropriò usurpandola; ma, pur restando nella condizione della sua gloria, egli, per portare a termine il disegno di restaurazione del genere umano, umiliò fino alla condizione di servo l’immutabile Divinità.

       Quegli, dunque, in cui ripongo tutta la mia compiacenza, e il cui insegnamento mi manifesta, la cui umiltà mi glorifica, ascoltatelo senza esitazione; egli, infatti, è verità e vita (Jn 14,6); egli è mia potenza e mia sapienza (1Co 1,24). "Ascoltatelo", lui che i misteri della Legge hanno annunciato, che la voce dei profeti ha cantato. "Ascoltatelo", lui che ha riscattato il mondo con il suo sangue, che ha incatenato il diavolo e gli ha rapito le spoglie (Mt 12,29), che ha lacerato il chirografo del debito (Col 2,14) e il patto della prevaricazione. "Ascoltatelo", lui che apre la via del cielo e, con il supplizio della croce, vi prepara la scalinata per salire al Regno. Perché avete paura di essere riscattati? Perché temete di essere sciolti dalle vostre catene? Avvenga pure ciò che, come anch’io lo voglio, Cristo vuole. Buttate via il timore carnale e armatevi della costanza che la fede ispira; è indegno di voi, infatti, temere nella Passione del Salvatore ciò che per suo aiuto, non temerete nella vostra morte.

       Queste cose, o carissimi, non furono dette soltanto per utilità di coloro che le intesero con le proprie orecchie; bensì, nella persona dei tre apostoli, è tutta la Chiesa che apprende ciò che essi videro con i loro occhi e percepirono con le loro orecchie. Si rafforzi dunque la fede di tutti secondo la predicazione del santo Vangelo, e nessuno arrossisca della croce di Cristo, per la quale il mondo è stato riscattato. Di conseguenza, nessuno abbia paura di soffrire per la giustizia (1P 3,14), né dubiti di ricevere la ricompensa promessa, poiché è attraverso la fatica che si accede al riposo, e alla vita attraverso la morte. Egli, infatti, si è presa in carico tutta la debolezza propria alla nostra bassezza; egli, nel quale, se rimaniamo (Jn 15,9) nella di lui confessione e nel suo amore, siamo vincitori di ciò che egli ha vinto e riceveremo ciò che egli ha promesso.

       Si tratti allora di praticare i comandamenti o si tratti di sopportare le avversità della vita, la voce del Padre che si è fatta udire deve sempre risuonare alle nostre orecchie: "Questi è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo"; lui che vive e regna con il Padre e con lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.

       Leone Magno, Sermo 38, 4-8


2. La Trasfigurazione, purificazione della Chiesa

       Abbiamo sentito, mentre si leggeva il Vangelo, il racconto della grande visione nella quale il Signore si mostrò a tre discepoli, Pietro Jc e Giovanni. "Il suo volto splendeva come il sole" - questo vuol significare lo splendore del Vangelo. "Le sue vesti divennero bianche come neve" - e questo sta a dire la purificazione della Chiesa, della quale il Profeta disse: "Anche se i vostri peccati saranno rossi come la porpora, li farò bianchi come la neve" (Is 1,18). Elia e Mosè parlavano con lui, poiché la grazia del Vangelo riceve testimonianza della Legge e dai Profeti. Per Mosè s’intende la Legge, per Elia s’intendono i Profeti. Pietro suggerì che si facessero tre tende; una per Mosè, una per Elia, una per Cristo. Gli piaceva la solitudine del monte; lo annoiava il tumulto delle cose umane. Ma perché voleva fare tre tende? Non sapeva che Legge, Profeti e Vangelo provengono dalla stessa origine? Difatti fu corretto dalla nube. "Mentre diceva questo una nube lucente li avvolse". Così la nube fece una sola tenda, perché tu ne volevi tre? E una voce dalla nube disse: "Questo è il mio figlio diletto; ascoltatelo" (Mt 17,1-8). Elia parla, ma "ascoltate questo". Parla Mosè, "ma ascoltate questo". Parlano i Profeti, parla la Legge, ma "ascoltate questo", voce della Legge e lingua dei Profeti. Era lui che parlava in loro, poi parlò da se stesso, quando si degnò di farsi vedere. "Ascoltate questo"; ascoltiamolo. Quando parlava il Vangelo, sappiate ch’era la voce della nube; di là è giunta fino a noi. Sentiamo lui; facciamo ciò che ci dice, speriamo quanto ci promette.

       Agostino, Sermo 791


III DOMENICA DI QUARESIMA

87 Letture:
    
Ex 20,1-17
     1Co 1,22-25
     Jn 2,13-25

1. Perché Gesù caccia i venditori dal tempio

       "Ed essendo prossima la Pasqua dei giudei, Gesù salì a Gerusalemme". L’evangelista racconta poi un altro fatto, così come se lo ricordava: "E trovò nel tempio venditori di buoi, di pecore e di colombe, e cambiavalute seduti al banco, e fatta una sferza di funicelle li cacciò tutti dal tempio con le pecore ed i buoi; e sparpagliò la moneta dei cambisti e rovesciò i loro banchi. E ai venditori di colombe intimò: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio una casa di traffico» (Jn 2,13-16).

       Che cosa abbiamo ascoltato, fratelli? Quel tempio era ancora una figura, e purtuttavia da esso il Signore cacciò tutti coloro che eran venuti a fare i loro interessi, come a un mercato. Che cosa vendevano costoro? Le vittime di cui gli uomini avevano bisogno per i sacrifici di quel tempo. Sapete bene che i sacrifici rituali dati a quel popolo, e per la sua mentalità carnale e per il suo cuore ancora di pietra, erano tali che lo trattenessero dal precipitare nell’idolatria; e nel tempio questo popolo immolava i suoi sacrifici, buoi, pecore e colombe. Lo sapete bene, perché lo avete letto. Non era, quindi, un gran peccato vendere nel tempio ciò che si acquistava per essere offerto nel tempio stesso; eppure, Gesù li cacciò. Che avrebbe fatto, il Signore, qualora avesse trovato nel tempio degli ubriachi, se cacciò coloro che vendevano ciò che era lecito e non era contro giustizia (infatti, è lecito vendere ciò che è lecito comprare), e se non tollerò che la casa della preghiera si trasformasse in un mercato? Se la casa di Dio non deve diventare un mercato, può diventare una taverna?...

       Chi sono, poi, quelli che nel tempio vendono i buoi? Cerchiamo di capire nella figura il mistero racchiuso in questo fatto. Chi sono quelli che vendono le pecore e le colombe? Sono coloro che nella Chiesa cercano i loro interessi e non quelli di Cristo (Ph 2,21).

       Quelli che non vogliono essere redenti, considerano ogni cosa come roba d’acquisto: non vogliono essere acquistati, quel che vogliono è vendere. Eppure, niente di meglio, per loro, che essere redenti dal sangue di Cristo e giungere così alla pace di Cristo. Del resto, a che serve acquistare, in questo mondo, beni temporali e transitori, siano il denaro siano i piaceri del ventre e della gola siano gli onori della lode umana? Che altro sono, tutte queste cose, se non fumo e vento? e passano tutte, corrono via. Guai a chi si sarà attaccato alle cose che passano, perché insieme passerà anche lui. Non sono, tutte queste cose, un fiume precipite che corre al mare? Guai a chi vi cade dentro, perché sarà trascinato nel mare. Insomma, dobbiamo trattenere i nostri affetti da simili concupiscenze.

       Agostino, Comment. in Ioan., 10, 4.6


2. La Chiesa tempio della Trinità

       L’esatto ordine della professione di fede voleva che dopo la Trinità venisse la Chiesa, come la casa segue colui che vi abita, il tempio segue Dio e la città il suo fondatore. E la Chiesa qui va presa nella sua interezza, non solo quella parte, che è pellegrina sulla terra e loda il nome del Signore da oriente a occidente (Ps 112,3) e, uscita di schiavitù, canta un cantico nuovo, ma anche quella parte che, da quando è stata fondata, in cielo, ha sempre aderito a Dio e non ha sperimentato alcun male. Questa è la Chiesa dei santi Angeli ed è quella che assiste l’altra parte, che è ancora pellegrina; l’una e l’altra saranno una sola nella felicità eterna ma già ora sono unite dal vincolo della carità, tanto più che l’una e l’altra servono lo stesso e solo Dio. Perciò né tutta né alcuna sua parte vuol essere venerata al posto di Dio, né Dio vuole essere possesso esclusivo di nessuno, che appartiene al tempio di Dio, tempio che viene edificato di dèi, che son fatti da Dio increato. Perciò se lo Spirito Santo fosse una creatura e non il Creatore, certo sarebbe una creatura ragionevole, perché questa è la più eccellente creatura. E quindi nel simbolo della fede non sarebbe posto prima della Chiesa, perché anch’esso appartiene alla Chiesa, relativamente a quella parte che è in cielo. Né avrebbe un tempio, sarebbe lui stesso un tempio. Invece ha un tempio, quello di cui dice l’Apostolo: "Non sapete che i vostri corpi son tempio dello Spirito Santo, che è in voi, che voi avete da Dio?" E ancora: "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?" (1Co 6,19 1Co 6,15). Come, dunque, non è Dio, se ha un tempio? o forse è inferiore a Cristo, il cui tempio ha delle membra? Né si può dire che una cosa sia il suo tempio e un’altra cosa sia il tempio di Dio, poiché lo stesso Apostolo dice: "Non sapete che siete tempio di Dio" e per provarlo aggiunge: "E lo Spirito di Dio abita in voi?" (1Co 3,16). Dio, dunque, abita nel suo tempio, non solo lo Spirito Santo, ma anche il Padre e il Figlio, il quale dice anche del suo corpo, per mezzo del quale è stato fatto capo della Chiesa, che è negli uomini, "perché sia lui a tenere il primato di tutte le cose" (Col 1,18): "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo rifarò" (Jn 2,19). Dunque il tempio di Dio, cioè di tutta la somma Trinità, è la santa Chiesa, naturalmente tutta intera, quella del cielo e quella della terra.

       Agostino, Enchirid., 56, 15


3. L’uomo nella sua totalità è formato di corpo, anima e Spirito

       Dio sarà glorificato nella sua creatura, conformata e modellata sul proprio Figlio, poiché per le mani del Padre - che sono il Figlio e lo Spirito - l’uomo nella sua interezza, e non in una sua parte sola, diventa simile a Dio. L’anima e lo Spirito costituiscono una parte dell’uomo, e non tutto l’uomo l’uomo perfetto infatti risulta dalla compenetrazione e dall’unione dell’anima, che accoglie lo Spirito del Padre, con la carne, creata anch’essa ad immagine di Dio... La carne strutturata, da sola, non è l’uomo completo, ma solo il corpo dell’uomo, cioè una parte dell’uomo. Ma neppure l’anima da sola costituisce tutto l’uomo: è l’anima dell’uomo, cioè una sua parte. E neppure lo Spirito è l’uomo: si tratta appunto dello Spirito, non di tutto l’uomo. Solo la fusione, l’unione e l’integrazione di questi elementi costituisce l’uomo perfetto.

       Per questo l’Apostolo, spiegando il suo pensiero, parlò dell’uomo redento, perfetto e spirituale, con queste parole, nella prima lettera ai Tessalonicesi: "Il Dio della pace santifichi voi e vi renda perfetti, serbando intatti e senza biasimo il vostro Spirito, l’anima e il corpo, per la venuta del Signore Gesù Cristo" (1Th 5,23). Che motivo aveva di augurare la perfetta conservazione, per la venuta del Signore, appunto dell’anima, del corpo e dello Spirito, se non avesse saputo che l’intima unione di questi tre elementi altro non è che la loro salvezza? E perfetti sono appunto coloro che presentano questi tre elementi uniti, senza meritare rimprovero alcuno. Perfetti sono quindi quelli che hanno costantemente in sé lo Spirito, e custodiscono, evitando ogni biasimo, l’anima e il corpo, conservando la fede in Dio e osservando la giustizia verso il prossimo.

       Perciò l’Apostolo ci dice anche che la creatura è tempio di Dio: "Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Chi profana il tempio di Dio sarà da lui sterminato: il tempio di Dio, che siete voi, è santo" (1Co 3,16s). Evidentemente chiama tempio di Dio il corpo, in cui abita lo Spirito. Anche il Signore dice di se stesso: "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo riedificherò" (Jn 2,19). E non solo come templi, ma come templi di Cristo designa egli i nostri corpi, dicendo ai Corinti: "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di meretrice?" (1Co 6,15)... Per questo ha detto: "Chi profana il tempio di Dio sarà sterminato da Dio" (1Co 3,17). È dunque certamente una bestemmia dire che il tempio di Dio in cui abita lo Spirito del Padre, che le membra di Cristo non possono sperare redenzione alcuna, ma andranno senz’altro in perdizione. Che poi i nostri corpi risusciteranno non per la loro natura, ma per la potenza di Dio, egli lo dice ai Corinti: "Il corpo non è per la fornicazione, ma per il Signore, e il Signore per il corpo. Dio ha risuscitato il Signore e risusciterà noi pure con la sua potenza" (1Co 6,13s) .

       Ireneo di Lione, Adv. haer., 5, 6


IV DOMENICA DI QUARESIMA

88 Letture:
    
2Ch 36,14-16 2Ch 36,19-23
     Ep 2,4-10
     Jn 3,14-21

1. Il serpente di rame, simbolo di Cristo

       La strada traversa nuovamente il deserto, e il popolo, nella disperazione dei beni promessi, è esausto per la sete. E Mosè fa di nuovo scaturire per lui l’acqua nel deserto dalla Roccia. Questo termine ci dice cos’è, sul piano spirituale, il sacramento della penitenza. Difatti, coloro che, dopo aver gustato dalla Roccia, si sono sviati verso il ventre, la carne e i piaceri degli Egiziani, sono condannati alla fame e vengono privati dei beni di cui godevano. Ma è data loro la possibilità di ritrovare con il pentimento la Roccia che avevano abbandonato e di riaprire per loro il rivolo d’acqua, per dissetarsi alla sorgente...

       Però il popolo non ha ancora imparato a seguire le tracce della grandezza di Mosè. È ancora attratto dai desideri servili e inclinato alle voluttà egiziane. La storia dimostra con ciò che la natura umana è portata a questa passione più che ad altre, accessibile com’è alla malattia per mille aspetti. Ecco perché, alla stregua di un medico che con la sua arte impedisce alla malattia di progredire, Mosè non lascia che il male domini gli uomini fino alla morte. E siccome i loro desideri sregolati suscitavano dei serpenti il cui morso inoculava un veleno mortale in coloro che ne restavano vittime, il grande Legislatore rese vano il potere dei serpenti veri con un serpente in effigie. Sarà però il caso di chiarire l’enigma. Vi è un solo antidoto contro le cattive infezioni ed è la purezza trasmessa alle nostre anime dal mistero della religione. Ora, l’elemento principale contenuto nel mistero della fede è appunto il guardare verso la Passione di colui che ha accettato di soffrire per noi. E Passione vuol dire croce. Così, chi guarda verso di lei, come indica la Scrittura, resta illeso dal veleno del desiderio. Rivolgersi verso la croce vuol dire rendere tutta la propria vita morta al mondo e crocifissa (Ga 6,14), tanto da essere invulnerabile ad ogni peccato; vuol dire, come afferma il Profeta, inchiodare la propria carne con il timore di Dio (Ps 118,120). Ora, il chiodo che trattiene la carne è la continenza. Poiché quindi il desiderio disordinato fa uscire dalla terra serpenti mortali - e ogni germoglio della concupiscenza cattiva è un serpente -, a motivo di ciò, la Legge ci indica colui che si manifesta sul legno. Si tratta, in questo caso, non del serpente, ma dell’immagine del serpente, secondo la parola del beato Paolo: "A somiglianza della carne di peccato" (Rm 8,3). E colui che si rivolge al peccato, riveste la natura del serpente. Ma l’uomo viene liberato dal peccato da colui che ha preso su di se la forma del peccato, che si è fatto simile a noi che ci eravamo rivolti verso la forma del serpente; per causa sua la morte che consegue al morso è fermata, però i serpenti stessi non vengono distrutti. Infatti, coloro che guardano alla Croce non sono più soggetti alla morte nefasta dei peccati, ma la concupiscenza che agisce nella loro carne (Ga 5,17) contro lo Spirito non è interamente distrutta. E, in effetti, i morsi del desiderio si fanno spesso sentire anche tra i fedeli; ma l’uomo che guarda a colui che è stato elevato sul legno, respinge la passione, dissolvendo il veleno con il timore del comandamento, quasi si trattasse di una medicina.

       Che il simbolo del serpente innalzato nel deserto sia simbolo del mistero della croce, la parola stessa del Signore lo insegna chiaramente, quando dice: "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo" (Jn 3,14).

       Gregorio di Nissa, Vita Moysis, nn. 269-277


2. Dio ama infinitamente il mondo

       Abramo aveva molti servitori; perché Dio non gli dice di sacrificare uno di loro? Perché l’amore di Abramo non si sarebbe rivelato attraverso un servitore; occorreva per questo il suo stesso figlio (Gn 22,1-18). Parimenti c’erano molti servitori di Dio, ma egli non mostrò il suo amore verso le creature tramite nessuno di loro, bensì tramite il proprio Figlio, grazie al quale fu proclamato il suo amore per noi: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Jn 3,16).

       Efrem, Diatessaron, 21, 7


3. Dalla bontà di Dio dipende il nostro vivere

       È oltremodo giusto che noi inneggiamo a lui, perché il nostro essere e il nostro vivere non sono in nostro potere né dipendono da noi, ma dal suo favore e dalla sua bontà. Dobbiamo dunque cantare a questo Dio, che è ed è sempre stato, le grandezze che gli competono e si addicono alla lode della sua maestà, cioè: che egli è eterno, che è onnipotente, che è immenso, che è creatore del mondo e suo salvatore, che ha avuto per gli uomini tale amore da offrire persino il Figlio suo per la salvezza del mondo, come dice egli stesso nel Vangelo: "Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo Figliolo unigenito, affinché chiunque in lui crede non perisca, ma abbia la vita eterna" (Jn 3,16).

       Cromazio di Aquileia, Sermo, 33, 1


4. Cristo ha illuminato le nostre tenebre

       È veramente cosa buona e giusta renderti grazie, Signore santo, eterno Padre, Dio onnipotente, per Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore.

       Egli, con l’illuminazione della sua fede, dissipò le tenebre del mondo e costituì figli della luce coloro che giacevano nelle tenebre, sotto la giusta condanna della legge.

       Egli venne come giudizio sul mondo, sicché i non vedenti vedessero e i vedenti divenissero ciechi; in tal modo, coloro che confessavano in sé le tenebre degli errori, percepivano la luce eterna, per mezzo della quale rimuovere le tenebre dei delitti. E quelli che, arroganti, credevano di avere in sé per proprio merito la luce della giustizia, meritatamente in sé stessi si oscureranno.

       Quelli che si innalzano nella propria superbia e confidano nella propria giustizia, non ricercano il medico per essere sanati.

       Per lo stesso Gesù che affermò di essere la porta che fa accedere al Padre, fa’ che essi possano entrarvi. E poiché credettero a torto di poter essere elevati per merito, rimasero nonostante tutto nella loro cecità.

       Ecco perché noi, veniamo a te umili, Padre santo; senza presumere dei nostri meriti, apriamo la nostra ferita davanti al tuo altare, confessiamo le tenebre dei nostri errori; apriamo i recessi della nostra coscienza.

       Ti preghiamo di poter trovare la medicina per la ferita, la luce eterna per le tenebre, la purezza dell’innocenza per la coscienza. Vogliamo, infatti, con tutte le energie, discernere il tuo volto, ma ne siamo impediti dalla cecità della tenebra consueta. Siamo avidi di guardare i cieli, ma non ne abbiamo le possibilità finché restiamo accecati dalle tenebre dei peccati; e tantomeno imitiamo con una santa vita coloro che per l’eccellenza della vita hanno ricevuto il nome del cielo.

       Vieni, dunque, Gesù, in aiuto di noi che ti preghiamo nel tuo tempio e prenditi cura in questo giorno di coloro che, in vista del bene, tu hai voluto che non osservassero il sabato.

       Ecco, apriamo le nostre ferite davanti alla gloria del tuo nome: tu applica la medicina sulle nostre infermità. Soccorrici, come hai promesso di fare con chi ti prega, noi, che tu hai tratto dal nulla.

       Prepara un collirio e tocca gli occhi del cuore e del corpo, affinché non ricadiamo, ciechi, nelle tenebre dei soliti errori.

       Ecco, bagniamo con le lacrime i tuoi piedi; non respingerci umiliati. O buon Gesù, fa’ che non abbandoniamo le tue orme, tu che umile venisti sulla terra. Ascolta ora la nostra comune preghiera e, svellendo la cecità dei nostri crimini, fa’ che possiamo vedere giubilanti la gloria del tuo volto, nella beatitudine dell’eterna pace.

       Sacramentario Mozarabico, Praefatio





Lezionario "I Padri vivi" 85