Lezionario "I Padri vivi" 133

XXVIII DOMENICA

133 Letture:
    
Sg 7,7-11
     He 4,12-13
     Mc 10,17-30

1. Significato spirituale delle parole del Signore: «Vendi ciò che hai»

       "Vendi ciò che hai" (Mt 19,21). Che significa? Non quello che alcuni ammettono così a prima vista, che cioè il Signore ci comandi di far getto dei beni posseduti e di rinunciare alle ricchezze; ci comanda piuttosto di bandire dall’anima i pensieri usuali sulla ricchezza, la passione morbosa verso di essa, le preoccupazioni, le spine dell’esistenza che soffocano il seme della vita. Non è infatti nulla di grande e di desiderabile l’essere privi di ricchezze ma non per lo scopo di raggiungere la vita eterna: altrimenti i miserabili che non hanno nulla, che son privi di ogni mezzo, che mendicano ogni giorno il sostentamento, gli accattoni che giacciono per le vie e che pur non conoscono Dio e la giustizia di Dio, solo perché sono tanto poveri e non sanno procacciarsi da vivere e son privi anche del minimo necessario, dovrebbero essere i più beati e amati da Dio e i soli atti a possedere la vita. Non è una novità rinunciare alle ricchezze ed elargirle ai poveri e ai mendici: molti l’han fatto, prima che il Salvatore scendesse quaggiù: alcuni per aver tempo di dedicarsi agli studi e alla sapienza morta, altri per una fama vuota ed una gloria vana: gli Anassagora, i Democrito, i Cratete.

       Cos’è dunque la novità, da lui annunciata come qualcosa proprio di Dio, che solo vivifica e che non salvò gli antichi? Cos’è la rarità, cos’è la «nuova creazione», che il Figlio di Dio proclama e insegna? Non qualcosa di manifesto o che altri han già fatto egli ci prescrive, ma qualcosa d’altro, più grande, più divino e più perfetto, che da quella vien simboleggiato: liberare l’anima e la sua intima disposizione dalle passioni, e rescindere ed estirpare dalla radice ciò che è estraneo alla ragione. È questa la scienza propria dell’uomo di fede, è questo l’insegnamento degno del Salvatore. Quegli antichi disprezzarono le cose esteriori, rinunciarono ai loro beni e li distribuirono, ma son convinto che alimentarono così le passioni dell’anima. Crebbero nella superbia, nella millanteria, nella vanagloria, e nel disprezzo degli altri uomini, come se avessero compiuto qualcosa di sovrumano. E come potrebbe il Salvatore comandare a coloro che vivranno in eterno ciò che è di danno e di rovina per la vita che egli promette? Inoltre è possibile anche questo: che uno deponga il peso dei propri possessi e tuttavia porti radicata e vivida in sé la brama e l’anelito alle ricchezze, ed è possibile anche che uno ne abbia perso l’uso, ma per la privazione e il desiderio di ciò che ha sperperato sia tormentato da una duplice sofferenza: la mancanza del necessario e il pentimento di ciò che ha fatto. È impossibile, è impensabile, infatti, che chi manca del necessario per la vita, non abbia l’animo tutto agitato e continuamente stimolato dalla continua ricerca di una situazione migliore: in che modo e dove se la possa procurare.

       Ma quanto meglio è il contrario: che uno possegga il necessario, e così non debba soffrire lui e abbia da elargire agli altri ciò che conviene. Che possibilità ci sarebbe di beneficare il prossimo, se tutti non possedessero nulla? E come si potrebbe negare che questa dottrina non sia in netto contrasto con molti altri ottimi insegnamenti del Signore? "Fatevi degli amici con il mammona di iniquità, affinché quando giungerete alla fine, vi accolgano nelle tende eterne" (Lc 16,9). "Preparatevi tesori in cielo, dove né la ruggine, né la tignola distruggono, né i ladri scavano" (Mt 6,20). E come si potrebbe dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi e accogliere i pellegrini - e a quelli che non fan ciò vien minacciato il fuoco e le tenebre esteriori -, se prima non si possedesse tutto questo? Anzi, egli stesso comanda di accoglierlo come ospite a Zaccheo e a Matteo, che pur erano ricchi e pubblicani; e non comanda loro di rinunciare alle ricchezze, ma, dopo aver suggerito il retto uso e vietato quello ingiusto, soggiunge: "Oggi si è compiuta la salvezza per questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo" (Lc 19,9). Loda dunque l’uso delle ricchezze, imponendo però di comunicarle agli altri: dar da bere a chi ha sete, dar del pane a chi ha fame, accogliere lo straniero e vestire l’ignudo. Ora, nessuno può compiere questi uffici senza le ricchezze; eppure il Signore ci comanda di rinunciarvi. Che altro fa dunque se non imporre di dare e non dare, di nutrire e non nutrire, di accogliere e non accogliere, di comunicare agli altri e non comunicare? Ma ciò è assolutamente contraddittorio.

       Non si hanno perciò da rigettare le ricchezze che devono servire a vantaggio del prossimo; sono possessi perché la loro caratteristica è di essere possedute e son dette beni perché servono al bene, e sono state preparate da Dio per i bisogni degli uomini. Esse dunque sono presenti, sono a portata, come materia, come strumento per servire ad un buon uso a chi bene le conosce. Se ne usi con intelligenza, lo strumento è intelligente; ma se manchi di intelligenza, partecipa alla tua mancanza di intelligenza, pur non avendone colpa. Un tale strumento, dunque sono le ricchezze. Ne puoi usare con giustizia: ti sono ministre di giustizia. Qualcuno ne usa ingiustamente? Scopriamo che sono ministre di ingiustizia. La loro natura è di servire, non di comandare. Non dobbiamo dunque rimproverare loro di non avere in sé né il bene né il male e di essere fuori causa; bensì dobbiamo rimproverare chi può usarne o bene o male come gli pare, cioè la mente e il giudizio umano, che è libero in sé e padrone di usare delle cose a lui concesse. Nessuno cerchi dunque di distruggere la ricchezza, ma le passioni dell’anima, che non permettono l’uso migliore dei beni, non lasciano che l’uomo sia veramente virtuoso e capace di usare rettamente della ricchezza. L’ordine dunque di rinunciare ai nostri beni e di vendere ciò che si possiede lo si deve intendere in questo modo: è stato impartito contro le passioni dell’animo.

       Clemente di Alessandria, Quis dives, 11-14


2. Le esigenze della perfezione cristiana

       Di conseguenza, dobbiamo sapere che a noi non è richiesto quel che prescrive la Legge, bensì quello che tuona alle nostre orecchie il precetto evangelico: "Se vuoi essere perfetto, va’ vendi quanto possiedi, dallo ai poveri ed avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi"(Mt 19,21); e offrendo le decime dei nostri beni rimaniamo in qualche modo sotto il giogo della Legge e non siamo ancora pervenuti alla sublime perfezione del Vangelo che non si limita ad accordare a chi l’osserva i benefici della vita presente, ma elargisce anche i premi futuri. A chi osserva la Legge non è dato in cambio il regno dei cieli, ma le consolazioni di questa vita, come è scritto: "Chiunque metterà in pratica i comandamenti, vivrà" (Lv 18,5). Invece, il Signore dice ai suoi discepoli: "Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli" (Mt 5,3); e inoltre: "Chiunque avrà lasciato o casa, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o moglie, o figli, o campi per causa mia, riceverà il centuplo e avrà la vita eterna" (Lc 19,29). E non a torto. Vi è infatti meno gloria nell’astenersi da cose vietate che non nel rinunciare a cose permesse, o nel non usarne affatto in ossequio a colui che ha permesso una tale larghezza alla nostra infermità.

       Perciò, se coloro che obbediscono ai precetti antichi del Signore, offrendo fedelmente le decime dei loro frutti, non possono ancora ascendere alle vette evangeliche, non è difficile rilevare la distanza che li separa da chi non arriva neppure a tanto. Come avranno parte alla grazia evangelica coloro che disdegnano di praticare precetti molto più accessibili dei precetti della Legge antica? Tale facilità dei precetti antichi è il tono imperativo del Legislatore che l’attesta. Non ha forse minacciato persino la maledizione per coloro che non li adempiono? "Maledetto", è scritto infatti, "chi non mantiene in vigore le parole di questa legge, per metterla in pratica!" (Dt 27,26). Qui, però, è tale la sublimità e l’eccellenza dei comandamenti che vien detto soltanto: "Chi può comprendere, comprenda" (Mt 19,12)...

       Non poteva, invero, un tal precetto essere codificato per la generalità, né, per così dire, si poteva esigere da tutti come si trattasse di una norma, ciò che per la sua sublimità non può essere ritenuto indistintamente alla portata di tutti. È preferibile allora rivolgere l’invito alla grazia sotto forma di consiglio; così, i più validi hanno il modo di conquistare la corona della virtù perfetta; i più piccoli, che non possono colmare "la misura che conviene alla piena maturità di Cristo" (Ep 4,13) - anche se possono sembrare ecclissati dallo splendore dei primi -, come da stelle di prima grandezza, sfuggano nondimeno alle tenebre delle maledizioni legali, né si vedano abbandonati ai mali presenti o condannati all’eterno supplizio.

       Cristo dunque non costringe nessuno, con la necessità della norma, ad elevarsi alle vette sublimi della virtù; provoca invece la nostra libera scelta, ci eccita con la bontà del consiglio, ci infiamma con il desiderio della perfezione. Dove c’è il precetto, infatti, c’è del pari la necessità, e di conseguenza la sanzione. E poi, coloro che osservano solo quel minimo al quale lì costringe la severità di una legge categorica, evitano di incorrere nella pena prevista dalla sanzione, ma non guadagnano alcuna ricompensa.

       È così che il Vangelo sa innalzare i forti verso ciò che vi è di più grande e sublime, senza permettere tuttavia che i deboli precipitino nell’abisso della miseria. Ai perfetti, esso procura la piena beatitudine, mentre accorda il perdono a coloro che si lasciano vincere dalla propria fragilità...

       Però, non è solo chi si rifiuta di adempiere il precetto della Legge che va visto come ancora soggetto alla Legge, ma anche colui che, soddisfatto di osservare ciò che essa prescrive, non porta frutti degni della vocazione e della grazia cristiane. Infatti, Cristo non ci dice: "Tu offrirai le decime e le primizie dei tuoi beni al Signore tuo Dio" (Ex 22,29), bensì: "Va’, vendi quanto possiedi, dallo ai poveri ed avrai un tesoro in cielo, poi, vieni e seguimi", dove la magnificenza della perfezione appare tale che, al discepolo che lo interroga (Gesù) non concede neppure il breve spazio di tempo per la sepoltura del padre, subordinandosi il dovere della umana carità alla virtù dell’amore divino.

       Cassiano Giovanni, Collationes, 21, 5, 1-3; 6, 1; 7, 2


3. L’insegnamento della Legge

       La legge aveva insegnato agli uomini la necessità di seguire Cristo. Lo mostrò chiaramente Cristo stesso al giovane che gli chiese cosa avrebbe dovuto fare per ereditare la vita eterna. Gli rispose infatti: "Se vuoi entrare nella vita osserva i comandamenti". Quegli chiese: "Quali?", e il Signore soggiunse: "Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza; onora il padre e la madre, e ama il prossimo tuo come te stesso" (Mt 19,17ss). Proponeva così a tutti coloro che volevano seguirlo i comandamenti della legge come gradini di entrata alla vita: quello che diceva a uno, lo diceva a tutti. Il giovane rispose: "Ho fatto tutto ciò" - e forse non lo aveva fatto, che altrimenti non gli sarebbe stato detto: osserva i comandamenti -; allora il Signore, rinfacciandogli la sua cupidigia, gli disse: "Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto ciò che hai, dividilo tra i poveri, poi vieni e seguimi" (). Con queste parole prometteva l’eredità degli apostoli a chi avesse fatto così, non annunciava certo a coloro che lo avessero seguito un altro padre, diverso da quello che era stato annunciato fin dall’inizio della legge, e neppure un altro figlio; ma insegnava a osservare i comandamenti imposti da Dio all’inizio, a liberarsi dall’antica cupidigia con le buone opere e a seguire Cristo. Che poi la distribuzione dei propri beni ai poveri liberi davvero dalla cupidigia, lo ha mostrato Zaccheo dicendo: "Ecco, do la metà dei miei beni ai poveri; se poi ho frodato qualcuno, gli rendo il quadruplo" (Lc 19,8).

       Ireneo di Lione, Adv. haer., IV, 12, 5




XXIX DOMENICA

134 Letture:
    
Is 53,2a Is 53,3a Is 53,10-11
     He 4,14-16
     Mc 10,35-45

1. Gesù risponde alla madre di Jc e Giovanni

       Considerate che cosa chiede per i figli e con i figli. È certo una madre cui bisogna perdonare - anche se la sua premura l’ha resa piuttosto smoderata - l’eccesso della richiesta. E poi una madre anziana d’anni, d’intenti religiosi, priva d’ogni conforto, la quale, proprio quando avrebbe dovuto essere validamente sorretta dall’aiuto dei figli, accettò la loro lontananza e antepose al suo piacere il vantaggio dei figli, che seguivano Cristo; questi, infatti, chiamati dal Signore, alla prima parola, come leggiamo in Matteo (Mt 4,22), lasciato il padre e le reti, lo seguirono.

       Costei, dunque, spinta dall’amore materno, prega il Salvatore, dicendo: "Ordina che questi miei due figli stiano nel tuo regno uno alla tua destra e l’altro alla tua sinistra" (Mt 20,21). Anche se è un errore, è un errore di affetto materno; una madre non sa aspettare; c’è un po’ d’interesse nella preghiera, ma è un interesse comprensibile, poiché essa non è avida di danaro ma di favore; e non è una domanda spregevole quella di una madre, che non chiede per sé, ma per i figli. Pensate alla madre, si tratta d’una madre...

       Considerate anche la donna, cioè il sesso più debole, che il Signore ancora non aveva rafforzato con la sua passione. Considerate, dico, l’erede di quella prima Eva, debole per una ingenita cupidigia incontrollata, che il Signore non aveva ancora redenta col suo sangue, non aveva ancora lavata dal desiderio smodato d’onore. Sbagliava per una specie di errore ereditario.

       Che c’è di strano che una madre, per amor dei figli - il che fa la cosa più tollerabile, che se fosse a proprio vantaggio -, faccia una questione di preminenza, quando gli stessi apostoli ne facevano oggetto d’una loro disputa? (Lc 22,24).

       Non giudicò, dunque, il medico che una madre, priva di tutto, e una mente ancora inferma dovessero essere colpite da biasimo, solo per una richiesta un po’ orgogliosa.

       Perciò il Signore - che voleva far onore alla pietà materna -non rispose alla donna, ma ai figli, dicendo: "Potete bere il calice, che io sto per bere?" E quando essi risposero: "Lo possiamo, Gesù disse loro: Il mio calice lo berrete; ma lo star seduti alla mia destra o alla mia sinistra non è cosa mia darlo, ma toccherà a coloro per i quali è stato preparato dal Padre mio" (Mt 20,22-25).

       Quanto è paziente e clemente il Signore; che alta sapienza e benevola carità! Volendo, infatti, far vedere che non avevan chiesto una cosetta da niente, ma una cosa tale che non l’avrebbero potuta ottenere, fece ricorso alla prerogativa della benevolenza del Padre; e non temé una derogazione al suo diritto, al diritto di "colui che non credette di fare un torto dichiarandosi uguale a Dio" (Ph 2,6). Amando però i suoi discepoli - "li amò sino alla fine" (Jn 13,1) - non volle dar loro l’impressione che negasse loro quanto chiedevano. Santo e buono il Signore, che preferisce dissimulare il suo diritto, piuttosto che detrarre qualche cosa alla sua benevolenza: "La carità", infatti, "è paziente è benigna, non vuol sopraffare, non si gonfia, non reclama diritti" (1Co 13,4).

       Perché finalmente vi rendiate conto che l’espressione "non è cosa mia darlo" vuole suggerire indulgenza più che mancanza di autorità, osservate che, in Marco (Mc 10,40), dove non si parla della madre, non si fa alcuna menzione del Padre, ma è detto soltanto: "Non è cosa mia darlo a voi, ma a coloro per i quali è stato preparato". In Matteo, invece, dove è la madre che prega, vien detto: "Per i quali è stato preparato dal Padre mio" (Mt 20,23); e l’aggiunta "Padre mio" è fatta perché l’amore materno richiedeva una maggiore indulgenza.

       Ammettiamo che fosse stato possibile per degli uomini ottenere ciò che si chiedeva, che cosa significa quel: "Non è cosa mia darvi di star seduti alla mia destra o alla mia sinistra" (Mt 20,23)? Che vuol dire cosa "mia"? Più sopra disse: «Il mio calice lo berrete», poi dice: «Non è cosa "mia"». Il "mio" unito a calice, ci fa luce per capire che cosa vuol dire qui cosa "mia".

       Pregato da una donna, come uomo, di far sedere i suoi figli alla sua destra e alla sua sinistra; dal momento ch’ella s’era rivolta a lui, come a un uomo, anche il Signore, solo come uomo, accennando alla sua passione, risponde: "Potete bere il calice, che io berrò?"

       Perciò, poiché parlava secondo la carne della passione del suo corpo, volle dimostrare che ci lasciava un esempio di una passione da soffrire nella carne. "Non è cosa mia" va inteso come l’altra espressione: "La mia dottrina non è mia" (Jn 7,16), non è mia secondo la carne, perché le cose divine non sono oggetto del parlare della carne.

       Rivelò tuttavia subito la sua indulgenza verso i suoi amati discepoli, chiedendo: «Ma il mio calice lo berrete?». Così, non potendo dar loro ciò che chiedevano, fece un’altra proposta, per poter dir loro un sì, prima di un no; perché capissero ch’era mancata più a loro l’equità nella richiesta fatta, che non la generosità nella risposta del Signore.

       "Il mio calice, sì, lo berrete", cioè affronterete la passione della mia carne, perché potete imitare ciò che deriva in me dalla natura umana; vi ho dato la vittoria della passione, l’eredità della croce; "ma non è cosa mia il darvi di star seduti alla mia destra o alla mia sinistra". Non dice semplicemente: "Non è cosa mia dare", ma "darvi", cioè dare a voi. E questo dovrebbe significare che non si tratta di mancanza di potere in lui, ma di merito nelle creature.

       Si può anche intendere così: "Non è cosa mia", di me che venni a insegnar l’umiltà, di me che venni non per essere servito, ma per servire; di me, che seguo la giustizia, non favoritismi.

       Poi appellandosi al Padre aggiunse: "Per i quali è stato preparato", per dire che il Padre non guarda le raccomandazioni, ma i meriti, perché Dio non fa preferenze di persone (Ac 10,34). Perciò l’Apostolo dice: "Coloro che sapeva lui e che predestinò" (Rm 8,29); prima li conobbe e poi li predestinò, vide i meriti e predestinò il premio...

       A ragione, dunque, è ripresa la donna che chiese delle cose impossibili, e domandò che fossero ridotte a speciale privilegio quelle cose che il Signore voleva dare non solo a due apostoli, ma a tutti i suoi discepoli, e non a titolo di una particolare raccomandazione, ma per sua volontaria generosità, come sta scritto: "Voi dodici siederete sopra troni, per giudicare le dodici tribù d’Israele" (Mt 19,28).

       Ambrogio, De fide, 5, 56s., 60-65, 77-84



2. L’ora di Gesù: la Passione

       "È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo" (Jn 12,23). Dice Gesù: ormai è vicino il tempo in cui sarò glorificato davanti a tutti. Qui Gesù usa il titolo di «Figlio dell’uomo» poiché prima di caricarsi della croce accetta interamente il destino dell’uomo, Egli che dopo la sua Risurrezione e Ascensione è adorato da tutte le creature per il fatto che è unito al Verbo di Dio. Dopo aver annunciato la sua mirabile glorificazione, che sembrava inconciliabile con la sua imminente passione, aggiunge: "In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (Jn 12,24). Non temete dunque per la mia morte. Il chicco di grano è solo prima di cadere nel profondo, ma una volta caduto e morto germoglia gloriosamente e produce duplice frutto, stende davanti a tutti le sue ricchezze e mostra agli occhi lo splendore della sua bellezza. Sappiate che così avverrà anche di me. Adesso sono solo e senza gloria, sconosciuto in mezzo a tutti gli altri uomini. Ma dopo la mia morte di croce, risusciterò nella gloria. Allora produrrò molti frutti e tutti mi riconosceranno. E non solo i Giudei, ma anche gli uomini di tutta la terra mi chiameranno loro Signore, e perfino le potenze dello spirito mi glorificheranno.

       Dopo queste parole Gesù esorta i suoi discepoli ad imitarlo: "Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna" (Jn 12,25). Dunque non solo non dovete scandalizzarvi per la mia passione, né dubitare delle mie parole che confermeranno i fatti, ma anche voi dovete essere pronti a sopportare le stesse sofferenze per produrre gli stessi frutti. Infatti, secondo Gesù, chi si preoccupa della propria vita su questa terra e non vuole esser messo alla prova, la perderà nel mondo che verrà; mentre chi la odia in questo mondo accettando le sofferenze che si presentano, raccoglie per sé molti frutti... Dice poi molto semplicemente: "Se uno mi vuol servire mi segua" (Jn 12,26). Se qualcuno vuol essere mio servo, dimostri con i propri atti che vuol seguirmi. Ma qualcuno potrebbe dire: «Che cosa otterranno coloro che soffriranno insieme con te?». Risponde Gesù: "Dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà" (Jn 12,26). Chi parteciperà alle mie sofferenze, parteciperà anche alla mia gloria; sarà con me in eterno nella vita futura e parteciperà al mio trionfo nel regno dei cieli. Ecco come il Padre mio onorerà quelli che mi avranno servito fedelmente.

       Teodoro di Mopsuestia, Evang. Iohan.


3. Ama l’umiltà e avrai gloria!

       Se ti ricordi che Cristo dice che si perde la mercede innanzi a Dio, quando uno va cercando onore presso gli uomini e fa il bene per essere visto dagli uomini, metti tanta accortezza a non essere onorato dagli uomini, quanta ne mettono gli altri per averne gloria. "Hanno ricevuto la loro mercede" (Mt 6,2), dice il Signore. Perciò non ti far danno da te stesso, andando dietro alla gloria degli uomini. Dio è un grande osservatore; cerca di aver gloria presso Dio, Dio distribuisce splendide ricompense. Hai forse raggiunto una gran rinomanza, ti stimano, ti onorano, ti cercano? Cerca di diportarti come un suddito "Non come chi esercita un potere sugli altri" (1P 5,3) e non seguir l’esempio dei principi mondani. Il Signore ha comandato che, chi vuol essere il primo, deve essere servo di tutti (Mc 10,44). In una sola parola: pratica l’umiltà, come conviene a chi la ama. Amala e avrai gloria. Questo è il cammino verso la vera gloria, che si ha tra gli angeli, innanzi a Dio. Cristo ti dichiarerà suo discepolo innanzi agli angeli (Lc 12,8) e ti darà gloria, se imiterai la sua umiltà; egli, infatti, disse: "Imparate da me, che sono mite e umile di cuore e troverete pace per le vostre anime" (Mt 11,29).

       Basilio di Cesarea, Hom. de humilit., 7


4. L’amore infinito di Dio

       Non è dunque giusto che Dio ci respinga e ci castighi quando, offrendosi egli stesso a noi in tutto, noi lo respingiamo? Evidentemente sì. Se tu vuoi ornarti - egli dice - prendi il mio ornamento; se vuoi armarti, prendi le mie armi; se desideri vestirti, ecco la mia veste; se vuoi nutrirti, ecco la mia mensa; se intendi camminare, percorri la mia via; se desideri ereditare, ecco la mia eredità; se vuoi entrare in patria, entra nella città di cui io sono l’architetto e il costruttore; se pensi di costruirti una casa, edificala nei miei territori: io di certo, per quello che do, non ti chiedo pagamento. Anzi, per il fatto stesso che vuoi usare ciò che è mio, per questo io ti voglio ricompensare. Che cosa può essere paragonato a simile generosità? Ecco cosa dice il Signore: Io padre, io fratello, io sposo, io casa, io alimento, io vestito, io radice, io fondamento: io sono tutto ciò, se tu vuoi; di nulla tu mancherai. Io ti servirò anche, perché sono venuto "per servire, non per essere servito" (Mt 20,28). Io sarò anche amico, e membro, e capo, e fratello, e sorella, e madre, tutto io sarò; solo, comportati familiarmente con me. Io sono stato povero per te, mendico per te, sulla croce per te, nel sepolcro per te; in cielo io supplico il Padre per te; in terra sono venuto ambasciatore per te da parte del Padre. Tutto tu sei per me: fratello, coerede, amico, membro. Che cosa vuoi di più? Perché respingi chi ti ama così?

       Crisostomo Giovanni, Comment. in Matth., 76, 5




XXX DOMENICA

135 Letture:
    
Jr 31,7-9
     He 5,1-6
     Mc 10,46-52


1. Gesù ci indica il modo di seguirlo

       Il nostro Redentore, prevedendo che gli animi dei suoi discepoli si sarebbero turbati a causa della sua Passione, predisse loro con molto anticipo sia lo strazio della Passione che la gloria della sua Risurrezione, affinché, vedendolo morente, così come era stato predetto, non avessero dubitato che sarebbe anche risorto. E siccome i discepoli erano ancora carnali e del tutto incapaci di comprendere le parole del mistero, il Signore operò un miracolo. Davanti ai loro occhi, un cieco riacquistò la vista, perché coloro che non capivano le parole dei misteri celesti per mezzo dei fatti celesti venissero consolidati nella fede. Però, fratelli carissimi, i miracoli del Signore e Salvatore nostro vanno considerati in modo tale da credere che non soltanto accaddero realmente, ma vogliono altresì insegnarci qualcosa con il loro simbolismo. I gesti di Gesù, invero, oltre a provare la sua divina potenza, con il mistero insito in loro ci istruiscono. Noi non sappiamo in verità chi fosse quel cieco, però sappiamo cosa egli significa sul piano del mistero. Il cieco è simbolo di tutto il genere umano, estromesso dal paradiso terrestre nella persona del primo padre Adamo. Da allora, gli uomini non vedono più lo splendore della luce superna, e patiscono le afflizioni della loro condanna. E nondimeno, l’umanità è illuminata dalla presenza del suo Salvatore, sì da poter vedere - almeno nel desiderio - il gaudio della luce interiore, e dirigere così i passi delle buone opere sulla via della vita.

       Una cosa è degna di nota a questo punto ed è il fatto che il cieco riacquista la vista allorché Gesù si avvicina a Gerico. Gerico sta per luna, e luna, secondo la Scrittura, indica le deficienze della umana natura. Il motivo è forse da ricercare nel fatto che essa va soggetta ogni mese a fenomeni di decrescenza, cosicché è stata designata quale espressione della fragilità della nostra carne mortale. Sta di fatto che mentre il nostro Autore si appressa a Gerico, il cieco riacquista la vista. Il che vuol dire che allorché il Signore assunse la debolezza della nostra natura, il genere umano riacquistò la luce che aveva perduto. La risposta al gesto di Dio, che incomincia a patire le umane debolezze, è il nuovo modo di essere dell’uomo, elevato ad altezze divine. Ecco perché, a buon diritto, il Vangelo dice che il cieco sedeva lungo la via a mendicare. Gesù, infatti, che è la Verità, afferma: "Io sono la via" (Jn 14,6).

       Chi perciò ignora lo splendore dell’eterna luce è cieco; se, però, già crede nel Redentore, egli siede lungo la via; se però, pur credendo, trascura di pregare per ricevere l’eterna luce, è un cieco che siede lungo la via, senza mendicare. Solo se avrà creduto e avrà conosciuto la cecità del suo cuore, pregando per ricevere la luce della verità, egli siede come cieco lungo la via e mendica. Chiunque perciò riconosce le tenebre della propria cecità, chiunque comprende cosa sia questa luce di eternità che gli fa difetto, invochi con le midolla del cuore, invochi con tutte le espressioni dell’anima, dicendo: "Gesù, Figlio di David, abbi pietà di me". Ma occorre anche ascoltare quanto segue al clamore del cieco: "Coloro che gli camminavano innanzi lo rimproveravano affinché tacesse" (Lc 18,38-39).

       Cosa mai significano quei tali che precedono Gesù che viene, se non le turbe dei desideri carnali e il tumulto dei vizi che, prima che Gesù arrivi al nostro cuore, con le loro suggestioni dissipano la nostra mente e confondono le voci del cuore in preghiera? Spesso, quando intendiamo far ritorno a Dio dopo il peccato, e ci sforziamo di pregare per la remissione di quelle colpe che abbiamo commesso, si presentano alla vista i fantasmi dei nostri peccati e accecano l’occhio dell’anima, turbano lo spirito e soffocano la voce della nostra orazione. Si spiega così il fatto che coloro che precedevano Gesù imponevano al cieco di tacere; infatti, prima che Gesù arrivi al nostro cuore, i peccati commessi si impadroniscono del nostro pensiero invadendolo con le loro immagini e turbandoci nella nostra preghiera.

       Prestiamo attenzione ora a quel che fece allora quel cieco che anelava ad essere illuminato. Continua il Vangelo: "Ma il cieco con più forza gridava: Figlio di David, abbi pietà di me!" (Lc 18,39). Vedete? Quello stesso che la turba rimproverava perché tacesse, grida con lena centuplicata, a significare che tanto più molesto risulta il tumulto dei pensieri carnali, tanto più dobbiamo perseverare nella preghiera. Sì, la folla ci impone di non gridare, perché i fantasmi dei nostri peccati spesso ci molestano anche nel corso della preghiera. Ma è assolutamente necessario che la voce del nostro cuore tanto più vigorosamente insista quanto più duramente si sente redarguita. In tal modo, non sarà difficile aver ragione del tumulto dei pensieri perversi e, con la sua assidua importunità, la nostra preghiera perverrà alle orecchie pietose di Dio.

       Ritengo che ognuno potrà trovare in se stesso la testimonianza di quanto vado dicendo. Quando ritraiamo l’anima dal mondo per orientarla a Dio, quando ci votiamo all’orazione, succede che molte cose, fatte per l’innanzi con piacere, ci diventino pesanti, moleste e importune nella preghiera. Allora, sì e no riusciamo a scacciare il pensiero di tali cose, allontanandole dagli occhi del cuore, pur usando la mano del santo desiderio. Sì e no riusciamo a vincere certi molesti fantasmi, pur levando gemiti di penitenza.

       Però, allorché insistiamo con vigore nella preghiera, fermiamo nella nostra anima Gesù che passa. Per questo viene aggiunto: "Gesù si fermò e ordinò che il cieco gli fosse condotto dinnanzi" (Lc 18,40). Ecco, colui che prima passava, ora sta. È così, perché fintanto che sopportiamo le turbe dei fantasmi, sentiamo quasi che Gesù passa. Quando invece insistiamo con forza nell’orazione, Gesù si ferma per ridarci la luce. Infatti, se Dio si ferma nel cuore, la luce smarrita è riacquistata...

       Ma ormai è tempo di ascoltare cosa fu fatto al cieco che domandava la vista, o anche cosa fece egli stesso. Dice ancora il Vangelo: "Subito recuperò la vista e si mise a seguire Gesù" (Lc 18,43). Vede e segue chi opera il bene che ha conosciuto; vede, ma non segue chi del pari conosce il bene, epperò disdegna di farlo. Se pertanto, fratelli carissimi, conosciamo già la cecità del nostro peregrinare; se, con la fede nel mistero del nostro Redentore, già stiamo seduti lungo la via; se, con la quotidiana orazione, già domandiamo la luce del nostro Autore; se, inoltre, dopo la cecità, per il dono della luce che penetra nell’intelletto siamo illuminati, sforziamoci di seguire con le opere quel Gesù che conosciamo con l’intelligenza. Osserviamo dove il Signore si dirige e, con l’imitazione, seguiamone le orme. Infatti, segue Gesù solo chi lo imita...

       E siccome noi scadiamo dall’interiore gaudio verso il piacere delle cose sensibili, egli volle mostrarci con quale sofferenza si debba ritornare a quel gaudio. Che cosa non dovrà patire l’uomo per il proprio vantaggio, se Dio stesso ha tanto patito per gli uomini? Chi dunque ha già creduto in Cristo, ma va ancora dietro ai guadagni dell’avarizia, monta in superbia per la propria dignità, arde nelle fiamme dell’invidia, si sporca nel fango della libidine, o desidera le prosperità mondane, disdegna di seguire quel Gesù nel quale ha creduto. Uno al quale la sua Guida ha mostrato la via dell’asprezza, percorre una strada diversa, perciò se ricerca gioie effimere e piaceri.

       Gregorio Magno, Hom. in Ev., 2, 1-5.8


2. Cristo è l’autentica luce del mondo

       Cristo è dunque "la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo" (Jn 1,9), e la Chiesa, illuminata dalla sua luce, diventa essa stessa "luce del mondo", che illumina "coloro che sono nelle tenebre" (Rm 2,19), come Cristo stesso attesta quando dice ai suoi discepoli: "Voi siete la luce del mondo" (Mt 5,14). Di qui deriva che Cristo è la luce degli apostoli, e gli apostoli, a loro volta, sono la luce del mondo...

       E come il sole e la luna illuminano i nostri corpi, così da Cristo e dalla Chiesa sono illuminate le nostre menti. Quantomeno, le illuminano se noi non siamo dei ciechi spirituali. Infatti, come il sole e la luna non cessano di diffondere la loro luce sui ciechi corporali che però non possono accogliere la luce, così Cristo elargisce la sua luce alle nostre menti, epperò non ci illuminerà di fatto che se non vi si oppone la cecità del nostro spirito. In tal caso, occorre anzitutto che coloro che sono ciechi seguano Cristo dicendo e gridando: "Figlio di David, abbi pietà di noi" (Mt 9,27), affinché, dopo aver ottenuto da Cristo stesso la vista, possano successivamente essere del pari irradiati dallo splendore della sua luce.

       Inoltre, non tutti i vedenti sono egualmente illuminati da Cristo, ma ciascuno lo è nella misura in cui egli può ricevere la luce. Gli occhi del nostro corpo non sono egualmente illuminati dal sole: più si salirà in alto, più si alzerà l’osservatorio dal quale lo sguardo contemplerà la sua levata, e meglio si percepirà anche il chiarore e il calore; analogamente, più il nostro spirito, salendo ed elevandosi, si sarà avvicinato a Cristo, esponendosi più da vicino allo splendore della sua luce, più magnificamente e brillantemente si irradierà il suo fulgore, come rivela Dio stesso per mezzo del profeta: "Avvicinatevi a me e io mi avvicinerò a voi, dice il Signore" (Za 1,3); e dice ancora: "Io sono un Dio vicino e non un Dio lontano" (Jr 23,23).

       Non è però che tutti andiamo a lui nella stessa maniera, bensì ciascuno va a lui secondo le proprie possibilità (Mt 25,15). O andiamo a lui insieme alle folle e allora ci ristora in parabole (Mt 13,34), solo perché il prolungato digiuno non ci faccia soccombere lungo la via (Mt 15,32 Mc 8,3); oppure, rimaniamo continuamente e per sempre seduti ai suoi piedi, non preoccupandoci che di ascoltare la sua parola, senza lasciarci turbare "dai molti servizi, scegliendo la parte migliore" che non ci verrà tolta (cf. Lc 10,39s).

       Avvicinandosi così a lui (Mt 13,36), si riceve da lui molta più luce. E se, al pari degli apostoli, senza allontanarci da lui sia pure di poco, restiamo sempre con lui in tutte le sue tribolazioni (Lc 22,28), allora egli ci espone e spiega nel segreto ciò che aveva detto alle folle (Mc 4,34) e ci illumina con maggiore chiarezza. E anche se si è capaci di andare a lui fino alla sommità del monte, come Pietro, Jc e Giovanni (Mt 17,1-3), non si verrà illuminati solamente dalla luce di Cristo, ma anche dalla voce del Padre in persona.

       Origene, Hom. in Genesim, 1, 6-7





Lezionario "I Padri vivi" 133