Lezionario "I Padri vivi" 89

V DOMENICA DI QUARESIMA

89 Letture:
    
Jr 31,31-34
     He 5,7-9
     Jn 12,20-33

1. Amore e croce

       Il Signore ci esorta poi a seguire gli esempi che egli ci offre della sua passione: Chi ama la propria anima, la perderà (Jn 12,25).

       Queste parole si possono intendere in due modi: «Chi ama, perderà», cioè: se ami, non esitare a perdere, se desideri avere la vita in Cristo, non temere la morte per Cristo. E nel secondo modo: «Chi ama l’anima sua, la perderà», cioè: non amare in questa vita, se non vuoi perderti nella vita eterna. Questa seconda interpretazione ci sembra più conforme al senso del brano evangelico che leggiamo. Il seguito infatti dice: "E chi odia la propria anima in questo mondo, la serberà per la vita eterna"("ibid."). Quindi, la frase di prima: «Chi ama», sottintende: in questo mondo; cosi come poi dice: «Chi invece odia in questo mondo», la conserverà per la vita eterna.

       Grande e mirabile verità, nell’uomo c’è un amore per la sua anima che la perde, e un odio che la salva. Se hai amato smodatamente, hai odiato; se hai odiato gli eccessi, allora hai amato. Felici coloro che hanno odiato la loro anima salvandola, e non l’hanno perduta per averla amata troppo. Ma guardati bene dal farti venire l’idea di ucciderti da te stesso, avendo inteso che devi odiare in questo mondo la tua anima. Così intendono certi uomini perversi e male ispirati, crudeli e scellerati omicidi di sé stessi, che cercano la morte gettandosi nel fuoco, annegandosi in mare o precipitandosi da una vetta. Non è questo che insegna Cristo. Quando il diavolo gli suggerì di gettarsi nel precipizio, egli rispose: "Torna indietro, Satana; sta scritto: Non tenterai il Signore Dio tuo" (Mt 4,7). E nello stesso senso disse a Pietro, per fargli intendere con quale morte egli avrebbe glorificato Dio: "Quando eri più giovane, ti cingevi da te stesso e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, un altro ti cingerà e di condurrà dove tu non vuoi" (Jn 21,18-19). Parole queste che chiaramente ci indicano che non da sé ma da altri, deve essere ucciso colui che segue Cristo. Quando dunque un uomo si trova nell’alternativa, e deve scegliere tra infrangere un comandamento divino, oppure abbandonare questa vita perché il persecutore gli minaccia la morte, ebbene egli scelga la morte per amore di Dio, piuttosto che la vita offendendo Dio; così avrà giustamente odiato la sua anima in questo mondo per salvarla per la vita eterna.

       Agostino, Comment. in Ioan., 51, 10


2. Cristo ci ha fatto dono della sua vittoria

       Qual sacrificio fu mai più sacro di quello che il vero Pontefice posa sull’altare della croce immolando su di lei la propria carne? Benché, invero, la morte di molti santi sia stata preziosa agli occhi del Signore (Ps 115,15), mai tuttavia l’uccisione di un innocente ebbe come causa la propiziazione del mondo. I giusti hanno ricevuto la propria corona di gloria, non ne hanno donate, la forza d’animo dei fedeli ha prodotto esempi di pazienza, non doni di giustizia. La loro morte rimase propria a ciascuno di loro e nessuno con il proprio transito acquistò il debito di un altro; nostro Signore, invece, unico tra i figli degli uomini, è stato il solo in cui tutti sono stati crocifissi, tutti sono morti, tutti sono stati sepolti, tutti del pari sono risuscitati; ed è di loro che egli stesso diceva: "Quando sarò levato in alto attirerò tutto a me" (Jn 12,32). In effetti, la vera fede che giustifica gli empi (Rm 4,5) e crea i giusti (Ep 2,10 Ep 4,24), attratta a colui che condivide la sua natura, acquista in lui la salvezza, in lui nel quale essa si è ritrovata innocente; e poiché "non vi è che un unico mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù (1Tm 2,5) è per la comunione con la sua stirpe che l’uomo ha ritrovato la pace con Dio; può così, in tutta libertà, gloriarsi (1Co 3,21 Ph 3,3 2Co 10,17) della potenza di colui che, nella infermità della nostra carne, ha affrontato un nemico superbo e ha fatto dono della sua vittoria a coloro nel cui corpo egli ha trionfato.

       Leone Magno, Sermo, 51, 3


3. Tutto attirerò a me

       "E io, quando sarò levato in alto da terra, tutto attirerò a me" (Jn 12,32).

       Cos’è questo «tutto», se non tutto ciò da cui il diavolo è stato cacciato fuori? Egli non ha detto: tutti, ma «tutto», perché la fede non è di tutti (2Th 3,2). Questa parola non si riferisce quindi alla totalità degli uomini, ma alla integrità della creatura: spirito, anima e corpo; cioè, quel che ci fa intendere, quel che ci fa vivere, quel che ci fa visibili e sensibili. In altre parole, colui che ha detto: "non un capello del vostro capo andrà perduto" (Lc 21,18), tutto attira a sé.

       Se invece vogliamo interpretare «tutto» come riferito agli stessi uomini, allora si deve intendere che con quella parola si indicano tutti i predestinati alla salvezza. In questo senso il Signore dice che di tutti questi nessuno perirà, come prima aveva detto parlando delle sue pecore. Oppure egli ha voluto intendere tutte le specie di uomini, di tutte le lingue, di tutte le età, senza distinzione di grado o di onori, di ingegno o di talento, di professione o di arte, al di là di qualsiasi altra distinzione che, al di fuori del peccato, possa esser fatta tra gli uomini, dai più illustri ai più umili, dal re sino al mendico: «Tutto» - egli dice - «attirerò a me», in quanto io sono il loro capo ed essi le mie membra.

       Agostino, Comment. in Ioann., 52, 11


4. La morte del Signore è la nostra somma gloria

       Per conseguenza, ebbe con noi con una vicendevole partecipazione una meravigliosa relazione; era nostro, quello per cui è morto, suo sarà quello, per cui possiamo vivere. In effetti, egli diede la vita, che assunse da noi e per la quale morì, e dette la stessa vita, poiché egli era il Creatore; ma prese quella vita per la quale con Lui e per Lui saremo vittoriosi, non per opera nostra. E per questo, per quanto riguarda la vita nostra, per la quale siamo uomini, morì non per sé ma per noi; infatti, la natura di Lui, per la quale è Dio, non può morire completamente. Ma per quanto riguarda la natura umana di lui, che egli, come Dio, creò, è morto anche in essa: poiché anche la carne egli creò nella quale egli è morto.

       Non soltanto, quindi, non dobbiamo arrossire della morte del Signore, nostro Dio, ma ci dobbiamo grandemente confidare in essa e aver motivo di somma gloria: accettando infatti, la morte da noi, che egli trovò in noi, sposò nel modo più fedele la vita che ci avrebbe dato, che noi non possiamo avere da noi. In effetti, colui che ci amò tanto, che ciò che meritammo col peccato, egli, senza peccato, patì per noi peccatori, come colui che giustifica non ci darà ciò con giustizia? Come non ci restituirà, i premi dei santi, colui che promette con verità, colui che, innocente, sopportò la pena dei colpevoli?

       Confessiamo, dunque, fratelli, coraggiosamente, ed anche professiamo: Cristo è stato crocifisso per noi: non vi spaventate ma siate nella gioia; proclamiamolo non con vergogna ma con gioia. Osservò così il Cristo l’apostolo Paolo e raccomandò tale titolo di gloria.

       Ed egli, avendo molti titoli, grandi e divini, che egli ricordasse del Cristo, non disse di gloriarsi delle meraviglie del Cristo, poiché, essendo anche uomo, come siamo noi, ebbe il dominio nel mondo; ma disse: Per me di non altro voglio gloriarmi, che della croce del Nostro Signore Gesù Cristo (Ga 6,14).

       Agostino, Sermo Guelf., 3, 1-2




DOMENICA DI PASSIONE O DELLE PALME

90 Letture:
    
Is 50,4-7
     Ph 2,6-11
     Mc 14,1 Mc 15,47

1. La donna di Betania, esempio per i battezzati

       Leggiamo più avanti in questa stessa lezione del Vangelo: "Stando egli a Betania in casa di Simone il lebbroso, e mentre era a tavola, venne una donna con un vasetto di alabastro di profumo di nardo puro" (Mc 14,3). Questa donna interessa in modo speciale voi, che state per ricevere il battesimo. Essa ha rotto il suo vasetto, affinché Cristo faccia di voi tanti cristi, cioè unti. Ecco infatti quanto sta scritto nel Cantico dei Cantici: "Un profumo olezzante è il tuo nome, per questo ti hanno desiderato le donzelle; corriamo dietro a te, nell’odore del tuo profumo" (Ct 1,2). Finché il profumo era rinchiuso e non si diffondeva, finché Dio era conosciuto soltanto in Giudea e soltanto in Israele era grande il suo nome (Ps 75,2), le donzelle non seguivano Gesù. Ma quando il suo profumo si diffonde in tutta la terra, le giovani anime dei credenti seguono il Salvatore.

       «Stando egli a Betania in casa di Simone il lebbroso». Nella nostra lingua, Betania significa casa dell’obbedienza. E perché la dimora di Simone il lebbroso è in Betania, cioè nella casa dell’obbedienza? E che cosa faceva il Signore nella casa del lebbroso? Ma egli era venuto nella casa del lebbroso per purificarlo. È detto lebbroso, non perché lo è ancora, ma perché lo è stato. Era lebbroso prima di ricevere il Signore: ma dopo aver ricevuto il Signore, dopo che il vasetto di unguento è stato aperto, la lebbra è scacciata. Egli mantiene il nome che aveva prima, per ricordare il miracolo del Salvatore. Per lo stesso motivo anche gli apostoli conservano i loro vecchi nomi, perché sia manifesto il potere di chi li chiamò e li fece diventare apostoli: per questo Matteo, che era stato pubblicano e divenne poi apostolo, vien chiamato pubblicano anche dopo essere divenuto apostolo; non perché era ancora pubblicano, ma perché da pubblicano fu trasformato in apostolo. Resta insomma il nome antico perché sia manifesto il potere del Signore: così anche Simone è chiamato con l’antico nome di lebbroso per ricordare che è stato guarito dal Signore.

       «Venne una donna con un vasetto di alabastro di profumo». I farisei e gli scribi stanno nel tempio, e non hanno il profumo: questa donna è fuori del tempio e porta il profumo, porta il nardo, un vasetto di nardo con cui è confezionato il suo profumo. Anche voi fedeli, che siete chiamati, siete come un profumo di nardo. La Chiesa, raccolta tra tutte le genti, offre infatti ai Salvatore i suoi doni, cioè la fede dei credenti. Essa rompe il vasetto di alabastro, affinché tutti ricevano il profumo, si rompe il vasetto, che prima in Giudea era tenuto rigorosamente chiuso. Si apre il vasetto, ripeto: come il chicco di grano non fa frutti se non è sepolto e marcisce in terra, così se non viene aperto il vasetto di alabastro, non potremo essere unti (Jn 12,24).

       "E glielo versò sul capo" (Mc 14,3). Questa donna che rompe il vasetto di alabastro e versa il profumo sul suo capo, non è la stessa donna, di cui si parla in un altro Vangelo, che lavò i piedi del Signore (Lc 7,37). Quella, che era una prostituta e una peccatrice, abbraccia soltanto i piedi; questa, quasi santa gli abbraccia il capo. Quella, come prostituta, bagna con le sue lacrime i piedi del Salvatore e li asciuga con i capelli: sembra che lavi con le lacrime i piedi del Signore, ma in realtà lava i suoi peccati. I sacerdoti e i farisei non baciano il Signore; invece questa donna gli bacia i piedi. Fate anche voi così, voi che state per ricevere il battesimo, poiché tutti siamo sotto il peccato e "nessuno è senza peccato, anche se la sua vita è durata un solo giorno" (Jb 14,4) "e contro i suoi angeli - ciascuno - oppone qualcosa di perverso ()". Fate anche voi così: dapprima abbracciate i piedi del Salvatore, lavateli con le lacrime asciugateli con i capelli, e quando avrete fatto questo, innalzatevi alla sua testa.

       Girolamo, Comment. in Marc., 10


2. Ad imitazione di Cristo, immoliamo noi stessi a Dio in sacrificio di lode

       Saremo partecipi della Pasqua, ora ancora in figura, sia pure più chiaramente che nell’antica legge (la Pasqua legale: oso dire una figura di un’altra figura, giuoco d’ombre); ma un giorno, quando il Verbo berrà con noi il calice nuovo nel regno del Padre, parteciperemo più perfettamente e con vista più chiara, perché allora il Verbo mostrerà ciò che ora ci ha fatto vedere meno pienamente. Quale sia quella bevanda e visione noi possiamo farne parola, ma lui deve dar la dottrina e insegnarla ai discepoli. La dottrina, infatti, è cibo di quello stesso che ci alimenta. Suvvia, facciamoci partecipi della legge, ma in senso evangelico, non letterale, in un senso perfetto ed eterno. Prendiamo per capitale non la terrena Gerusalemme, ma la città celeste; non quella, dico, che è percorsa da eserciti, ma quella che è lodata dagli angeli. Sacrifichiamo non vitelli né agnelli che mostrano corna e unghie, cose ormai senza senso; ma immoliamo a Dio, insieme ai cori celesti un sacrificio di lode. Attraversiamo il primo velo, accostiamoci al secondo, guardiamo nel "Sancta sanctorum" e, dirò di più, immoliamo noi stessi a Dio; immoliamoci ogni giorno, immoliamo tutti i nostri movimenti. Accettiamo tutto per amore del Verbo, imitiamo attraverso le nostre passioni la Passione col nostro sangue onoriamo il Sangue, saliamo con decisione la croce. I chiodi son dolci, anche se molto acerbi. È meglio soffrir con Cristo, che accompagnarsi agli altri nel piacere.

       Se sei Simone Cireneo, prendi la croce e segui il Maestro. Se, come il ladro, sei appeso alla croce, da uomo onesto, riconosci Dio: se lui per te e per i tuoi peccati è stato aggregato agli empi, tu, per lui, fatti giusto. Adora colui che è stato per tua colpa sospeso a un legno; e, se tu stai appeso, ricava un vantaggio dalla tua malvagità, compra la salvezza con la morte, entra in Paradiso con Gesù, per capire da quale altezza eri caduto. Contempla quelle bellezze; lascia che il mormoratore muoia fuori con la sua bestemmia. Se sei Giuseppe d’Arimatea, chiedi il corpo a chi lo crocifisse, fai tuo il corpo che ha espiato i peccati del mondo. Se sei Nicodemo, quel notturno ammiratore di Dio, ungilo con funebri unguenti. Se sei una Maria, o altra Maria, o Salome, o Giovanna versa lagrime alla prima luce. Fa’ in modo da poter vedere la tomba scoperchiata, o forse gli angeli, o perfino lo stesso Gesù. Di’ qualche cosa, sta’ a sentire. Se dirà: - "Non mi toccare" tieniti lontana. Adora il Verbo, ma non piangere. Egli sa da chi dev’essere visto per primo. Celebra le primizie della risurrezione; va’ incontro ad Eva, che cadde per prima e per prima vide Cristo e avvertì i discepoli. Imita Pietro o Giovanni, corri al sepolcro, insieme e a gara, in onesta emulazione. Se sarai primo, vinci in amore, non piegarti, guardando da fuori; entra. Se, come Tommaso sarai lontano dal gruppo dei discepoli che videro il Risorto, dopo che l’avrai visto anche tu, non rifiutar la tua fede.

       Gregorio Nazianzeno, Oratio XLV, in Pascha, 23-25


3. Omelia per la Domenica delle Palme

       Salendo nostro Signore Gesù Cristo verso Gerusalemme, sei giorni prima della sua Passione, una folla numerosa, che si era adunata a Gerusalemme per celebrare la Pasqua secondo il precetto di Mosè, gli corse incontro portando rami di palme (Jn 12,12-13), per proclamare con quel mezzo la sua vittoria, quasi si trattasse di un re terreno del popolo d’Israele. Per un costume antico, infatti, si suole donare una palma ai vincitori. Alcuni peraltro, in quella stessa folla, spezzavano rami d’albero (Mt 21,8), soprattutto di ulivo, accadendo la cosa nei pressi del monte degli Ulivi, e li portavano dove occorreva, per stendere un tappeto sulla via del Signore che si avvicinava. Da qui deriva l’usanza della festa di portare in mano in questo giorno, cantando, rami di palma o d’ulivo, e di denominare detta festa «Rami di palma» o «Rami d’ulivo».

       Non è però privo di profondo significato il fatto di portare i rami di questi alberi. L’ulivo, in effetti, che contiene nel suo frutto di che curare dolori e fatiche, rappresenta le opere di misericordia - e misericordia in greco si dice appunto "oleos".

       Quanto alla palma, il suo tronco è rugoso, ma vanta al suo termine, cioè alla sua cima, una bellissima acconciatura, mostrando così che dobbiamo elevarci passando per le asprezze di questa vita fino agli splendori della patria celeste. Ecco perché anche David, il profeta salmista, canta a proposito del giusto: "Il giusto fiorirà come palma" (Ps 91,13). Teniamo perciò in mano i rami d’ulivo, mostrando nei nostri atti la misericordia. Prendiamo anche rami di palma, in modo da attendere, come premio della misericordia, non terrene consolazioni, ma la bellezza della patria di lassù, dove ci precede Cristo nostro Signore egli che è, secondo l’affermazione dell’Apostolo, "il termine della legge, perché sia giustificato chiunque crede" (Rm 10,4).

       Non trascuriamo poi il versetto del salmo che la folla cantava, applicandolo al Signore: Osanna nell’alto dei cieli, benedetto colui che viene nel nome del Signore, osanna nell’alto dei cieli (Mt 21,9). La venuta del Signore nella carne fu, in effetti, causa di salveza non solo per gli uomini sulla terra, ma anche per gli angeli in cielo, poiché, mentre gli uomini sono salvati sulla terra, il numero degli angeli, diminuito con la caduta del diavolo, è completato in cielo. "Osanna nell’alto lei cieli" significa quindi: Salvaci, tu che sei anche la salvezza nei cieli. E perché chiedevano tale salvezza con molta devozione, ripeterono quelle parole e dissero per la seconda volta: Osanna nell’alto dei cieli.

       Che Cristo benedetto, Signore [nostro] vi accordi dunque di pervenire a quella salvezza, lui che viene nel nome di Dio Padre, con il quale vive e regna, Dio, nei secoli dei secoli. Amen.

       Anonimo IX sec., Sermo XI, in Ramis palmarum, 1-3




I DOMENICA DI PASQUA

94 Letture:

    
Ac 10,34a. Ac 10,37-43
     Col 3,1-4
     Mt 28,1-10

1. Siamo come Cristo!

       Ieri s’immolava l’agnello e le porte venivano dipinte col sangue e tutto l’Egitto pianse i suoi primogeniti, ma noi restammo immuni, il sangue sulle porte ci salvò. Oggi lasciamo l’Egitto, il suo Faraone e i suoi feroci prefetti; lasciamo la fabbrica dei mattoni e nessuno ci può impedire di celebrare la festa della nostra liberazione, e celebriamo "non nel vecchio fermento della malizia, ma negli azzimi della sincerità e della verità", poiché non portiamo con noi niente dell’empietà dell’Egitto.

       Ieri ero levato in croce con Cristo, oggi son glorificato con lui; ieri morivo con lui, oggi rivivo; ieri venivo seppellito con lui, oggi risorgo. Offriamo, dunque, qualcosa a colui che per noi morì ed è risorto. Forse voi pensate a oro, argento, tessuti, pietre lucide e preziose, tutta roba fragile e mutevole della terra, la maggior parte della quale Š in possesso di un qualche schiavo delle cose terrene e di un qualche principe del mondo. Offriamo, invece, noi stessi; questo è il possesso più prezioso per Iddio e il più degno di lui. Diamo all’immagine ciò che conviene all’immagine, riconosciamo la nostra dignità, onoriamo il modello, comprendiamo la forza del mistero e il motivo per cui Cristo Š morto.

       Siamo come Cristo, perch‚ Cristo s’è fatto come noi. Facciamoci dèi per lui, perché lui per noi s’è fatto uomo. Prese qualche cosa d’inferiore, per darci qualche cosa di superiore. Si fece povero, perché diventassimo ricchi della sua povertà. Prese la condizione di schiavo, perché noi fossimo liberati. Scese, perch‚ noi salissimo. Fu tentato, perch‚ noi vincessimo. Fu vilipeso, per coprirci di gloria. Morì per dar salute a noi. Salì al cielo, per trarre con sè quelli che giacevano nella caduta del peccato. Ciascuno dia tutto; tutto a colui che diede tutto se stesso come prezzo del nostro riscatto; ma nessuno darà mai tanto, quanto darebbe se desse se stesso con l’esatta comprensione di questo mistero: farsi tutto per colui che s’è fatto tutto per noi.

       Gregorio Nazianzeno, Oratio I, in Pascha, 3-5


2. La Pasqua, onore della Trinità

       È la Pasqua del Signore, Pasqua e ancora Pasqua in onore della Trinità. È per noi la festa delle feste e la solennità delle solennità, tanto più grande di tutte le altre, non solo di quelle inventate dagli uomini, ma anche di quelle che onorano Cristo tanto più grande, quanto il sole supera tutte le stelle. Fu certo splendida ieri la processione della veste candida e delle luci (che facemmo tutti d’ogni condizione, illuminando la notte con un gran fuoco), celebrando quella gran luce, che, illuminando il mondo intero con la bellezza delle sue stelle, attraversa il cielo, o Š luce soprannaturale, sia negli angeli, che dopo Dio è la prima lucida natura (da Dio, infatti, gli angeli prendono splendore), sia nella stessa Trinità, dalla quale nasce ogni luce. Ma la festa di oggi è più bella e più nobile. Quella di ieri era l’alba della grande luce della risurrezione, quasi un assaggio. Oggi celebriamo proprio la risurrezione, non nella speranza ma nella realtà, nell’atto che richiama l’attenzione di tutto il mondo. Doni ognuno qualche cosa in questa circostanza, un piccolo o un grande dono, purché sia spirituale, gradito a Dio, proporzionato alle forze di ciascuno. Neanche gli angeli, infatti, potrebbero offrire un dono adeguato; dico i primi, intelligenti e puri spettatori e testimoni della gloria superna; se pure a questi è concessa una lode assoluta di Dio. Noi ci metteremo le più belle parole che abbiamo e le più scelte; tanto più che vogliamo benedire il Verbo per il bene da lui fatto a esseri dotati d’intelligenza.

       Gregorio Nazianzeno, Oratio II, in Pascha, 45, 2


3. Festa di Pasqua, festa della salvezza

       Il vero riposo del Sabato, che fu benedetto da Dio, nel quale Dio si riposò dalla sua fatica, dopo aver spezzato la potenza della morte del mondo, sta per finire e se ne va la grazia ch’esso offrì agli occhi, alle orecchie, al cuore attraverso tutte le cose che vedemmo, udimmo e ci riempirono di gioia. Dinanzi agli occhi durante la notte tenemmo delle lampade, che ricordavano la colonna di fuoco. Le parole che sentimmo tutta la notte negli inni, nei salmi, nei canti, scorrendo come un fiume di gioia, ci riempirono di ottima speranza. Il cuore poi, per tutto ciò che si vedeva e si sentiva, aveva la sensazione di una letizia ineffabile, mentre attraverso le cose che si vedono, era quasi condotto per mano a colui che non si vede. I beni di questo riposo, infatti, che sono garanzia di quelli cui siamo destinati, sono un’immagine di quei beni, che nessun occhio mai vide nè orecchio udì nè cuore umano mai assaporò. Poiché dunque questa notte luminosa, mettendo insieme la luce delle lampade con quella dei raggi del sole nascente, ha fatto un lunghissimo giorno continuo, senza nessuna interruzione di tenebre, cerchiamo di capire la profezia che dice: "Questo è il giorno che ha fatto il Signore". Nel quale ciò che ci si propone di fare non è cosa grave né difficile, ma gaudio, letizia, esultanza, poiché la Scrittura dice: "Esultiamo e godiamo in esso" (Ps 117,24). O raro comando! O legge dolcissima! Chi non vorrà obbedire senza indugio e senza dilazioni a un tale ordine? Anzi chi non riterrà un danno anche una piccola dilazione? La letizia e ciò che vien comandato e la tristezza si muta in gioia, perché la condanna inflittaci per il peccato è stata abolita.

       Questa è la parola sapiente, la dimenticanza e abolizione dei mali nel giorno della festa. Questo giorno ci ha portato la dimenticanza della sentenza pronunziata contro di noi; rettifico, non dimenticanza, abolizione. Ha distrutto, infatti, e raso ogni ricordo della primitiva condanna. Allora il parto era nel dolore ora si nasce senza dolori. Allora nascemmo carne da carne, ora ciò che nasce è spirito da spirito. Allora eravamo figli degli uomini; ora siamo figli di Dio. Allora dal cielo fummo relegati sulla terra; ora colui che è celeste, ha fatto anche noi celesti. Allora attraverso il peccato regnava la morte; ora invece la giustizia, attraverso la vita, ha preso il comando. Allora uno solo diede libero ingresso alla morte; adesso uno solo ha introdotto la vita. Allora a causa della morte uscimmo dalla vita; ora la morte è distrutta dalla vita. Allora per la vergogna ci nascondemmo sotto un fico, ora ci avviciniamo con gloria al legno della vita. Allora per la disobbedienza fummo cacciati dal paradiso; ora attraverso la fede siamo introdotti nel paradiso. Ancora una volta ci è posta la scelta dell’albero della vita. Un’altra volta la sorgente del paradiso distribuita in quattro fiumi evangelici irriga tutta la faccia della Chiesa, in modo che anche i solchi delle nostre anime possano essere irrigati e si moltiplichino i semi della virtù. Che cosa faremo allora? Che altro se non imitare i monti del Profeta? "I monti esultarono come cervi e i colli come agnelli" (Ps 113,4). Venite, dunque, e benediciamo Dio che ha spezzato le forze del nemico e sulla rovina dell’avversario ha innalzato per noi il grande trofeo della croce. Evviva, è l’acclamazione festosa dei vincitori contro i vinti. Poiché, dunque, è stato sbaragliato l’esercito nemico e lo stesso suo comandante è caduto, è stato distrutto e annientato, diciamo che Dio è un signore grande e un gran re sopra tutta la terra, che ha colmato il ciclo della sua benevolenza e ci ha condotti a questa danza dello spirito per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, al quale sia gloria in tutti i secoli. Amen.

       Gregorio di Nissa, Oratio IV, in Pascha


4. Omelia per la santa Risurrezione del nostro Salvatore

       Il pio coro delle donne amiche di Dio custodiva un legame d’amore con il sepolcro del Maestro, esse attendevano di veder risplendere di bel nuovo la Vita che sarebbe uscita da un "sepolcro tagliato nella roccia" (Lc 23,53). A queste donne in lacrime (Jn 20,11 Jn 20,13 Jn 20,15), due angeli luminosi (Jn 20,12 cf. Jn 20,12 Lc 24,4) e abbaglianti come lampi di luce (Lc 24,4), davano il lieto annuncio. Con il loro aspetto radioso e sorridente, mostravano che la Gioia del mondo era risuscitata, e rimproveravano le donne di pensare a torto che la Vita (Jn 11,25 cf. Jn 11,25 Jn 14,6) potesse essere ancora nascosta nel sepolcro e di cercare colui che è vivo in mezzo ai morti (Lc 24,5). Muovevano loro dei rimproveri e gridavano verso di loro: «"Perché cercate tra i morti colui che è vivo?" (Lc 24,5). Fino a quando rimarrete così nell’errore, a piangere? Fino a quando riterrete morto colui che è vivo e dispensatore di vita? La Luce (Jn 8,12 cf. Jn 8,12 Jn 1,4) è risorta, come aveva predetto, al terzo giorno (Mt 27,63). Il sepolcro non ricopre più colui che aveva ricoperto la terra con il cielo (Gn 1,6-8). Egli non è più avvolto dalle fasce (Lc 2,7-12); egli che con una sola parola ha sciolto i lacci della morte (Jn 11,43-44). Andate via gioiose, correte ad annunciare agli apostoli la buona novella della Risurrezione». Queste donne dunque, portate per il loro sesso al pessimismo e tuttora affezionate, per l’amore che portavano a Dio, eccole consolate da un messaggio tanto importante, trasmesso loro da angeli, e bastante a rasserenarle dal loro sconforto. Peraltro, oggi, i pastori della grazia annunciano la buona novella alle chiese del Crocifisso sparse su tutta la terra, servendosi delle parole sacre di Paolo, con le quali anch’io, a mia volta, grido a voi nella letizia: "Cristo è risuscitato dai morti, primizia di quelli che si sono addormentati nella morte" (1Co 15,20). A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

       Dal beato Giovanni, vescovo di Beirut, per la Risurrezione del nostro Salvatore.

       Jn da Beirut, Hom. in Pascha




II DOMENICA DI PASQUA

96 Letture:
    
Ac 4,32-35
     1Jn 5,1-6
     Jn 20,19-31

1. Lo Spirito Santo e la remissione dei peccati

       Disse loro [Gesù]: "La pace sia con voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi" (Jn 20,21). Il che vuol dire: Come il Padre, che è Dio, ha mandato me, che sono Dio, così anch’io, in quanto uomo, mando voi, uomini. Il Padre ha inviato il Figlio allorché ha deciso che egli si incarnasse per la redenzione del genere umano. Il Padre ha voluto che il Figlio venisse a patire nel mondo tuttavia, pur inviandolo al patire, lo amava. Ora, anche il Figlio invia gli apostoli che si è scelto; li manda non alle gioie del mondo, bensì verso le sofferenze di ogni genere, così come egli stesso era stato inviato. Il Figlio è amato dal Padre e nondimeno è inviato alla Passione; i discepoli, del pari, sono amati da Cristo Signore, e nondimeno vengono da lui mandati nel mondo a soffrire. Perciò è detto: "Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi". Come dire: Io vi amo con quella stessa carità con la quale sono amato dal Padre, anche se vi invio nel mondo a soffrire tanti patimenti, anche se vi mando in mezzo agli scandali dei persecutori.

       Per altro, la formula "essere inviato" può anche essere intesa in rapporto alla natura divina. È detto, in effetti, che il Figlio è mandato dal Padre, in quanto è da lui generato. E di ciò è prova il fatto che anche dello Spirito Santo, uguale in tutto al Padre e al Figlio, e che tuttavia non si è mai incarnato, è detto che è stato inviato dal Figlio, nel passo di Giovanni: "Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre" (Jn 15,26). Se però l’essere inviato fosse sinonimo semplicemente di incarnarsi, in nessun modo si potrebbe dire che lo Spirito Santo è stato mandato, perché mai si è incarnato. Invece la sua missione [dello Spirito Santo] è la sua stessa processione, per la quale egli procede dal Padre e dal Figlio Per cui, come è detto che lo Spirito Santo è mandato, in quanto procede, così è conseguente affermare che il Figlio è mandato in quanto è generato.

       "Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo" (Jn 20,22). È il caso ora di chiederci perché mai il Signore donò due volte lo Spirito Santo: una, mentre era sulla terra, un’altra, quando già era salito al cielo. In nessun altro passo, oltre questo (cf. Ac 2,4ss), è detto che lo Spirito Santo sia stato dato altre volte, ovvero: la prima, nella circostanza attuale, allorché Gesù ha soffiato sui discepoli, l’altra, più tardi, quando fu mandato dal cielo e si mostrò sotto forma di lingue diverse.

       Perché allora esso viene dato prima ai discepoli in terra, e poi è mandato dal cielo, se non perché due sono i precetti della carità, ovvero l’amore di Dio e del prossimo? In terra, viene dato lo Spirito perché il prossimo sia amato; lo stesso Spirito ci è poi dato dal cielo, perché sia Dio ad essere amato. E come vi è una sola carità, ma due sono i precetti, così c’è un solo Spirito, ma due sono le sue effusioni. La prima proviene dal Signore Gesù ancora sulla terra; la seconda, dal cielo, per ammonirci che nell’amore del prossimo si apprende come si pervenga all’amore di Dio. Ecco perché lo stesso Giovanni dice: "Chi non ama il fratello che vede, come può amare Dio che non vede?" (1Jn 4,20). Già in precedenza, lo Spirito Santo era presente nelle menti dei discepoli, in virtù della fede. Però fu dato loro in modo manifesto, solo dopo la Risurrezione...

       "A chi rimetterete i peccati, saranno loro rimessi, e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi" (Jn 20,23). Mi piace osservare a quale vertice di gloria siano tratti quegli stessi discepoli che erano stati invitati a caricarsi un immeso fardello di umiltà. Eccoli, infatti, non solo sicuri di sé, ma con la potestà di legare e sciogliere gli altrui legami. Hanno il potere di esercitare il giudizio supremo, sì da potere, al posto di Dio, ad uno ritenere le colpe e ad un altro rimetterle. Era conveniente che così venissero da Dio esaltati coloro che per lui avevano accettato di umiliarsi tanto! Ed ecco che quelli che più temono il ferreo giudizio di Dio, sono promossi a giudici delle anime; condannano e liberano altri, quelli stessi che avevan timore di essere condannati.

       Adesso, il luogo che essi (gli apostoli) ebbero nella Chiesa è preso dai vescovi, che ricevono la potestà di legare e sciogliere insieme al compito di governare. Il che è certamente un grande onore, ma è altresì un grave peso. È però cosa contraddittoria che diventi giudice della vita altrui chi non sa tenere le redini della propria. Eppure non raramente accade che ricopra il ruolo di giudice uno la cui esistenza non collima con il posto che occupa. Per cui, capita spesso che egli condanna chi non lo merita, o che sciolga altri allorché è lui stesso legato. Non è infrequente il fatto che, nel legare o sciogliere i propri sudditi, il vescovo, segua più gli impulsi del proprio arbitrio che il valore delle prove. In tal modo, si priva della potestà di sciogliere e di legare, poiché la esercita secondo il proprio capriccio e non secondo i meriti dei sudditi. Spesso capita anche che il pastore agisca, nei riguardi del prossimo, mosso da avversione o da simpatia. Non può serenamente giudicare i sudditi, chi, nelle cause dei sudditi, si lascia guidare da antipatia o da simpatia. Ha ragione il profeta a dire: "Fate vivere chi deve perire e fate morire chi deve vivere" (Ez 13,19). Chi condanna un giusto, condanna a morte uno che non può morire; si sforza, invece, di far vivere uno che non può rivivere, chi cerca di assolvere un reo dalla sua pena.

       Bisogna quindi ripensare le motivazioni, poi esercitare la potestà di sciogliere e di legare. Occorre far riferimento alla colpa commessa; vedere quale penitenza sia susseguita alla colpa, perché la sentenza del pastore assolva quelli che già il Signore ha visitato con la grazia del pentimento. Solo allora è valida l’assoluzione data dal presidente (vescovo), poiché si adegua al giudizio del giudice interiore. Tutto ciò è ben adombrato nella risurrezione di quel morto da quattro giorni (Lazzaro). Dapprima, il Signore lo ha chiamato e rianimato, dicendo: "Lazzaro, vieni fuori!" (Jn 11,43); poi, quando il morto risuscitato venne fuori, i discepoli del Signore lo sciolsero, come sta scritto: "Essendo quello uscito, così legato con i lacci, Gesù disse ai discepoli: Scioglietelo e lasciatelo andare!" (Jn 11,45). Ecco: I discepoli sciolgono quando è vivo colui che il Maestro aveva richiamato da morte. Se avessero sciolto Lazzaro quando ancora era morto avrebbero messo in mostra la corruzione, non la virtù (del Signore) .

       Da questa considerazione discende che noi dobbiamo assolvere, usando la nostra autorità pastorale, solo coloro che il nostro autore ha vivificati con la grazia della risurrezione. E se tale opera di rinnovamento sia o no presente al momento della nostra sentenza, possiamo saperlo nella confessione dei peccati. Ecco perché a Lazzaro non viene detto soltanto: "Risuscita!", ma anzitutto: "Vieni fuori!" Finché un peccatore, chiunque esso sia, cela nell’intimo della propria coscienza la colpa commessa, egli sta chiuso in sé, si nasconde nel segreto; quando invece confessa liberamente le sue iniquità, allora il morto viene fuori. Quando, perciò, vien detto a Lazzaro: "Vieni fuori!", è come se si dicesse a chiunque è morto nel peccato: Perché celi la colpa nel segreto della tua coscienza? Vieni fuori, con una buona confessione, tu che, con la tua ritrosia, te ne stai chiuso in te stesso! Che il morto venga fuori, ovvero: Che il peccatore confessi la sua colpa! A colui che viene fuori risuscitato, i discepoli, poi, dovranno sciogliere i lacci. In altre parole, i pastori della Chiesa debbono cancellare la pena meritata da colui che non ha avuto vergogna a confessare l’iniquità commessa.

       Ho voluto dire queste cose succintamente, in ordine alla potestà di sciogliere e legare, perché i pastori della Chiesa si sforzino di esercitarla con diligenza e moderazione.

       Qualunque sia poi il modo in cui il pastore impone, giusta o meno che sia la sua sentenza, essa deve essere sempre accettata dal gregge, perché non capiti che un suddito, pur ingiustamente obbligato, meriti per diversa colpa il giudizio di condanna. Abbia dunque il pastore il sacro timore di legare e sciogliere ingiustamente; ma che il suddito, sottoposto alla potestà da pastore, tema la condanna, anche se ingiusta. E non impugni temerariamente il giudizio del suo pastore, perché, pur condannato ingiustamente, non si macchi, lui innocente, di una reale colpa, per la superbia con cui risponde.

       Gregorio Magno, Hom. in Ev., 26, 2-6


2. L’apostolo Tommaso (Jn 20,24-29)

Era l’ottavo giorno, Signore,

Quando entrasti da loro nuovamente;

Hai appagato il desiderio del discepolo,

L’incredulo Tommaso.

Egli ha palpato la ferita del tuo fianco

E dei chiodi il sacro foro;

Per questo abbiamo ricevuto la «Beatitudine»

Noi che, come loro, non ti abbiamo visto.

Io credo con tutta la mia anima,

Ti confesso mio Signore e Dio;

Come lui, a gran voce lo proclamo,

Come l’ho appreso per la sua parola.

Rendimi degno in quell’estremo giorno,

Quando verrai in tutta la tua gloria,

Di vederti in quello stesso corpo

Per abbracciarti con l’amor del cuore.

       Nerses Snorhali, Jesus, 779-782





Lezionario "I Padri vivi" 89