Lezionario "I Padri vivi" 190

XX DOMENICA

190 Letture:
    
Jr 38,4-6 Jr 38,8-10
     He 12,1-4
     Lc 12,49-57


1. Fuoco sulla terra

       "Fuoco sono venuto a portare sulla terra" (Lc 12,49). Non si tratta certo di fuoco che consuma i buoni, ma del fuoco che suscita la buona volontà, che rende migliori i vasi d’oro della casa del Signore, consumando il fieno e la paglia (cf. 1Co 3,12ss). Questo fuoco divino divora tutte le cose del mondo accumulate dalla voluttà, brucia le opere effimere della carne, ed è quello stesso che infiammava le ossa dei profeti, come dice il santo Geremia: "È divenuto come un fuoco ardente che infiamma le mie ossa" (Jr 20,9). È infatti il fuoco del Signore, a proposito del quale sta scritto: "Un fuoco arderà davanti a lui" (Ps 96,3). Ma il Signore medesimo è fuoco, dato che egli stesso ha detto: "Io sono il fuoco che brucia e non si consuma" (Ex 3,2 Ex 24,17 Dt 4,24 He 12,29); il fuoco del Signore è infatti la luce eterna, ed è a questo fuoco che si accendono le lucerne delle quali poco prima ha detto: "I vostri fianchi siano cinti e le lampade accese" (Lc 12,35). La lampada è necessaria, perché i giorni di questa vita sono come notte. Ammaus e Cleopa testimoniano che il Signore ha messo questo fuoco anche in loro, quando dicono: "Or non ci ardeva il cuore per via, mentre ci spiegava le Scritture?" (Lc 24,32). Essi così hanno manifestato con evidenza qual è l’azione di questo fuoco, che illumina l’intimo del cuore. È forse proprio per questo che il Signore verrà nel fuoco (Is 66,15-16), per consumare tutte le colpe al momento della risurrezione, ricolmare con la sua presenza i desideri di ciascuno, e proiettare la sua luce sui meriti e sui misteri...

       Come potrebbe allora il Signore essere "la nostra pace, egli che di due ne fece uno?" (Ep 2,14). E com’è che egli stesso dice: "Io vi do la mia pace, vi lascio la mia pace" (Jn 14,27), se è venuto per separare i padri dai figli, e i figli dai padri, distruggendo i loro vincoli? Come può essere "maledetto chi non onora suo padre" (Dt 27,16), e religioso chi lo abbandona?

       Ma se noi ci ricordiamo che la religione sta al primo posto e al secondo la pietà, comprenderemo anche come sia facile questa questione: tu devi infatti porre l’umano dopo il divino. Se abbiamo doveri d’amore verso i genitori, quanto maggior dovere non abbiamo per il Padre dei nostri genitori, cui dobbiamo riconoscenza anche per i nostri stessi genitori? E, se essi non riconoscono il loro Padre, come potrai tu riconoscerli? Il Signore non dice che si deve rinunciare ai parenti, ma che si deve anteporre a tutti Dio. Perciò in un altro libro tu puoi leggere- "Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me" (Mt 10,37). Non ti è vietato di amare i tuoi genitori, ma ti è vietato di preferirli a Dio: gli affetti naturali sono infatti un beneficio del Signore, e nessuno deve amare il beneficio più di Dio stesso che gliel’ha concesso.

       Dunque, anche stando al solo significato letterale, a coloro che intendono con pietà non manca una spiegazione religiosa. Tuttavia stimiamo che c’è da cercare un significato più profondo, per quello che egli aggiunge...

       Così, fino a quando, a causa dell’unione dei vizi, vi era nella stessa casa un accordo indivisibile e inseparabile, sembrava che non vi fosse alcuna divisione. Ma quando Cristo portò sulla terra il fuoco, con cui egli consuma le colpe della carne, e la spada, che significa il dispiegamento della potenza in atto, che penetra nell’intimo dello spirito e delle midolla (He 4,12), allora la carne e l’anima, rinnovate nel mistero della rigenerazione, dimenticando ciò che erano e cominciando a essere ciò che non erano, si separano dalla compagnia antica del vizio, amato sino a quel momento, e spezzano tutti i legami con la loro degenere posterità. È così che i genitori sono divisi e si pongono contro i figli, in quanto la nuova temperanza del corpo rinnega l’antica intemperanza, e l’anima evita ogni legame con la colpa, né resta più posto per la straniera venuta dal di fuori, la voluttà.

       Ambrogio, In Luc., 7, 132, 135 s., 145


2. Il fuoco dello Spirito Santo

       Tali erano il loro torpore e la loro pigrizia congiunti a invidia: duplice vizio che noi dobbiamo con forza espellere dalla nostra anima.

       Ma per poterlo combattere, bisogna essere più ardenti del fuoco. Per questo Gesù dice: "Io sono venuto a portare il fuoco sulla terra e che desidero se non che si accenda?" (Lc 12,49). E per lo stesso motivo lo Spirito Santo apparve in terra sotto forma di fuoco.

       Eppure, dopo tutto questo, noi restiamo più freddi della cenere e più insensibili dei morti. Non ci commoviamo affatto al vedere Paolo elevarsi al di sopra del cielo, passare anzi di cielo in cielo più veemente di una fiamma, vincere tutti gli ostacoli e porsi al di sopra degli inferi e dei supremi, del presente e dell’avvenire, di ciò che è e di ciò che non è. Se questo esempio vi sembra troppo grande, ebbene ciò è segno della vostra rilassatezza. Che cosa ha Paolo più di voi, per dire che vi è impossibile imitarlo? Ma per non insistere su questo punto, lasciamo da parte Paolo e gettiamo uno sguardo sui primi cristiani: denaro, proprietà, onori mondani, affari terreni, essi gettarono via tutto, per donarsi tutti interi a Dio per meditare giorno e notte sugli insegnamenti della sua paroia. Ecco qui il fuoco dello Spirito Santo: esso non tollera che si abbia alcun desiderio delle cose di questo mondo, in quanto ci conduce verso un altro amore. Perciò colui che prima amava le cose terrene, ora, anche se occorresse donare tutto quanto possiede, abbandonare le gioie di questa terra, disprezzare la gloria e dare la sua stessa vita, farà tutto ciò con meravigliosa facilità. Infatti quando l’ardore di questo fuoco è entrato nell’anima dell’uomo, esso scaccia l’indifferenza e la pigrizia. Questo fuoco rende l’anima che ne è invasa più leggera di una piuma e le conferisce inoltre la capacità di disprezzare tutte le cose terrene. Quest’uomo rimane sempre in un perpetuo pentimento e nella contrizione. Piange senza tregua e trova grande sollievo e gioia nelle sue lacrime.

       Di certo, non c’è niente che congiunga e unisca più strettamente a Dio di queste lacrime. Colui che si trova in tali condizioni, anche se vive in città, è come se abitasse in un eremo nel deserto, su una montagna o nella foresta. Egli non rivolge più uno sguardo alle cose presenti, non si sazia di gemere e piange per i propri peccati come per quelli degli altri. Per questo Gesù proclama beati, prima di altri, gli uomini di tal genere, dicendo: "Beati quelli che piangono!" (Mt 5,5). Ma in qual senso allora -mi direte voi - Paolo ha detto: "State sempre allegri nel Signore" (Ph 4,4)? Lo ha detto per esprimere la gioia che queste lacrime suscitano. Infatti, come la gioia terrena ha sempre per compagna la tristezza, così le lacrime che si versano per amore di Dio, fanno fiorire nell’anima una beatitudine che non muore né appassisce mai. Fu così che quella peccatrice, di cui parla il Vangelo, divenne più pura delle stesse vergini, in quanto era stata presa totalmente da questo fuoco divino. Quando fu infiammata dal fervore della penitenza, arse d’amore per Cristo. Sciolse i suoi capelli, bagnò i piedi di Gesù con le lacrime, li asciugò con la sua chioma e versò su di essi il profumo. Tutto questo avveniva esteriormente, ma i sentimenti della sua anima erano assai più ardenti d’ogni esterna manifestazione e solo Dio li vedeva! Ecco, tutti coloro che ascoltano la sua storia, si rallegrano con lei per le sue sante azioni e la considerano purificata da tutti i suoi peccati.

       Come l’aria diviene più pura dopo violente piogge, così dopo questa effusione di lacrime lo spirito diviene tranquillo e sereno e le nubi del peccato si dissipano del tutto. Come siamo purificati nel Battesimo, grazie all’acqua e allo Spirito, così lo siamo nella penitenza grazie alle lacrime e alla confessione dei peccati, sempre che non facciamo questo per ostentazione o per vanagloria. Infatti, colei che piange con simili intenzioni, è più degna ancora di condanna di quella che si trucca in ogni modo il volto per il desiderio di apparire più bella. Quanto a me, io cerco le lacrime che non sono sparse per ostentazione, ma per contrizione, quelle lacrime che si versano segretamente, nel più nascosto recesso della propria casa, senza che nessuno veda; quelle lacrime che scorrono in silenzio e in profonda quiete, che escono dall’intimo del cuore, che nascono dal dolore e dalla tristezza e si versano per Dio solo. Di tal genere sono le lacrime di Anna, di cui la Scrittura dice che "muoveva le labbra senza che si udisse la sua voce" (1S 1,13). Ma anche solo le sue lacrime effondevano un suono più squillante di una tromba. Per questo Dio la guarì dalla sua sterilità e di una rocca dura fece un campo fertile.

       Crisostomo Giovanni, In Matth., 6, 4-5


3. Dio è Spirito

       "Dio è Spirito e coloro che lo adorano debbono adorarlo in Spirito e in verità" (Jn 4,24). "Dio nostro è anche un fuoco che divora" (Dt 4,24). Dio dunque è chiamato con due nomi: "Spirito e fuoco:" Spirito per i giusti, fuoco per i peccatori. Ma anche gli angeli sono del pari chiamati spirito e fuoco: "Egli fa dei suoi angeli degli spiriti" - dice la Scrittura - "e dei suoi servi un fuoco ardente" (Ps 104,4 He 1,7). Gli angeli sono spiriti per tutti i santi, ma sottomettono al fuoco e alle fiamme coloro che meritano di essere puniti. In questo senso anche il nostro Signore e Salvatore, pur essendo Spirito, "è venuto a portare il fuoco sulla terra" (Lc 12,49). Egli è Spirito secondo queste parole della Scrittura: "Quando tu ti sarai convertito al Signore cadrà il velo" (2Co 3,16) e "il Signore è lo Spirito" (Jn 4,24 2Co 3,17).

       Peraltro egli è «venuto a portare il fuoco», non nel cielo ma «sulla terra», come egli stesso dimostra con queste parole: "Io sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e che altro desidero se non che divampi?" (Lc 12,49). Se infatti «ti sarai convertito al Signore» che è "Spirito", il Cristo sarà "Spirito" per te, e non sarà venuto per te a «portare il fuoco sulla terra». Ma se al contrario rifiuti di convertirti a lui, e se possiedi la terra e i suoi frutti, «egli è venuto a portare il fuoco sulla terra», che è in te. La Scrittura parla anche di Dio in termini analoghi: «Il fuoco della mia collera si è acceso», non soltanto fino al cielo, ma «fino al fondo dell’inferno», ed «esso consumerà», non il cielo, ma "la terra e i suoi germogli" (Dt 32,22).

       Per quale motivo ho ricordato tutto questo? Perché il Battesimo di Gesù è anche un Battesimo «nello Spirito Santo e nel fuoco». Senza dimenticare ciò che ho detto prima, né perdere di vista l’interpretazione data più sopra, voglio aggiungerne una nuova. Se tu sei santo, sarai battezzato nello Spirito Santo; se sei peccatore, sarai precipitato nel fuoco; e un medesimo battesimo diverrà condanna e fuoco per i peccatori indegni; ma i santi, che si convertono al Signore con fede completa, riceveranno la grazia dello Spirito Santo e la salvezza.

       Origene, In Luc., 26, 1-3


4. Il battesimo di sangue

       Noi abbiamo anche un secondo lavacro: è quello stesso del quale il Signore dice, dopo essere stato battezzato nel Giordano: "Devo essere battezzato con un battesimo". Era venuto, come scrive Giovanni, per essere battezzato con l’acqua e col sangue; con l’acqua per lavarsi, col sangue per essere glorificato. E poi, per far di noi dei "chiamati" con l’acqua e degli "eletti" col sangue, trasse due battesimi dalla ferita del suo petto, perché, coloro che credono nel sangue fossero lavati dall’acqua e quelli che si son lavati con l’acqua, debbano lavarsi anche col sangue. Questo è il Battesimo che può sostituire la lavanda che non è stata fatta e restituire anche quella che è andata perduta!

       Tertulliano, De baptismo, XVI, 1-10


5. Il fuoco (Lc 12,49)

Hai sparso sulla terra il fuoco tuo celeste,
grazie al quale le anime purifichi degli uomini;
attizzalo nel mio cuore così freddo;
l’anima mia riscalda col tuo amore.

Tu sol mia eredità sii, Signore,
al par di Paolo che t’ha tanto amato (Rm 8,35-38);
ch’io non ti baratti con le creature,
anche davanti ai più crudi tormenti.

       Nerses Snorhali, Jesus, 555-556


6. Un celebre Detto del Signore

Chi è vicino a me, è vicino al fuoco;
chi è lontano da me, è lontano dal Regno!

       Vangelo sec. Tommaso, in: Origene, In Jerem. lat., 1 [3], v. 104




XXI DOMENICA

191 Letture:
    
Is 66,18-21
     He 12,5-7 He 12,11-13
     Lc 13,22-30

1. Il numero di quelli che si salvano

       Certo son pochi quelli che si salvano. Ricordate la domanda fatta nel Vangelo: "Signore, son pochi quelli che si salvano?" (Lc 13,21). E che cosa risponde il Signore? Non dice: Non sono pochi; né sono molti, ma: "Sforzatevi di entrare per la porta stretta (Lc 13,24)". Allora, ha confermato che son pochi, perché solo pochi possono entrare, se la porta è stretta. In altra circostanza, dice anche: "È stretta la via che porta alla vita e pochi ci si mettono; è larga e spaziosa invece la via che porta alla morte, e molti la prendono "(Mt 7,13-14). Come facciamo a sognar moltitudini? Sentitemi, voi pochi. Siete molti a sentire, ma pochi a darmi ascolto. Vedo un’aia, ma cerco il grano. A stento si vedono i chicchi di grano, quando si batte il grano; ma verrà la ventilazione. Son pochi, allora, quelli che si salvano, se si pensa ai molti che si dannano; ma i pochi sono una gran massa. Quando verrà il ventilatore col ventilabro in mano, pulirà l’aia; raccoglierà il grano nei suoi granai; la pula la brucerà in un fuoco inestinguibile (Lc 3,17). La pula non si permetta di irridere il grano: quello che si dice è vero, non trae nessuno in inganno. Siate pure molti tra molti, ma al confronto con altri molti sembrate pochi. Da quest’aia uscirà una massa così grande da riempire il regno dei cieli. Cristo Signore non si può contraddire. Disse che son pochi quelli che entrano per la porta stretta e che molti si perdono per la via larga, e disse anche: "Molti verranno da Oriente e Occidente" (Mt 8,11). Molti, certamente pochi: e pochi, e molti. Vorrà dire alcuni pochi e alcuni molti? No. Proprio quei pochi sono i molti; pochi in confronto di quelli che si perdono, ma tanti, se riferiti alla moltitudine degli Angeli. Sentite, carissimi. L’Apocalisse dice: "Poi vidi gente d’ogni lingua e stirpe e razza, che veniva con palme e in vesti bianche, ed era una moltitudine innumerevole" (Ap 7,9). Questa è la massa dei santi. Con quanto più chiara voce l’aia ventilata, purgata dalla turba degli empi e falsi cristiani, separati quelli che fanno ressa ma non toccano il corpo di Cristo; allontanati, dunque, quelli che si dannano, la massa che sta alla destra, senza timore di alcun male, senza timore di perdere alcun bene, sicura di regnare con Cristo, con quanta fiducia dirà: "So bene quanto è grande il Signore" (Ps 134,5).

       Se, dunque, fratelli miei, parlo ai chicchi di grano, se i predestinati al regno dei cieli, capiscono ciò ch’io dico, parlino con le opere, non con parole. Sono costretto a dirvi ciò che non avrei dovuto mai dire. Avrei dovuto, infatti, trovare in voi motivi di lode, non motivi di rimprovero. Lo dico subito. Prendete coscienza del dovere dell’ospitalità; è la via per arrivare a Dio. Se accogli un ospite, accogli un tuo compagno di viaggio, perché siamo tutti viandanti. Lo è il cristiano che riconosce di essere un pellegrino, sia a casa sua, sia nella sua patria. La nostra patria è lassù: solo lì non saremo ospiti. Qui, anche in casa sua, ognuno è ospite. Se non è ospite, non se ne vada. Se un giorno se ne andrà, è ospite. Non s’illuda, è ospite; lo voglia o non lo voglia. Ma lascia la sua casa ai suoi figli. Non dice niente: è un ospite che lascia il posto a un altro ospite. In un albergo non lasci il posto a un altro che arriva? Così a casa tua. Tuo padre lasciò a te il tuo posto, tu lo lascerai ai tuoi figli. Non ci stai per rimanerci; e non lo lascerai a uno che ci rimarrà. Se dobbiamo tutti passare, cerchiamo di fare qualche cosa che non passi perché una volta passati e arrivati là donde non si parte più, vi troviamo delle nostre opere buone. Il custode è Cristo, puoi temere di non trovarci più quello che ci metti?

       Agostino, Sermo 111, 1-2


2. «Il Signore ama il cuore puro»

       Questo mistero è grande, ed è arduo il percorso della castità; ma è grande pure la ricompensa, e il Signore vi ci chiama quando dice nel Vangelo: "Venite, benedetti del Padre mio, e prendete possesso del regno che vi è stato preparato fin dall’origine del mondo" (Mt 25,34). E ancora, sempre il Signore in persona, dice: "Venite a me, tutti voi che soffrite e che vi sentite stanchi, ed io vi ristorerò. Prendete su di voi il mio giogo, e imparate da me, perché sono dolce ed umile di cuore; e troverete pace per le anime vostre, perché il mio giogo è soave e il mio peso leggero" (Mt 11,28-30).

       Ancora il Signore, invece, dirà a quelli che saranno alla sua sinistra: "Andate lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno che il Padre mio ha preparato per il diavolo e per i suoi satelliti. Non vi conosco, voi che siete operatori d’iniquità. Là vi sarà pianto e stridor di denti" (Mt 25,41 Lc 13,27-28).

       E certamente in quel luogo vi saranno gemiti e pianti da parte di tutti coloro che si sono ingolfati negli affari di questa vita tanto da dimenticarsi di quella futura, di coloro che la venuta del Signore sorprenderà sotto il peso del sonno dell’ignoranza, oppressi dalle onde d’una dannosa spensieratezza. È per questo, appunto, che ancora lui dice nel Vangelo: "State all’erta, perché non vi succeda di appesantirvi il cuore nei bagordi, nell’ubriachezza e nelle preoccupazioni di questa vita, e che quel giorno vi colga all’improvviso come un laccio, perché piomberà così su tutti coloro che si troveranno sulla faccia della terra" (Lc 21,34-35); e ancora: "Vegliate e pregate, perché non sapete quando arriverà questo momento" (Mc 13,33).

       Sono fortunati coloro che quel giorno l’aspettano, lo stanno a spiare, direi, per fare in modo di prepararvisi giorno per giorno; e senza starsene tranquilli per la vita trascorsa nella giustizia, si rinnovano di giorno in giorno nella virtù (2Co 4,16). È un fatto che dal giorno in cui uno smette di esser giusto, la giustizia del passato non gli servirà proprio a niente, come pure l’ingiustizia non porterà alcun danno al malfattore dal momento in cui questi si convertirà dalla sua vita iniqua (Ez 18,26-28).

       Per conseguenza, un santo non deve essere sicuro di se stesso finché si trova a combattere in questa vita, ma neppure deve disperarsi chi è peccatore, poiché in base alla massima del Profeta che abbiamo riportato può diventar giusto in un solo giorno.

       Ma tu mettiti sotto per far sì che lungo il tempo di tua vita riesca a praticare la giustizia; e non fidarti della rettitudine in cui hai trascorso la vita passata, perché questo ti renderebbe più rilassata. Fa’ invece come dice l’Apostolo: "Dimentico il passato, e proteso a ciò che mi sta davanti corro verso la meta per conseguire il premio della mia sublime vocazione" (Ph 3,13-14), ben sapendo che sta scritto come chi scruta il nostro cuore è Dio (Pr 24,12). Appunto per questo si preoccupa di aver l’anima monda dal peccato, in quanto sta scritto ancora: "Salvaguarda il tuo cuore con ogni attenzione possibile" (Pr 4,23), e anche: "Il Signore ama i cuori puri, e tutti coloro che sono senza macchia li guarda con amore" (Pr 22,11).

       Sotto, dunque, a regolare il tempo che ti resta di vita in modo da passarlo senza colpa alcuna. Potrai allora tranquillamente cantare col Profeta: "M’aggiravo dentro casa mia con l’innocenza nel cuore" (Ps 100,2), e anche: "M’accosterò all’altare di Dio, al Dio che rende gioiosa la mia giovinezza" (Ps 42,4).

       Non basta, infatti, cominciare. La giustizia sta nel portare a termine.

       Girolamo, Epist., 148, 31-32


3. Nessuno agisce senza l’aiuto di Cristo

       In effetti, anche in te era il Signore - ed è così -, nessuno compie le opere di Cristo senza Cristo: per il cui aiuto e benedizione a te molti pani, come già i discepoli che da lui li ricevettero benedetti da distribuire - che hai ricevuto in suo nome - sono stati commisurati per le innumerevoli bocche dei poveri; e mangiarono e si saziarono; e di quanto ne avanzò, tutti ne riportarono piene le proprie sporte. Ma tu hai raccolto ogni sopravanzo di frammenti spirituali, la fede apostolica di dodici ceste, la grazia spirituale di sette sporte; non meno mirabilmente operando Cristo nei tuoi pani, trasformò il tuo pane carnale in cibi celesti, e ti preparò un’eterna sazietà. Infatti, sedendo a tavola a pieno titolo con i padri Abramo, Isacco e Giacobbe, siedi, rivestito di veste nuziale, al convito di Cristo, poiché colà insieme con i suoi poveri prende posto Cristo, e in te "il Figlio dell’uomo ha dove posare il proprio capo" (Mt 8,20).

       Paolino di Nola, Epist., 13, 12


4. La virtù sta sempre all’erta

       Non deve sembrare né strano né fuor di luogo se, chi va per una via stretta, si sente schiacciare. È proprio della virtù che sia piena di fatiche, sudori, insidie e pericoli. Però, se questo è il cammino, poi verranno la corona, il premio e beni arcani, che non avranno fine. Consolati, dunque, con questo pensiero: le gioie e avversità di questa vita scorrono insieme con la vita presente e con essa finiscono. Nessuna gioia, quindi, gonfi vanamente il tuo cuore, ma neppure nessuna avversità ti avvilisca. Il buon timoniere non cessa d’essere vigilante se il mare è tranquillo, e non si conturba, quando la tempesta imperversa.

       Crisostomo Giovanni, Epist., 45




XXII DOMENICA

192 Letture:
    
Si 3,19-21 Si 3,30-31
     He 12,18-19 He 12,22-24a
     Lc 14,1 Lc 14,7-14

1. La vera umiltà

       Vorrei dirti di guardarti dall’orgoglio e ti vorrei raccomandare una sincera umiltà, in modo che in tutte le tue azioni, quando rifletti su te stessa non ti senta mai sicura. E parliamo di questo dono utilissimo di Dio, per aiutarci a scoprire non solo le cose palesi, ma anche quelle occulte della nostra coscienza. È una virtù multiforme, bella nelle sue espressioni esteriori, ma di gran lunga più luminosa e bella nei suoi aspetti intimi; dove nulla è oscuro, torbido, inquieto, poiché: "È grande la pace di coloro che amano la legge li Dio; nel loro cammino non trovano inciampo" (Ps 118,165). Dovendo parlare della beata umiltà, scartiamo subito tutte le forme di avvilimento che affliggono gli animi indolenti e incostanti, ed evitiamo di dar gloria di umiltà ad azioni che umili non sono. Alcuni gesti, nati da uno stato di necessità, sono simili ai gesti fatti per elezione di libera volontà, e la modestia può essere confusa con l’indolenza. Ma altro è non aver la forza d’agire, altro è domare il proprio impeto, e diversissimo è l’esito d’una irremovibile miseria e altro quello d’una fortezza, che esercita la sua pazienza. Così la parola «povertà» è una sola, ma i poveri non son tutti uguali; perché altro è godere di ricchezze bene impiegate, altro è lamentarsi di ricchezze che non sei riuscito ad afferrare, o che hai perduto. Anche la parola «timor di Dio» è una sola; ma altro è temere Dio, perché hai peccato, e altro è temerlo, perché non vuoi peccare, il primo è timore della pena, il secondo è amore del premio. Leggiamo, infatti: "L’amore perfetto scaccia il timore" (1Jn 4,18) e: "Il timore del Signore è santo, rimane in eterno" (Ps 18,10). Scartata, allora, quella umiltà apparente, che non serve a niente, prendiamo in considerazione gli atti d’una virtù cosciente e voluta, atti che non son tutti uguali tra loro, ma son sempre, comunque, in linea con la virtù.

       La prima nota dell’umiltà è la fedeltà agli impegni della vita comune, attraverso i quali essa si accaparra la benevolenza di Dio e stringe i vincoli della vita sociale. L’umiltà rafforza la carità. L’Apostolo dice: "Amatevi, onorandovi scambievolmente" (Rm 12,10). E cresce la carità, quando l’umile crede gli altri superiori a sé e ama di servire, e, se è messo a comandare, non si gonfia. Cresce la carità, quando il povero s’inchina facilmente al ricco e il ricco ha piacere di sollevare il povero al suo rango: quando il nobile non si gloria dei suoi titoli familiari e i poveri non accampano la comunanza della natura; quando non si fa più conto delle grandi fortune che dei buoni costumi, né è stimata di più la decorata potenza dei malvagi che la disadorna giustizia dei superiori. Da questo equo e modesto diritto della concordia, in cui non c’è gara per emergere sugli altri, né la fortuna fa gonfie le cose proprie o brucia le altrui, alcuni progrediscono meravigliosamente verso quella fortezza dell’umiltà, che da se stessa si pone al di sopra di ogni dignità...

       Poiché, dunque, la Chiesa di Dio, che è il corpo di Cristo, è così bene fusa nella sua molteplice varietà, che tutte le parti, anche diverse, concorrono ad un unico splendore, e d’ogni specie di uomini, d’ogni grado di ministeri, da ogni opera e da ogni virtù nasce un’inseparabile unità di struttura e una sola bellezza, e non manca al tutto ciò che non manca alle parti, ed ha tanta concordia che non può non essere di tutti ciò che è anche di ciascuno, è evidente che vi deve essere una forza copulatrice che tiene insieme e fonde tutta la molteplicità e diversità dei santi. E questa forza è la vera umiltà, la quale, qualunque sia la diversità dei diversi gradi, è sempre simile a se stessa. Infatti nei gradi degli uffici, nella dolcezza della mansuetudine, nella povertà volontaria c’è molta diversità, e l’intensità del proposito fa necessariamente dei più e dei meno; nella vera umiltà invece non c’è divisione e tutto è comune, l’umiltà fa di tutti i suoi cultori una cosa sola, perché non tollera disuguaglianze.

       Pseudo Prospero di Aquitania, Ad Demetriadem, 1-6, già attribuita a Leone Magno


2. La vita perfetta

       Guai a quell’uomo che si presenta al banchetto senza la veste nuziale! Non gli resta che sentirsi dire immediatamente: "Amico, come hai potuto venire qui?" (Mt 22,12). Egli resterà muto. Allora si dirà ai servi: "Prendetelo, legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nel buio: ivi sarà pianto e stridor di denti" (Mt 22,13).

       Guai a colui che tiene legato nel fazzoletto il talento ricevuto: mentre gli altri s’industriano a trarne profitto, lui conserva soltanto quello che gli è stato affidato! Ma subito sarà incalzato dai rimbrotti del padrone sdegnato: "Servo malvagio, perché non hai messo il denaro alla banca? Al mio ritorno l’avrei ritirato con gli interessi!" (Lc 19,22-23). Vale a dire: avresti dovuto deporre ai piedi dell’altare questo fardello che non potevi reggere! Perché, mentre tu, commerciante infingardo, non hai fatto che custodire il denaro, hai occupato il posto d’un altro che poteva raddoppiarlo!

       Per questo, se colui che serve bene si guadagna un buon posto, colui che s’accosta al calice del Signore indegnamente sarà responsabile del Corpo e del Sangue del Signore stesso (1Co 11,27).

       Non tutti i vescovi sono vescovi.

       Tu pensi a Pietro, ma guarda anche a Giuda! Tu hai in mente Stefano, ma ricorda anche Nicola, detestato dal Signore nella sua Apocalisse! Costui ha inventato tali nefandezze e tali turpitudini che dal suo ceppo è sorta l’eresia degli Ofiti (Ap 2,6).

       Ognuno si esamini prima d’accostarsi al santo banchetto! Non è la dignità ecclesiastica che fa cristiani, Cornelio il centurione, ancora pagano (Ac 10), è inondato dai doni dello Spirito Santo; Daniele ancora giovanetto giudica gli anziani (Da 13); Amos diventa profeta in un istante, mentre coglie more selvatiche (Am 7,14); David, un pastorello, viene eletto re (cf. 1R 16); e Gesù ama d’un amore di preferenza il più giovane dei discepoli (Jn 13,23).

       Mettiti all’ultimo posto, fratello, quando siedi a mensa; così se arriva uno meno degno di te, sarai invitato a passare ad un posto più degno (Lc 14,10). Su chi si riposa il Signore, se non sugli umili, sui miti, su coloro che temono le sue parole? A chi è stato affidato di più, viene richiesto di più. "I potenti sopporteranno tormenti tremendi" (Sg 6,7).

       Nessuno si vanti d’una castità che sia semplice mondezza di corpo; nel giorno del giudizio gli uomini dovranno rendere conto di ogni parola inutile uscita dalla loro bocca, e un’ingiuria rivolta al fratello sarà allora ritenuta un omicidio.

       Non è facile stare nella posizione di Paolo, od occupare il grado di coloro che regnano ora con Cristo. Potrebbe venire l’angelo da un momento all’altro a lacerare il velo del tuo tempio e a rimuovere il tuo candelabro dal posto che occupa (Mt 27,51 Ap 2,5). Se t’accingi a costruire una torre, fa’ prima il calcolo delle spese (Lc 14,28). Il sale divenuto insipido non serve a nient’altro che ad essere gettato via e calpestato dai porci (Mt 5,13).

       Girolamo, Epist., 14, 8-9


3. La via dell’umiltà

       Scrivi che sei innamorato dell’umiltà e desideri apprendere il modo come averne da Dio la grazia. Se dunque vuoi davvero fugare la superbia e ottenere il dono beato dell’umiltà non trascurare le cose che potranno aiutarti ad acquistarlo, anzi metti in opera tutte le cose che ne favoriscono la crescita. L’anima infatti si adatta alle cose che ama e prende sempre più la somiglianza delle cose che fa spesso. Abbi, allora, la persona, gli indumenti, il modo di camminare, la sedia, il cibo, il letto, in una parola, tutto, di stampo frugale; perfino il discorso, il movimento del corpo, la conversazione; e queste cose devono tendere alla mediocrità e non alla distinzione. Sii buono e placido col fratello, dimentica le ingiurie degli avversari; sii umano e benevolo verso i più abietti, porta aiuto e sollievo ai malati, abbi riguardo per chi è colpito da dolori, avversità, afflizioni non disprezzare nessuno, sii dolce nella conversazione, lieto nelle risposte, onesto in tutto, disponibile a tutti.

       Nilo di Ancira, Epist., 3, 134


4. «Le generazioni mi chiameranno beata»

       "Ecco che sin d’ora tutte le generazioni mi chiameranno beata". Se intendo «tutte le generazioni» secondo il più semplice significato, ritengo che si faccia allusione ai credenti. Ma se cerco di vedere il significato più profondo, capirò quanto sia preferibile aggiungere: "Perché fece grandi cose per me colui che è potente". Proprio perché "chiunque si umilia sarà esaltato" (Lc 14,11), Dio «ha guardato l’umiltà» della beata Maria; per questo ha fatto per lei grandi cose "colui che è potente e il cui nome è santo".

       Origene, In Luc., 8, 6


5. Il posto al banchetto (Lc 14,7-11)

Sul cuscino più alto mi son seduto,
in prima fila tra i tuoi dignitari;
non per tuo invito mi son fatto innanzi,
ma solo spinto dalla vanagloria.

Quando Tu chiamerai il genere umano
al Banchetto di Nozze universale,
a me, audace, non venga diretta, o mio Ospite,
la tua parola: «Spostati più in basso!».

Ma io che adesso son giacente a terra,
che da Te ascolti la parola detta ai buoni:
«Sali più in alto, amico,
nelle altezze divine!».

       Nerses Snorhali, Jesus, 563-565




XXIII DOMENICA

193 Letture:
    
Sg 9,13-19
     Phm 1,9-10 Phm 1,12-17
     Lc 14,25-33


1. Amore di Dio prima dell’inclinazione naturale

       Dice Gesù: "In verità vi dico: non c’è nessuno che avrà abbandonato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi per me e per il Vangelo, che non riceva il centuplo" (Mc 10,29). E non vi turbino queste parole né quanto, con accenti ancor più duri, è scritto altrove: "Chi non odia suo padre e sua madre ed i suoi figli, persino anzi la sua stessa vita, non potrà divenire un mio seguace" (Lc 14,26). Non ci turbino giacché il Dio della pace, colui che ingiunge di amare anche i propri nemici, non ci invita certo all’odio ed alla separazione dalle persone a noi più care. In realtà, se occorre amare i propri nemici, risulta chiaro che, risalendo da essi, è necessario amare anche coloro che ci sono più prossimi per vincoli di sangue. Se, al contrario, occorre nutrire odio nei confronti di coloro che ci sono vicini per legami di parentela, il ragionamento che ne consegue, in tal caso, insegnerebbe a respingere ancor di più i propri nemici. Cosicché i due discorsi si confuterebbero a vicenda. Essi, invece, non si confutano affatto, giacché con lo stesso stato d’animo e la stessa disposizione e la stessa limitazione nutrirebbe odio verso il padre ed amore nei confronti del nemico chi non si vendicasse del nemico e non onorasse il padre più di Cristo.

       Infatti, con il primo discorso (in cui vien detto di amare il proprio nemico), Cristo vieta di odiarlo e di fargli del male nel secondo, invece (in cui si dice di odiare il proprio padre), egli raccomanda di guardarsi da quel falso rispetto nei confronti dei propri cari allorché questi si mostrino d’impedimento alla salvezza. Nel caso in cui, perciò, qualcuno avesse un padre od un figlio od un fratello empio e d’ostacolo per la propria fede e d’impedimento nella prospettiva della vita celeste, non rimanga unito a lui né condivida i suoi pensieri, ma, a motivo dell’inimicizia dello spirito, sciolga pure la parentela della carne.

       Fingiti una controversia: immagina che tuo padre, standoti a fianco, ti dica: «Io ti ho dato la vita e ti ho allevato: seguimi e prendi parte assieme a me a quest’azione ingiusta e non obbedire alla legge di Cristo», aggiungendo tutte le altre cose che potrebbe dire un uomo blasfemo e morto spiritualmente. Dalla parte opposta, ascolta, invece, il Salvatore: «Io ti ho donato la seconda vita, mentre tu avevi ricevuto l’amara vita del mondo ed eri destinato a morire; io ti ho liberato, ti ho curato, ti ho riscattato; sarò io a fornirti la vita che non avrà mai fine, la vita eterna, la vita superiore a quella del mondo; ti mostrerò il volto di quel buon padre che è Dio. Non chiamare nessuno "padre" su questa terra. I morti seppelliscano i loro morti, ma tu, invece, vieni dietro a me, giacché io ti condurrò dove potrai riposare e dove potrai gustare beni ineffabili e indescrivibili che mai nessun occhio vide né orecchio udì e che mai entrarono nel cuore degli uomini; beni verso i quali gli angeli stessi ambiscono di protendersi, onde contemplare quelle meraviglie allestite da Dio per i suoi santi ed a beneficio di coloro che lo amano. Sono io che ti nutro e, a mo’ di pane, ti offro me stesso: chiunque mi avrà gustato, non correrà più il pericolo di morire; giorno per giorno, poi, mi offro a te come bevanda d’immortalità. Io sono maestro di insegnamenti celesti. Per te ho lottato con la morte. Sono stato io a scontare, al posto tuo, quella pena di morte che tu avevi meritato a causa degli antichi peccati e della disobbedienza a Dio».

       Ascoltando, dall’una come dall’altra parte discorsi come questi, decidi per il tuo bene e scegli il partito della salvezza. Se un fratello, perciò, ovvero un figlio od una sposa o chiunque altro ti dice qualcosa di simile alla fine sia Cristo a vincere su di te, al di sopra di tutti: è lui, infatti, che lotta per te.

       Clemente di Alessandria, Quis dives, 22 s.


2. Costruire la torre dell’umiltà

       "Chi di voi, volendo edificare una torre, non fa i conti, per vedere se ne ha abbastanza per portarla a termine, perché non gli capiti che, gettate le fondamenta, non possa continuare e comincino a portarlo in giro dicendo: Costui ha cominciato una costruzione e non l’ha potuta terminare" (Lc 14,28-30). Dobbiamo programmare tutto ciò che facciamo. Ecco, secondo la parola di Gesù Cristo, se uno vuol costruire una torre, prepara il danaro necessario. Se, dunque, vogliamo costruire la torre dell’umiltà, dobbiamo prepararci contro gli ostacoli di questo mondo. E la differenza tra un edificio terreno e un edificio celeste è questa: che l’edificio terreno lo si costruisce raccogliendo il danaro che serve, quello celeste invece distribuendo e donando il danaro. Per quello i fondi li facciamo, raccogliendo ciò che non abbiamo; per il celeste, invece, lasciando anche quello che abbiamo. Questi fondi non li ebbe quel ricco che, avendo molti possedimenti, chiese al Signore: "Buon maestro, che debbo fare per acquistare la vita eterna?" (Mt 19,16). Il quale, sentendo che avrebbe dovuto lasciar tutto, se ne andò via rattristato e divenne piccolo di cuore proprio perché aveva larghi possedimenti. Poiché amava in questa vita lo sfoggio della grandezza, anche nel tendere alla vita eterna non volle abbracciare la ricchezza dell’umiltà. Bisogna poi considerare le parole: "Comincino a portarlo in giro", perché, come dice Paolo: "Siamo sotto gli occhi del mondo, degli angeli e degli uomini" (1Co 4,9). E in tutto ciò che facciamo dobbiamo tener presenti i nostri avversari, che ci seguono e son felici dei nostri insuccessi. Di essi il Profeta dice: "Dio mio, confido in te, non dovrò vergognarmi e non avranno a burlarmi i miei nemici" (Ps 24,2)... Il re che, andando a combattere contro un altro re, s’accorge che non ce la può fare, manda una commissione per trattare la pace. Con quali lacrime allora dobbiamo sperare il perdono, noi che in quel tremendo confronto col nostro Re ci presentiamo in condizioni di inferiorità... Mandiamogli come ambasceria le nostre lacrime, le opere di misericordia, sacrifichiamo sul suo altare vittime di espiazione, riconosciamo che non possiamo stare in giudizio con lui, misuriamo la sua forza, chiediamo la pace. Questa è l’ambasceria che calma il nostro Re. Pensate quanta bontà ci sia nel suo tardare a venire. Mandiamo la nostra ambasceria, donando, offrendo vittime sacre. Giova moltissimo, per ottener perdono, la vittima dell’altare, offerta con lacrime, perché lui che non muore più ancora nel mistero s’immola per noi. Ogni volta che offriamo l’ostia della sua Passione, rinnoviamo la nostra assoluzione.

       Gregorio Magno, Hom., 37, 6


3. Martirio delle sante Perpetua e Felicita e dei loro compagni

       Così, dunque, essa racconta: Quando noi vivevamo fra i nostri persecutori, desiderando mio padre piegarmi con le sue parole e, spinto dal suo amore, persistendo nel tentativo di farmi apostatare: «Padre - gli dissi -, vedi, ad esempio, questo vaso o quell’orciolo?».

       «Lo vedo», mi rispose.

       Io proseguii: «Puoi tu forse chiamarli con un altro nome diverso da quello che essi sono?».

       «No», mi rispose.

       Ed io allora gli dissi: «Così non posso io essere chiamata con un nome diverso da ciò che sono: cristiana». Mio padre allora, irritato da queste mie parole, mi si scagliò addosso, come volesse strapparmi gli occhi. Tuttavia si limitò a maltrattarmi poi se ne andò, vinto, e portandosi via i suoi diabolici argomenti. Per quei pochi giorni che mio padre fu assente ringraziai il Signore e la sua assenza mi era di sollievo. Proprio nello spazio di quei pochi giorni fummo battezzati, e lo Spirito mi suggerì che all’acqua battesimale non avevo da chiedere altra grazia che la pazienza della carne (nelle sofferenze del martirio).

       Dopo pochi giorni fummo incarcerati: ebbi tanta paura, perché non avevo mai conosciuto tenebre come quelle. O giorno terribile, quello! C’era un caldo soffocante per l’ammucchiamento delle persone; i soldati ci maltrattavano ed io, poi, ero anche tormentata dal pensiero del piccolo figlio (che avevo dovuto lasciare). Allora Terzo e Pomponio, diaconi benedetti, che ci assistevano, ottennero, a prezzo d’oro, che per poche ore fossimo messi in un luogo migliore per poter almeno respirare. Usciti dal carcere, ognuno pensava alle sue necessità, ed io potei allattare il mio bambino che già veniva meno per la fame. Mentre mi curavo di lui, parlavo con mia madre, confortavo mio fratello e ad entrambi raccomandavo mio figlio. Ero piena di dolore perché li vedevo soffrire per causa mia. In queste angustie passai molti giorni; poi ottenni di poter tenere con me, in carcere, mio figlio. Fui subito risollevata e acquistai nuove forze per il lavoro e la sollecitudine per mio figlio. Il carcere allora divenne subito per me un palazzo, al punto che preferivo rimanervi che trovarmi in alcun altro posto...

       Pochi giorni dopo corse voce che saremmo stati interrogati. Giunse allora dalla città anche mio padre, consumato dal dolore. Venne a me per dissuadermi, dicendomi: «Figlia mia, abbi pietà dei miei capelli bianchi: abbi pietà di tuo padre, se sono degno d’esser da te chiamato padre. Se con queste mani ti ho allevata fino a questo fiore della tua età; se ti ho preferito a tutti i tuoi fratelli, non gettarmi nell’obbrobrio degli uomini. Guarda i tuoi fratelli, guarda tua madre e la tua zia materna, guarda il figlio tuo, che, morta tu, non potrà sopravvivere. Deponi il tuo folle proposito, non distruggerci tutti: nessuno di noi infatti potrà più parlare liberamente, se tu dovessi subire un’ignominiosa condanna».

       Così parlava come padre, spinto dal suo amore, e nel mentre mi baciava le mani e si prostrava ai miei piedi: e fra le lagrime non figlia mi chiamava, ma signora. Io soffrivo per il caso di mio padre, il solo di tutta la mia famiglia che non riusciva a rallegrarsi del mio martirio. Cercai di consolarlo, dicendogli: «Sul palco sarà quel che Dio vorrà. Sappi, infatti, che noi non siamo posti nel nostro potere, ma in quello di Dio».

       Se ne andò profondamente addolorato.

       Un altro giorno, mentre stavamo mangiando, fummo condotti via per l’interrogatorio. Giungemmo al foro. Subito, nelle vie vicine, si sparse la voce del nostro arrivo e si radunò una folla immensa. Salimmo sul palco. Interrogati, gli altri confessarono la fede. Venne anche il mio turno. In quel momento apparve mio padre con in braccio mio figlio e, trattenendomi, mi supplicava: «Abbi pietà di questo bambino».

       E il procuratore Ilariano, che allora aveva ricevuto lo "ius gladii", in luogo del defunto proconsole Minucio Timiniano: «Abbi pietà - disse - delle canizie di tuo padre; abbi pietà della tenera età di tuo figlio. Sacrifica per la salute dell’imperatore».

       Ed io risposi: «No, non lo faccio».

       Ilariano mi chiese: «Sei cristiana?».

       Io risposi: «Sì, sono cristiana».

       E poiché mio padre continuava a starmi accanto per farmi desistere, Ilariano ordinò che fosse allontanato e... bastonato. Soffrii per lui: fu come se quei colpi cadessero su di me, tanto mi dolsi della sua triste vecchiaia.

       Allora Ilariano pronuncia la sentenza contro tutti noi e ci condanna alle fiere; e noi pieni di gioia tornammo nel carcere.

       Acta Martyrum, I, Città Nuova, Roma 1974, pp. 127-131





Lezionario "I Padri vivi" 190