Lezionario "I Padri vivi" 121

XVI DOMENICA B

121 Letture:
    
Jr 23,1-6
     Ep 2,13-18
     Mc 6,30-34

1. Gesù esige l’impegno di cercarlo

       Ritornati gli apostoli da Gesù, gli riferirono tutte le cose che avevano fatto e insegnato (Mc 6,30).

       Gli apostoli non riferiscono al Signore soltanto ciò che essi avevano fatto e insegnato, ma, come narra Matteo, i suoi discepoli, o i discepoli di Giovanni, gli riferiscono il martirio che Giovanni ha subito mentre essi erano impegnati nell’apostolato (Mt 14,12). Continua pertanto:

       "E disse loro: «Venite voi soli in un luogo deserto a riposarvi un poco»" (Mc 6,31), con quel che segue.

       Fa così non soltanto perché essi avevano bisogno di riposo, ma anche per un motivo mistico, in quanto, abbandonata la Giudea che aveva con la sua incredulità strappato via da sé il capo della profezia, era sul punto di largire nel deserto, ai credenti di una Chiesa che non aveva sposo, il cibo della parola, simile a un banchetto fatto di pani e di pesci. Qui infatti i santi predicatori, che erano stati a lungo schiacciati dalle pesanti tribolazioni nella Giudea incredula e contestataria, trovano pace grazie alla fede che viene concessa ai gentili. E mostra che vi era necessità di concedere un po’ di riposo ai discepoli con le parole che seguono:

       "Erano infatti molti quelli che venivano e quelli che andavano; ed essi non avevano neanche il tempo di mangiare" (Mc 6,31).

       È chiara da queste parole la grande felicità di quel tempo che nasceva dalla fatica incessante dei maestri e dallo zelo amoroso dei discenti. Oh, tornasse anche ai nostri giorni tanta felicità, in modo che i ministri della parola fossero talmente assediati dalla folla dei fedeli e degli ascoltatori da non avere più nemmeno il tempo di prendersi cura del proprio corpo! Infatti, gli uomini cui è negato il tempo di prendersi cura del corpo, hanno molto meno la possibilità di dedicarsi ai desideri terreni dell’anima o della carne; anzi, coloro da cui si esige in ogni momento, a tempo opportuno e importuno, la parola della fede e il ministero della salvezza, hanno di conseguenza l’animo sempre ardentemente proteso a pensare e a compiere cose celesti, in modo che le loro azioni non contraddicano gli insegnamenti che escono dalla loro bocca.

       "E saliti sulla barca, partirono per un luogo deserto e appartato" (Mc 6,32).

       I discepoli salirono sulla barca non soli, ma dopo aver con sé il Signore, e si recarono in un luogo appartato, come chiaramente racconta l’evangelista Matteo (Mt 14,13).

       "E li videro mentre partivano e molti lo seppero e a piedi da tutte le città accorsero in quel luogo e li precedettero" (Mc 6,33)

       Dicendo che li precedettero a piedi, si deduce che i discepoli col Signore non andarono con la barca all’altra riva del mare o del Giordano ma, varcato con la barca un braccio di mare o del lago, raggiunsero una località vicina a quella stessa regione che gli abitanti del luogo potevano raggiungere anche a piedi.

       "E uscito dalla barca, Gesù vide una grande folla, e si mosse a compassione di loro, perché erano come pecore senza pastore, e prese a dare loro molti insegnamenti" (Mc 6,34).

       Matteo spiega più chiaramente in qual modo ebbe compassione di loro, dicendo: "Ebbe misericordia della folla e risanò i loro ammalati" (Mt 14,14). Questo è infatti nutrire veramente compassione dei poveri e di coloro che non hanno pastore, cioè mostrare loro la via della verità con l’insegnamento, liberarli con la guarigione dalle malattie corporali, ma anche spingerli a lodare la sublime liberalità del Signore ristorando gli affamati. Le parole seguenti di questo passo sottolineano appunto che egli fece tutto questo. Mette alla prova la fede delle folle e, dopo averla provata, la ricompensa con un degno premio. Cercando infatti la solitudine, vuol vedere se le folle vogliono o no seguirlo. Esse lo seguono e, compiendo il viaggio fino al deserto, «non su cavalcature o su carri, ma con la fatica dei loro piedi» (Girolamo), dimostrano quale pensiero essi abbiano per la loro salvezza. E Gesù, come colui che può, ed è salvatore e medico, fa intendere quanta consolazione riceva dall’amore di coloro che credono in lui, accogliendo gli stanchi, ammaestrando gli ignoranti, risanando gli infermi e ristorando gli affamati. Ma secondo il significato allegorico, molte schiere di fedeli, dopo aver abbandonato le città dell’antica vita, ed essersi liberati dall’appoggio di varie dottrine, seguono Cristo che si dirige nel deserto dei gentili. E colui che era un tempo «Dio conosciuto solo in Giudea» (Ps 75,2), dopo che i denti dei giudei sono diventati «armi e frecce, e la loro lingua una spada tagliente», viene esaltato «come Dio al di sopra dei cieli e la sua gloria si diffonde su tutta la terra»«(Ps 56,5-6).

       Beda il Venerabile, In Evang. Marc., 2, 6, 30-34


2. Il comando di Dio: la continenza

       Ogni mia speranza è posta nell’immensa grandezza della tua misericordia. Da’ ciò che comandi e comanda ciò che vuoi. Ci comandi la continenza e qualcuno disse: "Conscio che nessuno può essere continente se Dio non lo concede, era già un segno di sapienza anche questo, di sapere da chi ci viene questo dono". La continenza in verità ci raccoglie e riconduce a quell’unità, che abbiamo lasciato disperdendoci nel molteplice. Ti ama meno chi ama altre cose con te senza amarle per causa tua. O amore, che sempre ardi senza mai estinguerti, carità, Dio mio, infiammami! Comandi la continenza. Ebbene, da’ ciò che comandi e comanda ciò che vuoi.

       Agostino, Confess., 10, 29, 40


3. Valore della misericordia

       Dio ha tanta premura per la misericordia, che, fattosi uomo e vivendo con noi, non disdegnò e non ebbe vergogna di distribuire lui stesso ciò che serviva ai poveri. Sebbene avesse creato tanto pane e potesse fare, con una parola, tutto ciò che voleva, sebbene potesse allineare tutti insieme centinaia di tesori, non ne fece nulla; invece volle che i suoi discepoli avessero un borsello e che lo portassero appresso, per avere di che soccorrere gl’indigenti. Dio, infatti, fa gran conto della misericordia; non solo della sua, ma anche della nostra verso i fratelli; e fece molte leggi nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, che hanno per oggetto la misericordia in parole, in danaro e in opere. Di questa parla Mosè a ogni passo: questa a nome di Dio proclamano i Profeti - "Voglio misericordia e non sacrificio" (Os 6,6) -; gli Apostoli dicono e fanno la stessa cosa (Mt 9,13). Non la trascuriamo, allora; non giova solo ai poveri, giova anche a noi; riceviamo più di quanto diamo.

       Crisostomo Giovanni, De eleemos., 5


4. Dio si fa uomo per amore

       Per qual motivo mai, ci si chiede, Dio si è umiliato a tal segno, che la fede rimane sconcertata di fronte al fatto che egli, benché non possa esser posseduto né compreso dalla ragione e non si diano parole all’altezza di descriverlo, giacché trascende ogni definizione ed ogni limite, venga poi a mischiarsi con l’involucro meschino e volgare della natura umana, al punto da far apparire le sue sublimi e celesti opere come vili anch’esse, in seguito ad una mescolanza così disdicevole?

       Non ci manca certo la risposta che conviene a Dio. Tu vuoi sapere il motivo per il quale Dio è nato fra gli uomini? Ebbene, se tu eliminassi dalla vita i benefici che hai ricevuto da Dio, non potresti certo più indicare le cose attraverso le quali riconosci Dio. Noi riconosciamo la sua opera, infatti, proprio per il tramite di quei benefici di cui veniamo gratificati: è osservando ciò che accade, appunto, che noi individuiamo la natura di chi compie l’opera. Se, adunque, l’indizio e la manifestazione tipica della natura divina sono rappresentati dalla benevolenza di Dio nei confronti degli uomini, ecco che tu hai la risposta che chiedevi, il motivo, cioè, in base al quale Dio è venuto fra gli uomini. La nostra natura, infatti, afflitta com’era da una malattia, aveva bisogno di un medico. L’uomo, che era caduto, aveva bisogno di chi lo rimettesse in piedi. Chi aveva perduto la vita, aveva bisogno di chi la vita gli restituisse. Occorreva, a chi aveva smesso di compiere il bene, qualcuno che sulla via del bene lo riconducesse. Invocava la luce chi era prigioniero delle tenebre. Il detenuto aveva bisogno di chi lo liberasse, l’incatenato di chi lo sciogliesse, lo schiavo di chi lo affrancasse. Ora, son forse questi dei motivi futili e inadeguati perché Dio se ne sentisse stimolato a discendere in mezzo all’umanità, afflitta in questo modo dall’infelicità e dalla miseria?

       Gregorio di Nissa, Catech. magna, 14-15


5. Pur rinnovati in Cristo, portiamo il peso della carne

       Dobbiamo considerare attentamente ciò che noi stessi siamo, e ciò che abbiamo intrapreso a esaminare. Siamo uomini, portiamo il peso della carne, siamo pellegrini in questa vita: anche se siamo stati rigenerati dalla parola di Dio, siamo stati rinnovati in Cristo, ma in modo da non essere ancora del tutto spogliati della antica natura di Adamo. E manifesto che quanto c’è in noi di mortale e di corruttibile, che opprime la nostra anima, deriva da Adamo (Sg 9,15), mentre quanto c’è in noi di spirituale, che innalza l’anima, deriva dal dono di Dio e dalla misericordia di colui che mandò il suo Unigenito a condividere con noi la nostra morte, per condurci alla sua immortalità. Egli è il nostro maestro, che ci insegna a non peccare; il nostro intercessore, se avremo peccato e ci saremo confessati e saremo tornati a Dio; il nostro avvocato, se desideriamo dal Signore qualche grazia; ed è lui stesso, con il Padre, che ci elargisce doni e grazie, perché Padre e Figlio sono un solo Dio. Ma egli insegnava queste cose da uomo che parla agli uomini; la divinità era occulta, manifesto era l’uomo, affinché manifesta si facesse la divinità dell’uomo. Da Figlio di Dio si è fatto figlio dell’uomo, per fare altrettanti figli di Dio dei figli degli uomini. Riconosciamo, dunque, dalle sue stesse parole, che egli ha fatto tutto questo grazie alle risorse della sua sapienza. Si faceva piccolo per parlare ai piccoli, ma egli era piccolo e insieme grande; noi invece siamo piccoli, e grandi solo in lui. Egli parlava come fa la madre che riscalda e nutre i lattanti, che crescono grazie al suo amore.

       Agostino, Comment. in Ioan., 21, 1


6. La carità vera si traduce in opere di misericordia

       Perciò, la Verità stessa (Cristo), mostratasi a noi nell’assunzione della nostra umanità, mentre sul monte si immerge nella preghiera nelle città opera miracoli (Lc 6,12); ciò evidentemente nell’intento di appianare la via della imitazione alle buone guide di anime, perché, pur protese verso le supreme altezze della contemplazione, nondimeno si mescolino con la compassione alle necessità degli infermi. Infatti, la carità tende mirabilmente in alto se ed in quanto attratta in basso dalla misericordia verso i prossimi; e con quanto maggior benevolenza si piega verso le infermità, tanto più gagliardamente risale alle vette.

       Gregorio Magno, Lib. Reg. Pastor., 2, 5




XVII DOMENICA

122 Letture:
    
2R 4,42-44
     Ep 4,1-6
     Jn 6,1-15


1. L’Eucaristia, dono grande e gratuito

       Nel deserto, Nostro Signore moltiplicò il pane (Mt 14,13-21 Mt 15,32-38 Jn 6,1-13), e a Cana mutò l’acqua in vino (Jn 2,1-11). Abituò così la loro bocca al suo pane e al suo vino per il tempo in cui avrebbe dato loro il suo corpo e il suo sangue. Fece loro gustare un pane e un vino caduchi per suscitare in loro il desiderio del suo corpo e sangue che danno la vita. Diede loro con liberalità queste piccole cose perché sapessero che il suo dono supremo sarebbe stato gratuito. Le diede loro gratuitamente, sebbene avessero potuto acquistarle da lui, affinché sapessero che non sarebbe stato loro richiesto il pagamento di una cosa inestimabile; infatti, se potevano pagare il prezzo del pane e del vino, non avrebbero certamente potuto pagare il suo corpo e il suo sangue.

       Non soltanto ci ha colmato gratuitamente dei suoi doni, ma ancor più ci ha vezzeggiati affettuosamente. Infatti, ci ha donato queste piccole cose gratuitamente per attirarci, affinché andassimo e ricevessimo gratuitamente quella cosa sì grande che è l’Eucaristia. Quegli acconti di pane e di vino che ci ha dato erano dolci alla bocca, ma il dono del suo corpo e del suo sangue è utile allo spirito. Egli ci ha attirati con quelle cose gradevoli al palato per trascinarci verso colui che dà la vita alle anime. Ha nascosto la dolcezza nel vino da lui fatto, per indicare ai convitati quale tesoro magnifico è nascosto nel suo sangue vivificante.

       Come primo segno, fece un vino che dà allegria ai convitati per mostrare che il suo sangue avrebbe dato allegria a tutte le genti. Il vino è parte in tutte le gioie immaginabili e parimenti ogni liberazione si riconnette al mistero del suo sangue. Diede ai convitati un vino eccellente che trasformò il loro spirito per far sapere loro che la dottrina con cui li abbeverava avrebbe trasformato i loro cuori. Ciò che all’inizio non era che acqua fu mutato in vino nelle anfore; era il simbolo del primo comandamento portato a perfezione; l’acqua trasformata era la legge perfezionata. I convitati bevevano ciò che era stato acqua, ma senza gustare l’acqua. Parimenti, quando udiamo gli antichi comandamenti, li gustiamo nel loro sapore nuovo. Al precetto: Schiaffo per schiaffo (cf. Ex 21,24 Lv 24,20 Dt 19,21) è stata sostituita la perfezione: "Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra" (Mt 5,39).

       L’opera del Signore ottiene tutto; in un baleno, egli ha moltiplicato un po’ di pane. Ciò che gli uomini fanno e trasformano in dieci mesi di lavoro, le sue dieci dita l’hanno compiuto in un istante. Le sue mani furono come una terra sotto il pane; e la sua parola come il tuono al di sopra di lui; il sussurro delle sue labbra si sparse su di lui come una rugiada e l’alito della sua bocca fu come il sole; in un brevissimo istante egli ha portato a termine quanto richiede di norma un lungo lasso di tempo. Dalla piccola quantità di pane è sorta una moltitudine di pani; come all’epoca della prima benedizione: "Siate fecondi e moltiplicatevi" (Gn 1,28). I pezzi di pane, prima sterili e insignificanti, grazie alla benedizione di Gesù - quasi seno fecondo di donna - hanno dato frutto da cui sono sopravanzati molteplici frammenti.

       Il Signore ha mostrato il vigore penetrante della sua parola a quelli che l’ascoltavano, e ha mostrato la rapidità con la quale egli elargiva i suoi doni a quelli che ne beneficiavano. Non ha moltiplicato il pane al punto che avrebbe potuto, ma fino alla quantità sufficiente per i convitati. Il miracolo non fu su misura della sua potenza, bensì della fame degli affamati. Se, infatti, il miracolo fosse stato misurato sulla sua potenza, riuscirebbe impossibile valutare la vittoria di quella. Commisurato alla fame di migliaia di persone, il miracolo ha superato le dodici ceste (Mt 14,20). In tutti gli artigiani, la potenza è inferiore alla richiesta dei clienti; essi non possono fare tutto quanto gli domandano i clienti. Le realizzazioni di Dio, invece, superano i desideri. E: "Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto" (Jn 6,12) e non si pensi che il Signore abbia agito solo per fantasia. Ma, quando i resti saranno stati conservati un giorno o due, crederanno che il Signore ha agito in verità, e che non si trattò di un fantasma inconsistente.

       Efrem, Diatessaron, 12, 1-4


2. L’Eucaristia tra natura e grazia

       I miracoli che fece nostro Signore Gesù Cristo, sono opere divine che insegnano alla mente umana a elevarsi al di sopra delle cose visibili per comprendere ciò che è Dio. Siccome Dio è una natura che non è visibile agli occhi del corpo, e siccome i miracoli, con i quali egli regge e governa tutto il mondo e ogni creatura dell’universo, sembrano aver perduto valore perché ininterrottamente si ripetono, tanto che nessuno pensa più di apprezzare la pur stupefacente e mirabile potenza divina che si manifesta anche in un chicco di grano, nella sua misericordia egli si riservò alcune cose, da compiere al momento opportuno e al di fuori del normale corso degli avvenimenti naturali, in modo da suscitare stupore alla vista di tali fatti, non maggiori, ma insoliti, rispetto a quei quotidiani avvenimenti che non destano più impressione. È certamente un maggiore miracolo il governare tutto il mondo, che saziare cinquemila uomini con cinque pani; e, tuttavia, nessuno se ne stupisce mentre gli uomini si meravigliano di fronte al miracolo dei pani, non perché si tratta di una cosa maggiore dell’altra, ma perché è rara. Chi, infatti, nutre tutto il mondo, se non colui che da pochi chicchi crea le messi? E il Signore agì proprio come agisce Dio. Con la sua potenza divina moltiplica pochi chicchi facendone nascere le messi, e con la stessa potenza moltiplicò nelle sue mani i cinque pani. Vi era potenza infatti nelle mani di Cristo, e quei cinque pani erano come semi di grano che non furono gettati in terra nei solchi, ma furono moltiplicati da colui che aveva creato la terra.

       Questo fatto colpisce i nostri sensi e ci obbliga a elevare la mente; questo prodigio, compiuto sotto i nostri occhi, ci spinge a sforzare l’intelletto, in modo da ammirare, attraverso le opere visibili, Dio invisibile, e in modo da desiderare, dopo esserci innalzati alla fede ed esserci per mezzo di essa purificati, di riuscire a vedere Dio, la cui natura invisibile abbiamo conosciuto attraverso le opere visibili.

       Ma non è solo questo che dobbiamo vedere nei miracoli di Cristo. Interroghiamo gli stessi miracoli, sentiamo cosa ci dicono di Cristo: essi hanno infatti un loro linguaggio, se si sa intenderlo. Dato che Cristo è il Verbo di Dio, ogni atto del Verbo è per noi una parola.

       Abbiamo udito quanto fu grande questo miracolo: cerchiamo ora di vedere quanto sia profondo: non lasciamoci attrarre solo da ciò che appare in superficie, ma scrutiamone la sublime altezza . . .

       Il Signore vide la folla, si rese conto che essa aveva fame e misericordiosamente la nutrì, grazie alla sua bontà e alla sua potenza. A cosa avrebbe giovato la sola bontà, in quel luogo dove non c’era niente per nutrire la turba di affamati? Se alla bontà non si fosse aggiunta la potenza, quella folla digiuna sarebbe rimasta in preda alla fame...

       I cinque pani significano i cinque libri di Mosè: giustamente essi non sono di frumento ma d’orzo, poiché essi appartengono al Vecchio Testamento. Voi sapete che l’orzo è, per sua natura, fatto in modo che è difficile arrivare sino al midollo, che è rivestito di un tegumento tenace e molto aderente, che solo a fatica si riesce a togliere. Così è la parola del Vecchio Testamento, rivestita di immagini e misteri terreni: ma se si riesce ad arrivare al midollo, ce se ne può nutrire e saziare...

       È venuto anch’egli nascosto nel mistero del midollo dell’orzo, per cui si manifestava, e del rivestimento dell’orzo, per cui restava nascosto. Egli stesso, cioè il Signore, venne portando in sé ambedue le persone, del sacerdote e del re: del sacerdote in quanto egli si offrì come vittima a Dio per salvare noi, del re in quanto da lui siamo governati: e ci vengono svelati i misteri che erano tenuti nascosti. Rendiamo a lui grazie: ha realizzato in se stesso ciò che nel Vecchio Testamento ci aveva promesso.

       Egli ordinò di spezzare i pani; e spezzandoli essi furono moltiplicati. Niente può esserci di più vero di questo. Quei cinque libri di Mosè, quanti libri produssero quando furono spiegati, cioè quando furono spezzati, vale a dire discussi ed esaminati? ...

       Infine, che impressione ricevettero coloro che assistettero al prodigio? "Quella gente" - dice l’evangelista -, "veduto il prodigio che era stato compiuto, diceva: «Questo qui è davvero il profeta»"(Jn 6,14).

       Probabilmente ritenevano che Cristo fosse un profeta, in quanto si erano trovati seduti sull’erba. In verità egli era il Signore dei profeti, colui che aveva realizzato le profezie e che aveva santificato i profeti: e lui stesso era profeta, in quanto a Mosè era stato detto: "Farò sorgere per loro un profeta simile a te" (Dt 18,18). Simile secondo la carne, non simile secondo la maestà. E che quella promessa del Signore aveva per oggetto lo stesso Cristo, noi abbiamo letto chiaramente negli Atti degli Apostoli (Ac 7,37). Lo stesso Signore dice di se stesso: "Non c’è profeta senza onore, se non nella sua patria" (Jn 4,44). Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio è con i profeti ed egli stesso è profeta. I tempi che ci hanno preceduto meritarono di avere profeti ispirati e colmati di verità dal Verbo di Dio: noi abbiamo meritato di avere come profeta lo stesso Verbo di Dio. E Cristo è profeta come è Signore dei profeti, così come è angelo, e Signore degli angeli. Egli stesso è detto angelo del grande consiglio (Is 9,6). E, del resto, cosa dice altrove il profeta? Non sarà né un inviato né un angelo, ma verrà egli stesso per salvarli; cioè per salvarli non manderà un inviato, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso. Chi verrà? Verrà egli stesso come un angelo. Ma non per mezzo di un angelo, a meno che non si intenda che egli è un angelo, ma in quanto Signore degli angeli. Del resto, in latino, la parola angelo significa annunziatore, messaggero. Se Cristo non avesse annunziato niente, non sarebbe stato detto angelo; se non avesse profetato niente, non sarebbe stato chiamato profeta. Egli ci ha esortato ad abbracciare la fede, a meritarci la vita eterna: certe cose le annunziò con la sua presenza, altre le preannunciò come future. In quanto con la sua presenza annunziava, era un angelo; in quanto prediceva il futuro, era un profeta; in quanto Verbo di Dio fatto uomo, era Signore degli angeli e dei profeti.

       Agostino, Comment. in Ioan., 24, 1 ss.


3. Il significato della moltiplicazione dei pani

       Cristo ha condotto la folla in un luogo deserto, perché il miracolo non sia assolutamente sospetto, e nessuno pensi che sia stato portato del cibo da qualche villaggio vicino. Per tale motivo l’evangelista ricorda anche l’ora, e non solo il luogo del miracolo.

       Ma in questa circostanza noi apprendiamo anche un’altra cosa: l’austerità cioè degli apostoli nelle necessità della vita e il loro disprezzo per il lusso e per ogni delicatezza. Sono dodici e hanno soltanto cinque pani e due pesci. Tanto trascurabile e secondario è per loro ciò che riguarda il corpo, e tanto presi e interessati sono esclusivamente delle cose spirituali. E neppure tengono per sé quel poco che hanno, ma lo donano a chi lo chiede loro. Da ciò dobbiamo imparare che per quanto poco noi abbiamo, pure questo dobbiamo dare a chi ne ha bisogno. Infatti, quando Gesù chiede agli apostoli di portargli quei cinque pani, non rispondono: E da che parte verrà il cibo per noi? come potremo calmare la nostra fame?, ma obbediscono immediatamente.

       Mi sembra inoltre che Gesù moltiplichi quei pochi pani che gli portano i discepoli, piuttosto che crearne altri dal niente, per spinger loro a credere, dato che la loro fede è ancora molto debole. Anche per questo il Signore leva gli occhi al cielo. Degli altri miracoli essi avevano molti esempi, ma del miracolo che ora sta per compiere, nessuno. Presi e spezzati i pani, li distribuisce per mano dei discepoli, onorandoli con tale incarico. Ma non solo intende render loro questo onore; vuole pure che al momento del miracolo non dubitino e che in seguito non se ne dimentichino, in quanto le loro stesse mani ne sono state testimoni. Per tale motivo permette anche, prima del miracolo, che la folla senta fame, e attende che gli apostoli si avvicinino e gli parlino. Per mezzo loro fa sedere tutti sull’erba e fa distribuire il pane, volendo prevenire sia gli uni che gli altri mediante le loro stesse dichiarazioni e i loro atti. Sempre per tale motivo prende dalle loro mani i pani, in modo che vi siano molte testimonianze del fatto ed essi abbiano molti ricordi del miracolo. Se infatti, dopo tante prove gli apostoli si dimenticano del miracolo, che avrebbero mai fatto se Gesù non avesse preso tali precauzioni? Gesù ordina alla folla di sedersi sull’erba, dando così una lezione di vita semplice, senza tante esigenze, poiché non vuole solo nutrire i corpi ma anche istruire le anime.

       Crisostomo Giovanni, Comment. in Matth., 49, 2


4. Preghiera eucaristica

Per l’Eucaristia ringraziate così:

Prima sul calice:

«Ti ringraziamo, o Padre nostro,

per la santa vite di David tuo servo

che a noi rivelasti per mezzo di Gesù tuo figlio.

A te la gloria nei secoli».

Per il pane spezzato:

«Ti ringraziamo, Padre nostro,

per la vita e la conoscenza

che a noi rivelasti per mezzo di Gesù tuo figlio.

A te la gloria nei secoli.

Come questo pane spezzato era sparso sui colli

e raccolto divenne una cosa sola

così la tua Chiesa si raccolga dai confini della terra nel tuo regno

poiché tua è la gloria e la potenza per Gesù Cristo nei secoli».

Nessuno mangi né beva della vostra Eucaristia, tranne i battezzati

nel nome del Signore. Per questo il Signore disse: non date

le cose sante ai cani (Mt 7,6).

Dopo esservi saziati ringraziate così:

«Ti rendiamo grazie, o Padre santo,

per il tuo santo nome

che hai fatto abitare nei nostri cuori

per la conoscenza, la fede e l’immortalità

che rivelasti a noi per mezzo di Gesù tuo figlio.

A te la gloria nei secoli.

Tu, Signore onnipotente, hai creato ogni cosa per il tuo nome

e hai dato agli uomini a piacere cibo e bevanda

perché ti rendano grazie

e a noi donasti un cibo spirituale

una bevanda

e una vita eterna per mezzo di tuo figlio.

Prima di tutto ti ringraziamo perché sei potente;

a te la gloria nei secoli».

Ricordati, Signore, della tua Chiesa,

liberala da ogni male

rendila perfetta nel tuo amore

e santificata raccoglila dai quattro venti (Mt 24,31) nel tuo

regno

che ad essa preparasti

perché tua è la potenza e la gloria nei secoli.

Venga la grazia e passi questo mondo.

Osanna al Dio di David.

Chi è fedele venga

chi non lo è si converta

Maran athà (1Co 16,22 Ap 22,20). Amen.

       Didachè, IX ss.




XVIII DOMENICA

123 Letture:
    
Ex 16,2-4 Ex 16,12-15
     Ep 4,17 Ep 4,20-24
     Jn 6,24-35


1. Sazietà e desiderio senza fine

       "Io sono il pane della vita: chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete" (Jn 6,35).

       "Chi viene a me" ha lo stesso significato di "chi crede in me". "Non avrà più fame" vuol dire la stessa cosa di "non avrà più sete". In un caso e nell’altro è significata la sazietà eterna quando più nulla manca.

       Precisa, peraltro, la Sapienza: "Coloro che mi mangiano, avranno ancora fame; quelli che mi bevono avranno ancora sete" (Si 24,29). Cristo, Sapienza di Dio (1Co 1,24), non è mangiato fin d’ora fino a saziare il nostro desiderio, ma solo nella misura in cui eccita il nostro desiderio di sazietà; e più gustiamo la sua dolcezza più il nostro desiderio si ravviva. Ecco perché coloro che lo mangiano avranno ancora fame fino a che non sopraggiunge la sazietà. Ma, quando il loro desiderio sarà stato soddisfatto dai beni celesti, essi non avranno più né fame né sete (Ap 7,16).

       La frase: "Coloro che mi mangiano avranno ancora fame", può anche intendersi in rapporto al mondo futuro: infatti vi è in questa sazietà eterna una sorta di fame, che non deriva dal bisogno bensì dalla felicità. I commensali desiderano mangiarvi in continuazione: mai soffrono la fame, e nondimeno mai cessano dal venir saziati. Sazietà senza ingordigia, desiderio senza gemito. Cristo, sempre ammirabile nella sua bellezza, è del pari sempre desiderabile, "lui che gli angeli desiderano ammirare" (1P 1,12).

       Così, proprio quando lo si possiede lo si desidera; proprio quando lo si afferra lo si cerca, secondo quanto è scritto: "Cercate sempre il suo volto" (Ps 104,4).

       Sì, lo si cerca sempre, colui che si ama per sempre possederlo. Per cui, coloro che lo trovano lo cercano ancora, quelli che lo mangiano ne hanno ancora fame, quelli che lo bevono ne hanno ancora sete.

       Tale ricerca, però, rimuove ogni preoccupazione, tale fame scaccia ogni fame, tale sete estingue ogni sete. È fame non dell’indigenza, bensì della felicità consumata. Della fame dell’indigente, è detto: "Chi viene a me non avrà più fame, chi crede in me non avrà più sete". Della fame del beato, invece: "Coloro che mi mangiano avranno ancora fame; quelli che mi bevono avranno ancora sete".

       Il termine fame può intendersi come equivalente di sete, sia che si tratti della miseria, sia che si tratti della felicità; però, se si preferisce sottolineare una differenza, il Salmista ne fornisce l’occasione, allorché dice: "Il pane sostiene il cuore dell’uomo", e: "Il vino allieta il cuore dell’uomo" (Ps 103,15).

       Per coloro che credono in lui, Cristo è cibo e bevanda, pane e vino. Pane che fortifica e rinvigorisce, del quale Pietro dice: "Il Dio di ogni grazia, che ci ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, ci ristabilirà lui stesso dopo breve sofferenza, ci rafforzerà e ci renderà saldi" (1P 5,10). Bevanda e vino che allieta; è ad esso che si richiama il Profeta in questi termini: "Allieta l’anima del tuo servo; verso di te, infatti, o Signore, ho innalzato la mia anima" (Ps 85,4).

       Tutto ciò che in noi è forte, robusto e solido, gioioso e allegro, per adempiere i comandamenti di Dio, sopportare la sofferenza, eseguire l’obbedienza, difendere la giustizia, tutto questo è forza di quel pane o gioia di quel vino. Beati coloro che agiscono fortemente e gioiosamente!

       E siccome nessuno può farlo di suo, beati coloro che desiderano avidamente di praticare ciò che è giusto e onesto, ed essere in ogni cosa fortificati e allietati da Colui che ha detto: "Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia" (Mt 5,6). Se Cristo è il pane e la bevanda che assicurano fin da ora la forza e la gioia dei giusti, quanto di più egli lo sarà in cielo, quando si donerà ai giusti senza misura!

       Baldovino di Ford, De sacram. altar., 2, 3


2. Caratteristiche del Pane di Cristo

       Altro è il cibo che dà salute e vita e altro il cibo che raccomanda e riporta l’uomo a Dio, altro il cibo che ristora i deboli, richiama gli erranti, rialza i caduti, porge ai morenti il distintivo dell’immortalità. Cerca il pane di Cristo, il calice di Cristo, se vuoi che la vita dell’uomo, mettendo da parte le cose periture della terra, si nutra d’un pascolo immortale.

       Ma qual è questo pane, o questo calice, del quale la Sapienza nel libro di Salomone dice a gran voce: "Venite, mangiate il mio pane e bevete il vino, che ho versato per voi" (Pr 9,5)? E Melchisedech, re di Salem e sacerdote del sommo Dio, al ritorno di Abramo, offrì un sacrificio in pane e vino (Gn 14,18). Ed anche Isacco, avendo già dato la benedizione a Giacobbe, poiché Esaù lo supplicava di benedire anche lui, gli rispose: "L’ho già costituito tuo padrone e i suoi fratelli li ho fatti suoi servi, l’ho provveduto di frumento e di vino" (Gn 27,37). Allora Esaù pianse amaramente la sua disgrazia, perché aveva perduto la grazia del frumento e del vino, cioè la grazia della felicità futura.

       Che poi questo pane divino sia offerto a persone consacrate, lo dice lo Spirito Santo per mezzo di Isaia: Così dice il Signore: ecco, coloro che mi servono, mangeranno, voi invece avrete fame; coloro che mi servono, saranno felici, voi avrete vergogna, il Signore vi ucciderà (Is 65,13-15). Non solo questo pane è rifiutato da Dio agli empi, ma vien minacciata anche una pena, si parla di morte acerba, come conseguenza dell’ira divina per gli affamati. A questo si riferiscono anche le venerande parole del salmo 33. Dice infatti lo Spirito Santo per mezzo di David: "Gustate e vedete quanto è dolce il Signore" (Ps 33,9). È dolce il pascolo celeste, è dolce il cibo di Dio e non ha in sé il triste tormento della fame ed espelle dalle midolla degli uomini la malignità del veleno che vi trova. E che sia così lo dichiarano i seguenti oracoli della Scrittura: "Temete il Signore, voi che siete consacrati a lui, perché non manca nulla a coloro che lo temono. I ricchi soffriranno la fame, ma quelli che cercano il Signore, non mancheranno di alcun bene" (Ps 33,10). Tu che avanzi paludato nel tempio, che splendi di porpora, il cui capo è coperto di oro o alloro, una turpe indigenza sta per raggiungere il tuo errore e sul tuo capo pende un grave peso di povertà. Colui che tu disprezzi come povero, è ricco; Abramo gli prepara un trono nel suo seno. Tu invece, per mitigare le ferite della tua coscienza, attraverso le fiamme, gli chiederai una stilla d’acqua gocciolante e Lazzaro, anche se volesse, non potrà darti né impetrarti quel lenimento del tuo dolore. A lui è assegnata la vita in compenso dei mali di questo secolo, a te viene assegnata una perpetua pena di tormenti per i beni di questo secolo.

       Perché si capisse meglio quale fosse il pane per mezzo del quale si supera la morte, il Signore stesso lo ha indicato con la sua santa parola, perché la speranza degli uomini non fosse ingannata da false interpretazioni. Dice infatti nel Vangelo di Giovanni: "Io sono il pane della vita. Chi verrà a me non avrà fame, cbi crederà in me non avrà mai sete" (Jn 6,35). La stessa cosa dice nelle frasi seguenti: "Se uno ha sete, venga; e beva, chi crede in me". E di nuovo, per dare la sostanza della sua maestà a coloro che credono in lui dice: "Se non mangerete la carne del figlio dell’uomo e non berrete il suo sangue, non avrete la vita in voi".

       O miseri mortali fatti dèi! Cercate la grazia del cibo salutare e bevete il calice immortale. Cristo col suo cibo vi richiama alla luce e vivifica i vostri arti avvelenati e le vostre membra intorpidite. Ravvivate col cibo celeste l’uomo perduto, in modo che rinasca in voi, per grazia di Dio, tutto ciò che è morto. Sapete ormai che cosa val la pena fare, scegliete ciò che vi piace. Di là nasce la morte, di qui sgorga la vita immortale.

       Firmico Materno, De errore prof. relig., 18, 2-8


3. Unione del collegio presbiterale con il vescovo

       Conviene procedere d’accordo con la mente del vescovo, come già fate. Il vostro presbiterato ben reputato degno di Dio è molto unito al vescovo come le corde alla cetra. Per questo dalla vostra unità e dal vostro amore concorde si canta a Gesù Cristo. E ciascuno diventi un coro, affinché nell’armonia del vostro accordo prendendo nell’unità il tono di Dio, cantiate ad una sola voce per Gesù Cristo al Padre, perché vi ascolti e vi riconosca, per le buone opere, che siete le membra di Gesù Cristo. È necessario per voi trovarvi nella inseparabile unità per essere sempre partecipi di Dio...

       Nessuno s’inganni: chi non è presso l’altare, è privato del pane di Dio (Jn 6,33). Se la preghiera di uno o di due ha tanta forza, quanto più quella del vescovo e di tutta la Chiesa! Chi non partecipa alla riunione è un orgoglioso e si è giudicato. Sta scritto: "Dio resiste agli orgogliosi" (Pr 3,34). Stiamo attenti a non opporci al vescovo per essere sottomessi a Dio...

       Ognuno e tutti insieme nella grazia che viene dal suo nome vi riunite in una sola fede e in Gesù Cristo del seme di David (Rm 1,3) figlio dell’uomo e di Dio per ubbidire al vescovo e ai presbiteri in una concordia stabile spezzando l’unico pane che è rimedio di immortalità...

       Come Gesù Cristo segue il Padre, seguite tutti il vescovo e i presbiteri come gli apostoli; venerate i diaconi come la legge di Dio. Nessuno senza il vescovo faccia qualche cosa che concerne la Chiesa. Sia ritenuta valida l’Eucaristia che si fa dal vescovo o da chi è da lui delegato. Dove compare il vescovo, là sia la comunità, come là dove c’è Gesù Cristo ivi è la Chiesa cattolica. Senza il vescovo non è lecito né battezzare né fare l’agape; quello che egli approva è gradito a Dio, perché tutto ciò che si fa sia legittimo e sicuro.

       Ignazio di Antiochia, Ad Ephes., 4, 1-2; 5, 2-3; Ad Smyrn., 7, 2; 8, 2


4. Essere disposti a perdere tutto per guadagnare Cristo

       Uomini avidi! Perché restate avvinti al desiderio di guadagno? Perché non apprendere l’arte? Perché non disprezzate ciò che è privo di valore, o meglio, svantaggio e sozzura, per guadagnare Cristo? "Perché spendete denaro per ciò che non è pane e il vostro patrimonio per ciò che non sazia?" (Is 55,2). A me sembra che ai vostri occhi "il pane disceso dal cielo per dare la vita al mondo" (Jn 6,33) abbia meno valore del vostro denaro!... Se l’avaro stimasse almeno la propria persona più preziosa della propria fortuna! Se potesse non mettere in vendita la propria anima per amore del denaro, e fintanto che resta in vita, non strapparsi le viscere (Si 10,10)! È per contro un commerciante avveduto, un esperto attento al valore delle cose, colui che - parlo evidentemente di Paolo - stimava che la propria anima - ovvero la vita animale e sensibile - non valesse più di lui (Ac 20,24), e cioè del suo spirito, con il quale costituiva un tutt’uno e per il quale aderiva a Cristo. Era pronto a perdere la sua anima, al fine di poterla conservare per la vita eterna (Jn 12,25).

       Guerric d’Igny, Sermo de resurrect., 2, 3





Lezionario "I Padri vivi" 121