Lezionario "I Padri vivi" 118

XIII DOMENICA

118 Letture:
    
Sg 1,13-15 Sg 2,23-25
     2Co 8,7-9 2Co 8,13-15
     Mc 5,21-43


1. I medici e il medico

       La sua fede arrestò in un istante, come in un batter d’occhio, il flusso di sangue che era sgorgato per dodici anni. Numerosi medici l’avevano visitata moltissime volte, ma l’umile medico, il figlio unico la guardò soltanto un momento. Spesso, quella donna aveva profuso forti somme per i medici; ma all’improvviso, accanto al nostro medico, i suoi pensieri sparsi si raccolsero in un’unica fede. Quando i medici terreni la curavano, ella pagava loro un prezzo terreno (Mc 5,26); ma quando il medico celeste le apparve, ella le presentò una fede celeste. I doni terrestri furono lasciati agli abitanti della terra, i doni spirituali furono elevati al Dio spirituale nei cieli.

       I medici stimolavano coi loro rimedi i dolori causati dal male, come una belva abbandonata alla sua ferocia. Così, per reazione, come una belva inferocita, i dolori li diffondevano dappertutto, essi e i loro rimedi. Quando tutti si affrettavano di sottrarsi alla cura di quel dolore, una potenza uscì, rapida, dalla frangia del mantello di Nostro Signore; colpì violentemente il male, lo bloccò e s’attirò l’elogio per il male domato. Uno solo si prese gioco di quelli che s’erano presi gioco per molto. Un solo medico divenne celebre per un male che parecchi medici avevano reso celebre. Proprio quando la mano di quella donna aveva distribuito grandi cifre, la sua piaga non ricevette alcuna guarigione; ma quando la sua mano si tese vuota, la cavità si riempi di salute. Finché la sua mano era ripiena di ricompense tangibili, essa era vuota di fede nascosta, ma quando si spogliò delle ricompense tangibili, fu ripiena di fede invisibile. Diede ricompense manifeste e non ricevette guarigione manifesta; diede una fede manifesta e ricevette una guarigione nascosta. Sebbene avesse dato ai medici il loro onorario con fiducia, non trovò per il suo onorario una ricompensa proporzionata alla sua fiducia; ma quando diede un prezzo preso con furto, allora ne ricevette il premio, quello della guarigione nascosta...

       E coloro che non erano stati capaci di guarire quest’unica donna coi loro rimedi, guarivano frattanto molti pensieri con le loro risposte. Nostro Signore, invece, capace di guarire ogni malato, non voleva mostrarsi capace di rispondere anche ad un solo interrogativo; conosceva quella risposta, ma descriveva in anticipo coloro che avrebbero detto: "Tu, con la tua venuta, dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera" (Jn 8,13). La sua potenza aveva guarito la donna, ma il suo parlare non aveva persuaso quella gente. Eppure, per quanto la sua lingua restasse muta, la sua opera risuonava come una tromba. Col suo silenzio soffocava l’orgoglio arrogante; con la sua domanda: "Chi mi ha toccato?" (Lc 8,45) e con la sua opera, la sua verità era proclamata.

       Se non ci fosse che un senso da dare alle parole della Scrittura, il primo interprete lo troverebbe, e gli altri uditori non avrebbero più il lavoro pesante della ricerca, né il piacere della scoperta. Ma ogni parola di Nostro Signore ha la sua forma, e ogni forma ha molti membri, e ogni membro ha la sua fisionomia propria. Ciascuno comprende secondo la sua capacità, e interpreta come gli è dato.

       È così che una donna si presentò a lui e che la guarì. Si era presentata davanti a parecchi uomini che non l’avevano guarita; avevano perduto il loro tempo con lei. Ma un uomo la guarì, quando il suo volto era girato da un’altra parte; egli biasimava così coloro che, con grande cura, si volgevano verso di lei, ma non la guarivano: "La debolezza di Dio è più forte degli uomini" (1Co 1,25). Sebbene il volto umano di Nostro Signore non poté guardare che da una sola parte, la sua divinità interiore aveva occhio dappertutto poiché vedeva da ogni lato.

       Efrem, Diatessaron, VII, 6, 19-23


2. La guarigione dell’emorroissa

«Colei che veniva a me, ha ricevuto la forza,
poiché un segreto vigore mi ha sottratto.

Perché, Simone figlio di Giovanni, tu mi dici
che una immensa folla addosso mi si accalca?

La mia divinità, essi non toccano.

Ma questa donna, nella visibil veste
la natura mia divina ha conquistato
in modo manifesto, e la salute ha avuto
gridandomi: Salvami, Signore! «.

Vedendosi non rimasta inavvertita,
così tra sé la donna rifletteva:
«Mi farò scorgere dal salvatore mio, Gesù,
adesso che dalle brutture mie sono mondata.

E invero adesso non ho più paura:
per suo volere infatti io compivo questo.

Ho fatto solo quel ch’ei desiderava:
Incontro a lui son corsa con la fede
dicendogli: Salvami, Signore!

Non ignorava certo il Creatore
quel ch’io facevo, bensì pietoso
egli mi ha sopportata. Solo toccandolo,
ho vendemmiato la forza, perché lui
s’è lasciato spogliare volentieri.

Così ora è sparita la paura d’esser vista,
davanti a Dio gridando ch’egli è il medico
degli infermi e il salvatore d’anime, signor
della natura, al quale io dico: Salvami, Signore!

A te ho ricorso, medico mio buono,
l’obbrobrio mio alfine rigettando.

Non levar contro di me tua collera,
non adirarti contro la tua serva:
solo per tuo volere io ho agito,
poiché, ancor prima di pensare all’atto,
presente, m’assistevi e m’incitavi a farlo.

Sapevi che il cuor mio gridava: Salvami, Signore!».

«Donna, coraggio ormai che per la fede
e col mio assenso tu mi hai spogliato.

Rassicurati ora, perché non è per farti biasimare
che in mezzo a tanta gente t’ho condotto,
ma per dar loro sicurezza: quando mi si spoglia
io mi rallegro, non muovo alcun rimbrotto.

Resta in buona salute, tu che in tutto il tuo male
mi gridavi: Salvami, Signore!

Non opra di mia mano è questo, ma della fede tua.

Molti infatti han toccato la mia veste,
senza però ricever forza, perché la fede non portavan seco.

Tu che con molta fede m’hai toccato,
hai colto della salute il frutto;
ecco perché davanti a tutti t’ho portato,
per farti dire ancora: Salvami, Signore!».

O Figlio incomprensibile di Dio, incarnato
per noi per amor dell’uomo,
come la donna dal suo sangue hai liberata,
così libera me dai miei peccati,
tu che unico senza peccato sei.

Per le preci e le suppliche dei santi,
inclina il cuore mio o sol potente,
alla meditazione incessante della tua parola,
sì che tu possa salvarmi.

       Romano il Melode, Hymn., 33, 15-21


3. Cristo ha vinto la morte

       "Giunto poi alla casa del capo della sinagoga e veduti i sonatori di flauto e molta gente che faceva grande strepito, cominciò a dire: «Ritiratevi, ché non è morta la fanciulla, ma dorme». E quelli lo deridevano" (Mt 9,23-24).

       Durante la tempesta riprende dapprima i discepoli; così, qui, dissipa anzitutto il turbamento che era nell’anima dei presenti e al tempo stesso dimostra che per lui è facile risuscitare i morti. Si comporta nell’identico modo prima di operare la risurrezione di Lazzaro, dicendo: "Lazzaro, l’amico nostro, dorme" (Jn 11,11). Insegna, inoltre, a non temere la morte: essa infatti non è più morte, ma è diventata sonno. Cristo, infatti, doveva di lì a poco morire, e voleva perciò preparare i discepoli, nella persona di altri, ad aver coraggio e a sopportare pazientemente la sua morte. Da quando egli è venuto sulla terra, la morte è divenuta soltanto un sonno...

       A quel tempo non era palese che la morte era diventata un sonno: oggi, invece, questa verità è più chiara del sole. Cristo non ha risuscitato la tua figliola? Ebbene, la risusciterà con assoluta certezza e con una gloria più grande. Quella fanciulla, dopo essere stata risuscitata, più tardi morì di nuovo: ma tua figlia, quando risusciterà, rimarrà per sempre immortale. Nessuno, dunque, pianga più i morti, nessuno si disperi, né rigetti così la vittoria di Cristo. Egli infatti ha vinto la morte. Perché dunque piangi senza motivo? La morte è diventata un sonno. A che pro gemi e ti lamenti? Se i gentili che si disperano sono degni d’esser derisi, quale scusa un cristiano potrà avere comportandosi in modo così disonorevole in tali circostanze? Come potrà farsi perdonare tale stoltezza e insipienza, dopo che la risurrezione è stata provata molte volte e in modo evidente durante tanti secoli? Ma voi, come se foste impegnati ad accrescere la vostra colpa, portate qui tra noi donne pagane, pagate per piangere ai funerali e attizzare in tal modo la fiamma del vostro dolore e non ascoltate Paolo che dice: "Quale accordo può esserci tra Cristo e Belial? O quale cosa di comune tra il fedele e l’infedele?" (2Co 6,15). Gli stessi pagani, che pure non credono nella risurrezione, finiscono col trovare argomenti di consolazione e dicono: Sopporta con coraggio; non è possibile eliminare quanto è accaduto e con le lacrime non ottieni nulla. E tu che ascolti parole tanto più sublimi e consolanti di queste, non ti vergogni di comportarti in modo più sconveniente dei pagani? Noi non ti esortiamo a sopportare con fermezza la morte, dato che essa è inevitabile e irrimediabile; al contrario ti diciamo: Coraggio, c’è la risurrezione con assoluta certezza: dorme la fanciulla e non è morta; riposa, non è perduta per sempre. Sono infatti ad accoglierla la risurrezione, la vita eterna, l’immortalità e l’eredità stessa degli angeli. Non senti il salmo che dice: "Torna, anima mia, nel tuo riposo, perché Dio ti ha fatto grazia" (Ps 114,7)? Dio chiama «grazia» la morte, e tu ti lamenti?

       Crisostomo Giovanni, Comment. in Matth., 31, 2


4. Dio offre misericordia; la disperazione viene dal demonio

       Non devi, o uomo, diffidare di Dio e disperare della sua misericordia; non voglio che tu dubiti di poter cambiare in meglio; se il diavolo ti ha potuto trascinare dalle altezze celesti della virtù fino in fondo al baratro del male, quanto più potrà Dio riportarti al vertice più alto del bene e non solo rifarti quello che eri, ma anche farti molto più beato di quanto fossi prima? Non ti scoraggiare e non ti nascondere la speranza del bene perché non ti avvenga ciò che avviene agli empi; non è, infatti, la moltitudine dei peccati che induce la disperazione, ma l’empietà; perciò Salomone disse: "Tutti quelli che giungono al fondo del male, disprezzano" (Pr 18,3). È proprio degli empi, dunque, disperare e disprezzare, quando son giunti al fondo del peccato. L’empietà non gli consente di rivolgersi a Dio e di tornare là donde son caduti. Questo pensiero, dunque, che stronca la speranza della conversione, nasce da empietà e come un masso pesantissimo grava sulla cervice dell’anima, la forza a guardare sempre a terra, non le consente di alzar gli occhi verso il suo Signore; ma un animo virile e una mente illuminata deve strappare dal suo capo un peso inimicissimo dell’anima sua, deve cacciare il diavolo che l’opprime e imporsi alla sua anima per dire al Signore cantando le parole profetiche: «Come gli occhi degli schiavi son nelle mani dei loro padroni, come gli occhi della schiava son nelle mani della sua padrona, così gli occhi nostri si volgono al Signore Dio nostro, perché abbia pietà di noi. Pietà di noi, Signore, pietà di noi, perché siamo strapieni d’avvilimento» (Ps 122,2). È singolare questa dottrina e di celeste filosofia. Dice: «Siamo strapieni d’avvilimento» e ci vuole insegnare che, sebbene siamo ricolmi d’umiliazione a causa della moltitudine dei nostri peccati, i nostri occhi tuttavia si rivolgono al Signore nostro Dio, perché abbia pietà di noi e non finiremo di pregare finché non abbiamo ottenuto il perdono. Questo è proprio dell’anima perseverante, che non tralasci mai di sperare, ma che insista sempre nella preghiera fino a quando ottiene misericordia. E perché tu non pensi di far piuttosto una offesa, chiedendo troppo importunamente una cosa che non meriti, ricordati la parabola del Vangelo e ivi troverai che i peccatori insistenti non sono sgraditi al Signore, il quale, anzi, dice: «Se non lo darà a titolo di amicizia, almeno, per liberarsi da un fastidio, si alzerà e gli darà tutto ciò che gli serve». Renditi conto, allora, o carissimo, che il diavolo insinua la disperazione nella preghiera, proprio per sradicare la speranza nella misericordia di Dio, che è l’ancora della nostra salvezza e il fondamento della nostra vita, guida nel cammino, che porta al cielo, onde l’Apostolo dice: "Per la speranza siamo stati salvati" (Rm 8,24).

       Rabano Mauro, De moto poenit., 4


5. Cristo è toccato dalla fede

       Cominciò a sperare in un rimedio che potesse salvarla: riconobbe che il tempo era venuto per il fatto che si presentava un medico dal cielo, si levò per andare incontro al Verbo, vide che egli era pressato dalla folla.

       Ma non credono coloro che premono intorno, credono quelli che lo toccano. Cristo è toccato dalla fede, è visto dalla fede, non lo tocca il corpo, non lo comprendono gli occhi; infatti non vede colui che non guarda pur avendo gli occhi, non ode colui che non intende ciò che ode, e non tocca colui che non tocca con fede...

       Se ora noi consideriamo fin dove giunge la nostra fede e se comprendiamo la grandezza del Figlio di Dio, vediamo che a suo confronto noi non possiamo che toccare la frangia del suo vestito, senza poterne toccare le parti superiori. Se dunque anche noi vogliamo essere guariti, tocchiamo la frangia della tunica di Cristo.

       Egli non ignora quelli che toccano la sua frangia, e che lo toccano quando egli è voltato dall’altra parte. Dio non ha bisogno degli occhi per vedere, non ha sensi corporali, ma possiede in se stesso la conoscenza di tutte le cose. Felice dunque chi tocca almeno la parte estrema del Verbo: e chi mai potrebbe riuscire a toccarlo tutto intero?

       Ambrogio, Exp. in Luc., 6, 57-59


6. Dio è la gloria dell’uomo

       Dio è, in verità, la gloria dell’uomo; e, d’altro canto, l’uomo stesso è il ricettacolo dell’attività di Dio, di tutta la sua sapienza e potenza. E come il medico effettua i suoi esperimenti su coloro che sono malati, così Dio si manifesta negli uomini.

       Ireneo di Lione, Adv. haer., III, 20, 2




XIV DOMENICA

119 Letture:
    
Ez 2,2-5
     2Co 12,7-10
     Mc 6,1-6


1. Il profeta è disprezzato nella sua patria

       Venuto, dunque, nel suo paese, Gesù si astiene dai miracoli per non infiammare ulteriormente l’invidia dei suoi compaesani e non doverli condannare più duramente per la loro testarda incredulità; ma, in cambio, espone loro la sua dottrina, che, certo, non merita minor ammirazione dei miracoli. Tuttavia, costoro, completamente insensati, mentre dovrebbero ascoltare con intenso stupore e ammirare la forza delle sue parole, al contrario lo disprezzano per l’umile condizione di colui che ritengono suo padre. Eppure hanno molti esempi, verificatisi nei secoli precedenti, di figli illustri nati da padri oscuri. Così David era figlio di Jesse, umile agricoltore; Amos era figlio di un guardiano di capre e pastore lui stesso; Mosè, il legislatore, aveva un padre assai meno illustre di lui. Dovrebbero, quindi, onorare e ammirare Gesù proprio per questo fatto: che, pur sembrando loro di umile origine, insegna quella dottrina. È ben evidente così che la sua sapienza non deriva da studio, ma dalla grazia divina. Invece lo disprezzano per ciò che dovrebbero, al contrario, ammirare. D’altra parte Gesù frequenta le sinagoghe per evitare di essere accusato come solitario e nemico della convivenza umana, il che sarebbe accaduto se egli fosse vissuto sempre nel deserto. "Ed essi ne restavano stupiti e dicevano: Donde viene a costui questa sapienza e questa potenza?" (Mt 13,54), chiamando potenza la sua facoltà di operare miracoli o anche la sua stessa sapienza. "Non è questi il figlio del falegname?" (Mt 13,55). Quindi più grande il prodigio, e maggiore lo stupore. "Sua madre non si chiama Maria? E i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe Simone e Giuda? E le sorelle sue non sono tutte qui fra noi? Donde mai gli viene tutto questo? E si scandalizzavano di lui" (Mt 13,55-57). Vedete che Gesù parla proprio a Nazaret? Non sono suoi fratelli, dicono, il tale e il tal altro? E che importa? Questa dovrebbe essere la ragione più valida per credere in lui. Purtroppo l’invidia è una passione malvagia e spesso combatte e contraddice se stessa. Ciò che è straordinario, sorprendente e suscettibile di attirarli a Gesù, questo invece li scandalizza.

       Che risponde loro Cristo? «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e nella propria sua casa». "E non operò molti miracoli, a causa della loro incredulità" (Mt 13,57-58). Anche Luca da parte sua riferisce che non fece lì molti miracoli (Lc 4,16-30). Ma, mi direte voi, sarebbe stato naturale e logico farli. Se Gesù aveva la possibilità di suscitare ammirazione - come in realtà avvenne -, per qual motivo non operava miracoli? Sta di fatto che egli non aveva di mira la propria gloria, ma il loro bene. Tuttavia poiché questo bene non si realizzava, Cristo trascurò la propria manifestazione per non aumentare il castigo dei suoi compaesani. Osservate dopo quanto tempo e dopo quale dimostrazione di miracoli egli torna presso di loro: ma neppur così lo accolgono, anzi si accendono più vivamente di invidia. E perché allora, voi chiederete, Gesù ha operato qualche miracolo? L’ha fatto perché non gli dicessero: "Medico, cura te stesso" (Lc 4,23), e non affermassero che egli era avversario e nemico loro e disprezzava i suoi concittadini; non voleva infine sentir dire: Se avesse operato miracoli, noi pure avremmo creduto. Per questo egli opera qualche miracolo e in seguito si ritira, compiendo, da una parte, ciò che spetta a lui ed evitando dall’altra di condannarli più severamente. Ebbene, osservate ora la potenza delle parole di Cristo: malgrado fossero dominati dall’invidia, quelli tuttavia restano stupiti. E come nelle sue opere non biasimano l’atto in se stesso, ma immaginano cause inesistenti dicendo: «In virtù di Beelzebul caccia i demoni», così anche ora non condannano la sua dottrina, ma ricorrono, per disprezzarlo, all’umiltà della sua origine. Ammirate d’altra parte la moderazione del Maestro: egli non li biasima con violenza, ma dichiara con molta mitezza: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria», e non si ferma qui, ma aggiunge: «e nella sua stessa casa», alludendo, io credo, con queste ultime parole ai suoi parenti.

       Crisostomo Giovanni, Comment. in Matth., 48, 1


2. La famiglia di Gesù

       Circa l’esclamazione: "Donde gli viene tanta sapienza?" (Mt 13,54), essa mostra chiaramente la sapienza superiore e sconvolgente delle parole di Gesù, che si è meritata l’elogio: "Ed ecco che qui vi è più di Salomone" (Mt 12,42). E i miracoli da lui compiuti erano più grandi di quelli di Elia e di Eliseo, persino più grandi di quelli, più antichi, di Mosè e di Giosuè figlio di Nun. Mormoravano stupiti, perché non sapevano che egli era nato da una vergine, oppure non lo avrebbero creduto neppure se glielo avessero detto, mentre supponevano che egli fosse il figlio di Giuseppe, l’artigiano: "Non è egli figlio del falegname?" (Mt 13,55). E pieni di disprezzo verso tutto ciò che poteva sembrare la sua parentela più prossima, dicevano: "Sua madre non si chiama Maria, e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte tra di noi?" (Mt 13,55 Mt 13,56). Lo ritenevano dunque figlio di Giuseppe e di Maria. Quanto ai fratelli di Gesù, taluni pretendono, appoggiandosi al cosiddetto vangelo «secondo Pietro» o al «libro di Giacomo» [apocrifi], che essi siano i figli di Giuseppe, nati da una prima moglie che egli avrebbe avuto prima di Maria. I sostenitori di questa teoria vogliono salvaguardare la credenza nella verginità perpetua di Maria, non accettando che quel corpo, giudicato degno di essere al servizio della parola che dice: "Lo Spirito di santità scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo poserà su di te la sua ombra" (Lc 1,35), conoscesse il letto di un uomo, dopo aver ricevuto lo Spirito di santità e la potenza discesa dall’alto, che la ricoprì con la sua ombra. Da parte mia, penso che sia ragionevole vedere in Gesù le primizie della castità virile nel celibato, e in Maria quelle della castità femminile, sarebbe in effetti sacrilego attribuire ad un’altra tali primizie della verginità...

       Le parole: "E le sue sorelle non sono tutte tra di noi?", mi sembrano avere il seguente significato: la loro sapienza e la nostra, non certo quella di Gesù, e nulla vi è in loro che sia a noi estraneo, la cui comprensione ci rimanga difficile, come in Gesù. È possibile che, attraverso queste parole, affiori un dubbio circa la natura di Gesù, che non sarebbe un uomo, bensì un essere superiore, poiché, pur essendo, come essi credono, figlio di Giuseppe e di Maria, e pur avendo quattro fratelli, come pure alcune sorelle, non somiglia ad alcuno dei suoi prossimi e, senza aver ricevuto una istruzione e senza maestri, ha raggiunto un tale grado di sapienza e di potenza. Difatti, dicevano altrove: "Come fa costui a conoscere le Scritture, senza avere studiato?" (Jn 7,15). È un testo simile a quello qui riportato. Tuttavia coloro che parlavano in questo modo, pieni di un tal dubbio e di stupore, ben lontani dal credere, si scandalizzavano a suo riguardo (Mt 13,57), come se gli occhi della loro mente fossero asserviti (Lc 24,16) da potenze di cui egli avrebbe trionfato (Col 2,15) sul legno, nell’ora della sua Passione...

       È venuto il momento di illustrare il passo: "Colà, egli non fece molti miracoli, a causa della loro incredulità" (Mt 13,58). Queste parole ci insegnano che i miracoli si compivano in mezzo ai credenti, poiché "a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza" (Mt 25,29), mentre invece tra gli increduli i miracoli non solo non producevano effetto, ma addirittura, come ha scritto Marco, non potevano produrlo. Fa’ attenzione, infatti, a queste parole: "Non poté compiere alcun miracolo"; difatti, non ha detto: "Non volle".... bensì: "Non poté"... (Mc 6,5), perché si sovrappone al miracolo che sta per compiersi una collaborazione efficace proveniente dalla fede di colui su cui agisce il miracolo, e che l’incredulità impedisca tale azione. Di modo che, è il caso di sottolinearlo, a coloro che hanno detto: "Per quale motivo non abbiamo potuto scacciarlo?", egli ha risposto: "A causa della vostra poca fede" (Mt 17,19-20), e a Pietro che cominciava ad affondare, fu detto: "Uomo di poca fede, perché hai dubitato?" (Mt 14,31). L’emorroissa, al contrario, senza aver neppure richiesta la guarigione, diceva tra sé semplicemente che "se avesse potuto toccare solo il lembo del suo mantello" (Mc 5,28), sarebbe guarita, e lo fu all’istante (Mt 9,22 Lc 8,47); e il Signore riconobbe quel modo di guarire, quando disse: "Chi mi ha toccato? Perché ho avvertito una potenza uscire da me" (Lc 8,46 Mt 5,30). E come taluni, quando si tratta dei corpi, esercitano una specie di attrazione naturale sugli altri - sul tipo di ciò che avviene tra la calamita e il ferro o tra la nafta e il fuoco -, così una fede del genere attira forse il miracolo divino; ecco perché egli ha anche detto: "Se aveste fede quanto un granello di senapa, direte a questo monte: «spostati da qui a là"», ed esso si sposterà" (Mt 17,20).

       Mi sembra che, però, Matteo e Marco abbiano voluto stabilire la netta superiorità della potenza divina, capace di agire anche in mezzo all’incredulità, senza tuttavia dimostrare la stessa potenza che di fronte alla fede di coloro che beneficiano del miracolo; quando il primo non ha detto che "egli non fece miracoli a causa della loro incredulità," bensì che "colà, egli non fece molti miracoli" (Mt 13,58); quando invece Marco dice: "In quel luogo non poté compiere alcun miracolo", non si limita a questo bensì aggiunge: "tranne che impose le mani su alcuni malati e li guarì"(Mc 6,5), poiché la potenza che è in lui trionfa, in tali condizioni, della stessa incredulità.

       Origene, Comment. in Matth., 10, 17-19


3. Domiziano dà ordine di uccidere i discendenti di David

       Il medesimo Domiziano comandò che fossero uccisi quelli di stirpe davidica. Un’antica tradizione racconta che degli eretici denunziarono [perfino] i discendenti di Giuda, fratello del Signore secondo la carne, rilevando la loro derivazione genealogica da David e la loro parentela con Cristo. Egesippo stesso mette in chiaro tutto ciò esprimendosi in questi termini:

       «In quel tempo vivevano ancora i parenti del Salvatore vale a dire i nepoti di Giuda, che fu detto fratello di Lui secondo la carne (Mt 13,55 Mc 6,3). Denunziati come discendenti di David, "dall’evocatus" furono condotti davanti a Domiziano, il quale al pari di Erode paventava la venuta di Cristo.

       L’imperatore cominciò a domandar loro se provenissero dalla stirpe di David e quelli risposero di sì. Domandò loro quante possessioni avessero e quanto denaro. Risposero che tutti e due assieme possedevano novemila denari, metà ciascuno; aggiunsero però che non li avevano in contanti, ma in terre dell’estensione di trentanove pletri, da essi lavorate per pagare i tributi e per il necessario alla vita.

       E gli mostrarono le mani e, a prova della loro personale fatica, gli facevano vedere le membra rudi e le callosità delle ruvide palme a causa del continuo lavoro.

       Interrogati intorno al Cristo e al Suo regno, intorno alla natura, al tempo e al luogo della Sua venuta, risposero che l’impero di Cristo non è mondano e terreno, ma celeste e angelico; che si attuerà alla fine dei tempi, quando Egli verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti, e renderà a ciascuno secondo le opere sue (Mt 16,27 Ac 10,42 Rm 2,6 2Tm 4,1).

       Udito questo, non li condannò: ebbe invece un pensiero di sprezzo per la loro condizione sì bassa, li rimise in libertà e, con un editto, fece cessare la persecuzione contro la Chiesa.

       Essi, poi, liberati, furono posti a capo delle Chiese, come martiri e parenti del Signore e, venuta la pace, vissero fino ai tempi di Traiano».

       Eusebio di Cesarea, Hist. eccles., 3, 19 s.


4. Solo Dio è autore in senso proprio

       Vediamo, dunque, da quale fonte abbia origine questo nostro sole! Come è vero nasce da Dio, che ne è l’autore. È figlio pertanto della divinità; dico, della divinità non soggetta a corruzione, intatta, senza macchia. Capisco il mistero facilmente. Perciò la seconda nascita per mezzo della immacolata Maria, poiché in un primo tempo era rimasta illibata a causa della divinità, la prima nascita fu gloriosa, affinché la seconda non diventasse ingiuriosa, cioè come vergine la divinità lo aveva generato, così anche la Vergine Maria lo generasse. È scritto di avere un padre presso gli uomini, come leggiamo nel Vangelo ai Farisei che dicevano: " Non è questi figlio di Giuseppe il falegname, e Maria non è sua Madre?" (Mt 13,55).

       In questo anche avverto il mistero.

       Il padre di Gesù è chiamato falegname; è pienamente fabbro Dio Padre, che ha creato le opere di tutto il mondo.

       Massimo di Torino, Sermo, 62, 4




XV DOMENICA

120 Letture:
    
Am 7,12-15
     Ep 1,3-14
     Mc 6,7-13


1. Le caratteristiche della missione dei discepoli

       "E percorreva i villaggi circostanti insegnando. Chiamò poi i dodici e cominciò a mandarli a due a due a predicare e dava loro il potere sugli spiriti immondi" (Mc 6,6-7).

       «Benevolo e clemente, il Signore e maestro non rifiuta ai servi e ai discepoli i suoi poteri, e, come egli aveva curato ogni malattia e ogni debolezza, così dà agli apostoli il potere di curare ogni malattia ed ogni infermità. Ma c’è molta differenza tra l’avere e il distribuire, il donare e il ricevere. Gesù, quando opera, lo fa col potere di un padrone; gli apostoli, se compiono qualcosa, dichiarano la loro nullità e la potenza del Signore con le parole: "Nel nome di Gesù, alzati e cammina"» (Girolamo).

       "E ordinò loro di non prender nulla per il viaggio se non un bastone soltanto, non bisaccia, non pane, né denaro nella cintura, ma andassero calzati di sandali e non indossassero due tuniche" (Mc 6,8-9).

       «Tanto grande dev’essere nel predicatore la fiducia in Dio che, sebbene non si preoccupi delle necessità della vita presente, tuttavia deve sapere con certezza che non gli mancherà niente. E questo per evitare che, se la sua mente è presa da preoccupazioni terrene, egli non rallenti nell’impegno di comunicare agli altri le parole eterne (Greg. Magno).

       Quando infatti - secondo Matteo - disse loro: "Non vogliate possedere né oro né argento" - con quel che segue, - subito aggiunse: "Perché l’operaio ha diritto al suo sostentamento" (Mt 10,9-10). Mostra insomma chiaramente perché non ha voluto che essi possedessero né portassero seco quei beni; non perché questi non siano necessari al sostentamento di questa vita, ma perché egli li inviava in modo da far capire loro che tali beni erano loro dovuti dai credenti ai quali avrebbero annunziato il vangelo. È chiaro dunque che il Signore non ordinò queste cose come se gli evangelisti non dovessero vivere di altro che di ciò che offrivano loro i fedeli cui essi annunziavano il vangelo (altrimenti si sarebbe comportato in modo opposto a questo precetto l’Apostolo [cf. 1Th 2,9 ], che era solito ricavare il sostentamento dal lavoro delle sue mani per non essere di peso a nessuno), ma dette loro una libertà di scelta nell’uso della quale dovevano sapere che il sostentamento era loro dovuto. Quando il Signore comanda qualcosa, se questa non si compie, la colpa è della disobbedienza. Ma quando è concessa la facoltà di scelta, è lecito a ciascuno non usufruirne o sottostarvi liberamente. Ebbene il Signore, col dare l’ordine, che l’Apostolo ci riferisce (1Co 2,9) essere stato da lui dato, a quanti annunziano il Vangelo, cioè di vivere della predicazione del Vangelo, intendeva dire agli apostoli che non dovevano possedere né dovevano avere preoccupazioni; che non dovevano portare con sé né tanto né poco di ciò che era necessario a questa vita; per questo aggiunse: "neppure il bastone", per sottolineare che da parte dei fedeli suoi tutto è dovuto ai suoi ministri che non chiedono nulla di superfluo. Aggiungendo poi "infatti l’operaio ha diritto al suo sostentamento", ha chiarito e precisato il perché delle sue parole. Ha simboleggiato nel bastone questa facoltà di scelta, dicendo che non prendessero per il viaggio altro che un bastone, per fare unicamente intendere che in grazia di quella potestà ricevuta dal Signore, e raffigurata nel bastone, gli apostoli non mancheranno neppure delle cose che non portano seco. La stessa cosa deve intendersi delle due tuniche nessuno di loro ritenga di doverne portare un’altra oltre quella che indossa, timoroso di poterne avere bisogno, in quanto può averla grazie a quella potestà di cui abbiamo parlato».

       Beda il Venerabile, In Evang. Marc., 2, 6, 6-9


2. La vocazione degli apostoli

       I discepoli di Giovanni, avendolo sentito parlare con Nostro Signore, abbandonarono il loro maestro e seguirono Nostro Signore. La voce non poteva trattenere discepoli accanto a sé, e li inviò al Verbo (Jn 1,29-37). Conviene, infatti, che all’apparire della luce del sole, si spenga la luce della lanterna. Giovanni non restò che per porre fine al proprio battesimo con il battesimo di Nostro Signore; poi morì, e tra i morti fu un araldo coraggioso come lo era stato nel seno di sua madre, simbolo del sepolcro.

       Le parole: "Abbiamo trovato il Signore" (Jn 1,41), manifestano che la fama del Signore si era diffusa fin dall’epoca dei Magi e si era rafforzata a motivo del battesimo da parte di Giovanni e della testimonianza dello Spirito. Ora il Signore si era allontanato, si era reso di nuovo invisibile per il suo digiuno di quaranta giorni. Sicché le anime rattristate desideravano avere sue notizie; erano suoi strumenti, secondo la sua parola: "Io ho scelto voi prima della creazione del mondo" (Jn 15,16 Jn 15,19 Ep 1,4). Si è scelto dei Galilei, un popolo rozzo - infatti i profeti li hanno chiamati gente rozza e abitatori delle tenebre (Is 9,1) -, ma sono essi che hanno visto la luce e i dottori della legge ne restarono confusi: "Dio ha scelto gli stolti del mondo per confondere con essi i sapienti" (1Co 1,27) ...

       Vennero a lui pescatori di pesci e divennero pescatori di uomini (Lc 5,10), come è scritto: "Ecco io invierò numerosi pescatori" - dice il Signore -" che li pescheranno; quindi invierò numerosi cacciatori che daranno loro la caccia su ogni monte, su ogni colle" (Jr 16,16). Se avesse inviato dei sapienti, si sarebbe potuto dire che essi avrebbero persuaso il popolo e l’avrebbero di conseguenza conquistato, o che essi l’avrebbero ingannato e così preso. Se avesse inviato dei ricchi, si sarebbe detto che essi avrebbero schernito il popolo nutrendolo oppure che l’avrebbero corrotto con l’argento, e in questo modo dominato. Se avesse inviato degli uomini forti, si sarebbe detto che questi li avrebbero sedotti con la forza, o costretti con la violenza.

       Ma gli apostoli non avevano nulla di tutto ciò. Il Signore lo indicò a tutti con l’esempio di Simone. Era pusillanime, poiché fu colto da spavento alla voce di una serva; era povero, infatti non poté nemmeno pagare la sua parte di tributo, un mezzo statere: "Non possiedo né oro, dice, né argento" (Ac 3,6 Mt 17,24-27). Era incolto, poiché quando rinnegò il Signore, non seppe tirarsi indietro con l’astuzia.

       Dunque partirono, questi pescatori di pesci, e riportarono la vittoria sui forti, i ricchi e i sapienti. Miracolo grande! Deboli com’erano, attraevano, senza violenza, i forti alla loro dottrina; poveri, istruivano i ricchi; ignoranti, facevano dei saggi e dei prudenti i loro discepoli. La sapienza del mondo ha ceduto il posto a quella sapienza che è di per sé sapienza delle sapienze.

       Efrem, Diatessaron, 4, 3, 17 s. 20


3. Tipologia dell’annunciatore del Regno

       "E ogni volta che qualcuno non vi riceverà, uscendo da quella città scuotete la polvere dai vostri piedi, in testimonianza contro di loro" (Lc 9,5).

       Gli insegnamenti del Vangelo indicano come deve essere colui che annunzia il Regno di Dio: senza bastone, senza bisaccia, senza calzature, senza pane, senza denaro, cioè a dire non preoccupato di cercare l’appoggio dei beni di questo mondo, stando sicuro nella sua fede che quanto meno cercherà i beni temporali tanto più essi gli basteranno. Chi vuole, può intendere tutto questo passo nel senso che esso ha lo scopo di formare uno stato d’animo tutto spirituale, come di chi si è spogliato del corpo a mo’ d’un vestito, non soltanto rinunziando a ogni forma di potere e disprezzando le ricchezze, ma ignorando anche ogni bisogno della carne.

       A costoro è fatta, prima di tutto, una raccomandazione generale che riguarda la pace e la costanza: essi porteranno ovunque la pace, andranno con costanza, osserveranno le norme e gli usi dell’ospitalità, poiché non si addice al predicatore del regno celeste correre di casa in casa e mutare con ciò le leggi inviolabili appunto dell’ospitalità. Ma se si suppone che generalmente sarà loro offerto il beneficio dell’ospitalità, tuttavia, nel caso che essi non siano bene accolti, vien loro impartito l’ordine di scuotersi la polvere di dosso e uscire dalla città. Questo ci insegna che una generosa ospitalità non riceve una ricompensa mediocre: non soltanto infatti noi procuriamo la pace ai nostri ospiti ma, se essi sono coperti da una leggera polvere di colpa, potranno togliersela accogliendo bene i predicatori apostolici. Non senza motivo in Matteo viene ordinato agli apostoli di scegliere bene la casa dove entreranno (Mt 10,11), in modo da non trovarsi nella necessità di cambiare casa o di violare gli usi dell’ospitalità. Tuttavia, non si rivolge la stessa raccomandazione a colui che riceve l’ospite, nel timore che, operando una scelta fra gli ospiti, si finisca col limitare il dovere di ospitalità.

       Se noi con tutto questo abbiamo offerto, nel suo senso letterale, un valido precetto che riguarda il carattere religioso dell’ospitalità, tuttavia ci viene suggerita l’interpretazione spirituale del mistero. Ecco, quando si sceglie una casa, si ricerca un ospite degno. Vediamo un po’ se per caso non sia la Chiesa che viene indicata alla nostra ricerca, e vediamo se l’ospite da scegliere non sia per caso Cristo. C’è una casa più degna della santa Chiesa per accogliere la predicazione apostolica? E quale ospite potrà essere preferito a tutti gli altri, se non il Cristo? Egli è solito lavare i piedi ai suoi ospiti (Jn 13,5) e, quanti egli riceve nella sua casa, non tollera che vi soggiornino con i piedi sporchi, ma, per quanto fangosi possano essere a causa della vita passata, egli si degna di lavarli per consentire che sia proseguito il viaggio. È dunque lui che nessuno deve lasciare, né cambiare con un altro. A lui giustamente si dice: "Signore, a chi andremo noi? Tu hai parole di vita eterna, e noi crediamo" (Jn 6,68-69).

       Ambrogio, Exp. in Luc., 6, 65-67


4. Non possedere due tuniche

       È infatti un dovere proprio degli apostoli, piuttosto che del popolo, che se uno ha due tuniche, una la dia a chi non ne ha. E perché tu sappia che questo consiglio conviene agli apostoli più che alle folle, ascolta ciò che il Salvatore dice loro: "Non portate per via due tuniche" (Mt 10,10).

       Sta di fatto che questi due abiti, dei quali uno serve a vestirci e l’altro ci vien consigliato di darlo a chi non ne ha, hanno un altro significato. Insomma il Salvatore, così come noi «non dobbiamo servire due padroni» (Lc 16,3 Mt 6,24), vuole che non possediamo due tuniche e non siamo avvolti in un duplice abito, in quanto uno è l’abito del vecchio uomo e l’altro l’abito dell’uomo nuovo. Egli al contrario desidera vivamente che noi «ci spogliamo del vecchio uomo per rivestirci dell’uomo nuovo» (Col 3,9-10). Fin qui la spiegazione è facile.

       Ma ci si chiede soprattutto perché, alla luce di questa interpretazione, venga ordinato di dare una tunica a chi non ne ha. Qual è l’uomo che non ha sul suo corpo neppure un abito, che è nudo, che non è coperto assolutamente da nessuna veste? Io non dico in verità che con questo precetto non ci venga comandato di essere generosi, di avere pietà per i poveri e di possedere una bontà illimitata, tanto da spingerci a coprire coloro che sono nudi coll’altra nostra tunica; ma affermo che questo passo ammette un’interpretazione più profonda. Noi dobbiamo donare una tunica a chi ne è completamente sprovvisto: chi è quest’uomo senza tunica? È colui che è assolutamente privo di Dio. Noi dobbiamo spogliarci e dare la tunica a chi è nudo. Uno possiede Dio, e l’altro, cioè il potere avversario, ne è del tutto privo. E così come sta scritto: "precipitiamo i nostri delitti in fondo al mare" (Mi 7,19), nello stesso senso dobbiamo buttar via lontano da noi i vizi e i peccati e gettarli su colui che è stato per noi la causa di essi.

       Origene, In Evang. Luc., 23, 3


5. L’unzione dell’olio

       Cose simili a queste sono anche in Luca. Guarivano i malati ungendoli di olio è un particolare del solo Marco (Mc 6,13), ma c’è qualcosa di simile nella lettera Cattolica di Jc ove dice: "Sta male qualcuno in mezzo a voi, ecc." (Jc 5,14-15). L’olio è un rimedio per la stanchezza ed è fonte di luce e di gioia. L’unzione dell’olio, quindi, significa la misericordia di Dio, il rimedio delle malattie e l’illuminazione del cuore. Che la preghiera faccia tutto questo lo sanno tutti; l’olio, come credo, è simbolo di queste cose.

       Cirillo di Alessandria, In Marcum comment. 6, 13


6. Il sacerdote, profeta di verità, anche se sgradito

       Non è degno d’un imperatore interdire la libertà di parola e non è degno d’un sacerdote non dire ciò che pensa. Niente in voi imperatori è così democratico e amabile, quanto gradire la libertà, anche in quelli che vi devono l’obbedienza militare. Questa è la differenza che passa tra i buoni e i cattivi principi: i buoni amano la libertà, i cattivi la schiavitù. Niente in un sacerdote è cosi pericoloso presso Dio e turpe presso gli uomini quanto il non dire liberamente ciò ch’egli pensa. Sta scritto: "Parlavo a tua testimonianza in faccia ai re e non mi vergognavo" (Ps 118,46) e altrove: "Figlio dell’uomo, ti ho messo a guardia della casa d’Israele, perché, se il giusto dovesse lasciar la via della giustizia e commettesse un delitto e tu non gli dicessi niente, non rimarrà nessun ricordo della sua passata giustizia e chiederò conto a te della sua condanna. Se però tu aprirai gli occhi al giusto, in modo che non cada nel peccato, ed egli non peccherà, il giusto vivrà e, perché tu gli parlasti, anche la tua vita sarà salva" (Ez 3,17-19).

       Ambrogio, Epist., 40, 2





Lezionario "I Padri vivi" 118