Lezionario "I Padri vivi" 220

ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE

220 (14 settembre)

       L’origine della festa è connessa alla dedicazione della basilica del Sepolcro del Signore eretta dall’imperatore Costantino sui luoghi sacri della Crocifissione e della Resurrezione: essa ebbe luogo il 13 settembre dell’anno 335. Il giorno seguente, cioè il 14 settembre, furono esposte alla pubblica adorazione le reliquie della santa Croce, le quali, come si credeva, furono ritrovate da sant’Elena il 14 settembre dell’anno 320. Ogni anno la solennità della dedicazione della basilica veniva celebrata con grandiosità; l’esposizione delle reliquie della santa Croce passava invece in secondo piano. Col tempo, però, specialmente dopo che l’imperatore Eraclio ebbe ricuperato, nell’anno 628, il legno della Croce rubato dai Persiani durante l’invasione della Palestina, l’accento viene spostato: l’adorazione della Croce comincia a prevalere. Da Gerusalemme, la solennità della venerazione della Croce si estende alle altre Chiese orientali, e quelle che erano in possesso della santa reliquia la celebravano in modo particolarmente solenne.   

       Nella Chiesa occidentale, la solennità della Esaltazione della Santa Croce compare verso la metà del VII secolo, e con la crescita del culto della santa Croce, la festa acquista importanza sempre più grande. A Roma, probabilmente papa Sergio (+ 701) introduce l’esposizione e l’adorazione delle reliquie della santa Croce conservate nel palazzo lateranense, costume che durò fino agli inizi del XIII secolo.

       Mentre Roma però celebrava la festa della Croce seguendo la Chiesa di Gerusalemme, commemorando cioè nello stesso tempo il ritrovamento e l’esaltazione, le Chiese di Gallia, basandosi su altre tradizioni, introdussero la festa del Ritrovamento della Croce il 3 maggio. Nel periodo carolingio, questa festa entrò nella liturgia romana e durò fino all’anno 1960.

       Siamo di fronte al mistero della Croce di Cristo. Dio ha compiuto la redenzione dell’uomo attraverso la morte del Figlio suo Unigenito sul legno della Croce. Soltanto Dio, nella sua sapienza e potenza, ha potuto trasformare la morte in fonte della vita. Una volta, dall’albero del paradiso traeva vittoria Satana, da lì anche sorgeva la morte; ora, dall’albero Satana viene sconfitto e dall’albero della Croce risorge la vita. La Croce diventa un altare su cui si offre il sacrificio per i peccati di tutto il mondo. Cristo sulla Croce stende le sue mani per attrarre tutti a sé ed acquistare al Padre un popolo santo.

       La Croce sta al centro della vita della Chiesa, la quale nell’Eucaristia rende continuamente presente il Sacrificio della nostra redenzione.

       Il discepolo di Cristo prende la sua croce quotidiana e segue le orme del suo Maestro. Non si vergogna della Croce, che sembra essere stoltezza e scandalo per molti: per lui, la Croce è potenza di Dio e sapienza di Dio (
1Co 1,23). Accoglie la Croce col cuore, segna con la Croce la sua fronte, la pone in molti luoghi sulla terra, specialmente dove abita e lavora. Benché non comprendiamo il mistero della Croce di Cristo ed il mistero della nostra croce, preghiamo con le parole: Di null’altro mai ci glorieremo se non della Croce di Gesù Cristo, nostro Signore: egli è la nostra salvezza, vita e risurrezione. Per mezzo di lui siamo stati salvati e liberati (Ga 6,14).

       O Dio al quale obbediscono tutte le creature

       e tutto nel Verbo facesti con sapienza,

       supplici preghiamo la tua ineffabile clemenza,

       affinché coloro che per il legno della santa Croce

       del Figlio tu con pietoso sangue

       ti sei degnato redimere,

       tu che sei il legno della vita

       e il restauratore del paradiso,

       estingui in coloro che ti invocano

       l’antico veleno del serpente

       e per la grazia dello Spirito Santo

       infondi sempre in loro la bevanda di salvezza.

       Sacramentarium Gelasianum, ed. L.C. Mohlberg, Roma 1968, n. 870


1. Delle cose del Cristo nessuna è più meravigliosa della croce

      

       Quantunque, poi, ogni azione e manifestazione del Cristo sia splendida, divina, meravigliosa: niente, tuttavia, fra tutte è più degna di ammirazione, che la croce, di per sé degna d’ogni venerazione.

       Né, infatti, la morte fu distrutta da nessun’altra cosa, se non per la croce del Nostro Signore Gesù Cristo (Cirill. Ger., Catech.1, 14), che distrusse il peccato del primo uomo, spogliò l’inferno, ridonò con la risurrezione la vita, la forza sia come presenza, come concessa a noi per disprezzare la stessa morte, il ritorno preparato per l’antica beatitudine, le porte del paradiso spalancate, la nostra natura collocata alla destra di Dio, finalmente noi, divenuti figli ed eredi di Dio, se non per la croce del Nostro Signore Gesù Cristo (Cirill. Ger., Catech. 1, 14).

       Ecco la morte che col fatto del Cristo, cioè la croce che rivestì noi della sapienza del Dio sostanziale.

       La virtù, invero, di Dio, viene detta verbo della croce, poiché la potenza e la forza di Dio, cioè la vittoria contro la morte, si è manifestata a noi per mezzo di essa; poiché come quattro parti

della croce tra di loro aderiscono e sono congiunte per il punto centrale, così la sublimità e la profondità in virtù della potenza di Dio, la lunghezza cioè in cui ogni creatura visibile ed invisibile è contenuta.

       Il segno della croce distingue i fedeli e gli infedeli tra di loro.

       Questo è lo scudo, questa è l’armatura, e il trofeo contro il demonio.

       Questa è la difesa, affinché l’angelo sterminatore non ci tocchi, come dice la Scrittura (cf. Ex 9,12).

       Questo è l’innalzamento di quelli che giacciono, il fulcro di quelli che stanno in piedi, il bastone degli infermi, la verga delle pecore, il sostegno di quelli che si ravvedono, la perfezione di quelli che partono, la salvezza dell’anima e del corpo, l’allontanamento di tutti i mali, la causa di tutti i beni, la distruzione del peccato, la pianta della resurrezione, il legno della vita eterna.

       L’adorazione della croce, e delle altre cose che il Cristo sacrificò col suo contatto.

       Pertanto, questo legno invero, sano e venerabile, nel quale Cristo per noi si offrì come vittima, santificato dal contatto del santissimo corpo e sangue, deve essere adorato debitamente...

       Che anzi noi adoriamo anche il simbolo della croce preziosa, che dà vita, di qualsiasi materia sia stata costruita: non perché noi veneriamo la materia (questo non voglia Dio), ma il simbolo col quale Cristo è indicato.

       Infatti, Egli stesso, ammonendo i suoi discepoli: Allora, disse, apparirà nel cielo il segno del Figlio dell’uomo (Mt 24,30), significava certamente la croce.

       Ed in seguito l’angelo della resurrezione del Cristo diceva alle donne: Voi cercate Gesù Nazareno crocifisso (Mc 16,6). E l’Apostolo: Noi predichiamo Cristo crocifisso (1Co 1,23).

       Molti, infatti, sono di Cristo e di Gesù, ma uno semplicemente crocifisso.

       Non dice, trafitto dalla lancia, ma «crocifisso». Per la qual cosa il segno della croce, noi dobbiamo adorarlo: dove, infatti, ci sarà la croce, ivi ci sarà lui stesso.

       Del resto la materia della quale consta la croce, una volta distrutta non si può più adorare.

       Tutte le cose, dunque, che sono dedicate e consacrate a Dio, così noi le adoriamo, perché riferiamo a lui il loro culto.

       Il legno è figura della vita della croce.

       Il legno della vita, che è stato posto da Dio in paradiso, portò la figura della croce, degna di venerazione.

       Poiché, infatti, attraverso il legno si era aperta la via alla morte () conveniva che per il legno anche la vita e la resurrezione fossero donate.

       Per primo Giacobbe, adorando la grandezza della verga di Giuseppe (Gn 47,31) designò la croce; e benedicendo i figli (Gn 48,14) chiudendo le palme delle mani, designò apertamente l’immagine della croce.

       La stessa cosa indicarono (Quaest. ad Antioch., 63) sia la verga di Mosè, con la quale come da una croce fu percosso il mare, e portando la salvezza d’Israele, sommerse Faraone nelle acque (cf. Ex 14,16) sia estendendo in forma di croce le mani, e volgendo gli Amaleciti in fuga (cf. Ex 17,11): l’acqua amara, in seguito, fu addolcita dal legno (cf. Ex 15,25) e la roccia, per opera della verga, fendendosi diedero latte (cf. Ex 17,6); la verga di Aronne, sacerdote, sancì, a causa del divino responso, la propria dignità (Nb 17,8-9); innalzato, a guisa di trofeo di legno il serpente, come morto (Nb 21,9), apportando il legno la salvezza a quelli che con fede guardavano il nemico morto; così il Cristo, nella sua carne ignara del peccato, fu confitto al legno della croce.

       Il grande Mosè esclama: Vedrete la vostra vita pendente dal legno coi vostri occhi (Dt 28,66).

       Similmente Isaia: Tutto il giorno ho esteso le mie mani, al popolo che non credeva e mi contraddiceva (Is 65,2).

       Noi che adoriamo la croce, possiamo giungere all’ultima partecipazione del Cristo che è stato affisso alla croce. Amen.

       Giovanni Damasceno, De fide orthod., 4, 11


2. Non vergognarsi della Croce di Cristo

       Che nessuno, dunque, si vergogni dei segni sacri e venerabili della nostra salvezza, della Croce che è la somma e il vertice dei nostri beni, per la quale noi viviamo e siamo ciò che siamo. Portiamo ovunque la Croce di Cristo, come una corona. Tutto ciò che ci riguarda si compie e si consuma attraverso di essa. Quando noi dobbiamo essere rigenerati dal battesimo, la Croce è presente; se ci alimentiamo di quel mistico cibo che è il corpo di Cristo, se ci vengono imposte le mani per essere consacrati ministri del Signore, e qualsiasi altra cosa facciamo, sempre e ovunque ci sta accanto e ci assiste questo simbolo di vittoria. Di qui il fervore con cui noi lo conserviamo nelle nostre case, lo dipingiamo sulle nostre pareti, lo incidiamo sulle porte, lo imprimiamo sulla nostra fronte e nella nostra mente, lo portiamo sempre nel cuore. La Croce è infatti il segno della nostra salvezza e della comune libertà del genere umano, è il segno della misericordia del Signore che per amor nostro si è lasciato condurre come pecora al macello. Quando, dunque, ti fai questo segno, ricorda tutto il mistero della Croce e spegni in te l’ira e tutte le altre passioni. E ancora, quando ti segni in fronte, riempiti di grande ardimento e ridà alla tua anima la sua libertà. Conosci bene infatti quali sono i mezzi che ci procurano la libertà. Anche Paolo per elevarci alla libertà che ci conviene ricorda la Croce e il sangue del Signore: A caro prezzo siete stati comprati. Non fatevi schiavi degli uomini (1Co 7,23). Considerate, egli sembra dire, quale prezzo è stato pagato per il vostro riscatto e non sarete più schiavi di nessun uomo; e chiama la Croce «prezzo» del riscatto.

       Non devi quindi tracciare semplicemente il segno della Croce con la punta delle dita, ma prima devi inciderlo nel tuo cuore con fede ardente. Se lo imprimerai in questo modo sulla tua fronte, nessuno dei demoni impuri potrà restare accanto a te, in quanto vedrà l’arma con cui è stato ferito, la spada da cui ha ricevuto il colpo mortale. Se la sola vista del luogo dove avviene l’esecuzione dei criminali fa fremere d’orrore, immagina che cosa proveranno il diavolo e i suoi demoni vedendo l’arma con cui Cristo sgominò completamente il loro potere e tagliò la testa del dragone. Non vergognarti, dunque, di così grande bene se non vuoi che anche Cristo si vergogni di te quando verrà nella sua gloria e il segno della Croce apparirà più luminoso dei raggi stessi del sole. La Croce avanzerà allora e il suo apparire sarà come una voce che difenderà la causa del Signore di fronte a tutti gli uomini e dimostrerà che nulla egli tralasciò di fare - di quanto era necessario da parte sua - per assicurare la nostra salvezza. Questo segno, sia ai tempi dei nostri padri come oggi, apre le porte che erano chiuse, neutralizza l’effetto mortale dei veleni, annulla il potere letale della cicuta, cura i morsi dei serpenti velenosi. Infatti, se questa Croce ha dischiuso le porte dell’oltretomba, ha disteso nuovamente le volte del cielo, ha rinnovato l’ingresso del paradiso, ha distrutto il dominio del diavolo, c’è da stupirsi se essa ha anche vinto la forza dei veleni, delle belve e di altri simili mortali pericoli?

       Imprimi, dunque, questo segno nel tuo cuore e abbraccia questa Croce, cui dobbiamo la salvezza delle nostre anime. È la Croce infatti che ha salvato e convertito tutto il mondo, ha bandito l’errore, ha ristabilito la verità, ha fatto della terra cielo, e degli uomini angeli. Grazie a lei i demoni hanno cessato di essere temibili e sono divenuti disprezzabili; la morte non è più morte, ma sonno. Per la Croce tutto quanto combatteva contro di noi giace a terra e viene calpestato. Se pertanto qualcuno ti chiedesse: Tu adori colui che è stato crocifisso? rispondigli con voce chiara e con volto gioioso: Sì, io l’adoro, e non cesserò mai di adorarlo. E se quello ride di te, tu compiangilo perché è stolto.

       Rendiamo grazie al Signore che ci ha concesso doni così straordinari che nessuno potrebbe comprendere senza la rivelazione dall’alto. Quel tale infatti si prende gioco di voi, perché l’uomo animale non percepisce le cose dello Spirito (1Co 2,14).

       Crisostomo Giovanni, In Matth., 54, 4-5


3. Il sacramento della Croce

       La Croce di Cristo è il sacramento del vero e profetico altare, sul quale attraverso l’ostia della salvezza, si celebra l’offerta della natura umana. Là il sangue dell’Agnello immacolato annullava la condanna dell’antico peccato, là si distruggeva l’opposizione della tirannia satanica e l’umiltà trionfava sull’orgoglio ed era così rapido l’effetto della fede, che dei due ladri crocifissi con Cristo, quello che credette nel Figlio di Dio entrò giustificato in paradiso. Chi può spiegare il mistero di sì gran dono? Chi dirà la potenza d’una tale conversione? In un istante sparisce la colpa d’innumerevoli delitti, tra i tormenti dell’agonia, sul patibolo, passa a Cristo e la grazia di Cristo dà una corona a uno che era stato condannato per la sua empietà.

       Leone Magno, Oratio 55, 3


4. Croce della passione e della gloria di Gesù Cristo

       Il Signore fu consegnato in mano ai suoi accusatori e a scherno della sua regale dignità, gli fu comandato di portare il suo supplizio, perché si adempisse la profezia d’Isaia: Ecco è nato un bimbo, c’è stato dato un figlio che porta lo scettro sulle spalle (Is 9,6). Quando, dunque, il Signore portava il legno della croce - legno ch’egli avrebbe cambiato in scettro di potenza - agli occhi degli empi questo sembrò un grande disprezzo, ma ai fedeli si manifestò un grande mistero, perché il glorioso vincitore del diavolo e debellatore delle potenze infernali portava, in un bel simbolo, il trofeo del suo trionfo e sulle spalle, con invincibile pazienza, mostrava il segno della salvezza, perché tutti lo adorassero, quasi che già, allora, con la sua azione volesse incoraggiare tutti i suoi imitatori e dicesse: Chi non prende la sua croce e mi segue, non è degno di me (Mt 10,38).

       Tra la folla che andava con Gesù al luogo del supplizio, fu visto un certo Simone di Cirene, e fu imposto su di lui il legno del Signore, perché con tale fatto si preannunziasse la fede dei pagani, per i quali la croce di Cristo sarebbe stata non di vergogna, ma di gloria. Non fu un caso, allora, ma figura e mistero, che ai Giudei, che infierivano su Cristo, capitasse innanzi un forestiero compassionevole, perché all’obbrobio veneratissimo del Salvatore - in armonia con le parole dell’Apostolo: Se soffriamo con lui con lui regneremo (Rm 8,17) - non un ebreo né un israelita portasse aiuto, ma un forestiero. Attraverso questo passaggio della croce da Cristo al Cireneo, la propiziazione dell’Agnello immacolato e la pienezza di tutti i sacramenti si trasferiva dalla circoncisione ai pagani, dai figli della carne ai figli spirituali. Infatti, come dice l’Apostolo: La nostra Pasqua, il Cristo, è stato immolato (1Co 5,7), il quale, offrendosi a Dio in nuovo e vero sacrificio di riconciliazione, fu crocifisso non nel tempio, la cui dignità era già finita, né nella cinta di mura della città, che doveva esser distrutta per il suo delitto, ma fuori, fuori del campo, perché finito il rito delle antiche vittime, fosse portata sull’altare un’offerta nuova e la croce di Cristo non fosse ara d’un tempio, ma del mondo intero; dopo l’esaltazione di Cristo sulla croce.

       La nostra intelligenza però, illuminata dallo Spirito di verità, accolga con puro e libero cuore la gloria della Croce che irraggia in cielo e in terra e cerchi di vedere internamente che cosa intendesse il Signore, quando, parlando dell’imminenza della sua passione, disse: È giunta l’ora della glorificazione del Figlio dell’uomo (Jn 12,23), e poi: L’anima mia è turbata, e che dirò? Padre liberami da quest’ora. Ma per questo sono arrivato a quest’ora. Padre, glorifica tuo Figlio (Jn 12,27); ed essendo venuta una voce del cielo che diceva: L’ho glorificato e ancora lo glorificherò, Gesù disse ai circostanti: Questa voce non s’è fatta sentire per me, ma per voi. Ora è il giudizio del mondo; ora il principe di questo mondo sarà buttato giù; ed io, una volta innalzato dalla terra, trarrò tutto a me (Jn 30-32). O meravigliosa potenza della Croce! O ineffabile gloria della Passione!, in essa è il tribunale del Signore, il giudizio del mondo e l’impero del Crocifisso. Hai attirato a te, o Signore, ogni cosa, e avendo steso tutto il giorno le tue mani al popolo che non ti credeva (Is 65,2-3) e ti contraddiceva, tutto il mondo capì che doveva confessare la tua maestà. Hai attirato a te ogni cosa, o Signore, poiché in esecrazione del delitto giudaico tutti gli elementi espressero un solo parere con l’oscurarsi degli astri del cielo e mutamento del giorno in notte, con un insolito terremoto e col rifiuto di ogni creatura a prestar servizio agli empi. Hai attirato ogni cosa a te, o Signore, poiché lacerato il velo del tempio, il Santo dei Santi s’allontanò dai pontefici indegni, perché alla figura si sostituisse la verità, alla profezia la manifestazione, alla legge il Vangelo. Hai attirato ogni cosa a te, o Signore, perché ciò che in simboli si faceva nel solo tempio della Giudea, fosse celebrato da tutte le nazioni con un pieno e manifesto sacramento. Ora infatti è più illustre l’ordine dei leviti, è maggiore la dignità degli anziani è più sacra l’unzione dei sacerdoti, perché la tua croce fonte di tutte le benedizioni, è causa di tutte le grazie e per essa è data forza agli infermi, gloria agli insultati, vita ai morti. Passata infatti la varietà dei sacrifici carnali, l’unica offerta del tuo corpo e del tuo sangue supplisce tutte le varie vittime, poiché tu sei il vero Agnello di Dio che porti via i peccati del mondo, e così compi in te tutti i misteri.

       Leone Magno, Oratio 60, 4-7


5. La croce come contrassegno dei credenti

       Il legno della vita è stato piantato nella terra perché questa, dapprima esecrata, ottenesse la benedizione ed i morti venissero liberati.

       Non vergogniamoci, allora, di confessare il Crocifisso. In qualsiasi occasione, con fede, tracciamo con le dita un segno di croce: quando mangiamo il pane o beviamo, quando entriamo od usciamo, prima di addormentarci, quando siamo coricati e quando ci alziamo, sia che siamo in movimento o rimaniamo al nostro posto. È un aiuto efficace: gratuito, per i poveri, e, per chi è debole, non richiede alcuno sforzo. Si tratta, infatti, d’una grazia di Dio: contrassegno dei fedeli e terrore dei demoni. Con questo segno, infatti, il Signore ha trionfato su di essi, esponendoli alla pubblica derisione (Col 2,15). Allorché, dunque, vedranno la croce, essi si ricorderanno del Crocifisso ed avranno timore di colui che ha abbattuto le teste del dragone. Non disprezzare, perciò, quel segno, soltanto perché è un dono; al contrario, onora per questo ancor di più il tuo benefattore.

       Cirillo di Gerusalemme, Catech., 13, 35-36


6. Efficacia e potenza della croce

       Parlerò ora del mistero della croce, che nessuno dica: «Se fu necessario che Cristo subisse la morte, essa non doveva essere così infame e turpe, ma conservare un po’ di dignità». So che molti, aborrendo dal nome stesso della croce, si allontanano dalla verità; eppure vi è in essa un significato profondo e una grande potenza. Egli fu mandato per spalancare la via della salvezza agli uomini più umili; perciò si fece umile per liberarli. Accettò il genere di morte riservato di solito ai più umili, perché a tutti fosse dato di imitarlo; inoltre, dovendo poi egli risorgere, non sarebbe stato conveniente spezzargli le ossa o amputargli parte del corpo, come succede per chi viene decapitato; fu più opportuna la croce, che preservò il suo corpo con tutte le ossa intatte, per la risurrezione.

       A ciò si aggiunga che, accettando la passione e la morte, doveva essere innalzato. E la croce lo innalzò realmente e simbolicamente, perché con la sua passione a tutti si rivelasse chiara la sua potenza e la sua maestà. Estendendo sul patibolo le mani, dilatò anche le ali verso Oriente e verso Occidente, affinché sotto di esse si raccogliessero tutte le genti da ogni parte del mondo a trovar pace. Quale virtù e quale potere abbia questo segno, appare chiaro quando per esso ogni schiera di demoni vien cacciata e fugata.

       Lattanzio, Epit. Div. Iustit., 51




SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

221 (1° novembre)

       Già nel IV secolo, incontriamo in Oriente la commemorazione di tutti i martiri. In Antiochia, essa veniva celebrata nella prima domenica dopo la Pentecoste, in Siria orientale, il venerdì dopo la Pasqua; a Edessa, il 13 maggio. A Roma, troviamo le tracce di queste celebrazioni, ma la solennità stessa assume importanza a partire dai tempi di Bonifacio IV (+ 615). Col permesso dell’imperatore, il papa trasforma il tempio pagano del Pantheon in chiesa dedicata alla Beatissima Vergine Maria e a tutti i Martiri. La solenne consacrazione del tempio e il collocamento delle reliquie ebbero luogo il 13 maggio 610. L’anniversario della consacrazione si celebrava ogni anno con grande partecipazione dei fedeli e il papa stesso prendeva parte alla Messa della stazione. Verso l’anno 800, la Commemorazione di Tutti i Santi viene celebrata in Irlanda, in Baviera e in alcune Chiese della Gallia, però il giorno 1° novembre. Durante il pontificato di Gregorio IV (828-844), il re Luigi IX estende la festa a tutto il territorio del suo Stato. In questa maniera, la festa locale di Roma e di alcune altre Chiese diventa una festa della Chiesa universale. Roma accoglie però, per i motivi che non conosciamo, la data gallica delle celebrazioni, cioè il 1° novembre.

       In questo giorno, la Chiesa venera tutti i santi, cioè i martiri e i confessori. Nei primi secoli, si conosce il culto dei martiri, che hanno dato la loro vita per Cristo. Col tempo, però, compare il culto dei confessori, coloro cioè la cui vita risultava una fedele sequela delle parole di Cristo. Tra i confessori troviamo anzitutto i grandi vescovi, che in modo particolare davano testimonianza della fede cristiana, l’insegnavano, difendevano la sua purezza e la confermavano con l’esempio della loro vita. Si rendeva culto agli asceti, alle vergini ed ai monaci, poiché essi davano testimonianza con una vita eroicamente cristiana. La festa di un santo era originariamente festa della comunità nella quale egli era vissuto, della Chiesa alla quale apparteneva. Col tempo, il culto dei santi assume la portata universale. Attualmente, nel calendario di tutta la Chiesa commemoriamo i santi, che hanno carattere universale, sono conosciuti in tutta la Chiesa e indicano la sua universalità. Le Chiese particolari e le famiglie religiose hanno i loro calendari particolari e così rendono culto ai santi che sono loro vicini in modo speciale.

       Celebrare la Solennità di Tutti i Santi vuol dire annunciare il mistero pasquale nei santi, che soffrirono insieme con Cristo ed insieme con lui furono glorificati. La santità cristiana consiste infatti nella imitazione e nella partecipazione a quell’unico amore che aveva Cristo nell’offrire al Padre la sua vita per gli uomini. La santità cristiana consiste nella vita paziente di ogni giorno nello spirito delle beatitudini; è nello stesso tempo l’adempimento della perenne vocazione dell’uomo alla perfezione. La chiamata alla santità riecheggiava nel Vecchio Testamento. Cristo dirà ai suoi: siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste (
Mt 5,48). San Paolo ricorderà ai Tessalonicesi: questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione (1Th 4,3).

       Cambiano i tempi e le condizioni in cui vive la Chiesa, ma la chiamata alla santità non viene meno. La santità si manifesta esteriormente in modi diversi, viene realizzata dagli uomini secondo le doti della natura, i carismi, i tempi e le circostanze della vita. A base però della santità sta un’unica cosa: l’amore. Il santo camminava per la vita praticando il comandamento nuovo lasciato da Cristo. Oggi, la Chiesa contempla con gli occhi di Giovanni apostolo «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua; tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello» (Ap 7,9) ed esulta con grande gioia. Contempla la Città santa, la Gerusalemme celeste dove un gran numero dei nostri fratelli glorifica già adesso il nome del Signore. In questo giorno solenne, la Chiesa manifesta ai suoi figli ancora pellegrinanti sulla terra il loro esempio di vita. Ai nostri fratelli, che sono già arrivati alla patria celeste, la Chiesa chiede aiuto e sostegno per coloro che sono ancora in via.

       Effondi, o Padre, la grazia del tuo Spirito sulla Chiesa,

       che celebra il mistero pasquale nei santi

       che hanno sofferto col Redentore e con lui sono stati glorificati,

       perché tutti i tuoi figli raggiungano la salvezza,

       e tu sia lodato in eterno.

       Messale Ambrosiano, Milano 1976: Tutti i Santi, Orazione inizio assembl. lit.


1. L’amore dovuto ai santi

       Bisogna rendere il dovuto onore ai santi, come amici di Cristo, come figli ed eredi di Dio, secondo le parole di Giovanni teologo ed evangelista: A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio (Jn 1,12). Quindi non sono più schiavi, ma figli; e se figli, sono anche eredi (Ga 4,7). Eredi di Dio, coeredi di Cristo (Rm 8,17). Anche il Signore nei santi Vangeli dice agli apostoli: Voi siete miei amici (Jn 15,14). E: Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone (Jn 15). Per questo se egli è chiamato Re dei re Signore dei signori, Dio degli dèi, Creatore e Signore supremo di tutte le cose, ne consegue inevitabilmente che anche i santi sono dèi, signori e re. Il loro Dio è il Dio che è ed è chiamato Signore e Re. Io infatti, disse a Mosè, sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe (Ex 3,6). Che forse Mosè da Dio non fu reso come un dio per il faraone? Inoltre li chiamo dèi, re e signori, non per natura, ma per il fatto che comandando alle proprie passioni e dominandole, conservarono immutata la somiglianza all’immagine divina, secondo la quale erano stati creati (infatti si chiama anche re l’immagine che lo rappresenta), come anche perché per libera volontà si sono uniti a Dio, e ospitandolo nel loro cuore, sono divenuti per mezzo della grazia ciò che egli è per sua natura. Che cosa dunque ci spinge ad onorare coloro che sono servi, amici e figli di Dio? In verità l’onore che si rende ai servi migliori è prova di un animo affezionato al comune signore.

       Essi sono divenuti le dimore pronte e pulite di Dio, poiché dice il Signore: Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò e sarò il loro Dio (Lv 26,12). Ed ancora leggiamo nella Sacra Scrittura: Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, e la morte non le toccherà (Sg 3,1). Infatti la morte dei santi è sonno più che morte. Faticarono in questo mondo e vivranno in eterno (Ps 18,9-10). E: Preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suoi santi (Ps 115,15). C’è forse una cosa più preziosa dell’essere nelle mani di Dio? Dio infatti è la vita e la luce. E quindi coloro che sono nelle mani di Dio sono anche nella vita e nella luce.

       Che poi anche con lo Spirito Dio abbia abitato nei loro corpi lo afferma l’Apostolo: Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui (1Co 3,16-17). Perché allora non bisognerebbe rendere onore ai templi animati di Dio e ai suoi tabernacoli viventi? Questi finché vissero furono con fiducia presso Dio...

       I santi non sono da annoverare tra i morti. Essi sono i patroni di tutto il genere umano. Secondo la legge chiunque toccava un morto era ritenuto immondo. Ma i santi non si devono considerare nel numero dei morti. Da quando infatti colui che è la vita stessa è stato considerato tra i morti anche l’artefice della vita, in nessun modo chiamiamo morti coloro che si addormentarono con la speranza della resurrezione e con la fede in lui. Come potrebbe infatti un morto operare miracoli? Come mai dunque per opera loro i demoni vengono scacciati, le malattie debellate, i malati guariti, i ciechi recuperano la vista, i lebbrosi sono mondati, le tentazioni e le afflizioni disperse, ogni dono perfetto per mezzo loro discende dal Padre della luce a coloro che chiedono con ferma fede? Che cosa non faresti per trovare un protettore che ti presentasse ad un re di questo mondo ed intercedesse per te presso di lui? Perciò, non dobbiamo forse onorare quelli che sono i patroni di tutto il genere umano e che supplicano Dio per noi? Senz’altro bisogna onorarli, ed in verità in modo da erigere in loro onore templi a Dio, fare offerte, venerarne la memoria e trovare in essa il diletto spirituale: in ogni caso quella letizia di cui si compiacciono essi che ci invitano, mentre cerchiamo di propiziarceli, a non offenderli piuttosto, né a muoverli a sdegno. Infatti Dio si onora con ciò di cui anche i suoi servi si dilettano. E con le stesse cose con cui si offende Dio, si offendono anche i [suoi] soldati. Per questo con i salmi, gli inni, i cantici spirituali, anche con la contrizione, con la pietà verso i poveri, con cui si onora soprattutto Dio, noi, che siamo fedeli, dobbiamo venerare i santi. Innalziamo a loro statue e simulacri che siano in vista: anzi, imitando le loro virtù, cerchiamo di diventare i loto simulacri e le loro immagini viventi. Onoriamo la Deipara come vera Madre di Dio; il profeta Giovanni, come precursore e battista, apostolo e martire, poiché il Signore disse: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista (Mt 11,11): in verità egli fu il primo ad annunziare il Regno. Onoriamo anche gli Apostoli, come fratelli del Signore, che lo videro con i loro occhi e lo sostennero nelle sue sofferenze, poiché quelli che egli [il Padre] da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo (Rm 8,29); alcuni... li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come pastori e maestri (1Co 12,28). Onoriamo anche i martiri scelti da ogni categoria di persone, come soldati di Cristo, che bevvero il suo stesso calice e che furono battezzati col battesimo della sua morte vivifica, come compagni della sua passione e gloria (di cui fu l’antesignano l’apostolo e protomartire Stefano); così pure onoriamo i nostri santi padri e i monaci ispirati da Dio, che sopportarono il martirio della coscienza, più lungo e più penoso; che andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra - di loro il mondo non era degno! (He 11,37-38). Infine onoriamo coloro che vissero prima del tempo della Grazia, i profeti, i patriarchi, i giusti che preannunziarono la venuta di Cristo. Considerando il modo di vivere di tutti questi, imitiamone la fede, la carità, la speranza, il fervore, la vita la tolleranza delle sofferenze, la pazienza fino al martirio, per diventare noi stessi compagni e partecipi della medesima gloria.

       Giovanni Damasceno, De fide orthod., 4, 15


2. Il «Discorso della montagna»

       E, prendendo la parola, così li [i discepoli] ammaestrava (Mt 2,5).

       Se si vuole sapere il significato [del nome] monte, si comprende bene che esso vuol dire i precetti più importanti sulla giustizia, per il fatto che i più secondari erano già stati dati ai Giudei.

       Tuttavia, l’unico Dio, attraverso i santi profeti e i suoi servitori, distribuì, secondo i tempi, in modo ordinato, i comandamenti meno importanti al suo popolo che aveva bisogno ancora del timore per tenerselo unito, e per mezzo del suo Figlio dare al popolo quelli più grandi che era conveniente che fosse liberato dall’amore.

       Poiché, d’altra parte, s’impartiscono ai piccoli i precetti di minore gravità, ed ai più grandi quelli di maggiore importanza, questi sono dati solo da Colui che ritiene conveniente per i propri tempi offrire un rimedio al genere umano.

       Né deve suscitare sorpresa il fatto che si diano precetti maggiori per il regno dei cieli, e i minori siano dati per il regno temporale da quel medesimo unico Dio, che creò il cielo e la terra.

       Su questa giustizia, quindi, che è maggiore, è detto per mezzo del profeta: La tua giustizia è simile ai monti di Dio (Ps 35,7); e questo significa bene quello che viene insegnato sul monte dall’unico Maestro, solo capace di insegnarci così grandi verità.

       Ma mentre sta seduto, egli insegna, poiché ciò si addice alla dignità del maestro.

       E gli si avvicinano i suoi discepoli, affinché con l’ascoltare le sue parole, fossero più vicini, anche fisicamente, coloro che si disponevano con l’animo ad adempiere i precetti.

       Prendendo la parola, li ammaestrava, dicendo (Mt 2,5).

       Questo modo di dire, chiamato: prendendo la parola (aprendo la sua bocca), forse nello stesso tempo fa valere che il suo discorso sarà piuttosto lungo, almeno che non si applichi ora poiché fu detto che aveva aperto la bocca Colui che soleva aprire nell’antica legge le bocche dei profeti. Che cosa, dunque, dice? Beati i poveri di spirito, perché ad essi appartiene il regno dei Cieli (Mt 2,5).

       Leggiamo che è stato scritto sul desiderio dei beni temporali: Tutte le cose sono vanità e presunzione dello spirito (Si 1,14); d’altra parte e a presunzione dello spirito sta ad indicare l’audacia e la superbia. Generalmente si dice che anche i superbi abbiano grandi menti, e questo, [è detto] rettamente, dal momento che anche il vento è chiamato spirito, per cui fu scritto: Fuoco, grandine, neve, ghiaccio, sono aria di burrasca (Ps 148,8).

       Ma chi potrebbe ignorare che i superbi arroganti sono chiamati come gonfiati dal vento?

       Di qui anche quel detto dell’Apostolo: La scienza si vanta, la carità edifica (1Co 8,1).

       Perciò, giustamente qui sono compresi per poveri di spirito, gli umili e i timorosi di Dio, cioè quelli che non hanno lo spirito vanitoso.

       Né d’altronde fu affatto conveniente iniziare con la beatitudine [il discorso] giacché essa farà giungere alla più alta sapienza.

       Il timore del Signore, al contrario, è l’inizio della sapienza, e, per contrario, è scritto, l’inizio di ogni peccato è la superbia (Si 1,9).

       I superbi, quindi, desiderino ed amino i regni della terra.

       Beati, invece, i poveri in spirito, poiché ad essi appartiene il regno dei Cieli (Mt 5,3).

       Beati i miti perché avranno la terra in eredità (Mt 5,4), quella terra, credo, di cui si dice nei salmi: Tu sei la mia speranza, la parte di eredità nella terra dei viventi (Ps 141,6). Ha anche, infatti, il significato di una certa saldezza e stabilità, dell’eterna eredità, dove l’anima a causa di un buon sentimento riposa come nella sua patria, come il corpo sulla terra, ed ivi si nutre del cibo, adatto per lei come il corpo sulla terra.

       Essa stessa è il riposo e la vita dei santi.

       I miti, d’altra parte, sono coloro che cedono davanti alle iniquità e non sanno resistere al male, ma prevalgono sul male col bene.

       Siano, pure, rissosi e lottino i violenti per i beni terreni e temporali, ma: Beati sono i miti perché avranno in eredità la terra dalla quale non possono essere cacciati.

       Beati quelli che sono afflitti, perché saranno consolati (Mt 5,5)

       Il lutto è la tristezza per la scomparsa dei propri cari.

       Al contrario, indirizzati verso Dio perdono quelle cose che da loro venivano preferite come care in questo mondo; infatti, non si rallegrano di queste cose di cui prima gioivano, e finché in essi c’è l’attaccamento dei beni eterni, sono afflitti da non poca tristezza.

       Saranno consolati, quindi, dallo Spirito Santo, che, per eccellenza, è chiamato appunto il Paraclito, cioè il Consolatore, affinché, mentre perdono la gioia temporale, gioiscano del gaudio eterno.

       Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati (Mt 5,6).

       Già chiama questi affamati ed assetati, le vere ed autentiche persone probe. Essi saranno, dunque, saziati di quel cibo del quale lo stesso Signore dice: Il mio cibo consiste nel fare la volontà del mio Padre (Jn 4,34), poiché è la giustizia, e quella stessa acqua della quale chiunque berrà, come egli stesso dice, sorgerà in lui una fonte di acqua zampillante per la vita eterna (Jn 4,14).

       Beati i misericordiosi perché riceveranno misericordia (Mt 5,7).    

       Dice che sono beati quelli che soccorrono i bisognosi, poiché saranno talmente compensati, da essere liberati dalla loro necessità.

       Beati quelli che hanno il cuore puro, perché vedranno Dio (Mt 5,8).

       Quanto sono stolti, dunque, coloro che cercano Dio con questi occhi di carne, mentre vedono col cuore, come altrove è stato scritto: Con cuore semplice cercatelo! (Sg 1,1).

       Il cuore puro, infatti, è il cuore semplice. E allo stesso modo questa luce non si può vedere se non con occhi puri, così non si può vedere Dio, se non è limpido ciò col quale si può vedere.

       Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9).

       Nella pace è la perfezione, dove nessuna cosa ripugna; e, pertanto, i figli di Dio sono operatori di pace, poiché niente resiste a Dio, e, senza dubbio, debbono avere la rassomiglianza col Padre.

       Operatori di pace, d’altra parte, sono in se stessi, tutti quelli che equilibrano i movimenti del proprio animo e lo sottomettono alla ragione, vale a dire all’intelligenza ed all’anima, e sottomettendo e domando i cattivi desideri della carne, diventano il regno di Dio, nel quale sono talmente ordinate tutte le cose, che ciò che vi è nell’uomo di importante e nobile, venga sottomesso alle rimanenti cose opposte che sono in noi e ci accomunano agli animali, e ciò che è più nobile nell’uomo, cioè l’intelligenza e la ragione, siano sottomesse alla parte migliore, cioè alla stessa verità, l’unigenito Figlio di Dio.

       Né, infatti, si può comandare alle cose inferiori se non si sottomette, egli stesso, alle cose superiori.

       E questa è la pace che è concessa in terra agli uomini di buona volontà, questa è la vita del sapiente costante che ha raggiunto la perfezione.

       Da questo particolare regno, molto tranquillo ed ordinato, fu espulso il principe di questo mondo, che ha il dominio sugli uomini perversi e smodati.

       Internamente con questa pace costituita e salda, qualsiasi persecuzione scatenerà dal di fuori colui che ne fu espulso, aumenterà la gloria che è secondo Dio, non turbando alcunché in quell’edificio, ma con le sue arti, a quelli che ne son privi, quanta saldezza nell’interno sia stata edificata.

       Per questo segue: Beati quelli che soffrono persecuzioni a causa della giustizia, perché proprio ad essi, appartiene il Regno dei Cieli (Mt 5,10).

       Esistono d’altronde queste otto beatitudini.

       Per la qual cosa a questo loro numero occorre fare attenzione.

       Ha inizio, in effetti, la beatitudine dell’umiltà: Beati i poveri in spirito... (Mt 5,4), vale a dire i non superbi, mentre la [loro] anima si sottomette alla divina volontà, nel timore che dopo questa vita non si diriga verso le pene anche nel caso che in questa vita [l’anima] forse possa sembrare beata.

       Quindi giunge alla conoscenza delle divine Scritture, nella quale è necessario che essa si mostri mite per il suo sentimento religioso, affinché non osi biasimare ciò che agli inesperti sembra contraddittorio e si renda indocile con le ostinate discussioni.

       Quindi già comincia a sapere, con quali legami di questo secolo venga trattenuto attraverso l’abitudine dei sensi e i peccati.

       Pertanto, in questo terzo grado nel quale risiede la scienza, viene rimpianta la perdita del sommo bene, poiché è attaccato alle cose ultime.

       Nel quarto grado, poi, vi è la fatica, dove violentemente si cade, affinché l’animo si sradichi attaccato [com’è] da quelle cose con una deleteria dolcezza.

       Qui, dunque, ha fame e sete la giustizia, e la fortezza, estremamente necessaria, per il fatto che non si lascia senza dolore ciò che col piacere viene attratto.

       Col quinto grado, inoltre, viene offerto a quelli che perseverano nella fatica, il consiglio di evadere, poiché se ognuno non viene aiutato dall’Essere superiore, in nessuna maniera può essere adatto a liberarsi da impedimenti così grandi dalle miserie.

       È, invero, un giusto consiglio, che colui che vuole essere aiutato da uno più forte, aiuti il più debole, col quale egli stesso è più potente.

       Perciò: Beati quelli che usano misericordia, poiché essi riceveranno la stessa misericordia (Mt 5,7).        

       Col sesto grado è richiesta la purezza di cuore, avvalendosi della retta coscienza delle buone opere, per contemplare quel sommo bene, il quale può essere visto col puro e sereno intelletto.

       Per ultimo c’è la stessa settima sapienza, cioè la contemplazione della verità rendendo operatore di pace l’intero uomo e ricevendo la somiglianza di Dio, che, così si esprime: Beati gli operatori di pace, poiché saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9).

       L’ottava [beatitudine], per così dire, ritorna alla prima, perché mostra il bene perfetto e raffinato e lo approva.

       Per questo nella prima e nell’ottava è nominato il Regno dei Cieli: Beati i poveri in spirito, perché ad essi appartiene il Regno dei Cieli e: Beati quelli che soffrono persecuzione a causa della giustizia, poiché di essi è il Regno dei Cieli ( Mt 5,10). Quando già si dice: Chi ci separerà dall’amor di Cristo? forse la sofferenza, oppure l’angoscia, o la persecuzione, o la fame o la nudità, o il pericolo o la spada? (Rm 8,35).

       Sette sono, dunque, quelle che rendono perfetti; l’ottava, in effetti, rende esplicito e rivela ciò che è perfetto.

       Agostino, De sermone Christi in monte, 1, 2-10


3. Le relazioni tra Cristo e i santi

       Crediamo poi anche che tutti, non solo gli apostoli, i martiri, ma anche tutti i santi e servitori di Dio, abbiano in sé non solo lo Spirito di Dio, secondo quanto è detto (nella Scrittura): Voi siete tempio del Dio vivente; come Dio disse, poiché io abiterò in essi (2Co 6,16). E di nuovo: Non sapete che voi siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? (1Co 3,16). E per questo tutti sono Teotochi [o figli di Dio]...

       Ma lungi da noi tale empietà di respingere e aborrire l’errore, che il Creatore si paragoni alla sua creatura, il Signore ai suoi servitori, Dio alla fragilità umana, Egli che è il Signore delle potenze terrestri e celesti; e questa offesa possa essergli arrecata dai suoi stessi benefici, affinché Colui che ha reso l’uomo degno della sua dimora, lo stesso si dica, per questa ragione, ciò che l’uomo è...

       Anzi, questo intercorre tra Lui e tutti i santi, [cioè] tra la dimora e colui che vi abita, poiché senza dubbio non appartiene alla dimora che essa sia abitata, ma è proprio di chi vi dimora, alla cui volontà appartiene e la costruzione della dimora e il suo uso; cioè, o quando egli voglia fare la sua stessa dimora oppure quando l’abbia fatta, si degni di abitarvi...

       Dunque, tutti i patriarchi, o profeti, o apostoli, o martiri, o perfino tutti i santi, ebbero, in effetti, Dio in sé, e tutti divennero figli di Dio, e tutti furono Teotochi (cioè figli di Dio); ma, senza dubbio, in modo diverso e molto dissimile.

       Infatti, tutti quelli che credono in Dio, sono figli di Dio per adozione, ma solo l’Unigenito Figlio per natura; colui che è generato dal Padre non da qualche materia, perché ogni cosa ed ogni elemento delle cose sussistono per l’Unigenito Figlio di Dio; non dal nulla, poiché (è generato) dal Padre; non come se fosse stato quasi generato, poiché niente in Dio vi è di vuoto e di mutabile; ma, in un modo inesprimibile ed inestimabile. Dio Padre, generò il suo Figlio Unigenito, con elementi che non erano stati mai generati; e così dal sommo ed eterno Padre, mai generato, è generato il sommo ed eterno Unigenito Figlio, lo stesso che dovrà aversi nella carne e che si ha nello spirito, l’identico che si dovrà credere nella maestà «poiché nascerà nella carne» [Lips, in marg., lo stesso che deve credersi nel corpo è colui che è creduto nella maestà, poiché nascerà nella carne].

       Non operò alcuna divisione o separazione di se stesso, affinché non nascendo da parte alcuna, qualche parte di se stesso nascesse; oppure, in seguito, qualcosa di divino comparisse in lui, non fosse nato da Maria Vergine.

       Infatti, secondo l’Apostolo, in Cristo abita corporalmente ogni pienezza della divinità (Col 2,9)...

       Vale l’umana debolezza, (pertanto) si umilino davanti a Dio, si sottomettano a Dio, si rendano dimora di Dio, e meritino di avere, con la fede e con la pietà, come ospite ed abitatore lo stesso Dio.

       Poiché come colui che per dono di Dio, si rese idoneo, così è rimunerato dalla divina grazia.

       E se qualcuno si reputa degno di Dio, gode della venuta di Dio, secondo quella promessa del Signore:

       Se qualcuno mi ama, osserverà la mia Parola; ed io e il Padre mio verremo presso di lui, e stabiliremo la nostra dimora presso di lui (Jn 14,23).

       Sia lontana l’altra cosa riguardante il Cristo, e il motivo è che in lui abita ogni pienezza della divinità fisicamente e chi ha in sé tale pienezza della divinità, della sua pienezza elargisce a tutti tutte le cose; colui che con la pienezza della divinità che abita in sé, abita in persona in ogni singolo santo, come se li reputasse degni di abitare nella propria dimora, e così a tutti attribuì le proprie cose dalla pienezza affinché egli stesso perseverasse ancora sulla sua pienezza; colui che senza dubbio era rimasto in terra col suo corpo, era tuttavia nelle anime di tutti i santi, e riempiva con l’infinità della sua potenza e maestà i cieli, le terre, i mari, e tutto l’universo; e così egli era tutto in se stesso, talmente che tutto l’universo non lo contenesse.

       Poiché, per quanto grandi ed ineffabili siano le cose da lui create, tuttavia nessuna è così capace ed immensa che possa contenere lo stesso Creatore.

       Cassiano Giovanni, De incarnat. Christi, 5, 3-4


4. Itinerario di virtù necessarie agli incipienti

       La prima virtù degli incipienti è, in verità, la rinuncia al mondo, che ci rende poveri di spirito; la seconda, la mansuetudine, per la quale ci sottomettiamo all’obbedienza e ci abituiamo ad essa; poi, la contrizione, per la quale si piangono i peccati e si implorano le virtù. A questo punto, cominciamo di certo a gustare la giustizia, il che accresce la nostra fame e sete di quest’ultima, tanto per noi che per gli altri, e ci sentiamo presi dallo zelo per i peccatori. Ma, affinché uno zelo smodato non degeneri in vizio, subentra la misericordia a temperarlo. Quando dunque, con attività ed esercizi di questo genere, si sarà imparato ad essere giusti e misericordiosi, si sarà forse in grado di attendere alla contemplazione e di lavorare alla purificazione del cuore, che permette di vedere Dio. Così esercitati e provati nell’azione e nella contemplazione; dopo aver ricevuto il nome e la funzione di figli di Dio; divenuti ormai padri e servi degli altri, e quasi loro mediatori e intermediari, si sarà finalmente diventati degni di mettere la pace tra essi e Dio (Dt 5,5), la pace tra di loro, o anche la pace tra essi e quelli di fuori. Si realizzerà così ciò che è scritto nell’elogio dei santi padri: Facevano regnare la pace nella loro casa (Si 44,6). Colui che sarà stato fedele e perseverante nel compimento di questa mansione otterrà spesso la virtù e il merito del martirio, soffrendo persecuzione per la giustizia (Mt 5,3-10), talvolta anche da parte di coloro per i quali avrà combattuto, sì da poter dire: I figli di mia madre hanno combattuto contro di me (Ct 1,5), e: Ero pacifico verso coloro che odiavano la pace; mentre io parlavo loro, essi mi attaccavano senza motivo (Ps 119,7).

       Guerric d’Igny, Sermo de Omn. Sanct., 1, 2


5. Il peso dell’umanità e la grazia di Dio

       I santi si sentono ogni giorno decadere, sotto il peso di terreni pensieri, dalle altezze della contemplazione; contro la loro volontà, anzi senza saperlo, sono assoggettati alla legge del peccato e della morte, e sono distratti dalla presenza di Dio da opere terrene, per quanto buone e giuste. Hanno dunque delle buone ragioni per gemere continuamente presso il Signore, hanno ben motivo per cui veramente umiliati e compunti non solo a parole, ma di cuore, si dichiarino peccatori, chiedano sempre perdono per tutte le debolezze in cui, battuti dalla debolezza della carne, incorrono ogni giorno, e versano vere lagrime di penitenza, poiché vedono che fino alla fine della loro vita essi saranno tormentati dalle pene che li affliggono e che neanche possono offrire le loro suppliche senza il fastidio delle immaginazioni.

       Resisi conto, quindi, ch’essi non riescono, per il peso della carne, a raggiungere con le forze umane la meta desiderata e che non riescono a congiungersi, come desiderano, al sommo bene, ma che invece sono travolti, come prigionieri, verso le cose mondane, ricorrono alla grazia di Dio il quale fa giusti i malvagi (Rm 4,5) e gridano con l’Apostolo: Oh, me infelice! chi mi libererà da questo corpo di morte? La grazia di Dio per mezzo del signor nostro Gesù Cristo (Rm 7,24-25). Sentono che non possono portare a termine il bene che vogliono e che invece ricadono sempre nel male che non vogliono e odiano, cioè le immaginazioni e preoccupazioni delle cose terrene.

       Cassiano Giovanni, Collationes, 18, 10


6. I santi si sforzano di liberarsi dai ceppi della corporeità

       Nessuno è in grado, prima della morte, di lodare Dio perfettamente, come nessuno può venir detto in questa vita certamente beato, perché il suo futuro è incerto. La morte è dunque la separazione dell’anima dal corpo, e sappiamo che l’Apostolo preferiva separarsi dal corpo ed essere con Cristo, e certo questo è meglio assai (Ph 1,23). Questa separazione, poi, cosa produce, se non che il corpo si scioglie e riposa, mentre l’anima entra nella sua pace, è libera, e, se devota, sta per sempre con Cristo? E che altro fanno dunque i giusti in questa vita, se non liberarsi dalle macchie di questo corpo che ci inceppano come vincoli, se non tentare di liberarsi dalle sue molestie, rinunciando alle sue voluttà e alla sua lussuria, fuggendo le fiamme dei piaceri? Chi agisce così, traccia in questa vita l’immagine della morte, se riesce ad agire in modo che muoiano in lui tutti i piaceri del corpo ed egli stesso muoia a tutte le cupidigie e a tutte le lusinghe mondane, come lo era Paolo quando diceva: Il mondo per me è crocifisso, ed io per il mondo (Ga 6,14). E per ammaestrarci che in questa vita vi è la morte, anzi la buona morte, ci esorta a portare attorno sempre nel corpo i patimenti di Gesù, affinché la vita di Gesù si manifesti nel nostro, corpo (2Co 4,10).

       Operi dunque in noi la morte, e produca la vita. È buona la vita dopo la morte, cioè è buona la vita dopo la vittoria, è buona la vita alla conclusione della battaglia, quando la legge della carne non si opporrà più alla legge dello spirito, quando non dovremo più combattere con questo corpo di morte, ma saremo in esso vittoriosi. Non so perciò se sia di maggior efficacia la morte o la vita. Certamente mi scuote l’autorità dell’Apostolo che dice: Perciò la morte agisce in noi, in voi, invece, la vita (2Co 4,12). La morte di uno, quanti popoli ha portato alla vita! L’Apostolo dunque ci insegna che chi è in questa vita deve desiderare una tale morte, perché risplenda nel nostro corpo la morte di Cristo. È beata la morte che dissolve l’uomo esteriore e rinnova l’uomo interiore, che abbatte la nostra casa terrestre per prepararci un’abitazione in cielo. Attua questa morte chi si scioglie dall’attaccamento a questa carne e spezza i vincoli di cui parla il Signore per bocca di Isaia: Sciogli ogni legame di ingiustizia, spezza i legami delle mutazioni violente, rimanda liberi i vinti e rompi ogni determinazione iniqua (Is 58,6).

       Attua la morte in sé anche chi si spoglia dei piaceri e si eleva ai diletti eterni, entrando in quella celeste abitazione in cui dimorava Paolo ancora in questa vita - altrimenti non avrebbe detto: La nostra dimora è nei cieli (Ph 3,20), frase che ci fa comprendere il suo merito ed è materia di meditazione -. Lassù dunque era fissa la sua meditazione, lassù dimorava la sua anima, lassù era la sua sapienza. Il sapiente, infatti, ricercando il bene divino, scioglie l’anima sua dal corpo; spezza il legame con questa sua tenda, quando si dedica alla scienza del vero, che desidera gli appaia nuda e svelata: perciò cerca di liberarsi dalle reti, dalle nebbie di questo corpo. Non con le mani, non con gli occhi o le orecchie possiamo comprendere quella somma verità, perché ciò che si vede è temporale, ciò che non si vede è eterno. Per questo, spesso la vista ci inganna e non vediamo le cose come stanno; per questo ci inganna anche l’udito. Perciò contempliamo non quello che si vede, ma quello che non si vede, se vogliamo evitare l’inganno.

       E quando l’anima nostra sfugge l’inganno, quando raggiunge il trono della verità, se non quando si allontana da questo corpo, dai suoi inganni, dalle sue illusioni? L’inganna la vista degli occhi, l’inganna l’udito delle orecchie: abbandoni dunque tutto ciò e se ne allontani. Per questo l’Apostolo esclama: Non toccate, non palpate, non gustate tutto ciò che porta alla corruzione (Col 2,21) . Porta la corruzione l’indulgenza per il corpo. Perciò mostrando che non con l’indulgenza per il corpo ma con l’elevazione dell’animo, con l’umiltà del cuore egli aveva trovato la verità, soggiunge: «La nostra dimostra è nei cieli». Lassù dunque l’anima cerchi la verità che è e che sempre rimane, lassù si raccolga in se stessa e raccolga tutta la forza della sua virtù.

       Ambrogio, De bono mortis, 8 - 10


7. Tutti dobbiamo seguire il Cristo

       Anche noi, dunque, fratelli, se amiamo sinceramente, imitiamo. Non potremo, infatti, offrire una migliore prova di amore, che l’esempio dell’imitazione; Cristo, infatti, patì per noi, lasciandoci un esempio, affinché seguiamo le sue orme (1P 2,21). Sembra che l’apostolo Pietro abbia visto chiaro con questo pensiero, poiché il Cristo soffrì tanto per questi che seguono i suoi passi, né la passione di Cristo giovò alcunché, se non a quelli che seguono il suo esempio. Lo seguirono i santi martiri fino allo spargimento di tutto il loro sangue, fino a rassomigliare a lui nella passione: lo seguirono i martiri ma non soli. Infatti, non dopo che essi passarono, il ponte è stato spezzato; e dopo che essi bevvero, la fonte si è esaurita.

       Qual è infatti la speranza dei buoni fedeli che anche nel dovere coniugale ne portano il peso in maniera concorde e casta, anche nello stato di continenza vedovile, donano le attrattive della carne, oppure innalzandosi sempre più in alto verso le vette della santità, floridi e fervorosi, seguono, in nuova verginità, l’Agnello dovunque andrà?

       Qual è la speranza per noi tutti, dico, per costoro, se non versano il sangue per lui stesso? La madre Chiesa lascerà perdere, dunque, quei figli che tanto più fecondamente quanto più sicuramente ha generato in tempo di pace?

       Per non perderli, occorre pregare per la persecuzione, per la tentazione?

       Non sia mai, fratelli.

       Come, infatti, può invocare la persecuzione, colui che ogni giorno grida: Non ci indurre in tentazione (Mt 6,13)?

       L’orto del Signore, o fratelli, ha non solo le rose dei martiri, ma anche i gigli dei vergini, le edere dei coniugi e le viole delle vedove.

       Per questo, o dilettissimi, nessuno tra gli uomini disperi della propria vocazione: per tutti Cristo ha sofferto. Veramente di lui è stato scritto: Colui che vuole che tutti gli uomini siano salvi, e che tutti giungano alla verità (1Tm 2,4).

       In quali cose bisogna seguire Cristo, eccetto nel martirio? La sua umiltà occorre imitarla. La vendetta, dietro l’esempio del Cristo, non è necessario richiederla. La sua presenza è da non tenerne conto.

       Capiamo, pertanto, all’infuori dello spargimento del sangue, all’infuori del pericolo della passione, in che modo il cristiano debba seguire il Cristo.

       L’Apostolo dice, parlando del Signore Gesù: Chi avendo la natura di Dio, non stimò una rapina essere eguale a Dio?

       Quale grande maestà!

       Ma umiliò se stesso, prendendo la forma di un servo, diventando simile agli uomini, e nella condizione, ritrovatosi come un uomo (Ph 2,7).

       Quale grande umiltà! Il Cristo umiliò se stesso: «Tu hai, o cristiano, ciò che tieni».

       Cristo si è fatto obbediente: Perché ti insuperbisci? Fin dove il Cristo si è fatto obbediente? Fino all’incarnazione del Verbo, fino alla partecipazione dell’umanità mortale, fino alla triplice tentazione del demonio, fino alla derisione del popolo dei Giudei, fino agli sputi e ad essere ammanettato, fino agli schiaffeggi ed ai flagelli; se è poco, fino alla morte; e se ancora c’è da aggiungere qualcosa al genere di morto, (si umiliò) fino alla morte di croce (Ph 2,6-8).

       Agostino, Sermo 304, 2 ss.


8. L’intercessione dei santi

       Per la supplica della Madre di Dio,

       Immacolata e sempre vergine,

       E di Giovanni il Precursore,

       Voce che grida nel deserto;

       Per l’implorazione del Coro puro

       Degli Apostoli che primi

       Bevvero l’effusione dello Spirito

       E ne fecero bere tutti noi;

       Dei discepoli dell’Altissimo,

       Dell’inamovibile Pietra della Fede,

       E dello Strumento eletto dal Verbo,

       E cose ineffabili ha udite;

       Degli schietti figli di Zebedeo,

       Che han tuonato dall’alto;

       E di Andrea, tuo compagno di Croce,

       E di Matteo, tuo Evangelista;

       Di Filippo che veder volle il Padre,

       Di Bartolomeo che ci ha chiamati [gli Armeni],

       Di Jc d’Alfeo,

       E di Tommaso Didimo;

       Dello Zelota Simone,

       E di Giuda, di Jc fratello,

       Di colui che fu chiamato tuo fratello,

       Nome da quel vescovo meritato;

       Dei sette santi da loro prescelti

       Quali Diaconi dello sparuto gregge;

       E dei quali il corifeo del gruppo

       Con essi porta il nome di «Corona»;

       E dei settanta Discepoli,

       Che Tu hai scelto per predicare il Verbo;

       E di coloro che seguiti l’hanno;

       Ognuno a tempo debito;

       Dei Patriarchi di tutti i popoli,

       Dei Dottori della veridica Parola,

       Che insegnato ci hanno a confessarti

       Figlio Unigenito del Padre;

       Dei ministri del santo Mistero,

       Dei nove ordini della Chiesa santa,

       Simili a quelli delle celesti schiere

       Che Te divinamente esaltano;

       Ed anche di color che sono in cielo;

       Per la domanda degli esseri sublimi, abbi pietà di noi;

       Essi che anche per noi ti supplicano

       Di non rifiutare l’opera della tua mano.

       Per le anime dei Martiri innumerevoli

       Che per Te han versato il loro sangue,

       Accordami dolorose lacrime

       Per versarle in cambio del lor sangue.

       Dal primo santo Martire,

       Stefano che lassù ti vide,

       Fino al Martire ultimo nel tempo

       Che sarà dall’Anticristo giustiziato.

       Per le sofferenze proprie a tutti loro

       Liberami dai tormenti del Maligno

       E per la loro morte volontaria,

       [Salvami] dalla morte eterna.

       Per le oscure loro carceri e prigioni

       Illumina le tenebre dell’anima [mia],

       E per gli occhi che hanno lor cavati

       Agli occhi dell’anima fa’ brillar la luce...

       In cambio delle minacce più terribili,

       Che essi come inezia reputarono,

       Liberami dalle minacce del Maligno

       E sul suo capo degnati rivolgerle.

       E in cambio della promessa degli effimeri [beni]

       Ai quali immantinente rinunciarono,

       Non sia io all’Astuto abbandonato

       Da un materiale amore ingarbugliato...

      

       In cambio di lor fame prolungata

       Concedi a me il tuo celeste Pane

       E per la loro inestinguibil sete

       La sorgente immortale del tuo Petto...

       Che dir di più? Non può enumerare

       Lingua degli uomini i tormenti loro,

       Che ora presso Te nascosti sono

       Ma che, allora rivelati, avran compenso.

       Grazie alle svariate lor torture

       Risana le mie sofferenze personali:

       Quelle del corpo, dell’anima e dello spirito,

       E quelle dei pensieri, e di parole e d’atti.

       E in cambio di loro teste mozze,

       Per cui divenner membra tue, a Capo,

       Con lor, Signor, incorpora me pure,

       Sicché possa io crescere con tutti.

       Per riguardo agli Eremiti del deserto,

       Che han seguito la voce della vita,

       E han portato la Croce con speranza,

       Fa’ sì che anch’io possa morire al mondo;

       Per le suppliche del grande Antonio,

       Della santa Assemblea Fondatore,

       E di quei che per lui si son votati a quello stato

       Fino ad oggi, e di quei che seguiranno.

       Attraverso le più svariate azioni

       S’offrono a Te quali fiori multicolori;

       La sterile alma fa’ che si trasformi

       In pianta cui non manchi frutto.

       La preghiera essi hanno ottenuto in grazia

       E il rivolo abbondante delle lacrime;

       Me pure attrai, per loro implorazione,

       Benché negligente, verso un simil bene.

       Essi con i digiuni hanno sconfitto

       Il carnale vizio del Principe del Male;

       Per essi accordami nella concupiscenza,

       Di porre il freno alle passion del cuore.

       Vittoria han conseguito sui pensieri

       Nella tenzone contro la lussuria;

       Al pigro spirto mio vittoria dona

       Almen a non seguir l’opre del Malvagio.

       Essi, persino in particelle minute di materia,

       Han dominato l’avarizia;

       Fa’ che dall’ingiustizia io m’allontani

       E mi contenti di ciò che è sufficiente.

       Con coloro che hanno avuto il coraggio di levarsi

       in dispetto alla noia di mezzogiorno,

       Rendimi coraggioso, me sì lento al bene

       E sì pronto per il male.

       Essi hanno vinto la collera

       E arginato la tristezza

       Argina entrambe in me, Signore, in grazia loro

       Sì che vani siano i loro strali a me diretti.

       Essi d’orgoglio e della sciocca gloria

       Son stati vittoriosi sull’arena;

       Liberami per loro intercessione

       Nel duello ingaggiato per la parte destra [nel Giudizio].

       Essi, per il comando che trascende la natura,

       Si sono sottomessi a dura ascesi

       Concedi a me almeno di portare

       Il giogo tuo soave e il carico leggero.

       E benché non abbia io posto tra i primi

       Viaggiatori già pervenuti al cielo

       Nondimeno sarò ultimo degli ultimi

       Seguendo le lor tracce.

       E se nella dimora degli esseri sublimi

       Io non son degno del tetto di tuo Padre

       Rendimi degno del più umil scanno

       Sia pur fra gli ultimi.

       Solo ti prego colloca me pure

       Alla tua destra nel gruppo degli agnelli,

       Fammi sentire l’annuncio tuo gioioso

       Della voce tua che beatifica.

       Nerses Snorhali, Jesus, nn. 807-821, 832-833, 839, 841-857





Lezionario "I Padri vivi" 220