Lezionario "I Padri vivi" 178

VIII DOMENICA

178 Letture:
    
Si 27,5-8
     1Co 15,54-58
     Lc 6,39-45

1. Anche i cattivi possono dir cose buone, ma...

       Se, dunque, anche i cattivi possono dir cose buone, chiediamo un po’ al Cristo, non per contestarlo, ma proprio per imparare da lui: Signore, se i cattivi possono dir cose buone - per cui ci ordinasti: fate quello che dicono, ma non fate quello ch’essi fanno - se possono dir cose buone, com’è che altrove dici: "Ipocriti, non potete dir nulla di buono, perché siete cattivi" (Mt 12,34)?

       Riflettete sul problema, perché con l’aiuto del Signore possiate vederne la soluzione. Vi ripeto la domanda. Il Cristo dice: "Fate ciò che dicono, ma non fate ciò che fanno, perché dicono e non fanno". Essi stessi non fanno quello che insegnano. Perciò dobbiamo fare quello che dicono, ma ciò ch’essi fanno, noi non lo dobbiamo fare. Altrove è detto: "Che forse si raccoglie uva dalle spine o fichi da un cespuglio? L’albero lo si riconosce dai suoi frutti" (Mt 7,16). Che dobbiamo fare, allora? Come dobbiamo interpretare queste parole? Ecco qua rovi e spine. Fate. Mi chiedi di raccogliere uva dalle spine: qua comandi, là proibisci, come farò a ubbidire? Senti, cerca di capire. Quando dico: "Fate ciò che dicono, non fate ciò che fanno", devi ricordarti di quella mia parola: "Si son seduti sulla cattedra di Mosè". Quando dicono cose buone, non son loro a dirle, è la cattedra di Mosè che le dice. La cattedra sta per la dottrina, è la dottrina di Mosè che parla; e la dottrina di Mosè sta nella loro memoria, ma non sta nelle loro opere. Quando però son loro a parlare, quando esprimono se stessi, qual è il commento? "Come potete dir cose buone voi, che siete cattivi"? Sentite l’altra similitudine. Non andate a cercar uva tra le spine; perché l’uva non viene sulle spine. Ma non vi siete accorti del tralcio che, crescendo, si spinge nella siepe, si mescola alle spine e lì fiorisce e tira fuori un grappolo? Hai fame, passi e vedi un grappolo tra le spine. Hai fame e vorresti prenderlo: prendilo, allunga la mano con cautela: guardati dalle spine, prendi il frutto. Così quando un uomo, sia pur pessimo, ti offre la dottrina di Cristo: ascoltala prendila, non rigettarla. Se lui è cattivo, le spine son sue, se dice cose buone, il grappolo pende tra le spine, non nasce dalle spine. Se hai fame, prendilo, ma guarda le spine. Se ti metti a imitar le sue azioni, stendi incautamente la mano: hai afferrato le spine prima del frutto: ne resti ferito, graffiato: non è il frutto che ti nuoce, esso viene dall’uva, sono le spine, che hanno un’altra radice. Per non sbagliarti, guarda dove prendi il frutto: c’è la vite. C’è un tralcio e vedi che appartiene alla vite, vien dalla vite, ma è capitato tra le spine. Dovrebbe forse la vite trattenere i suoi tralci? Così capita alla dottrina di Cristo: cresce, si spande e s’innesta su alberi buoni e su spine cattive e vien poi annunziata da buoni e da cattivi. Ti tocca guardare da dove viene il frutto, da dove nasce ciò che ti alimenta e da dove viene ciò che ti punge; si presentano insieme, ma la radice è diversa.

       Agostino, Sermo Guelferb. 32, 10


2. La reciprocità dell’amore verso il Maestro divino

       È conveniente che noi si pratichi un amore di reciprocità verso chi, per amore, ci guida ad una vita migliore; che noi si viva secondo i dettami della sua volontà, non solo in adempienza di quanto egli ordina di fare o astenendoci da quanto egli vieta, ma fuggendo altresì taluni esempi e imitando il più possibile gli altri; è così che compiremo, per similitudine, le opere del Pedagogo e che si realizzerà appieno la parola: "Ad immagine e somiglianza" (Gn 1,26).

       Impegnati in questa vita come in una notte profonda, abbiamo bisogno effettivamente di una guida infallibile e precisa. Ora, la migliore guida non è certo il cieco che, secondo la Scrittura, portato per mano da un altro cieco, conduce al precipizio ( parr.); è invece il Logos il cui sguardo penetrante arriva al fondo dei cuori (Jr 17,20 Rm 8,27).

       E come non può esistere luce che non illumini, né oggetto in movimento che non si muova, né essere amante che non ami, così non può darsi un bene che non sia benefico e non conduca alla salvezza.

       Amiamo dunque i precetti del Signore traducendoli nelle azioni: il Logos, facendosi carne (Jn 1,14), ha manifestamente indicato che una stessa virtù concerne ad un tempo la vita pratica e la contemplazione. Sì, assumiamo il Logos come legge; riconosciamo che i suoi precetti e i suoi consigli sono sentieri accorciati e rapidi verso l’eternità: infatti, i suoi comandi sono pieni di forza persuasiva, e non di paura.

       Clemente di Alessandria, Paedagogus, 1, 3, 9


3. I frutti dello Spirito

       Ecco poi una grande lezione di virtù, che ci insegna a non attendere la fertilità da ciò che è sterile, né aspettare un abbondante raccolto da un terreno non lavorato. A ciascuno la terra dà il frutto per quanto l’ha coltivata: tra le spine di questo mondo non potrai trovare il fico che, eccellendo per il sapore dei suoi frutti, è ben scelto per raffigurare l’immagine della risurrezione. Tu hai letto: "I fichi hanno dato frutti non maturi" (Ct 2,13), cioè i frutti della sinagoga sono apparsi fin da principio immaturi, inutili e caduchi; anche la nostra vita non è matura in questo corpo, lo sarà nella risurrezione.

       Per questo dobbiamo tener lontane da noi le sollecitudini terrene, che logorano l’anima e inaridiscono lo spirito, se vogliamo raccogliere i frutti maturi di una diligente coltivazione. Tutto questo non possiamo trovarlo nei campi incolti di questo mondo, poiché "da spini non si colgono fichi, né da rovi si vendemmia l’uva" (Lc 6,44). Il primo detto si riferisce al mondo e alla risurrezione; l’altro, all’anima e al corpo: sia perché nessuno raggiunge con i peccati la maturazione della sua anima, la quale come l’uva, si corrompe se sta vicina alla terra e matura bene se sta in alto; sia perché nessuno può sfuggire alla condanna della carne se non colui che è stato redento da Cristo che come l’uva, fu sospeso al legno.

       Ambrogio, In Luc., 5, 81


4. A proposito di coloro che hanno mal rinunciato

       Provo ritegno persino a dirlo, ma tanti di coloro che vediamo aver operato rinunce, lo hanno fatto senza mutare nei vizi precedenti sì che hanno cambiato solo l’apparenza e l’abito secolare. Infatti, si sforzano di acquistare quelle ricchezze che prima non possedevano; certamente, poi, non abbandonano quelle che in precedenza avevano.

       Oppure, il che è ancora più lugubre, desiderano persino moltiplicarle, con il pretesto che hanno servi e fratelli da mantenere con quelle, come ne avessero un preciso obbligo. O ancora, siccome presumono di diventare abati, si riservano le ricchezze per fondare in seguito una qualche nuova comunità. Tutti costoro, se cercassero davvero la via della perfezione, si sforzerebbero di aderire a questa con tutte le forze, liberandosi non solo dalle ricchezze, ma altresì dagli affetti di un tempo e da tutte le altre distrazioni. Porrebbero se stessi, soli e spogli di tutto, sotto la potestà degli anziani, per non aver alcuna sollecitudine gravosa per gli altri, ma anche per non dover guidare se stessi.

       Capita invece che, mentre si affannano ad eccellere sui fratelli, mai si sottomettono agli anziani. Mossi dalla superbia, mentre bramano ammaestrare gli altri, né apprendono per sé, né meritano di fare quelle cose che appartengono a Dio e sono da farsi.

       A costoro è opportuno applicare la sentenza del nostro Salvatore, secondo la quale è inevitabile che dei ciechi divenuti guide di altri ciechi, finiscano insieme in un fossato (Mt 15,14).

       Cassiano Giovanni, Collationes, 4, 20


5. La Scrittura è il nostro paradiso terrestre

       Anche ora Dio passeggia nel paradiso, quando leggo la divina Scrittura. Il paradiso è il libro della Genesi, nel quale pullulano le virtù dei Patriarchi. È paradiso il Deuteronomio, in cui germinano i precetti della Legge. È paradiso il Vangelo in cui l’albero della vita fa buoni frutti e diffonde tra tutti i popoli le direttive dell’eterna speranza.

       Ambrogio, Epist., 49, 3


6. Non giudicate (Mt 7,15)

La vista mia accorciata dal peccato,

non scorgo più la trave nel mio occhio;

la pagliuzza dell’altro con acume vedo,

così all’ipocrita divenendo affine.

       Nerses Snorhali, Jesus, 426


7. La Parola di Dio è impegnativa

       Pambos, essendo un analfabeta, chiese a un tale che gl’insegnasse un Salmo. Ma sentito appena il primo verso del Salmo 38 che dice: «Ho detto: Seguirò la mia via, per essere fedele alla mia parola», se ne andò senza neanche sentire il resto, dicendo che questo verso era sufficiente, purché si fosse impegnato a praticarlo con le opere. Lamentandosi poi colui che gli aveva insegnato il primo verso, che dopo sei mesi non si era fatto più vedere, rispose ch’egli ancora non era riuscito a metterlo veramente in pratica. Poi dopo molti anni, interrogato da un amico se avesse ormai imparato quel verso, disse: Diciannove anni interi a stento bastano per imparare a praticarlo.

       Socrate lo Scolastico, Hist. Eccles., 4, 23




IX DOMENICA

179 Letture:
    
1R 8,41-43
     Ga 1,1-2 Ga 1,6-10
     Lc 7,1-10

1. La fede del centurione

       È molto bello che il Signore, subito dopo avere completato i precetti, ci insegni ad osservarli con il suo esempio. Ecco che viene presentato al Signore il servo di un centurione pagano, perché sia guarito: questi raffigura il popolo dei Gentili, che era prigioniero nelle catene della schiavitù del mondo, ammalato di passioni mortali, e che dalla benevolenza del Signore doveva essere guarito. Dicendo che il servo stava per morire, l’evangelista non esagera: sarebbe morto, infatti, se Cristo non lo avesse guarito. Egli ha dunque adempiuto il precetto con la sua carità, mostrando amore per i nemici sino al punto di strapparli alla morte e di ridar loro la speranza della eterna salvezza.

       Ma quale segno di umiltà divina c’è nel fatto che il Signore del cielo non disdegna di visitare il piccolo servitore del centurione! La fede risplende nelle opere, ma l’umanità opera di più nel campo dei sentimenti. E ciò fece non perché non potesse guarire a distanza, ma per dare un esempio di umiltà da imitare, insegnando ad avere per gli umili gli stessi riguardi che si hanno verso i grandi. Del resto, egli dice in altra circostanza ad un ufficiale regio: "Va’, tuo figlio è vivo" (Jn 4,50), per mostrarti sia la potenza della sua divinità sia il servigio della sua umiltà. In quella circostanza non volle andare nella casa dell’ufficiale regio, per non sembrare, dato che si trattava di suo figlio di avere troppa considerazione per le ricchezze di quell’uomo potente; qui, invece, va di persona dal servo del centurione perché non sembrasse che egli, in quel poveretto ammalato, disprezzasse la condizione servile: tutti infatti, schiavi e uomini liberi, siamo una sola cosa in Cristo (Ga 3,28 Col 3,11).

       Tu vedi qui come la fede costituisca la condizione per ottenere la guarigione. Considera anche come il popolo dei Gentili, in qualche modo, riesca a penetrare il mistero. Il Signore va; ed il centurione si scusa con lui e, dimenticando l’orgoglio del comando, si atteggia a riverenza, si mostra disposto a credere, e si affretta a rendergli onore. Fa bene il centurione, come rileva Luca, a inviare alcuni suoi amici incontro al Signore, per non sembrare di voler offendere, con la sua presenza, la riservatezza di lui, e reclamare, col suo ossequio, l’ossequio di lui.

       Quanto alle parole: "In nessuno d’Israele ho trovato tanta fede" (Lc 7,9), il senso è semplice e facile; esse, secondo il testo greco, significano: «Neppure in Israele ho trovato tanta fede». Per la sua fede, quest’uomo vien posto al di sopra dei più eletti, cioè di quelli che vedono Dio (Gn 32,28-31).

       Vedi bene anche l’ordinata distribuzione della grazia: la fede del padrone viene lodata, e la vita del servo viene salvata. Il merito del padrone può dunque recar vantaggio anche al servo, non solo per la fede dimostrata, ma anche per lo zelo nella sua condotta.

       È qui il caso di considerare ancora l’umiltà del Signore: egli compie quanto non aveva promesso. Infatti, sebbene non avesse ancora comandato la guarigione, i servi che erano stati inviati incontro a lui, tornati nella casa del centurione, trovarono il servo risanato.

       Ambrogio, In Luc., 5, 83-85


2. Il figlio del centurione

       La fede del centurione preannunzia la fede dei Gentili, al pari del granello di senape, fede umile e fervida. Suo figlio, come avete sentito, era malato, e giaceva paralitico in casa; il centurione pregò il Salvatore per la salute del proprio figlio. E il Signore promise che sarebbe andato a salvare suo figlio. Ma quegli, come ho già detto, fervidamente umile, e umilmente fervido: "Non son degno" - disse - "o Signore, che tu entri sotto il mio tetto" (Mt 8,8). Diceva di essere indegno di ospitare il Signore sotto il proprio tetto; e tuttavia non avrebbe detto cotali parole, se il Signore non fosse già entrato nel suo cuore. Dipoi aggiunse: "Ma di’ soltanto una parola, e mio figlio sarà risanato ()". So a chi parlo: parla e sarà fatto ciò che voglio. E aggiunse una similitudine quanto mai soave e vera. "Infatti anch’io", disse, "sono uomo", tu Dio: "io sottoposto ad altri", tu al di sopra di ogni potestà: "ed ho sotto di me dei soldati, tu invece gli angeli; e dico ad uno, va’, ed egli va; e ad un altro, vieni, ed egli viene; ed al mio servo, fa’ questo, ed egli lo fa" (Mt 8,9). Tue serve son tutte le creature: basta che tu ordini, vien fatto ciò che comandi.

       E il Signore: "In verità vi dico, non ho trovato altrettanta fede in Israele" (Mt 8,10). Voi sapete perché il Signore ha preso la carne da Israele, dal seme di David, da cui proviene la Vergine Maria, che ha partorito il Cristo; e ad essi egli è venuto, ad essi ha mostrato il volto della propria carne, la sua bocca di carne ha risuonato alle loro orecchie, la sua figura corporea si proponeva ai loro occhi. La sua presenza veniva offerta ai Giudei: promessa ai padri, veniva offerta ai figli. E nondimeno questo centurione era uno straniero, della stirpe dei Romani, e faceva colà il militare; e preferì la fede di questi alla fede degli Israeliti, tanto da dire: "In verità vi dico, non ho trovato altrettanta fede in Israele". Cosa pensiamo abbia egli lodato nella fede di costui? L’umiltà. "Non son degno che tu entri sotto il mio tetto". Questo, lodò: e perché ha lodato questo, entrò in essa. L’umiltà del centurione era la porta del Signore che entrava, affinché quegli potesse possedere più pienamente colui che già possedeva...

       Rivolto al centurione: "Va’" (gli disse), "ti sia fatto come hai creduto; e il ragazzo fu risanato in quella stessa ora" (Mt 8,13). Così come credette, così avvenne. "Di’ una sola parola, e sarà risanato": disse una parola, ed è stato risanato. "Come hai creduto, ti sia fatto": dalle membra del ragazzo si dileguò la salute precaria. Con quale mirabile facilità comanda il Signore ad ogni creatura! Non fatica infatti a comandare. Oppure il Signore della creatura è tale che, mentre comanda agli angeli, non si degna di comandare agli uomini? Oh, volessero gli uomini servire! Felice chi, ricevuto il comando dentro, non dall’orecchio della carne bensì da quello del cuore, dirige se stesso là dove egli indirizza.

       Agostino, Sermo Morin 6, 1-2, 4


3. La fede è capace di indurre uno a preferir la perdita della vita che si vede, per una vita che non si vede

       Quant’è grande, quant’è meravigliosa la fede! È cosa grande la fede, ma dov’è? Vediamo a vicenda le nostre facce, la nostra figura, i nostri vestiti, distinguiamo anche con l’orecchio le nostre voci e parole; ma dov’è questa fede di cui sto parlando? Ecco, nessuno la vede, eppure questa fede, che nessuno vede qui nella casa di Dio, ha fatto venire tutta questa folla. È grande, dunque, la fede, come dice anche il Signore nel Vangelo: "Ti sia fatto secondo la tua fede". E poi lo stesso Signore nostro Dio, lodando la fede di certuni dice: "Non bo trovato tanta fede in Israele". Non fa meraviglia, quindi, se per la fede, che non si vede, venga disprezzata la vita, che si vede, perché si possa conquistare una vita che non si vede.

       Agostino, Sermo Guelferb. 28, 2


4. Guarigione del servo del centurione

       Il centurione si presentò con gli anziani del popolo e chiese al Signore di non disdegnare di andare a salvare il suo servo. E siccome il Signore aveva accettato di andare con lui (Lc 7,3-6 Mt 8,5-7), "egli aggiunse: Signore, non disturbarti, ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito" (Lc 7,6-7). "Quando il Signore ebbe sentito ciò, ne rimase ammirato" (Lc 7,9). Dio ha ammirato un uomo. "E disse: Non ho mai trovato una tal fele in Israele" (Mt 8,10), per confondere gli Israeliti che non avevano creduto in lui, come invece faceva quello straniero. Il centurione aveva condotto con sé degli Israeliti e li aveva portati per servirsene come avvocati, ma essi furono ripresi, perché non avevano la fede del centurione. Ecco perché: "Essi andranno nelle tenebre esteriori" (Mt 8,12).

       Efrem, Diatessaron, 6, 22


5. La fede nella Santissima Trinità

       "Preghiera" - Conserva, te ne supplico, la incontaminata religione della mia fede, e conservami la voce della coscienza fino a che io renda lo spirito: cosicché ottenga sempre per il Simbolo della mia rigenerazione, battezzato nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, ciò che ho professato: che naturalmente adori te, nostro Padre, e insieme con te, tuo Figlio: che io meriti il tuo Santo Spirito, il quale da te per il tuo Unigenito procede. Egli che si è fatto valido testimone alla mia fede, dicendo: "Padre, tutte le mie cose sono tue, e le tue sono mie" (Jn 17,10), il mio Signore Gesù Cristo, che rimane in te e da te e presso di te è sempre Dio, benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

       Ilario di Poitiers, De Trinitate, 12, 57


6. Il centurione (Mt 8,5-13)

Fui arruolato a servir il Cesare terreno

e mi fu dato un comando di centuria;

vorrei gridare anch’io al par di lui

la sua parola tutta supplicante:

«Di certo, Signore, io non son degno

d’offrirti il tetto della mia dimora;

Tu, Verbo, comanda con una parola»;

il male mio, come quel del servo, sposta!

       Nerses Snorhali, Jesus, 438-439




X DOMENICA

180 Letture:
    
1R 17,17-24
     Ga 1,11-19
     Lc 7,11-17


1. Risurrezione del figlio della vedova di Naim

       "Come fu presso la porta della città, ecco che trasportavano un morto, unico figlio di sua madre, e questa era vedova, e molta gente era con lei. Il Signore, vedendola, ne ebbe compassione e le disse: «Non piangere». E avvicinatosi, toccò la bara" (Lc 7,12-13).

       Anche questo passo è ricco di un doppio insegnamento: ci fa comprendere come la divina misericordia venga toccata dal dolore di una madre vedova, addolorata per la perdita del suo figlio unico, di una vedova cui però la folla in lutto restituisce un certo modo i benefici della maternità; d’altra parte, questa vedova, circondata da una folla di popolo, ci sembra assai più di una donna: essa con le sue lacrime ha meritato d’ottenere la risurrezione dell’adolescente, suo figlio unico, così come la santa Chiesa richiama alla vita, dal corteo funebre e dalle profondità del sepolcro, il popolo più giovane, grazie alle sue lacrime, mentre viene proibito di piangere colui cui è riservata la risurrezione.

       Orbene, questo morto era portato alla tomba, nella bara, dai quattro elementi della materia; ma esso portava la speranza della risurrezione poiché veniva trasportato nel legno. Quel legno non giovò subito, è vero: ma non appena Gesù lo toccò, esso cominciò a comunicare la vita, perché era un chiaro simbolo della salvezza che doveva diffondersi su tutti, dal patibolo della croce.

       Appena udite le parole del Signore, i quattro lugubri portatori della bara si fermarono: essi trascinavano il corpo umano nella mortale vicenda della sua natura materiale. Che altro significa ciò se non che anche noi ci troviamo distesi senza vita in una bara, strumento dell’ultima sepoltura, allorquando il fuoco smisurato della cupidigia senza freni ci consuma, oppure l’amore freddo ci gela, o un certo abituale torpore del corpo smorza il vigore dell’anima, o il nostro spirito, privo della vera luce, s’annebbia nell’intelligenza? Questi sono infatti i portatori del nostro funerale.

       Ma, sebbene i supremi sintomi della morte facciano scomparire ogni speranza di vita, sebbene i corpi dei defunti giacciano vicini al sepolcro, purtuttavia, per la Parola di Dio, i cadaveri già in disfacimento si rialzano, ritorna la voce, ed ecco il figlio viene restituito alla madre, è richiamato dalla tomba, strappato al sepolcro.

       Che cosa rappresenta questa tomba se non i cattivi costumi? La tua tomba è la mancanza di fede, il tuo sepolcro è la gola -infatti "la loro gola è un sepolcro spalancato" (Ps 5,11) - che pronunzia parole di morte. Da questo sepolcro ti libera Cristo, e tu da questo sepolcro risorgerai se ascolterai la Parola di Dio.

       Anche se sei in grave peccato, un peccato che non puoi lavare con le lacrime del pentimento, ebbene, che pianga allora per te la madre Chiesa, che interviene per ciascuno dei suoi figli come interviene la madre vedova per il suo figlio unico; essa piange per una sofferenza spirituale che in lei è naturale quando vede i suoi figli spinti verso la morte dai vizi funesti. Noi siamo le viscere delle sue viscere: vi sono infatti anche viscere spirituali, quelle che Paolo mostrava di possedere quando diceva: "Sì, fratello, possa io trarre da te qualche utile per il Signore; acqueta le mie viscere in Cristo" (Fm 20). Noi siamo le viscere della Chiesa perché siamo membra del suo corpo, siamo fatti della sua carne e delle sue ossa.

       Che pianga dunque la tenera madre, e un popolo, un popolo numerosissimo partecipi al dolore della buona madre. Allora tu ti risolleverai dalla morte, allora sarai liberato dal sepolcro; i portatori della tua bara si arresteranno, e tu comincerai a dire parole di vita; tutti avranno timore. E per l’esempio di uno solo molti si metteranno sulla diritta via, e loderanno Dio per averci accordato tanti potenti rimedi per evitare la morte.

       Ambrogio, In Luc., 5, 89-92


2. Dalla morte alla vita

       Gesù andava in un villaggio chiamato Naim e andavano con lui i discepoli e una gran folla. Avvicinandosi alla porta del villaggio, s’incontra col funerale d’un ragazzo; era figlio unico, e la madre era vedova; e c’era tanta gente. Questa vedova, seguita dalla folla, è la santa Chiesa. Della quale è detto: "Benedirò la sua vedova" (Ps 131,15). È vedova non perché non abbia marito, ma perché non lo può vedere; aspetta che venga alla fine dei tempi. È detta vedova, perché staccata dal marito. E questo vale per una donna vedova e per il tempo presente. Alla Chiesa del tempo presente il Signore si avvicina, perché non manca di visitare ogni giorno la sua Chiesa. Da questa vien portato via un defunto ogni volta che uno, morto per il peccato, si separa dalla Chiesa. La pia madre tuttavia lo segue in lacrime, perché neanche del figlio fuggitivo si dimentica la Chiesa. Piange infatti ogni giorno per quelli che peccano e non fanno penitenza dei loro peccati (2Co 12,21). Commosso a quella vista il Signore le disse: "Non piangere. E s’avvicinò e toccò la bara. I portatori si fermarono ed egli disse al morto: Ragazzo, te lo dico io, alzati. E quello ch’era morto si mise a sedere e cominciò a parlare. Ed egli lo diede a sua madre ()". Dio consolatore degli afflitti guarda soprattutto le lacrime versate sui peccati degli altri. Tocca la bara, ferma i portatori e risuscita il morto, quando con la sua visita induce l’uomo alla penitenza. Son cattivi portatori quelli che conducono un uomo a seppellire. Son buoni portatori quelli che dal sepolcro riportano un uomo alla vita.

       Bruno di Segni, In Lc., 1, 7


3. I miracoli di Gesù Cristo sono significativi

       I miracoli del Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo commuovono tutti coloro che li sentono, ma chi in un modo e chi in un altro. Alcuni si fermano stupiti dinanzi al fatto esteriore e non penetrano ciò che è più grande. Altri invece dalle grandi cose operate nei corpi arrivano ad ammirare l’opera ancora più grande che è nelle anime. Il Signore stesso dice: "Come il Padre risuscita i morti e li vivifica, così anche il Figlio vivifica chi vuole" (Jn 5,21). Non dice che altri siano i risuscitati del Padre e altri i risuscitati del Figlio, ma gli stessi li risuscita il Padre e il Figlio; perché il Padre fa tutto attraverso il Figlio. Nessuno, dunque, che sia cristiano, metta in dubbio che anche oggi i morti vengano risuscitati. Ogni uomo ha gli occhi per veder risorgere i morti, come fu risuscitato il figlio della vedova; ma gli occhi per veder risorgere coloro che son morti nel cuore, li hanno solo quelli che son già risorti nel loro cuore. È cosa molto più grande risuscitare uno che non morrà più, che risuscitare uno che morirà di nuovo.

       Di quel giovane risuscitato si rallegrò la madre vedova; degli uomini che risuscitano spiritualmente ogni giorno si rallegra la madre Chiesa. Quello era morto nel corpo; questi nell’anima. La morte di quello era visibile ed era visibilmente pianta; la morte di questi è invisibile e non è vista. Ma la cerca colui che riconosce i morti; e riconosce i morti solo colui che li può restituire alla vita. Se, infatti, il Signore non fosse venuto per risuscitare i morti, l’Apostolo non potrebbe dire: "Alzati, tu che dormi, sorgi dai morti e t’illuminerà il Cristo" (Ep 5,14). Pensi a un addormentato, quando dice: "Alzati, tu che dormi", ma comprendi che è un morto, quando senti: "Sorgi dai morti". Spesso si parla di morte con la parola «sonno». E, veramente, per chi li può risuscitare, essi dormono. È morto, infatti, per te, uno che, per quanto lo tocchi, stuzzichi o dilanii, non si sveglia. Per Cristo, invece, dormiva quel tale, cui disse: "Alzati", e subito egli s’alzò. Nessuno sveglia così facilmente uno che dorme, come Cristo richiama uno dal sepolcro.

       Abbiamo tre risuscitati visibilmente da Cristo, migliaia invisibilmente. Ma, veramente, chi può dire quanti furono visibilmente risuscitati? Non è stato scritto tutto ciò ch’egli fece. Giovanni dice: "Fece Gesù molte altre cose, che se fossero state scritte, penso che il mondo non potrebbe contenerne i libri" (Jn 21,25). Certamente, dunque, molti altri furono risuscitati; ma non a caso solo tre ne sono stati registrati. Il Signore Gesù voleva che i fatti fisici avessero una portata spirituale. Non faceva il miracolo per il miracolo; voleva che ciò che destava meraviglia a chi vedeva, insegnasse una verità a chi la comprendeva. Come uno che vede le lettere di un codice scritto bene se non sa leggere, loda la bellezza della scrittura; ma che cosa dicano quei segni, non lo sa dire. Un altro, invece, apprezza la bella scrittura e ne capisce il senso; ma questo deve saper leggere. Così quelli che videro i miracoli di Cristo, senza capirne il senso e che cosa volessero suggerire a chi li comprendeva, ammirarono solo l’avvenimento; altri, invece, ammirarono il fatto e ne compresero il valore. Questi dobbiamo essere noi nella scuola di Cristo.

       Agostino, Sermo 98, 1-3


4. La voce che ridona la vita

L’anima mia, vedova, piange con la vedova,

come a Naim, il proprio figlio morto;

come di lei, anche di me abbi pietà, Signore;

della voce vivificante fammi degno!

       Nerses Snorhali, Jesus, 460




XI DOMENICA

181 Letture:
    
2S 12,7-10 2S 12,13
     Ga 2,16 Ga 2,19-21
     Lc 7,36 Lc 8,1-3

1. La falsa giustizia del Fariseo e il pentimento di Maria

       Perché vide le macchie della sua turpitudine corse a lavarsi alla fontana della misericordia, e non si vergognò dei convitati. Poiché si vergognava di se stessa dentro di sé, neanche pensò che ci fosse qualche cosa di cui si dovesse vergognare innanzi agli altri. Che cosa, allora, ci deve stupire: Maria che va dal Signore, il Signore che l’accoglie? Che l’accoglie o che la trascina? Dirò più esattamente che l’accoglie e la trascina, poiché la trascinò, nell’anima, con la sua misericordia e l’accolse esteriormente con la sua mansuetudine. Al vedere questo, il Fariseo disprezza non solo la peccatrice che si presenta, ma anche il Signore che l’accoglie, e dice tra sé: "Se fosse un profeta costui, saprebbe certamente che razza di donna è questa che lo tocca" (Lc 7,39). Ecco il Fariseo veramente superbo e falsamente giusto accusa la malata della sua malattia e il medico per il soccorso che le porta, lui che era malato di superbia, e non lo sapeva. Fra i due malati sta il medico. Ma un malato conserva nella febbre la sua capacità di sentire; l’altro, per la febbre della carne, aveva perduto la forza della mente. Infatti quella piangeva per ciò che aveva fatto; il Fariseo, invece, orgoglioso della sua falsa giustizia accresceva la forza della sua malattia. Nella malattia aveva proprio perduto i sensi, costui, se neanche capiva quanto fosse lontano dalla salvezza. Intanto un gemito ci obbliga a volgere lo sguardo ad alcuni del nostro grado, i quali, rivestiti della dignità sacerdotale, se hanno fatto un qualche bene esteriormente, subito disprezzano gli altri, disdegnano i peccatori e, se confessano i loro peccati, non mostrano loro alcuna comprensione, anzi, come il Fariseo, si guardano bene dal farsi toccare da una peccatrice. Se, infatti, quella donna si fosse gettata ai piedi del Fariseo, questi l’avrebbe cacciata a calci, avrebbe creduto di rimanere sporcato dai suoi peccati. Ma per il fatto che gli mancava la giustizia, il Fariseo s’ammalava per il peccato altrui. Perciò ogni volta che vediamo i peccati degli altri, dobbiamo prima piangere su noi stessi, perché forse siamo caduti negli stessi peccati, o possiamo cadervi. E anche se l’ufficio c’impone di censurare il vizio, dobbiamo tuttavia distinguere tra la severità contro il vizio e la compassione dovuta alla natura. Se il vizio, infatti, va colpito, il prossimo dev’essere sostenuto, poiché nel momento in cui detesta ciò che ha fatto, il prossimo non è più peccatore... Pertanto, fratelli, ponderate la grandezza della pietà del Signore. Eccolo che chiama, e coloro ch’egli ha denunziato come peccatori, li invita al suo abbraccio dopo che lo hanno abbandonato. Nessuno, allora, perda l’occasione d’una così grande misericordia, nessuno disprezzi la medicina offerta dalla divina bontà. Ecco, la divina misericordia ci richiama, dopo che abbiamo peccato, e ci apre, se torniamo, le braccia della sua clemenza. Rifletta bene ciascuno quanta pressione eserciti questo Signore che aspetta il peccatore e, disprezzato, non s’indigna. Perciò, chi s’è allontanato, ritorni; chi è caduto si rialzi... Ripensate, fratelli, a questa peccatrice penitente e imitatela. Detestate ciò che ricordate d’aver fatto nell’adolescenza o nella gioventù, lavate con le lacrime la sporcizia delle azioni. Amiamo le piaghe del nostro Redentore, piaghe che abbiamo disprezzato peccando. Ecco, si apre, per accoglierci, il seno della divina bontà; la nostra vita di peccato non viene respinta. Se detestiamo la nostra cattiveria, già questo ci ridona una purezza interiore. Il Signore ci abbraccia al nostro ritorno, perché per lui non può essere indegna la vita di un peccatore, se è lavata col pianto, in Gesù Cristo nostro Signore.

       Gregorio Magno, Hom., 33, 1-8


2. Il Signore della vita

       Se dunque il Signore, per effetto della sua grazia e della sua grande misericordia, risuscita le anime per farle vivere in eterno, abbiamo ragione di vedere in quei tre morti che egli risuscitò alla vita terrena la rappresentazione e il simbolo della risurrezione delle anime che si realizza attraverso la fede. Egli risuscitò la figlia del capo della sinagoga che giaceva morta nella sua casa (Mc 5,41-42); risuscitò il figlio della vedova, che era già stato trasportato fuori le mura della città (Lc 7,14-15); risuscitò infine Lazzaro che era stato sepolto da quattro giorni.

       Rifletta ognuno sulla sua anima; se pecca, muore, poiché il peccato è la morte dell’anima. Ma talvolta il peccato è commesso solo nel pensiero. Il male ti attira, cedi ad esso e pecchi. È il consenso che hai dato al peccato, che ti uccide; però la morte è solo dentro di te, perché quando è nel pensiero, il male non si è ancora esternato in un atto. Il Signore volle appunto significare la risurrezione dell’anima che pecca con il pensiero, quando risuscitò la fanciulla che non era ancora stata portata fuori, ma giaceva morta in casa, intendendo, per casa, l’anima nella quale il peccato è nascosto. Ma se non soltanto hai ceduto col pensiero al peccato, ma lo hai anche commesso con le opere, è come se tu lo avessi portato fuori; già sei fuori, e vi sei stato trasportato morto. Il Signore risuscitò anche quel giovane e lo restituì a sua madre, che era vedova. Se hai peccato, ebbene, pentiti, il Signore ti risuscita e ti restituisce alla Chiesa, che è la tua madre. Il terzo morto è Lazzaro. Siamo di fronte al caso più grave, che è l’abitudine cattiva al peccato. Una cosa infatti è peccare, un’altra è avere l’abitudine al peccato. Chi pecca, ma subito si corregge, è ben presto restituito alla vita: non è avvolto nella consuetudine, e perciò non è sepolto. Chi invece continua a peccare è come se fosse seppellito, e giustamente si dice di lui che emana fetore, nel senso che la pessima fama di peccatore che si è fatto, si diffonde ovunque come un insopportabile odore. Così sono coloro che ormai sono assuefatti al peccato e ai costumi depravati. Tu dici a uno di costoro: Non farlo! Ma come può udirti chi è come seppellito sottoterra, corrotto, oppresso dal peso dell’abitudine al peccato? E tuttavia la potestà di Cristo fu sufficiente anche a risuscitare un simile morto. Abbiamo conosciuto, abbiamo visto, e tutti i giorni vediamo, uomini che spezzano le malvagie abitudini, per vivere più santamente di coloro stessi che rimproveravano i loro delitti. Tu, per esempio, rimproveravi la condotta di qualcuno: ebbene, guarda la sorella di Lazzaro (ammesso che sia lei la peccatrice che unse i piedi del Signore e con i capelli glieli asciugò dopo averglieli lavati con le lacrime); la sua risurrezione è più grande di quella di suo fratello, perché è liberata dall’enorme peso della consuetudine al peccato. Essa era infatti una famosa peccatrice: e fu per lei che il Signore disse: Molti peccati le sono stati rimessi, perché molto ha amato (Lc 7,47).

       Abbiamo visto e conosciuto molti peccatori di questo genere; che nessuno si disperi, ma anche che nessuno nutra troppa presunzione di sé. È male disperare, ma è male anche presumere troppo, nutrire eccessiva fiducia. Quindi non disperare, ma stai stretto a ciò in cui devi avere fiducia.

       Agostino, Comment. in Ioan., 49, 3


3. C’e misericordia per chiunque la vuole

       Se, quando ancora non eri, il Signore fece sì che ci fossi ora, che ci sei, sebbene putrido di peccati, rifatti, ed egli potrà ancora, dopo averti rigettato, utilizzarti per tante altre cose. Questo vuole il Signore, purché ci sia la tua volontà: non c’è infatti nessun delitto, che non venga estinto dalle salutari lacrime della penitenza; e questo lo comprenderai più facilmente se mediterai su quel potente amo del Signore, che ripescò un pubblicano nella sua infinita miseria e del fango ne fece oro e uno scrittore del divino Vangelo (Mt 9,9). Per qual motivo poi volle salvare una donna a tutti notissima? (Lc 7,37). Perché ancora volle fare un ladro degno del paradiso? (Lc 23,43). Perché cambiò dei maghi incantatori in ottimi messaggeri della sua venuta? Per pietà di te si sedette a mangiare con pubblicani e peccatori, desiderando la loro conversione. Perché insegnò perfino ai bestemmiatori e persecutori del suo Nome a celebrarlo con inni (Ac 9,1s) e li avviò a trattare di teologia, ad esporre il loro capo per la verità e li indusse a vivere non più per se stessi ma solo per Dio, e a menare qui in terra una vita angelica e a stimare nulla e danno tutto ciò che si vede? E come trasse alla luce coloro che stavano seppelliti nella corruzione e li esortò a odiare il peccato e li spinse a liberarsi da ogni iniquità e li ridusse a una condotta casta e pia e affidò loro i tesori dei misteri divini? Ripensando a queste cose, mio caro, scaccia ogni idea di disperazione, non dare ascolto alla tentazione del diavolo, fatti coraggio, prega, rianima gli altri e te stesso. Non ti stancare di ricordare a te stesso che sei uomo e che Dio non odia gli uomini, li ama e per noi è morto. Abbiamo il Signore e Salvatore Gesù Cristo, medico eccezionale delle anime e dei corpi, padrone di ogni malattia anche inguaribile, accessibile a tutti gli uomini, capace di ridurre qualunque malvagità. Perciò, coraggio, o anima deturpata da mille peccati e degna di una punizione eterna.

       Nilo di Ancira, Epist., 4, 39





Lezionario "I Padri vivi" 178