Lezionario "I Padri vivi" 223

COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI

223 (2 novembre)

       Benché la Chiesa ricordasse sempre nelle sue preghiere i defunti, il giorno di Commemorazione compare nel calendario liturgico assai tardi. L’idea stessa proviene dagli ambienti monastici. La regola di sant’Isidoro di Siviglia (+ 636) prescrive la Messa per tutti i defunti il lunedì dopo la Pentecoste. Alcune Chiese conoscevano un giorno simile di preghiera dopo l’Epifania del Signore. C’è la tendenza ad unire questo giorno ad una delle grandi feste della Chiesa. Il giorno della Commemorazione di tutti i defunti nella forma attuale viene introdotto da sant’Odilone, abbate del monastero a Cluny (994-1048): il giorno 2 novembre venne scelto, visto che il giorno precedente si celebrava la Solennità di Tutti i Santi. La Chiesa esulta per la gloria dei suoi santi, ma non dimentica coloro che non sono ancora arrivati alla sua pienezza. L’abbazia di Cluny, per lungo tempo, influisce molto sulla vita religiosa d’Europa e perciò il giorno della Commemorazione viene accolto comunemente. La prima nota riguardante la celebrazione di questa Commemorazione risale al 1311. In alcune diocesi, si svolgevano in questo giorno processioni con le preghiere per i defunti. Alla fine del XV secolo, in Spagna, sorge la pratica di celebrare tre Messe, prassi che si diffonde in Portogallo ed in America latina. Nell’anno 1915 all’inizio della Prima Guerra mondiale, Benedetto XV estende questo privilegio a tutta la Chiesa.

       Il giorno di preghiera per i defunti è per molti l’occasione di porsi delle domande di principio. Perché la morte, perché il nostro corpo torna in polvere, perché dobbiamo sperimentare il dolore del distacco dai nostri prossimi? Chi può assicurarci l’immortalità, chi ci può dire come sarà la vita futura, chi può consolarci nel tempo della tristezza?

       Abbiamo accolto le parole di Cristo e ne conosciamo le risposte, crediamo a ciò che dicono i libri ispirati dalla Sacra Scrittura. Le molte risposte che abbiamo trovato, le possiamo ridurre ad una: la morte si può comprendere solo alla luce della Morte e della Risurrezione del Signore. Come Gesù è morto e risuscitato, così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui (
1Th 4,14).

       Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo (1Co 15,22). Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se morto, vivrà (Jn 11,25). La fede nella Risurrezione del Signore sta alla base della nostra preghiera per coloro che sono morti: affinché siano accolti nella gloria, affinché passino al luogo della luce e della pace. Essi non solo credettero nel Signore, ma attraverso il Battesimo morirono con lui e con lui passarono alla vita nuova: che il Signore compia adesso ciò che ha iniziato nel Battesimo.

       L’uomo di fronte a Dio: chi può dire di essere senza peccato? La Chiesa raccomanda oggi alla divina misericordia coloro che sono morti: Dio, una volta li lavò con le acque del Battesimo, che ora li lavi con la grazia del perdono. Celebrando l’Eucaristia, la Chiesa non cessa di intercedere per i nostri fratelli, che sono morti nella speranza della risurrezione. Prega per i defunti, dei quali solo Dio ha conosciuto la fede e per tutti coloro che hanno lasciato questo mondo. Oggi, queste parole assumono un particolare significato. Stiamo oggi presso le tombe dei nostri parenti, vicini, conoscenti; passiamo vicino ai sepolcri di tanti nostri fratelli. Ci accompagnino le parole della liturgia: «Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata».

       Dio onnipotente ed eterno,
       annualmente per le nostre preci
       tu concedi le cose che ti chiediamo
       e i doni per tutti coloro i cui corpi qui riposano:

       il luogo del refrigerio, la beatitudine della quiete,
       lo splendore della luce;
       e quelli che son gravati dal peso dei loro peccati
       ti affida la supplica della tua Chiesa.

       Sacramentarium Gelasianum, ed. L.C. Mohlberg, Roma 1968, n. 1681


1. Dio è già qui, tanto bello!

       Quali parole potranno mai esaurire la bellezza e l’utilità delle creature, che, per divina misericordia, l’uomo, benché abbandonato e condannato a tante fatiche e miserie, può contemplare e godere? La bellezza varia e molteplice della terra e del mare; l’abbondanza e la meraviglia della stessa luce, nel sole, nella luna e nelle stelle; l’ombra dei boschi; i colori e gli odori dei fiori, la varia moltitudine di uccelli garruli e variopinti; le forme molteplici di tanti animali di cui i più piccoli sono i più ammirevoli (ci meravigliano più le opere delle piccole formiche e delle piccole api, che i corpi immensi delle balene); lo stesso spettacolo immenso del mare, quando si riveste di diversi colori: ora verde, ora variegato, ora purpureo, ora ceruleo. Anzi, è uno spettacolo dilettevole anche quando è agitato, ed è allora tanto più soave, quanto più chi lo contempla è sicuro di non esser da esso scosso e travolto. E che dirò dell’abbondanza enorme dei cibi per combattere la fame, e della molteplicità dei sapori, per combattere la nausea, forniti senza posa dall’opulenta natura e non dall’arte e la fatica dei cuochi? E tra essi, quanti rimedi per ricuperare e proteggere la salute! Che grata alternanza di giorno e di notte! Che dolce spirar di venti! Dalle piante e dai greggi, quanto materiale per confezionare abiti! Chi potrebbe ricordare tutto? Se uno si volesse dedicare ad esaminar anche solo queste poche cose da me ridotte e condensate in queste poche linee, quanto tempo dovrebbe impegnare per ciascuna di esse! E sono tante!

       Tutto ciò è consolazione dei miseri e dei condannati, non premio dei beati. Come sarà dunque il premio, se la consolazione è tale e tanta! Cosa darà Dio a coloro che ha predestinato alla vita, se ha dato questo a coloro che ha predestinato alla morte! Di quali beni ricolmerà nella vita beata quelli per i quali in questa miseria ha voluto che il suo Figlio unigenito soffrisse tante pene, fino alla morte? Per questo l’Apostolo, parlando dei predestinati al regno dei cieli, dice: Colui che non perdonò al suo proprio Figlio, ma che lo sacrificò per noi, com’è possibile, che con lui, non ci doni tutto? (Rm 8,32). Quando questa promessa si sarà adempiuta, come saremo? Quali saremo? Quali beni riceveremo in quel regno, avendo già ricevuto un tale pegno: Cristo morto per noi? Come sarà lo spirito dell’uomo, senza i vizi ai quali debba sottostare, a cui debba cedere o contro i quali debba almeno strenuamente lottare, cioè perfetto per il pieno possesso pacificante della virtù? Come sarà abbondante, come sarà bella, come sarà certa la scienza di tutte le cose, pura da ogni errore e fatica, là dove la sapienza di Dio verrà attinta alla sorgente, con somma felicità, senza nessuna difficoltà! Come sarà splendido il corpo, soggetto in tutto allo spirito, da esso pienamente vivificato, libero dal bisogno di qualsiasi alimento! Sarà corpo spirituale, non animale: avrà la sostanza della carne, ma non certo la corruzione della carne.

       Agostino, De civit. Dei, 22, 24


2. Perché esiste la morte

       Ma sopporta a stento e si sdegna chi riflette sulla decomposizione del corpo, e pensa che è terribile che la nostra vita si dissolva con la morte.
       Poiché questa considerazione gli procura dolore e fastidio, esamini attentamente il grande beneficio di Dio.
       Per suo mezzo sarà maggiormente spinto ad ammirare la grazia della cura che Dio ha dell’uomo.
       Debbono scegliere di vivere coloro che partecipano della vita, perché godano di quelle cose che sono gradite e piacevoli.
       Giacché se qualcuno trascorresse la vita tra i dolori e le angosce, si ritiene che per lui è di gran lunga meglio non essere soggetto al dolore che esserlo.
       Esaminiamo, dunque, se colui che usufruisce della vita, miri a qualche altra cosa, piuttosto che a trascorrere una vita in mezzo alle migliori e più belle cose.

       Poiché, infatti, abbiamo attratto con l’impulso del libero arbitrio la società del male, mescolando il male della natura per mezzo di un certo veleno, quasi miele nascosto, del piacere; e, perciò, uscendo dalla beatitudine che si comprende con l’impassibilità, siamo spinti al vizio, e da questo motivo l’uomo di nuovo è rivolto alla terra come un vaso di creta (Gn 3,19); talmente che allontanate le impurità che ora sono in lui, attraverso la risurrezione sia reintegrato nella originale condizione.
       Questa verità, d’altra parte, ci espone senza dubbio Mosè, nella storia e attraverso simboli.
       Del resto anche queste immagini contengono una dottrina profonda e luminosa.
       Disse, infatti, che dopo che erano state proibite quelle cose, ci furono i primi uomini, i quali furono privati della felicità, e Dio impone per coprirsi delle tuniche di pelle ad essi, che furono i primi colpevoli, non badando, come penso, a tali pelli.
       Infatti, quali animali uccisi e privi di pelle, si inventa la loro veste?
       Ma poiché ogni pelle è tolta e separata, priva di vita dagli animali, ritengo senza dubbio che colui che guarisce il nostro peccato, in seguito infuse agli uomini provvidenzialmente una forza tale per morire che non sempre perdurasse, la quale fu tolta dalla natura priva della ragione.
       La tunica, infatti, proviene da quegli elementi che ci sono imposti dall’esterno, offrendo al corpo, temporaneamente, l’uso di sé, senza immedesimarsi affatto con la natura.
       Dunque, dalla natura dei bruti, con un certo criterio ed eccezione fu aggiunta la mortalità a quella natura che fu creata per l’immortalità, e ciò è quanto riguarda il caso all’esterno, non all’interno, e interessando la parte sensibile dell’uomo, ma non toccando la sua stessa immagine divina.

       Si dà una soluzione, d’altra parte, a ciò che è sensibile, ma non si abolisce né si elude.
       L’abolizione, in verità, riguarda ciò che non è transitorio.
       Ma la soluzione è il dissolversi che di nuovo ritorna negli elementi del mondo, con i quali formava un tutt’uno [una compagine].
       Ciò che, in effetti, non era presente in essi, non scomparve, anche se sfugge alla comprensione dei nostri sensi.
       Resta aperta, però, la causa della soluzione attraverso l’esempio che è stato da noi riferito.

       Poiché, infatti, il senso ha una necessità ed è unito con ciò che è pesante e terrestre: e questo è più eccellente e più sublime che il giudizio di quelli che si trovano nel bene e nell’onestà, si allontanò nell’approvare i sensi, ma da esso poi ciò che di buono e di onesto vi risultò aberrazione, tanto che diventò abitudine contraria; è inutile la nostra parte restituita, si risolve con l’accettazione del contrario.
       Ed ecco un esempio di quanto diciamo: Si conceda che qualcuno modelli un vaso dal fango; e, poi, con inganno e tranello sia ripieno di piombo liquefatto: inoltre faccia gonfiare il piombo fuso, che tale rimanga che non si possa rifondere; e il vaso poi voglia vendicare il suo padrone: sia avendo la scienza del vasaio sia spaccando la sua testa col piombo: e di nuovo, poi, ricostruisca il vaso distrutto nella sua primitiva figura e per il proprio uso, esso che prima era stato materia eterogenea.
       Così, dunque, anche il modellatore del nostro vaso di creta, col difetto mescolato della parte sensitiva (parlo di quella che risiede nel corpo), una volta che la materia che aveva contratto il vizio è stata dissolta, il vaso di nuovo è rimodellato, ma non, viceversa, rimescolato, in virtù della risurrezione, e restituirà quella bellezza che aveva avuto all’inizio.
       Poiché, poi, appartiene al corpo una certa società e comunione di quegli affetti che derivano dal peccato; anche una certa analogia e proporzione della morte del corpo con la morte dell’anima: in che modo nella carne chiamiamo morte ciò che è separato dalla vita sensibile; così anche nell’anima chiamiamo morte la separazione dalla vera vita; poiché, dunque, unica è la comunione la associazione del male, come prima è stato detto, considerata nell’anima e nel corpo, per l’una e per l’altra procede l’anima ad agire: per la qual cosa non intacca l’anima la morte della separazione dal rivestimento della pelle mortale.
       In che modo, infatti, potrebbe disgregarsi ciò che non composto di parti?
       D’altronde c’è bisogno che anche quelle cose di colui derivate dai peccati si deposero in lui come macchie, siano tolte per mezzo di qualche medicina, perciò nella presente vita fu adoperato il rimedio della virtù per curare queste ferite.
       Giacché se non è possibile la cura, essa è rinviata alla vita futura.

       Gregorio di Nissa, Oratio catech., 8


3. Non si devono scrutare gli avvenimenti e giudicarli senza attenderne la fine

       E come un uomo inesperto vedendo il fonditore iniziare l’operazione di fonditura dell’oro, mescolandolo a cenere e paglia, penserà, se non attende la fine del processo, che il pezzettino d’oro è perduto, così del pari un uomo nato ed allevato sul mare, poi trasportato in pieno ambiente di terraferma e assolutamente privo di nozioni circa il modo di coltivare, se gli capitasse di vedere il grano messo da parte e custodito dietro le porte e sottochiave, preservato dall’umidità, quindi portato via dal contadino, disperso, gettato al vento, sparso sulla terra agli occhi di tutti i passanti e non solo senza la precauzione di preservarlo dall’umidità, ma persino abbandonato al fango e all’acquitrino, senza protezione alcuna, non crederebbe forse quel grano perduto e non biasimerebbe il contadino che ha agito in tal modo?

       Ora, un tal biasimo non deriva dalla natura dei fatti, bensì dall’inesperienza e dalla stoltezza di colui che non giudica bene, esprimendo già dall’inizio un’opinione prematura. Infatti, se aspettasse l’estate; se vedesse le messi ondeggiare e la falce che si affila e quel grano, che era stato disperso, rimasto abbandonato, marcito, corrotto, lasciato nel fango, quello stesso grano cresciuto, moltiplicato, rigoglioso nella sua freschezza, sbarazzatosi della sua vecchia guaina ed ergentesi in tutta la sua forza, come attorniato di satelliti e di guardie, protendente all’aria la sua spiga, che incanta lo spettatore, lo nutre e gli procura un buon profitto, allora sarebbe ancora più preso da stupore dal fatto che quel grano, attraverso tante avventure, è stato condotto a uno stato sì florido e di tale bellezza.

       E tu, o uomo, non porre soprattutto interrogativi al nostro padrone comune, ma se sei tanto assetato di discussioni e tanto audace da folle di tale follia, aspetta almeno la fine degli avvenimenti. In effetti se il lavoratore aspetta tutto l’inverno, senza soffermarsi a considerare il trattamento imposto al grano durante la stagione del freddo, bensì i vantaggi che si propone di trarne, a più forte ragione tu, davanti a colui che lavora l’intera terra e le nostre anime, dovresti attendere la fine, e non dico solamente la fine nella vita presente - poiché spesso essa si realizza fin da quaggiù - ma nella vita futura. Il piano di Dio, infatti, è organizzato in funzione di ciascuna di queste due vite, in funzione della nostra salvezza e della nostra gloria. Se è spezzettato nel tempo, il fine gli restituisce la sua unità e, così come sia l’inverno sia la primavera e l’evoluzione di ciascuna delle stagioni mira ad un unico risultato, la maturità dei frutti, analogamente avviene in ciò che ci concerne.

       Crisostomo Giovanni, De Provid., 9, 1-5


4. Come si manifesta la piena giustizia del giudice divino

       Non sappiamo per quale giudizio di Dio quel buono sia povero, e questo cattivo sia ricco; perché goda questi, che per i suoi costumi scellerati ci sembra dovrebbe meritare di soffrire; e perché sia afflitto quegli, la cui vita onesta ci fa pensare che dovrebbe godere. Parimenti, perché l’innocente esca dal giudizio non solo senza soddisfazione, ma addirittura condannato, o per l’iniquità del giudice o per il peso delle testimonianze false; e perché al contrario il suo iniquo avversario, non solo impunito ma anche soddisfatto, esulti di gioia. E perché l’uomo empio ha buona salute, mentre l’uomo pio marcisce nella malattia; perché giovani rapinatori stanno benissimo, mentre fanciulli, che non hanno potuto offendere nessuno neppure a parole, sono afflitti da molteplici e atroci malattie. E perché un uomo utile al genere umano, vien rapito da morte immatura mentre chi sembra che non avrebbe dovuto neppur nascere, vive a lungo. Perché chi è pieno di delitti, viene innalzato ai più alti onori, mentre un uomo senza macchia resta nascosto nelle tenebre di una condizione oscura; e molti altri casi simili, ma chi li raccoglie, chi li passa in rassegna? Se poi questa realtà, che sembra un assurdo, fosse tanto costante che in questa vita - nella quale l’uomo, come dice il sacro salmo è simile alla vanità e i cui giorni passano come ombra (Ps 143,4) - solo i cattivi ottenessero i beni transitori e terreni e solo i buoni soffrissero tali mali, ciò potrebbe mettersi in rapporto col divino giudizio, giusto o almeno benigno: coloro che non raggiungeranno i beni eterni che rendono beati, vengono, per mezzo dei beni temporali, o ingannati per malizia loro, o consolati per misericordia di Dio; mentre coloro che non soffriranno i tormenti eterni, vengono afflitti mediante mali temporali, o per i loro peccati, quale ne sia la natura e per quanto piccoli essi siano, o messi alla prova per perfezionare le loro virtù. Ma ora, stanno nel male non solo i buoni e nel bene non solo i cattivi, che sembrerebbe ingiusto, ma spesso anche ai cattivi cadono addosso mali e sui buoni si riversano beni: tanto più imperscrutabili si fanno così i giudizi di Dio, e insondabili le sue vie. Perciò, anche se non sappiamo per quale giudizio Dio così faccia o così permetta che avvenga, lui presso il quale risiede somma virtù, somma sapienza e somma giustizia, e nel quale non v’è nessuna debolezza, nessuna temerità e nessuna iniquità: impariamo tuttavia - per la nostra salvezza - a non dar troppo peso a quei beni e a quei mali che vediamo essere comuni ai buoni e ai cattivi, e d’altra parte a ricercare quei beni che sono propri dei buoni e a fuggire quei mali che sono propri dei cattivi. E quando giungeremo a quel giudizio di Dio, il cui tempo vien detto esattamente giorno del giudizio e qualche volta giorno del Signore, riconosceremo la giustizia di ogni divino giudizio, non solo di quelli che verranno emessi allora, ma di tutti quelli che furono emessi dall’inizio e saranno stati emessi fino allora. E anche apparirà chiaro per quale giusto giudizio di Dio, ora molti, anzi tutti i divini giudizi, siano nascosti al senso e alla mente dei mortali, quantunque non sia celata alla fede dei buoni la giustizia di ciò che è celato.

       Agostino, De civit. Dei, 20, 2


5. Per quali anime dopo la morte sono di giovamento le messe le elemosine?

       Durante il tempo posto tra la morte dell’uomo e l’ultima risurrezione, le anime stanno in dimore nascoste, di riposo o afflizione, a seconda che ciascuna ne è degna per ciò che ha meritato mentre viveva nella carne.

       Non si può negare che le anime dei defunti vengano confortate dalla pietà dei loro cari viventi, quando costoro per esse offrono il sacrificio del Mediatore o distribuiscono in chiesa elemosine Ma questi suffragi giovano a coloro che durante la vita meritarono di potersene poi giovare. Vi è infatti un genere di vita, né così buono, da non aver bisogno di tali suffragi dopo la morte, né così cattivo, da non giovargli. Vi è poi un genere di vita, così buono, da non abbisognarne; ed infine, uno così cattivo, da non potersene avvantaggiare dopo il passaggio da questa vita. Perciò, già quaggiù, si acquista ogni merito, in base al quale la situazione dopo la vita può essere o sollevata o aggravata. Nessuno si illuda di meritare presso Dio, dopo la morte, ciò che qui ha trascurato.

       Questi suffragi, dunque, che la Chiesa celebra per i defunti, non sono affatto contrari al detto dell’Apostolo: Tutti infatti staremo davanti al tribunale di Cristo, perché ciascuno riceva secondo quel che ha fatto finché era nel corpo, sia in bene che in male (2Co 5,10). Anche questo si è meritato ciascuno mentre viveva quaggiù: che i suffragi gli possano essere di vantaggio. Non a tutti infatti giovano; e perché non a tutti giovano se non per la differente vita condotta da ciascuno nel corpo? Quando poi per tutti i battezzati defunti vengono offerti o il sacrificio dell’altare o i sacrifici dell’elemosina, per i molto buoni sono rendimento di grazie; per i non molto cattivi sono propiziazione; per i molto cattivi, pur non essendo aiuto per i defunti, sono una qualche consolazione per i vivi. A coloro cui giovano, o ottengono che la loro remissione sia piena, o certamente che la loro stessa condanna sia più sopportabile.

       Agostino, Enchirid., 29, 109-110


6. Il tormento eterno

       Dopo la risurrezione, quando il giudizio universale avrà avuto luogo e la sentenza sarà stata eseguita, verranno posti confini precisi alle due città, a quella cioè di Cristo e a quella del diavolo; una dei buoni, l’altra dei cattivi: ma l’una e l’altra composte di angeli e di uomini. Gli uni non avranno più la volontà, gli altri non avranno più la capacità di peccare. Inoltre, non vi sarà nessuna possibilità di morire: gli uni godranno felici in perpetuo della vita eterna; gli altri, infelici, saranno immersi nella morte eterna senza la possibilità di morire: per entrambi non esiste fine. Ma, nella beatitudine, un beato sarà più glorioso dell’altro, e anche nella miseria (della dannazione), ad un dannato la sua situazione sarà più tollerabile che all’altro.

       Inutilmente perciò alcuni, anzi molti, commiserano con sentimento umano l’eterna pena dei dannati e i loro tormenti perenni, ininterrotti, e non si sentono di ammettere una simile realtà. Costoro non intendono opporsi alle divine Scritture, ma solo sono portati ad intendere con maggior malleabilità e ad interpretare in senso più blando ciò che nelle Scritture sarebbe espresso - essi pensano - più per incutere terrore che per annunciare la verità. Dicono infatti: Dio non si dimenticherà di essere misericordioso, e conterrà la sua ira per la sua grande clemenza (Ps 76,10). Sono parole che leggiamo in un salrno; ma possiamo applicarle senza perplessità solo a coloro che vengono chiamati vasi di misericordia (Rm 9,23), poiché anch’essi non grazie ai loro meriti, ma per la bontà di Dio sono liberati dalla miseria. Ma se quelli pensano che tali parole si riferiscano a tutti, non è necessario tuttavia dover ammettere che abbia fine la dannazione di coloro dei quali è stato detto: Ed essi se ne andranno al supplizio eterno (Mt 25,46), per non essere costretti ad ammettere che un giorno avrà fine anche la felicità di coloro dei quali è stato detto, al contrario: «Ma i giusti se ne andranno alla vita eterna».

       Che invece la pena dei dannati talvolta sia un po’ mitigata, lo possono sempre ammettere, se lo vogliono. Giacché il fatto che su di loro resta l’ira di Dio (Jn 3,36), cioè la dannazione stessa - è questa infatti che vien detta ira di Dio, non una perturbazione dell’animo divino - può essere interpretato nel senso che egli, nella sua ira, ossia nel perdurare della sua ira, non ferma la sua misericordia: e ciò, non ponendo fine al supplizio eterno, ma interrompendo talvolta o alleviandone le pene. Il salmo, infatti, non dice «per por fine alla sua ira», oppure «dopo la sua ira», ma «nella sua ira». Ammesso che questa resti anche nella misura minima possibile, perdere il regno di Dio, essere esiliati dalla città di Dio, venir sottratti alla vita di Dio, mancare della immensa e molteplice dolcezza di Dio, da lui riserbata a coloro che lo temono e da lui elargita a quanti in lui sperano, è una pena tanto grande, che non ammette confronto con nessun tormento conosciuto quaggiù, per quanti secoli dovesse durare, giacché quei tormenti sono eterni.

       Senza fine dunque durerà la morte eterna dei dannati, cioè la loro privazione della vita di Dio; e precisamente in ciò consisterà la pena comune a tutti i dannati, per quanto gli uomini, guidati dal loro sentimento di umanità, possano figurarsi che le pene siano varie o che i dolori vengano interrotti o alleviati.

       Agostino, Enchirid., 29, 111-113


7. La morte del giusto è un premio

       Ma perché dev’essere così duro ciò che un giorno o l’altro bisognerà pur soffrire? Ci rattristiamo per la morte di qualcuno: ma siamo forse nati per vivere eternamente qui? Abramo, Mosè, Isaia, Pietro, Jc e Giovanni, Paolo - il vaso d’elezione - e perfino il Figlio di Dio, tutti sono morti; e proprio noi restiamo indignati quando qualcuno lascia il suo corpo? E pensare che probabilmente, proprio perché il male non riuscisse a fuorviare la sua ragione, è stato portato via! La sua anima, infatti, era gradita a Dio; per questo lui s’è affrettato a toglierla di mezzo all’iniquità (Sg 4,11-14), in modo che durante il lungo viaggio della vita non si smarrisse in sentieri traversi.

       Piangiamoli, sì, i morti; ma solo quelli che piombano nella Geenna, quelli divorati dall’inferno, quelli per i quali è acceso un fuoco eterno! Ma se noi, quando lasciamo questa vita, siamo accompagnati da una schiera di angeli, se Cristo ci viene incontro, rattristiamoci piuttosto se ha da prolungarsi la nostra permanenza in questa residenza sepolcrale. E poiché, effettivamente, per il tempo che qui ci attardiamo, siamo come degli esiliati che camminano lontani dal Signore, il desiderio, l’unico, che ci deve trascinare, è questo: Me infelice! il mio esilio si prolunga; abito fra i cittadini di Cedar, e da troppo tempo l’anima mia è in esilio! (Ps 119,5-6). Ora, se dire Cedar è dire tenebre, se questo mondo è tenebre - nelle tenebre, infatti, la luce risplende, ma le tenebre non l’accolsero (Jn 1,5) -, rallegriamoci con la nostra Blesilla che è passata dalle tenebre alla luce, e mentre ancora era lanciata nella fede appena accolta, ha ricevuto la corona di un’opera compiuta!

       Girolamo, Epist. 39, 3


8. Preghiera sulla tomba del fratello più giovane

       O Signore e creatore di ogni cosa, e soprattutto della nostra creta! O Dio degli uomini tuoi, o padre e guida, padrone della vita e della morte, custode e benefattore delle nostre anime! Tu che fai tutto e a suo tempo tutto muti col tuo Verbo creatore come ritieni bene nella profondità della tua saggezza del tuo governo, accogli ora Cesario, primizia del nostro pellegrinaggio a te! Che l’ultimo nato sia stato il primo, lo rimettiamo ai tuoi disegni, da cui tutto è retto; e anche noi accogli a suo tempo, dopo averci guidato in questa carne fino a quando sarà bene; ed accoglici preparati nel tuo timore, e non turbati; fa’ che non ci ritiriamo indietro l’ultimo giorno e a forza veniamo strappati da quaggiù, come quelli che amano il mondo e la carne; ma che, con animo pronto, ci affrettiamo per la vita di lassù, immortale e beata, che è in Cristo Gesù, Signore nostro.

       Gregorio Nazianzeno, Oratio in mort. Caesar., 7, 24


9. Tutta la terra loderà Dio

       Alleluia: è la lode di Dio, per noi, affaticati; essa contrassegna quella che sarà la nostra attività nel riposo. Quando infatti, dopo la fatica di quaggiù, giungeremo al riposo di lassù, unico nostro ufficio sarà la lode di Dio, la nostra attività sarà un alleluia...

       Quasi un profumo della lode divina, della quiete celeste raggiunge anche noi, ma molto più ci preme la nostra mortalità. Parlando infatti ci stanchiamo, e desideriamo ristorare le membra; e se diciamo a lungo: alleluia, la lode di Dio ci è onerosa per il peso del nostro corpo. La pienezza dell’alleluia incessante vi sarà solo dopo questo mondo, dopo questa fatica. E con ciò fratelli? Diciamolo quanto possiamo, per meritare di dirlo sempre! Lassù l’alleluia sarà nostro cibo; l’alleluia sarà nostra bevanda, l’alleluia sarà l’attività del nostro riposo, tutta la nostra gioia sarà un alleluia, cioè lode di Dio. E chi loda senza imperfezione, se non chi gioisce senza noia? Quanta forza vi sarà nella mente, quanta fermezza immortale nel corpo, perché l’attenzione della mente non venga mai meno nella divina contemplazione, né le membra soccombano nella continua lode di Dio!

       Agostino, Sermo 252, 9




SOLENNITÀ DI GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO


(Ultima domenica dell’anno)

       La festa di Cristo Re è stata costituita da Pio XI nell’anno 1925; con essa ha voluto ricordare al mondo che solo riconoscendo la signoria di Cristo si può assicurare agli uomini la pace e l’unità. Inoltre, proprio quest’anno ricorre il XVI centenario da quando il Concilio di Nicea dichiarò che Cristo è consostanziale al Padre.

       La data indicata per la festa era l’ultima domenica di ottobre, visto che sarebbe stata seguita dalla Solennità di Tutti i Santi. Dopo gli ultimi cambiamenti liturgici, la festa si chiama di Cristo Re dell’Universo - poiché Cristo non è re solo del nostro mondo - e è stata trasferita all’ultima domenica dell’anno liturgico. Alla fine dell’anno liturgico sta il Re della Gloria, colui al quale tutto si dirige.

       Cristo è il Re dell’universo, poiché in lui, attraverso di lui e in vista di lui tutto è stato creato. Diventò il Signore di tutto per la sua Morte e Risurrezione: il Padre lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli e tutto ha sottomesso ai suoi piedi (Ep 1,20-22). Nel cielo risuona il cantico nuovo: «l’Agnello che fu immolato è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione» (Ap 5,12). Invece, sulla terra avviene il ritorno di tutto a Dio. Cristo ha costituito il suo regno, «regno di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace».

       Il suo regno non è di questo mondo, ma si realizza nel mondo e lo deve abbracciare tutto. La storia del mondo, gli affanni che l’umanità attraversa, gli avvenimenti sconvolgenti della storia: tutto ciò è definitivamente una preparazione alla signoria di Cristo, che conterrà tutto nel giorno del suo ritorno nella gloria. «Venga il tuo regno», dicono milioni di credenti nella preghiera quotidiana. L’uomo non chiede soltanto la venuta del Regno di Dio sulla terra, ma contribuisce al suo sviluppo. Morire al peccato e vivere per Dio, uscire dalla schiavitù del male e vivere nella libertà dei figli di Dio vuol dire rafforzare il Regno di Gesù sulla terra. Siamo consapevoli della nostra elezione per collaborare al rinnovamento di tutto in Cristo.

       Fa’, o Signore, che i tuoi servi,

       chiamati alla tua grazia, e rigenerati

       dal tuo divino Battesimo, per tuo aiuto

       incessante, mai siano sradicati

       dalla potestà del tuo regno.

       Missale Gothicum, ed. L.C. Mohlberg, Roma 1961, n. 283




COMUNE DELLA DEDICAZIONE DELLA CHIESA


Ottenuta la libertà, la Chiesa ha cominciato ad innalzare templi, così necessari visto il crescente numero dei fedeli. La consacrazione del nuovo luogo di culto diventava una festa per la comunità alla quale partecipavano i vescovi vicini ed i fedeli. Col tempo, si è creato il rito della consacrazione della chiesa. A Roma, si celebrava all’inizio semplicemente la prima Messa: la celebrazione dell’Eucaristia consacrava la chiesa. Alla fine del IV secolo, comparve fuori Roma una nuova pratica accolta con approvazione dai fedeli: il collocamento delle reliquie dei martiri sotto l’altare del nuovo tempio. Roma, a lungo, fu contraria a intaccare le tombe dei martiri, ma definitivamente nel VI secolo la deposizione delle reliquie sotto l’altare venne introdotta nel rituale della consacrazione. In molti casi, i cristiani incettavano i templi pagani trasformandoli in chiese, e allora veniva l’aspersione dell’edificio con l’acqua appositamente benedetta. Mentre a Roma il collocamento delle reliquie legato alla Messa costituiva il rito della consacrazione, in Gallia si consacrava in primo luogo l’altare: il nuovo altare veniva unto in cinque posti. In breve, all’unzione dell’altare si è aggiunta l’unzione delle pareti del tempio. Verso l’anno 950, venne redatto il Pontificale (Libro delle benedizioni episcopali), che unì la tradizione romana a quella gallica. Il rito della consacrazione del tempio consolidatosi allora durò, salvo piccoli cambiamenti, fino all’ultima riforma.

       Il rito attuale della consacrazione della chiesa contiene: l’entrata solenne del vescovo nel nuovo tempio, la consegna della chiesa al vescovo, effettuata dai rappresentanti della comunità locale, la benedizione dell’acqua e l’aspersione del popolo nonché delle pareti del tempio. Durante la Messa, dopo la liturgia della parola e delle litanie a tutti i santi, segue la deposizione delle reliquie sotto l’altare, il vescovo pronuncia la grande preghiera della consacrazione, quindi unge l’altare e le pareti del tempio in dodici posti. Poi, prosegue la celebrazione dell’Eucaristia.

       È una tradizione della Chiesa festeggiare l’anniversario della consacrazione della chiesa. La commemorazione della consacrazione della Basilica Lateranense, la cattedrale di Roma, che ebbe luogo circa l’anno 324 e dal secolo XI si suol ricordare il giorno 9 novembre, è celebrata da tutta la Chiesa cattolica. La diocesi celebra l’anniversario della consacrazione della sua chiesa cattedrale, la parrocchia della chiesa parrocchiale.

       La Chiesa consacra solennemente il tempio costruito, poiché esso è il segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, ma non dimentica che il vero tempio di Dio sulla terra è il popolo di Dio. «Voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale», leggiamo nella prima lettera di san Pietro (2,5). «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Santo è il tempio di Dio, che siete voi», scriverà san Paolo (1Co 3,16).

       Il tempio di Dio nel mondo è la Chiesa, il tempio costruito dalle pietre vive sul fondamento degli apostoli e del quale pietra angolare è lo stesso Cristo. Il tempio di Dio nel mondo è ogni uomo credente, che con tutto il cuore serve il suo Signore. Consacrando l’edificio visibile innalzato per la gloria di Dio, la Chiesa ben intende il suo ruolo di servizio verso il vero tempio di Dio. In questo edificio visibile di Dio sarà preparata per i credenti la mensa della Parola e la mensa dell’Eucaristia; qui Dio nella sua misericordia purificherà gli uomini dalle loro colpe e li ripristinerà nella vita perduta col peccato. Questo sarà il luogo di gloria e di lode, la casa di preghiera per la salvezza di tutto il mondo. I poveri devono trovare qui la misericordia, gli oppressi la libertà, l’uomo la dignità che gli spetta.

       Il tempio, segno della presenza di Dio in mezzo al popolo, serve perché la santità della nostra vita e delle opere, la preghiera continua e l’amore vicendevole siano il segno reale della dimora di Dio presso gli uomini. In questo tempio ed attraverso di esso, Dio innalza per sé il tempio dalle pietre vive. Ci sono tanti templi nel mondo, ci sono cattedrali splendide, chiese parrocchiali ordinarie e cappelle povere. Ciascuna adempie il suo compito, se serve alla costruzione del tempio spirituale.

       O Dio, che dall’armoniosa partecipazione

       dei santi edifichi per te un tempio eterno,

       concedi i celesti aiuti della tua edificazione

       e di coloro che qui si raccolgono,

       con pio modo, le reliquie,

       ci aiutino sempre i loro meriti.

       Sacramentarium Gothicum, ed. L.C. Mohlberg, Roma 1968, n. 710


1. Il nuovo comandamento è un nuovo cantico

       La celebrazione di questa assemblea è la consacrazione della casa della preghiera. Questa è la casa delle nostre preghiere e noi stessi la casa di Dio.

       Se noi siamo la casa di Dio, noi siamo edificati in questo mondo, affinché siamo consacrati alla fine dei tempi.

       L’edificio, anzi la costruzione, richiede lavoro, la consacrazione suppone gioia.

       Ciò che qui avveniva, quando questa casa si innalzava, avviene nel modo in cui i credenti si radunano nel Cristo.

       Col credere, infatti, quasi si recidono dalle selve e dai monti, legna e pietre: quando sono catechizzati, invero, quando sono battezzati e formati, vengono appianati, levigati ed ordinati come [se fossero] tra le mani dei fabbri e degli artisti.

       Tuttavia non edificano la casa del Signore se non quando sono armonizzati per mezzo della carità.

       Questa legna e queste pietre, se non fossero unite tra loro con la carità, se non combaciassero facilmente, se non si amassero in qualche modo, aderendo tra di loro vicendevolmente, nessuno entrerebbe qui.

       Infine, quando tu vedi in qualche fabbrica pietre e legni tra di loro ben compatti, vi entri sicuro, non temi pericolo.

       Volendo, quindi, il Cristo Signore entrare, ed abitare in noi, come se dicesse nell’edificare: Io vi do un nuovo comandamento, che vi amiate gli uni gli altri (Jn 13,34).

       Vi do, disse, un comandamento.

       Eravate, infatti, antichi, e non mi innalzavate, ancora una casa, e giacevate nel vostro errore.

       Dunque, per essere liberati dalla vostra antica rovina, amatevi vicendevolmente.

       Consideri, quindi, la vostra Carità che questa casa sia ancora da edificarsi, come fu predetto e promesso, sulla traccia della terra.  

       Edificandosi, infatti, la casa dopo la schiavitù, come contiene un altro Salmo, veniva detto:

       Cantate al Signore un cantico nuovo; cantate al Signore, tutta la terra! (Ps 95,1).

       Ciò che qui ha detto - Cantico nuovo - lo disse al Signore, Comandamento nuovo... Che cosa ha, infatti, il nuovo cantico, se non l’amore nuovo?

       Il cantare è proprio di colui che ama. La voce di questo cantore, è il fervore del santo amore.

       Dio si deve amare per se stesso, e il prossimo per Dio.        

       Amiamo, amiamo gratuitamente: noi, infatti, amiamo Dio, di cui niente troviamo di meglio.

       Amiamolo per se stesso, e noi in Lui, tuttavia per se stesso.

       Ama veramente l’amico, chi ama Dio nell’amico, o perché è in lui o perché sia in lui.

       Questo è il vero amore: se noi amiamo per un’altra cosa, odiamo piuttosto di amare...

       Dunque, finché attendiamo volentieri alla nuova costruzione di questa santa chiesa, che oggi consacriamo al Nome Divino, troviamo che la più grande lode è dovuta da noi anche al nostro Dio, e un discorso conveniente alla Santità vostra dalla consacrazione della Divina casa.

       Allora il nostro discorso sarà conveniente, se avrà in sé qualcosa di edificazione, che giovi all’utilità delle vostre anime, mentre Dio edifica la sua casa dentro di voi.

       Ciò che noi vediamo materialmente accaduto nelle pareti, avvenga spiritualmente nelle vostre menti; e ciò che qui vediamo portato a compimento sulle pietre e sui legni, venga perfezionato nei vostri cuori con l’aiuto della grazia di Dio.

       Innalziamo, dunque, un ringraziamento al Signore, nostro Dio, in un modo particolare, dal quale viene ogni dono ottimo, e ogni dono perfetto, e lodiamo la sua bontà con tutto l’entusiasmo del cuore, poiché per costruire questa casa della preghiera visitò l’animo dei suoi fedeli, risvegliò l’affetto, porse l’aiuto, ispirò perfino i volenterosi affinché volessero; aiutò gli sforzi di , buona volontà affinché agissero; e per questo Dio che opera nei suoi e il volere e il perfezionare a causa della buona volontà (Ph 2,13) queste cose egli stesso iniziò, ed egli stesso le perfezionò.

       E poiché non permette mai che siano vane le opere buone alla sua presenza, concederà ai suoi fedeli, ai quali, mentre agiscono, offrì il favore della sua virtù, una degna ricompensa per una così grande attività.

       Agostino, Sermo 336, 11, 6


2. Glorificare il nome di Dio

       Alzando un bastone splendente, mi dice: «Vedi una cosa grande?». Le dico: «Signora, non vedo nulla». Mi dice: «Non vedi davanti a te una torre grande che è costruita sulle acque con pietre quadrate luminose?».

       In un quadrato una torre era costruita da sei giovani venuti con lei. Altre miriadi di uomini trasportavano pietre dal fondo e dalla superficie e le porgevano ai sei giovani. Essi le prendevano e costruivano.

       Situavano tutte le pietre cavate dal fondo nella costruzione poiché erano squadrate e combaciavano nella giuntura con le altre pietre. Erano così ben connesse che non lasciavano apparire la congiunzione. Sembrava che l’edificio della torre fosse come costruito con una sola pietra.

       Delle pietre portate dalla superficie scartavano alcune ed altre mettevano in opera nella costruzione. Ne spezzavano altre ancora buttandole lontano dalla torre.

       Molte altre pietre giacevano intorno alla torre che non venivano utilizzate nella costruzione. Alcune erano bozzute, altre avevano delle crepe, altre erano mutile, altre bianche e sferiche e non si adattavano alla costruzione.

       Vedevo che altre pietre venivano gettate lontano dalla torre. Cadevano sulla strada e non si fermavano, ma rotolavano nelle parti impraticabili. Altre, invece, cadevano nel fuoco e bruciavano; altre cadevano vicino all’acqua e non potevano rotolarvisi, sebbene lo volessero, ed entrare nell’acqua...

       «... La torre, che vedi costruire, sono io la Chiesa che ti sono apparsa ora e prima. Domandami ciò che vuoi riguardo alla torre e te lo farò sapere perché tu gioisca con i santi»...

       Le domandai: «Signora, per qual motivo la torre viene innalzata sulle acque?». Essa mi rispose: «Te lo dissi già che sei curioso e sollecitato dalla ricerca. Ricercando, dunque, trovi il vero. Ascolta perché la torre viene costruita sulle acque: la nostra vita fu salva e sarà salva mediante l’acqua. La torre è stata innalzata con la parola del nome onnipotente e glorioso ed è retta dalla potenza invisibile e infinita».

       Di rimando le dico: «Signora, la cosa è grande e mirabile. I sei giovani che costruiscono chi sono?». «Sono i santi angeli di Dio creati per primi, cui il Signore affidò tutta la sua creazione per accrescerla, farla progredire e governarla. Per mezzo loro sarà mandata a termine la fabbricazione della torre».

       «Chi sono gli altri che trasportano le pietre?». «Anch’essi sono angeli santi di Dio; ma i sei sono superiori. La costruzione della torre sarà mandata a termine, e tutti insieme vi gioiranno intorno e glorificheranno il Signore perché fu compiuta la costruzione della torre».

       Le domandai: «Signora, desidererei conoscere la sorte delle pietre e la loro forza»...

       «Ascolta ora quanto concerne le pietre che entrano nella costruzione. Le pietre quadrate, bianche e che combaciano con le loro congiunture sono gli apostoli, i vescovi, i maestri e i diaconi che camminando nella santità di Dio hanno governato, insegnato e servito con purezza e santità gli eletti di Dio, quelli che sono morti e quelli che sono ancora vivi. Vissero sempre in armonia tra loro, stando in pace e l’uno ascoltando l’altro. Per questo nella costruzione della torre le loro congiunture sono giuste».

       «E quelle tratte dal fondo e poste nella costruzione, che combaciano con le connessure delle altre pietre già ordinate chi sono?». «Sono quelli che hanno patito per il nome del Signore».

       «Le altre pietre che vengono portate dalla superficie della terra vorrei sapere chi sono, Signora». Disse: «Quelle che si mettono nella costruzione, senza essere tagliate, le ha valutate il Signore perché camminarono nella sua rettitudine e ubbidirono ai suoi comandi».

       «E quelle trasportate e messe in opera chi sono?». «I novizi della fede e i credenti. Sono esortati dagli angeli a fare il bene e non ci fu in loro malizia».

       «Quelle che venivano scartate e gettate, chi sono?». «Sono coloro che hanno peccato e vogliono pentirsi; non furono gettati lontano dalla torre poiché saranno utili alla costruzione se si pentiranno. Quelli che stanno per pentirsi, se faranno penitenza, saranno forti nella fede, purché facciano penitenza ora che la torre è in costruzione. Quando la costruzione è finita non avranno più posto e resteranno tagliati fuori. Ottengono soltanto di rimanere vicino alla torre».

       «Vuoi sapere chi sono le pietre tagliate e gettate lontano dalla torre? Sono i figli della malizia. Credettero con ipocrisia e furono di ogni cattiveria. Per questo non hanno salvezza: non sono adatte alla costruzione per la loro malvagità. Dall’ira del Signore, perché lo disgustarono, furono tagliate e scaraventate lontano.

       Le altre, che hai visto in gran numero giacenti senza essere adoperate nella costruzione, sono le scabrose, quelli che hanno conosciuto la verità, senza permanere in essa e senza unirsi ai santi, perciò inutili».

       «Quelli che avevano le crepe, chi sono?». «Quelli che nel cuore sono gli uni contro gli altri e non stanno in pace. Hanno un’apparenza di pace, gli uni sono lontani dagli altri e le malvagità permangono nel loro cuore, le crepe che le pietre hanno.

       Le pietre mozze sono quelli che hanno creduto tenendo la parte maggiore nella giustizia e conservando qualche elemento di malvagità. Per questo sono mutili e non interi».

       «Le pietre bianche, sferiche e non adatte alla costruzione, chi sono, signora?». Mi dice: «Sino a quando tu sarai stolto e senza senno? Vorrai tutto sapere senza nulla capire? Sono quelli che conservano la fede, ma anche le ricchezze di questo mondo. Quando sopraggiunge una tribolazione, per le loro ricchezze e i loro affari, rinnegano il Signore».

       Le dico: «Signora, quando saranno utili alla costruzione?». «Quando si elimina la ricchezza che li domina, mi dice, allora saranno utili a Dio. Come la pietra sferica se non viene ritagliata e non perde qualche cosa di sé non può diventare quadrata, così i ricchi di questo mondo, se non perdono la ricchezza, non potranno essere utili al Signore.

       Sappilo da te: quando eri ricco eri inutile. Ora sei utile e fruttuoso alla vita. Diventate utili a Dio! Anche tu sei stato utilizzato da queste pietre».

       «Le altre pietre che hai visto lanciare lontano dalla torre e cadere sulla strada e dalla strada rotolare per luoghi impraticabili, sono quelli che hanno fede, ma per la doppiezza del loro animo si allontanano dalla via della verità. Essi, credendo di poter trovare una strada migliore, si ingannano e da infelici vagano per luoghi impervi.

       Quelle che cadono nel fuoco e ardono sono le persone che per sempre hanno apostatato dal Dio vivente. Esse per le passioni e le scostumatezze e per le cattiverie commesse non hanno mai in animo di pentirsi».

       «Vuoi sapere chi sono quelle che cadono vicino all’acqua e non possono rotolare nell’acqua? Sono quelli che hanno ascoltato la parola (Mc 4,18 Mt 13,20-22) e vogliono essere battezzati nel nome del Signore (Ac 19,5). Ma quando risale alla mente la purezza della verità cambiano parere e di nuovo corrono dietro alle loro turpi passioni».

       Terminò la spiegazione simbolica della torre.

       Erma, Pastor, Visioni III


3. Siamo noi il tempio di Dio

       Abbiamo anche oggi, o fratelli, una festa e una festa speciale. E questo è facile da dire; ma se insistete a chiedermi di quale santo essa sia, la risposta non è più così facile. Quando, infatti, si celebra la memoria di un apostolo, di un martire, o di un confessore, non è difficile dire di chi, come potrebbe essere di san Pietro, di Stefano glorioso, del nostro santo Padre Benedetto, o di un altro dei grandi principi della corte celeste. Ma oggi non si tratta di nessuno di questi; ma c’è una festa e non piccola. E, se volete sentirlo, è la festa della casa di Dio, del tempio di Dio, della città del re eterno, della sposa di Cristo...

       Dov’è questa casa di Dio, tempio, città, sposa di Cristo? Lo dico con timore e rispetto: Siamo noi. Noi, dico, ma nel cuore di Dio. Noi, ma per sua degnazione, non per merito nostro. E non s’arroghi l’uomo, per magnificar se stesso, ciò ch’è di Dio; perché Dio, reclamando il suo, umilierà l’orgoglioso. Perché, anche se per una certa infantile pretesa vogliamo essere salvati gratuitamente, non è quella la via della salvezza. La dissimulazione della propria miseria impedisce la misericordia di Dio, e non c’è posto per divina degnazione, dov’è già presunzione di dignità; è l’umile confessione della sofferenza che attira la compassione. Questa sola fa che il padre di famiglia ci nutra col suo pane e viviamo in abbondanza nella sua casa. Eccoci, dunque, casa di Dio, cui non manca mai il cibo della vita. E ricordati ch’egli chiama la sua casa, casa di preghiera (Mt 21,13). E questo s’accorda con la parola del Profeta, il quale afferma che dobbiamo essere nutriti, attraverso la preghiera, s’intende, col pane delle lagrime e che nelle lagrime ci sarà dato da bere (Ps 79,6). Del resto secondo lo stesso Profeta, come abbiamo già detto, questa casa vuole santità (Ps 92,5): cioè la purità della continenza deve unirsi alle lagrime della penitenza e così quella che è casa diventa anche tempio. Siate santi, perché io, il Signore vostro, sono santo (Lv 11,44) e: Non sapete che i vostri corpi son tempio dello Spirito Santo, e che lo Spirito Santo abita in voi? Se qualcuno oserà profanare il tempio di Dio, Dio lo disperderà (1Co 3,16-17).

       Ma basta poi la sola santità? Secondo l’Apostolo ci vuole anche la pace. Cercate la pace con tutti, e la santità, senza di cui nessuno vedrà Dio (He 12,14). È questa che tiene i fratelli unanimemente insieme e costruisce al nostro re, vero e pacifico, la città nuova, che sarà chiamata anch’essa Gerusalemme, che vuol dire visione di pace. Dov’è raccolta, infatti, una moltitudine, senza un patto di pace, senza osservanza di legge, acefala, senza disciplina e senza governo, lì non c’è un popolo, ma un’orda, non una cittadinanza, ma una baraonda: ha tutte le caratteristiche di una Babilonia, ma di Gerusalemme non ne ha niente...

       È il re che dice anche: Ti ho fatta mia sposa sulla mia parola, deliberatamente e legalmente, ti ho fatta mia sposa per la mia misericordia (Os 2,20). Se non si è diportato da sposo, se non ti ha amato da sposo, se s’è dimostrato geloso di te, non accettare d’essere chiamata sposa.

       Dunque, fratelli, se è vero che siamo casa del gran padre di famiglia per l’abbondanza del cibo, se siam tempio di Dio per la santificazione, se siamo il popolo del gran re per l’armonia della vita comune, se siamo sposa dello sposo immortale per l’amore ch’egli ha per noi, penso che non ci sia nulla che m’impedisca di dire che questa è la nostra festa.

       Bernardo di Chiarav., In dedicat. Eccl. sermo V, 1, 8-10


4. Cristo assegna le mansioni e i carismi nella Chiesa

       «Sì, egli ha edificato in giustizia e ha diviso convenientemente le forze di tutto il popolo. Si è limitato a circondare gli uni di un muro esterno, cioè li ha muniti di una fede senza errori - questi formavano la stragrande maggioranza della popolazione incapace di portare una edificazione più pregevole. Ad altri invece ha affidato gli accessi della casa ed ha loro ordinato di invigilare le porte e di guidare quanti vi entrano: è a ragione che costoro sono designati come propilei del tempio. Altri ha appoggiati alle prime colonne esteriori, che sono disposte a quadrangolo nell’atrio, introducendoli a superare le prime difficoltà del senso letterale dei Vangeli. Altri ancora ha avvicinati ai due lati della Basilica: rappresentano i catecumeni, che sono ancora in stato di crescimento e di progresso, sebbene non siano molto lontani e separati dallo scrutamento dei misteri intimi e profondi, riservati ai fedeli.

       Tra di essi sceglie le anime pure, che il lavacro divino ha deterso a guisa d’oro, e applica le une alle colonne molto più solide di quelle esterne, ossia alle dottrine mistiche più segrete della Scrittura, le altre rischiara a mezzo delle aperture orientate verso la luce.

       Tutto il tempio egli lo ha ornato con un grandissimo vestibolo, che è la dossologia del solo e unico Dio, sovrano universale, e presenta a ciascun lato della potestà suprema del Padre [i secondari splendori della luce], di Cristo e dello Spirito Santo. E infine egli ha mostrato in tutta la Basilica la chiarezza e la lucentezza abbondante e molto distinta della verità in ogni sua singola parte. Ha scelto sempre e da ogni dove le pietre viventi, ferme e salde delle anime e si è servito di tutte queste per costruire l’edificio grande, regale, splendido, pieno di luce di dentro e di fuori. Infatti non soltanto l’anima e l’intelligenza, ma anche il corpo era in essi abbellito dalla fiorita venustà della purezza e della modestia...

       Questo è il vasto tempio, che il grande artefice dell’universo, il Verbo, si è costituito su tutta la terra abitata sotto il sole e con cui sulla terra stessa si è formato una immagine spirituale di ciò che è di là dalle volte celesti, onde il Padre sia onorato e riverito da tutto il creato e dagli esseri razionali della terra.

       Ma nessun mortale può adeguatamente magnificare la regione sopraceleste, gli esemplari che ivi sono delle cose di quaggiù, quella ch’è chiamata la Gerusalemme superna, il monte Sion celeste, la città sopraterrena del Dio vivente, in cui innumerevoli schiere di angeli e la Chiesa dei primogeniti inscritti nei cieli celebrano il loro Creatore e Sovrano dell’universo con teologie ineffabili e al nostro intelletto inaccessibili, perché né l’occhio ha mai visto né l’orecchio ha inteso né mai è entrato nel cuore dell’uomo ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano (1Co 2,9).

       Delle quali cose sin d’ora per divino beneficio partecipi sotto un certo aspetto, uomini, bambini e donne, piccoli e grandi, tutti insieme in un solo spirito e in una sola anima, non tralasciamo di confessare e di lodare l’autore di tanti beni a noi largiti: Colui che perdona tutte le nostre iniquità, che risana tutte le nostre malattie, Colui che libera la nostra vita dalla corruzione, che ci corona nella misericordia e nella pietà, che soddisfa nei beni il nostro desiderio, perché non ha agito con noi secondo i nostri peccati e non ci ha chiesto il fio dei nostri misfatti, perché quanto è lontano l’oriente dall’occidente, ha allontanato da noi le iniquità. Come un padre ha pietà verso i suoi figli, il Signore ha pietà verso coloro che lo temono (Ps 102,3-5 Ps 102,10 Ps 102,12-13).

       Conserviamo queste cose vive nel ricordo adesso e per tutto il tempo avvenire! Giorno e notte, in ogni ora e, per così dire, a ogni respiro vogliamo aver presente davanti agli occhi dello spirito l’autore e preside di questa assemblea e di questa giornata splendida e raggiante, amandolo e onorandolo con tutta la forza dell’anima. Ora alziamoci e preghiamolo con voce alta, che parta dal cuore, che ci tenga nel suo gregge sino alla fine (Jn 10,16), che ci salvi, che ci dia la Sua pace inviolabile, inconcussa ed eterna in Gesù Cristo, Salvatore nostro, per il quale a Lui sia gloria nei secoli. Così sia».

       Eusebio di Cesarea, Hist. eccl., X, 4, 63-65; 69-72


5. «La Chiesa non è un luogo, ma una fede»

       Alcuni giorni or sono fu assediata la chiesa; venne l’esercito, sprizzava fuoco dagli occhi, ma non gettarono neanche un’oliva fradicia; furono tirate fuori le spade, ma nessuno fu ferito; la casa imperiale era in angoscia, ma la chiesa stava al sicuro, anche se la guerra era qui. Era cercato qui colui che qui s’era rifugiato; senza paura contenemmo il furore di quelli. Come mai? Avevamo una garanzia solidissima: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa (Mt 16,18).

       Dico la Chiesa, non intendo soltanto un luogo, non le mura della chiesa, ma le leggi della Chiesa. Se ti rifugi nella chiesa, non cercare un luogo, rifugiati col tuo animo. La Chiesa non è una cinta di mura o un tetto, ma una fede, una norma di vita.

       Non dire ch’egli fu tradito dalla Chiesa; se non avesse lasciato la chiesa, non sarebbe stato preso. Non dire ch’egli si rifugiò nella chiesa e fu consegnato. Non fu la Chiesa a metterlo fuori, fu lui a lasciare la Chiesa. Non fu consegnato dentro, ma fuori. Perché lasciò la Chiesa? Volevi essere salvato? Dovevi abbracciarti all’altare. Non queste mura, ma la provvidenza di Dio ti poteva salvare. Eri peccatore? Dio non ti respinge per questo; non venne per i giusti, ma per condurre i peccatori alla penitenza (Mt 9,13). Una meretrice ottenne la salvezza, perché gli abbracciò i piedi. Hai sentito la lettura di oggi? E dico questo perché non esiti mai a rifugiarti nella Chiesa. Resta nella Chiesa e non sarai mai consegnato dalla Chiesa. Ma se te ne fuggirai dalla Chiesa, la Chiesa non è più in causa. Finché starai dentro, il lupo non entrerà; ma se uscirai, sarai preso dalla belva; né dovrai incolparne il recinto, ma la tua pusillanimità. Non c’è niente come la Chiesa. Non mi parlare di mura né di armi le mura col tempo si sgretolano, la Chiesa non invecchia mai. I barbari possono demolire le mura, la Chiesa neanche i demoni la possono vincere. E queste non son parole di vanto, lo dimostrano i fatti. Quanti affrontarono la Chiesa e perirono? La Chiesa supera i cieli.  

       Questa è la grandezza della Chiesa: aggredita vince, insidiata si libera, insultata diventa più bella, ferita non cade, agitata dalle onde non affoga, battuta dalla tempesta non naufraga, nella lotta non è battuta, vien presa a pugni, ma non viene vinta.

       Crisostomo Giovanni, Hom. de Eutropio capto, 1 s.




COMUNE DELLE FESTE DELLA B.V. MARIA


Maria, esaltata sopra tutti gli angeli e gli uomini quale santissima Madre di Dio, riceve dalla Chiesa una venerazione particolare. Durante l’anno liturgico, la Chiesa riflette prima di tutto sulla partecipazione di Maria al mistero della salvezza. Ma ci sono anche diverse feste mariane, che indicano quanto Maria è vicina a coloro che camminano lungo la via mostrata dal Figlio suo. La Chiesa celebra la Natività della Madonna; la pietà secolare commemora la sua Presentazione al tempio, fatta da Gioacchino ed Anna (21 settembre), nonché venera il suo Cuore Immacolato, totalmente dedito a Dio (sabato dopo la Solennità del Sacro Cuore di Gesù).

       Maria resta nell’ombra durante l’attività pubblica di Gesù ma «medita nel suo cuore» le grandi opere di Dio: abbiamo davanti agli occhi il suo silenzio e la sua contemplazione quando celebriamo il giorno della Beata Maria Vergine del Rosario (7 ottobre). La pietà non poteva fare a meno di Maria sotto la Croce e perciò subito dopo la festa dell’Esaltazione della Croce ricordiamo nella liturgia la Beata Vergine Maria Addolorata (15 settembre).

       Nel calendario liturgico troviamo anche la commemorazione della Dedicazione della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, il tempio mariano più bello dell’Occidente (5 agosto). I monaci del Monte Carmelo si affidano alla particolare protezione di Maria Vergine, la venerano quale Madre di Dio sul Monte Carmelo (16 luglio), e questa commemorazione si diffonde in tutto il mondo. Le rivelazioni della Madre di Dio a Lourdes (1858) rendono questa località uno dei centri principali dei pellegrinaggi e ciò determinò Pio X a costituire una speciale festa (11 febbraio).

       Quasi ogni Chiesa locale ha un suo santuario mariano dove si recano i pellegrini; quasi in ogni calendario locale troviamo una festa mariana propria. E un’antica tradizione della Chiesa che risale ai tempi carolingi glorificare Maria in ogni sabato nel messale troviamo la Messa di «Santa Maria in sabato».

       Una volta, Maria cantò nella casa di Elisabetta le parole profetiche: «Tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente» (Lc 1,48-49). La Chiesa «in Maria ammira ed esalta il frutto più eccelso della Redenzione, ed in lei contempla con gioia, come in una immagine purissima, ciò che essa, tutta, desidera e spera di essere» (Sacrosanctum Concilium SC 103). Essa invita i fedeli a venerare la Madre di Gesù, poiché ella è per tutti il modello del culto reso a Dio, è la maestra della vera pietà.

       Ave, regina dei cieli,

       ave, signora degli angeli;

       porta e radice di salvezza,

       rechi nel mondo la luce.

       Godi, vergine gloriosa,

       bella fra tutte le donne;

       salve, o tutta santa,

       prega per noi Cristo Signore.

       Liturgia Horarum, I: Ad Completorium, Antiph. fin. de B.V.M.


1. Le grandezze di Maria

       Figlio della Vergine, fa’ che io parli della Genitrice tua,

       sebbene io confessi che la parola su di lei è superiore a noi.

       Un cantico di ammirazione ora a parlar mi muove,

       e voi, prudenti, con l’orecchio dell’anima, con amore udite.

       Il mistero di Maria si agita in me, perché lo mostri con

       ammirazione,

       voi, con prudenza, le vostre menti disponete.

       La Vergine santissima oggi mi chiama a parlar di lei,

       purifichiamo l’udito per il suo bel mistero, perché non sia

       disonorato.

       Cielo secondo, nel cui seno abita il Signor dei cieli

       e da lei splendette per cacciar le tenebre dal mondo.

       Benedetta fra le donne, per cui la maledizione della terra fu

       sradicata,

       e la pena di condanna già da lei ebbe fine e per l’avvenire.

       Pudica e casta e di bellezze di santità ripiena,

       e piccola (è) per lei la bocca mia perché di lei faccia parola.

       Figliuola di poveri, che madre del Signor dei Re è divenuta,

       e dette ricchezza al mondo povero perché di essa vivesse.

       Nave che dalla casa del Padre tesori e beni ha portato,

       e venne a diffondere la ricchezza sulla terra che n’era priva.

       Campo buono che, senza seme, covoni dette,

       da cui non arato grande provento crebbe.

       Eva seconda che tra i mortali la vita ha generato,

       e pagò e strappò il chirografo di Eva madre sua.

       Fanciulla che all’ava prostrata ha offerto aiuto,

       e dalla caduta, cui la spinse il serpente, ha sollevata...

       È più facile dipingere il sole con la sua luce ed il suo calore,

       che con onore parlare del mistero di Maria.

       Si può forse in colori comprendere il disco dei raggi,

       ma il discorso su di lei dagli oratori non si esaurisce...

       Tutte le donne mirò, volendo il Signor nostro in terra scendere,

       ed una si scelse che era fra tutte bella.

       Quella scrutò ed umiltà e santità trovò in essa,

       e bei pensieri ed un’anima della divinità innamorata,

       ed un cuor puro e tutti pensieri di perfezione;

       e perciò lei scelse pura e di bellezze piena.

       Dal luogo suo discese ed abitò nella benedetta delle donne,

       perché non v’era al mondo compagna a lei da paragonare.

       Sola umile pura bella e immacolata,

       ché lei d’esser la madre sua fu fatta degna ed altra no...

       Era prudente e piena d’amor di Dio,

       poiché non abita il Signor nostro dove non regna amore...

       Beata, che lo Spirito Santo accolse e lei purificò, mondò,

       e lei tempio fece ed il Signor dei cieli nella sua abitazione dimorò.

       Beata, perché sussiste la bellezza grande della sua verginità,

       ed il cui nome nei secoli grandemente splende.

       Beata colei, per la cui opera, letizia avvenne ai figliuol di Adamo

       e per lei i caduti, precipitati dalla casa del Padre, si levarono...

       Beata, nel cui seno piccolo e disadorno abitò

       il Grande di cui son ripieni i cieli, che per lui son piccoli.

       Beata, che partorì l’Antico che generò Adamo,

       per la quale si rinnovarono le creature già invecchiate.

       Giacomo di Sarug, Hom., 1, passim


2. Nessuno si salva senza di te, o Santissima

       Tu, o purissima e pietosissima Signora, aiuto dei cristiani, rifugio sempre pronto dei peccatori, non ci lasciare senza il tuo soccorso. Abbandonati da te, dove ci rifugeremo? Che sarà di noi, o santissima Madre di Dio, che sei lo spirito e il fiato dei cristiani? Come infatti il respiro è certo segno di vita nel nostro corpo, così la presenza ininterrotta del tuo nome sul nostro labbro, pronunziato in ogni circostanza e luogo e tempo, è indizio di vita, di gioie e di soccorso; non solo indizio, ma causa anche Coprici con le ali della tua bontà, sii il nostro presidio con la tua intercessione, assicuraci la vita eterna, tu che sei la speranza infallibile dei cristiani. Lascia, dunque, che noi, che siamo spogli di opere e virtù divine, al vedere la ricchezza di bontà, che Dio ci ha largito per tuo mezzo, diciamo: La terra è piena di misericordia di Dio (Ps 32,5). Per te noi, lontani da Dio a causa dei nostri peccati, abbiamo cercato Dio e, trovatolo, siamo stati salvati. Il tuo aiuto, o Madre di Dio, è così potente, che non abbiamo bisogno di alcun altro avvocato. Conoscendo tutto questo e avendo sperimentato nel pericolo l’abbondanza del tuo soccorso a ogni nostra invocazione, noi tuo popolo, tua eredità, tuo gregge, detto cristiano dal nome di tuo Figlio, ricorriamo a te. Certo, infatti, la tua magnificenza è senza fine, il tuo soccorso è insaziabile. I tuoi doni son senza numero. Nessuno si salva se non per te, o santissima. Nessuno è liberato dal male se non per te, o immacolata. Nessuno riceve un favore se non per te castissima. Nessuno ottiene misericordia se non per te, o benedettissima. Chi, dunque, non ti chiamerà beata? Chi non ti loderà? Chi non ti glorificherà, anche se non quanto meriti, ma certo con tutto il suo impegno, o gloriosa, o benedetta, che hai ricevuto da tuo Figlio Gesù Cristo cose tanto grandi, che tutte le generazioni ti benedicono?

       Chi come te, nel senso del tuo unico Figlio, ha cura del genere umano? Chi come te ci difende nelle avversità? Chi ci strappa dalla violenza delle tentazioni con più prontezza di te? Chi si preoccupa, come te, d’intercedere per i peccatori? Chi si compromette tanto per coloro che non danno nessuna speranza di emendamento? Tu sola, infatti, che godi di fiducia e autorità presso tuo Figlio, sebbene già quasi condannati e incapaci di voltarci verso il cielo, ci salvi con le tue suppliche e ci liberi dal supplizio eterno. Perciò, chi è afflitto, ricorre a te. Chi riceve un torto, si volge a te. Chi è irretito nel male, chiede il tuo aiuto. In te, o Madre di Dio, è tutto incredibile e meraviglioso; tutto supera i confini della natura e della nostra capacità e intelligenza. E anche la tua protezione va al di là di quanto noi possiamo comprendere. Noi, infatti, respinti e nemici di Dio, tu hai riconciliati, per mezzo di tuo Figlio; ci hai unito a Dio e ci hai fatto suoi figli ed eredi. Tu offri ogni giorno la tua mano ai naufraghi del peccato e li salvi dai flutti. Tu, alla sola invocazione del tuo nome, o santissima, respingi gli assalti che il malvagio nemico fa contro i tuoi servi e li salvi e li assicuri. Tu liberi da ogni tribolazione e da ogni specie di tentazione coloro che si volgono a te e li previeni anche, o immacolatissima. Perciò accorriamo premurosi al tuo tempio, nel quale ci sembra di stare in paradiso. In esso, infatti, mentre cantiamo le tue lodi, ci sembra di far parte dei cori degli angeli. Quale stirpe di uomini ha mai avuto un tale splendore, una tale difesa, una tale patrona fuori del solo popolo cristiano? Chi, fissando gli occhi sulla venerabile tua cintura, o Madre di Dio, non si sente riempire di gioia? Chi s’è mai inginocchiato innanzi ad essa e se n’è uscito senza aver ottenuto la grazia che chiedeva? Chi, guardando la tua immagine, non s’è dimenticato subito d’ogni sua avversità? Ma non si può dire a parole di quanta gioia, letizia e piacere sian pieni coloro che vengono a venerare il tuo tempio, dove oggi celebriamo la reposizione della tua cintura e delle fasce di tuo Figlio e nostro Dio.

       O urna alla quale noi, bruciati dall’ardore del male, attingiamo la manna del refrigerio! O mensa, grazie alla quale, noi, che morivamo di fame, sovrabbondiamo di pane della vita! O candelabro, per i cui fulgori, noi, che sedevamo nelle tenebre, siamo avvolti da un’immensa luce! Tu hai da Dio la lode che s’addice a te; ma non respingere la nostra, perché indegna e inadeguata, essa è fatta almeno con tutto il nostro amore. Non respingere, o benedettissima, la lode espressa dalle nostre labbra impure, perché nasce da un animo che ti ama. Non disdegnare le parole di una lingua indegna, ma tieni conto del nostro grande amore e ottienici da Dio il perdono dei peccati, la cancellazione di ogni macchia e la gioia della vita eterna. Guarda dal tuo santo trono questa corona di popolo che ti circonda e che ti venera come sua Signora e patrona, che è venuta liberamente a celebrar le tue lodi, o Madre di Dio, e liberala da ogni male con la tua materna attenzione; proteggila da ogni genere di malattia, da ogni genere d’impurità, da ogni torto; colmala di ogni gioia, di salute, di ogni grazia; e al ritorno di tuo Figlio, il clementissimo nostro Signore, quando saremo chiamati innanzi al giudice, col tuo braccio potente - e lo puoi, perché sei sua Madre - fa’ in modo che possiamo evitare il fuoco eterno e ottenere l’eternità del paradiso, per gentile dono di tuo Figlio, il Signor nostro Gesù Cristo.

       Germano di Costantinopoli, Oratio IX, n. 1829


3. La croce è la cattedra di Cristo

       Dopo che il Signore fu crocifisso e dopo che i soldati si divisero le sue vesti tirando a sorte la tunica, vediamo il seguito del racconto dell’evangelista Giovanni. Questo dunque fecero i soldati. Presso la croce di Gesù stavano sua madre e la sorella di lei, Maria di Cleofa e Maria Maddalena. Vedendo la madre, e accanto a lei il discepolo che egli amava, Gesù disse a sua madre: Donna, ecco tuo figlio. Poi disse al discepolo: Ecco tua madre. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa (Jn 19,24-27). Questa è l’ora della quale Gesù, nel momento di mutare l’acqua in vino, aveva parlato alla madre, dicendo: Che c’è tra me e te, o donna? La mia ora non è ancora venuta (Jn 2,4).

       Egli aveva annunciato quest’ora, che non era ancora giunta, e nella quale, morendo, avrebbe riconosciuto colei dalla quale aveva ricevuto questa vita mortale. Allora, quando stava per compiere un’opera divina, sembrava allontanare da sé, come una sconosciuta, la madre, non della divinità ma della sua debolezza umana; al contrario, ora che stava sopportando sofferenze proprie della condizione umana, raccomandava con affetto umano colei dalla quale si era fatto uomo. Allora colui che aveva creato Maria si manifestava nella sua potenza; ora colui che Maria aveva partorito, pendeva dalla croce.

       C’è qui un insegnamento morale. Egli stesso fa ciò che ordina di fare, e, come maestro buono, col suo esempio insegna ai suoi che ogni buon figlio deve aver cura dei suoi genitori. Il legno della croce al quale erano state confitte le membra del morente, diventò la cattedra del maestro che insegna. È da questa sana dottrina che l’Apostolo apprese ciò che insegnava, dicendo: Se qualcuno non ha cura dei suoi, soprattutto di quelli di casa costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele (1Tm 5,8). Chi è più di casa dei genitori per i figli, o dei figli per i genitori? Il maestro dei santi offrì personalmente l’esempio di questo salutare precetto, quando, non come Dio ad una serva da lui creata e governata, ma come uomo alla madre che lo aveva messo al mondo e che egli lasciava, provvide lasciando il discepolo quasi come un altro figlio che prendesse il suo posto. Perché lo abbia fatto viene spiegato da ciò che segue. Infatti l’evangelista dice: e da quel momento il discepolo la prese in casa sua. E di sé che egli parla. Egli è solito designare se stesso come il discepolo che Gesù amava. È certo che Gesù voleva bene a tutti i suoi discepoli, ma per Giovanni nutriva un affetto tutto particolare, tanto da permettergli di poggiare la testa sul suo petto durante la cena (Jn 13,23), allo scopo, credo, di raccomandare a noi più efficacemente la divina elevazione di questo Vangelo che egli avrebbe dovuto proclamare.

       Ma in che senso Giovanni prese con sé la madre del Signore? Non era egli forse uno di coloro che avevano detto al Signore: Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito (Mt 19,27)? Ma ad essi il Signore aveva anche risposto che qualunque cosa avessero lasciato per seguirlo, avrebbero ricevuto, in questo stesso mondo, cento volte tanto (Mt 19,29). Quel discepolo pertanto conseguiva il centuplo di quello che aveva lasciato, fra cui anche il privilegio di accogliere la madre del donatore. Il beato Giovanni aveva ricevuto il centuplo in quella società, nella quale nessuno diceva proprio qualunque suo bene, in quanto tutto era comune a tutti; come appunto si legge negli Atti degli Apostoli. E così gli Apostoli non avevano niente e possedevano tutto (2Co 6,10). In che modo, dunque, il discepolo e servo ricevette la madre del suo Maestro e Signore tra i suoi beni, in quella società dove nessuno poteva dire di avere qualcosa di suo? Poco più avanti, nel medesimo libro, si legge: Quanti possedevano terreni e case, li vendevano e ne portavano il ricavato e lo deponevano ai piedi degli Apostoli; ed esso veniva man mano distribuito a ciascuno proporzionalmente al bisogno (Ac 4,34-35). Da queste parole si può arguire che a questo discepolo venne assegnato quanto personalmente egli aveva bisogno e in più quanto gli era necessario per il mantenimento della beata Maria, considerata come sua madre. Non è forse il senso più ovvio della frase: da quel momento il discepolo la prese in casa sua, che cioè egli prese su di sé l’incarico di provvedere a lei in tutto? Egli se la prese con sé, non nei suoi poderi, perché non possedeva nulla di proprio, ma tra i suoi impegni, ai quali attendeva con dedizione.

       Agostino, In Io. Ev. tract., 119, 1-3


4. Gesù ci affida la Madre sua

       Ma le donne stavano là, osservando queste cose, stava là anche la Madre (Jn 19,25), poiché essa, spinta dalla pietà, non si dava pensiero delle proprie sofferenze. Però anche il Signore, sospeso alla croce, disprezzando le proprie sofferenze, con affettuosa sensibilità raccomandava sua Madre (Jn 19,26). Non senza significato, Giovanni ne ha trattato con ricchezza di particolari. Gli altri, infatti, hanno descritto che il mondo fu squassato, che il cielo fu ricoperto di tenebre, che il sole sparì. Matteo e Marco, i quali con maggiore dovizia hanno trattato gli aspetti umani e morali, hanno aggiunto: Dio, Dio mio, guardami! Perché mi hai abbandonato? (Mc 15,34 Mt 27,46 Ps 21,2); affinché noi credessimo che l’aver assunto sopra di sé la condizione umana voleva dire per Cristo giungere fino alla croce. Luca poi sottolineò chiaramente come si accordasse bene il fatto che con sacerdotale intercessione il perdono fu concesso al ladrone, e che, con la stessa bontà, si implorava il perdono per i persecutori Giudei (Lc 23,34).

       Giovanni, invece, il quale penetrò più a fondo nei divini misteri, non a torto ha cercato di dimostrare che Colei, la quale aveva generato Dio, era rimasta vergine. Solo lui, pertanto, mi insegna ciò che gli altri non mi hanno insegnato, che cioè il Crocifisso l’ha chiamata Madre; e così ha ritenuto molto più significativo che il vincitore dei tormenti e delle sofferenze, il vincitore del diavolo, compartisse le dimostrazioni del suo affetto, non che donasse il Regno celeste. Effettivamente, che il ladrone riceva il perdono dal Signore, è segno di profonda pietà; ma lo è molto, molto di più che la Madre venga onorata dal Figlio.

       Non si giudichi però che io abbia cambiato l’ordine, se ho scritto che ha assolto il malfattore prima di nominare la Madre; Egli infatti era venuto per salvare i peccatori (1Tm 1,15); e non trovo sconveniente se, nei miei scritti, ha adempiuto in primo luogo l’incarico che si era assunto, procurando la salvezza ad un peccatore. Del resto è Lui stesso che ha detto: Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? (Mt 12,48), perché non era venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori (Lc 5,32). Là però era a proposito, ma qui, non immemore della Madre neanche sulla croce, la interpella dicendo: Ecco tuo figlio, e a Giovanni: Ecco tua madre (Jn 19,26-27). Dall’alto della croce Cristo dettava le ultime volontà, e Giovanni, degno teste di un così grande testatore, suggellava il suo testamento. Stupendo testamento, che lascia non il denaro ma la vita, che viene scritto non con l’inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente (2Co 3,3)...

       Mentre gli apostoli fuggivano, Maria, non certo impari ad un compito degno della Madre di Cristo, stava ritta di fronte alla croce e mirava con occhi pietosi le piaghe del Figlio, perché attendeva non la morte del pegno, ma la salvezza del mondo.

       Ambrogio, Exp. Ev. Luc., 10, 129-132


5. Per la virtù di Cristo l’acqua rigenera il credente

       Riconosca dunque la fede cattolica la propria nobiltà nell’umiltà del Signore e la Chiesa, corpo di Cristo, trovi la propria gioia nei misteri della sua salvezza: in effetti, se il Verbo di Dio non si fosse fatto carne e non avesse abitato in mezzo a noi (Jn 1,14); se il Creatore in persona non fosse disceso verso la sua creatura per unirsi ad essa, riconducendo, con la sua nascita, l’umanità invecchiata verso un nuovo inizio, la morte regnerebbe da Adamo sino alla fine (Rm 5,14), e su tutti gli uomini peserebbe una condanna senza appello, essendo la nascita di per sé e per tutti la causa comune della loro rovina. Ecco perché, unico tra i figli degli uomini, il Signore Gesù è nato innocente, essendo stato lui solo concepito senza la bruttura della concupiscenza della carne. Si è fatto uomo della nostra razza affinché noi divenissimo partecipi della natura divina (2P 1,4). Lo zampillo di vita che ha preso nel seno della Vergine, egli lo ha trasfuso nel fonte battesimale, egli ha dato all’acqua ciò che aveva dato a sua madre: infatti, la potenza dell’Altissimo e l’ombra dello Spirito Santo (Lc 1,35), che hanno fatto sì che Maria mettesse al mondo il Salvatore, fanno sì che anche l’acqua rigeneri il credente.

       Leone Magno, Orat. 25, 5


6. La grazia adegua il peccato

       Attraverso gli stessi passi, per i quali era caduta la natura umana, essa è stata riparata dal Signore Gesù Cristo. Adamo superbo, Cristo umile; per una donna la morte, per una donna la vita; per Eva la rovina, per Maria la salvezza. Quella ingannata seguì il seduttore, questa integra generò il Salvatore. Quella volentieri accettò il veleno propinatole dal serpente e lo passò al marito, e ambedue meritarono la morte; questa ripiena di grazia celeste, generò la vita, che dà alla carne morta la forza della resurrezione. Chi ha potuto far questo, se non il figlio d’una vergine e sposa di vergini? Colui che poté dare fecondità alla madre, senza toglierle la verginità. Ciò che diede a sua madre, lo donò anche alla sua sposa, la Chiesa. Perciò la santa Chiesa, che è unita a lui, vergine a vergine, partorisce ogni giorno nuovi figli, ed è vergine.

       Quodvultdeus, De Symbolo, 4, 4


7. Maria, la nuova Eva, è Madre dei viventi

       Essa è Eva, la madre di tutti i viventi (Gn 3,20). In realtà, se puoi capire il senso di quelle parole: Cercare il vivente tra i morti (Lc 24,5), comprenderai che i morti sono coloro che sono senza Cristo, e non partecipano alla vita, cioè non partecipano a Cristo, perché Cristo è la vita (Jn 14,6). Ecco perché la Chiesa è madre dei viventi (Ga 4,26), e Dio l’ha edificata sullo stesso Cristo Gesù, quale pietra d’angolo nel quale tutta la costruzione, ben compaginata, cresce fino a formare un tempio.

       Venga allora Iddio, edifichi la donna: la prima, come collaboratrice di Adamo, e la seconda, di Cristo; non perché Cristo cerchi un aiuto, ma perché noi cerchiamo e desideriamo di giungere nella grazia di Cristo per mezzo della Chiesa. Essa viene tuttora edificata, tuttora viene formata, tuttora la donna viene plasmata, e tuttora creata. Per questo la Scrittura ha coniato una parola nuova, dicendo che noi siamo sopra-edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti (Ep 2,20). E tuttora l’edificio spirituale si innalza in un sacerdozio santo. Vieni, Signore Iddio, costruisci questa donna, costruisci la città. Venga anche il tuo servo; a te infatti io credo, quando dici: Egli costruirà la mia città (Is 45,13).

       Ecco la donna, che è madre di tutti, ecco l’edificio spirituale, ecco la città che vive per l’eternità, poiché ignora la morte.

       Ambrogio, Exp. Ev. Luc., 2, 86-88




FESTA DEGLI ANGELI


(2 ottobre)

       La Chiesa conosce il culto degli angeli sin dai primi secoli san Giustino lo menziona nella sua «Apologia» (c. 155), Origene (+ 254) si oppone a coloro che nel culto degli angeli vedono l’idolatria; san Clemente di Alessandria (+ c. 212) parla della cura che gli angeli hanno di tutto il creato. Il culto reso agli angeli non assumeva una particolare forma, ma la Chiesa, celebrando la liturgia, si univa spiritualmente alla liturgia celeste dei cori degli angeli. Fino ad oggi, questo rimane vivissimo nella coscienza della Chiesa orientale, come pure continua a essere vivo in Oriente il culto degli angeli.

       I libri della Sacra Scrittura trasmettono i nomi dei tre arcangeli - Michele, Raffaele e Gabriele -; di qui il culto particolare che si cominciò a rendere loro. Il culto di san Michele era diffuso in Oriente già nel IV secolo e di questa popolarità danno testimonianza molte chiese dedicate all’arcangelo. In Occidente, e particolarmente in Italia, il culto di san Michele è conosciuto fin dall’inizio del V secolo. A Roma, la festa in suo onore veniva celebrata il 29 settembre, giorno della consacrazione della basilica dedicata a san Michele, costruita presso la via Salaria. Nel calendario liturgico vi era un altro giorno dedicato a san Michele, cioè l’8 maggio, che si riferiva alla rivelazione di san Michele sul Monte Gargano (Italia meridionale). Il centro da cui irradiava il culto di san Michele su tutta l’Europa era la famosa abbazia di Mont-Saint-Michel in Normandia, fondata nell’anno 709. La Commemorazione di san Raffaele (21 ottobre) e di san Gabriele (24 marzo) fu introdotta nel calendario liturgico da Benedetto XV nell’anno 1921.

       In Spagna, nel XV secolo, sorge la festa in onore degli Angeli Custodi, che nel XVI secolo viene accolta in Francia e col tempo essa entra nel calendario di alcune province. Paolo V, nell’anno 1608, concede che la festa sia celebrata in tutta la Chiesa e Clemente X la proclama come festa di precetto. Venne scelto il giorno 2 ottobre, vista la vicinanza della Solennità di san Michele. Il calendario liturgico attuale unisce la Commemorazione di san Michele, di san Raffaele e di san Gabriele in un solo giorno - il 29 settembre - e lascia al suo posto la Commemorazione degli Angeli Custodi.

       Gli innumerevoli eserciti degli angeli stanno davanti al volto di Dio e incessantemente gli rendono onore. Ogni volta che celebriamo l’Eucaristia e glorifichiamo Dio nel prefazio per le sue grandi opere, noi radunati sulla terra c’inseriamo nel perenne cantico di lode che risuona in Cielo. Con tutti gli angeli e gli arcangeli, uniti a tutti i cori celesti esclamiamo: Santo, Santo, Santo il Signore Dio degli eserciti. L’uomo di fede, riconoscente a Dio per la sua bontà, acclama con le parole del salmo: «A te voglio cantare davanti agli angeli» (137, 1) e sapendo che da solo non è capace di esprimere il cantico di gratitudine invoca gli angeli: «Benedite [con me], angeli del Signore, il Signore, lodatelo ed esaltatelo nei secoli» (Da 3,58).

       La Chiesa crede che gli angeli non soltanto circondano il trono di Dio nel sacro servizio, ma che Dio anche per loro, come per noi, in modo mirabile, ha stabilito dei doveri. L’angelo fu mandato a Maria per annunciarle il mistero dell’Incarnazione. L’angelo incoraggia Cristo prima della Passione; tramite l’angelo fu annunciata la notizia della Risurrezione del Signore. Anche oggi, gli angeli sono presenti nella Chiesa, perché essa possa annunciare a tutti l’Incarnazione, la Passione e la Risurrezione del Signore. La Chiesa crede che gli angeli proteggono la nostra vita terrena, hanno cura di noi, ci sostengono sulla via che porta alla salvezza. Nella loro cura, troviamo la difesa e, grazie a loro, evitiamo i pericoli.

       In comunione con tutta la Chiesa, benediciamo gli angeli del Signore e glorifichiamo Dio perché ci permette di sperimentare la loro custodia. Poiché attendiamo la nostra unione con loro, quando il Signore verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli.

       O Dio, che chiami gli angeli e gli uomini

       a cooperare al tuo disegno di salvezza,

       concedi a noi pellegrini sulla terra la protezione degli spiriti beati,

       che in Cielo stanno davanti a te per servirti

       e contemplano la gloria del tuo volto.

       Missale Romanum: Missae Votivae, De sanctis Angelis, Collecta


1. Creazione e natura degli angeli

       Dio è il fattore e creatore degli angeli; sicché quello stesso che li ha fatti dal nulla, che li ha anche creati a sua immagine; cioè esseri incorporei, come alito, o fuoco immateriale, come dice il profeta David, il quale con le parole «Dio fa i suoi angeli spiriti e i suoi ministri li fa fiamme di fuoco» (Ps 103,4) descrive la loro leggerezza, ardore, fervore, penetrabilità e l’amore con cui cercano Dio e lo servono, e vuol significare anche che gli angeli son portati alle cose del cielo e sono esenti da ogni pensiero materiale.

       L’angelo, quindi, è una sostanza intelligente, dotata di libero arbitrio, in perpetuo moto senza corpo a servizio di Dio, arricchito di immortalità per dono di Dio; ma solo il Creatore sa in che cosa consista la sua sostanza e può definirla. Dire che non abbia corpo, ha senso soltanto in rapporto a noi. Tutto ciò, infatti, che vien paragonato a Dio, lo si trova sempre vile e materiale, perché Dio non è paragonabile a niente. La sola natura divina è veramente priva di materia e corpo.

       L’angelo è una natura razionale, intelligente, libera, accomodabile alle opinioni e determinabile quanto a volontà. Tutto ciò che è creato, infatti, deve essere soggetto a mutamento; solo ciò che è increato è fuori della sfera della mutabilità. E poi tutto ciò che è razionale, è anche dotato di libero arbitrio. L’angelo perciò, poiché è dotato di ragione ed è intelligente, ha libero arbitrio; essendo una natura creata, è mutevole, perché può, liberamente, aderire al bene e progredire in esso, o piegarsi al male.

       L’angelo è del tutto incapace di penitenza proprio perché è incorporeo. Infatti, se l’uomo può far penitenza, questo è dovuto alla debolezza del corpo.

       L’angelo è immortale, ma per dono e grazia di Dio, non per natura. Infatti tutto ciò che ha principio, per sua natura, deve avere anche una fine. Solo Dio, dunque, è sempre. Non può essere soggetto al tempo, ma gli sta sopra, colui che ha creato il tempo.

       Gli angeli son luci riflesse spirituali, che ricevono splendore da quella luce primaria, che non ha principio; non hanno bisogno di lingua né di orecchie; si comunicano esperienze e idee senza alcun ausilio di voci. Gli angeli furono creati per mezzo del Verbo e ricevettero la loro perfezione attraverso lo Spirito Santo, perché ciascuno di essi, a seconda della sua dignità e ordine, riceva grazia e splendore.

       Gli angeli sono circoscritti o delimitati, nel senso che, mentre sono in cielo, non sono in terra e, se mandati da Dio sulla terra, non restano in cielo. Ma non sono confinati in un certo luogo da mura, porte, sbarre, sigilli. Non sono rinchiusi in determinati confini. Non sono vincolati a nessuna figura, in quanto appaiono, a coloro dai quali Dio vuole che sian visti, non come sono, ma in quella forma che si confà alla vista di quelli che li vedono. D’altra parte solo ciò che è increato, per natura rifiuta ogni limite. Tutto ciò che è creato, è delimitato tra i termini fissati dal Creatore. Hanno poi gli angeli non dalla loro natura, ma da un’altra fonte la loro santità, cioè dallo Spirito Santo. Per illuminazione di Dio possono predire anche il futuro. Non hanno bisogno di connubio, perché sono immortali.

       Visto che son delle menti, gli angeli sono in luoghi che possano essere percepiti dalla mente. Non sono circoscritti a modo dei corpi - neanche sono figurati, per quanto riguarda la natura, a modo dei corpi e non hanno le tre dimensioni - e se si portano in qualche luogo, sono ivi presenti e vi agiscono spiritualmente e non possono allo stesso tempo essere ed operare in due posti diversi.

       Se gli angeli abbiano tutti la stessa sostanza o sian diversi tra loro, non è chiaro; lo sa soltanto Dio che li ha creati e vede tutto. Differiscono quanto al modo e al grado; sia che lo splendore sia proporzionato al grado, sia che si adegui alla sede che occupano. Si illuminano gli uni gli altri, a seconda dell’eccellenza dell’ordine e della natura. È chiaro che quelli che sono più eccelsi, diffondono luce e scienza sugli ordini inferiori.

       Gli angeli son forti e pronti a compiere la volontà di Dio e son dotati di tale velocità che si trovano all’istante dove Dio li vuole. Ciascuno di essi ha anche in custodia una certa parte della terra, presiede a una nazione o popolo, secondo le disposizioni del Creatore: dirigono le nostre cose e ci aiutano, in quanto sono, per volontà di Dio, al di sopra di noi e son sempre intorno a Dio.

       È difficile che gli angeli per natura siano attratti dal male, ma non è impossibile; ora però non possono più essere attratti dal male, non per loro natura, ma per grazia e per quella costanza, per la quale aderiscono all’unico Bene.

       Gli angeli vedono Dio, quanto permette la loro vista e di tal cibo si alimentano. Sono a noi superiori, perché incorporei e immuni dalle passioni corporee; non son però liberi di qualsiasi passione, poiché questo compete solo a Dio.

       Gli angeli si trasformano in tutto ciò che Dio vuole, e così si rendono visibili agli uomini e scoprono loro i misteri divini. Stanno in cielo e hanno questo solo compito di lodare Dio ed eseguirne la volontà.

       Come dice il santissimo ed eccellentissimo uomo, Dionigi l’Areopagita, tutta la teologia, o Sacra Scrittura, conosce nove celesti sostanze. Sostanze che quel divino maestro di cose sacre distinse in tre ordini: il primo è quello che sta più vicino a Dio e gli si unisce, come dice la tradizione, direttamente, e questi sono i Serafini dalle sei ali, i Cherubini pieni di occhi e i santissimi Troni; il secondo ordine comprende Dominazioni, Virtù e Potestà; il terzo e ultimo i Principati, gli Arcangeli e gli Angeli.

       Alcuni dicono che gli angeli furono fatti prima di ogni altra cosa. Così afferma Gregorio il Teologo: «Concepisce per prima le potenze angeliche e celesti, e quel pensiero le crea». Altri preferiscono dire che furono creati dopo la creazione del primo cielo. Che siano stati creati prima dell’uomo è accettato da tutti. Ma io sto decisamente con Gregorio il Teologo. Mi pare conveniente infatti che fosse creata prima la natura intelligente, poi quella sensibile e finalmente l’uomo che consta di ambedue.

       Giovanni Damasceno, De fide orthod., 2, 3


2. L’amore misericordioso dei santi angeli

       Gli spiriti immortali e beati, che abitano le sedi dei cieli e godono della partecipazione al loro Creatore - per la cui eternità sono saldi, nella cui verità sono certi, per cui dono sono salvi - amano con grande misericordia noi, mortali e miseri, desiderando che diventiamo beati e immortali; però non vogliono, e a buon diritto, che noi a loro sacrifichiamo, ma solo a colui per il quale sanno che noi e loro siamo un sacrificio. Con loro infatti, noi formiamo l’unica città di Dio, della quale si dice nel salmo: Cose gloriose si sono dette di te, città di Dio (Ps 86,3) Di essa, noi siamo la parte che è pellegrina, e loro la parte che ci soccorre. Da quella superna città, ove è legge la volontà di Dio, immutabile e a tutti nota, da quella superna, per così dire, curia (anche ivi infatti ci si prende cura di noi) discese a noi, per il ministero degli angeli, la Sacra Scrittura, dove si legge: Chi sacrifica agli idoli, e non al Signore solo, sarà distrutto (Ex 22,20)...

       In nessun modo si deve aspirare alla benevolenza e alla beneficenza degli dèi, o per dir meglio, degli angeli buoni, per una specie di mediazione dei demoni. La si ottiene invece, imitando la loro buona volontà; è con questa, infatti, che noi siamo con loro, che con loro viviamo, e con loro rendiamo a Dio il culto che essi gli rendono; e tutto ciò, anche se non li possiamo vedere coi nostri occhi di carne. Quanto più invece siamo miseri per la dissomiglianza della nostra volontà dalla loro e per la debolezza della nostra fragilità, tanto più distiamo da loro per il merito della vita, non per il luogo fisico. Se non siamo uniti a loro, non è perché abitiamo, per la nostra condizione corporea, sulla terra, ma perché, per l’impurità del nostro cuore, amiamo le realtà terrene. Quando poi guariamo da questo male, tanto da essere quali essi sono, subito ci avviciniamo a loro nella fede, se crediamo che un giorno saremo resi beati da colui che ha reso beati loro, e per loro intercessione...

       La causa più vera della beatitudine degli angeli buoni la la riscontriamo nella loro unione a colui che sommamente è. Se invece si cerca la causa della miseria degli angeli cattivi, ci si presenta, ovviamente, il fatto che essi, allontanatisi da colui che sommamente è, si ripiegarono su se stessi, che pur non hanno l’essere in grado sommo. Questo vizio, come lo chiameremo se non superbia? Infatti l’inizio di ogni peccato è la superbia (Si 10,15). Non vollero dunque custodire presso di lui la loro fortezza e, pur potendo essere qualcosa di più se avessero aderito a colui che sommamente è, scelsero di essere qualcosa di meno, preferendo a lui se stessi. Questo è il difetto principale, la prima mancanza, il primo vizio di quella natura che è stata creata tale da non avere l’essere sommo, ma da poter ottenere la beatitudine, poter cioè godere di colui che ha l’essere sommo; se da lui invece si allontana, non cade nel nulla, ma il suo essere viene diminuito, e perciò essa diventa ben misera...

       Per gli angeli buoni tutta la conoscenza delle realtà corporali e temporanee, di cui son tanto tronfi i demoni, è cosa ben vile: non perché sono all’oscuro di tali realtà, ma perché loro interessa la carità di Dio che li santifica. Di fronte a questa bellezza non solo incorporea, ma anche immutabile e ineffabile, nel santo amore ardono, disprezzano tutte le cose inferiori, e con esse disprezzano anche se stessi; per poter così, nella loro bontà, godere completamente di quel bene che li rende buoni. Ma, in tal modo, conoscono con più certezza anche queste cose temporanee e mutevoli, perché ne vedono le cause fondamentali nel Verbo di Dio, per mezzo di cui il mondo è stato fatto; per queste cause alcune realtà sono approvate, altre riprovate, e tutte vengono ordinate.

       I demoni invece non contemplano nella sapienza di Dio le cause eterne, fondamentali, delle realtà temporanee; ma per una maggiore esperienza dei segni esteriori, che a noi sfuggono, prevedono, molto più dell’uomo, il futuro. Ma una cosa è far congetture sulle cose temporanee per mezzo di realtà temporanee e su cose mutevoli per mezzo di realtà mutevoli e applicarle al modulo temporaneo e mutevole della propria volontà e delle proprie facoltà - cosa concessa ai demoni per un fine ben preciso -; altra cosa invece prevedere nelle leggi eterne e immutabili di Dio, che vivono nella sua sapienza, le mutazioni delle realtà temporanee e conoscere insieme - per la partecipazione allo Spirito divino - la volontà di Dio, che è più potente e più sicura di ogni altra realtà. Questo è il dono che è stato concesso, con opportuna discrezione, ai santi angeli. Essi perciò, non solo vivono in eterno, ma anche sono veramente beati. Il bene, poi, che li rende beati è il loro Dio, da cui sono stati creati. Perciò essi godono indefettibilmente della sua contemplazione e della partecipazione a lui.

       Agostino, De civit. Dei, 10, 7; 8, 25; 12, 6; 9, 22


3. Gli angeli come spiriti servizievoli

       Di comune accordo noi diciamo che gli angeli sono spiriti incaricati d’un ministero, inviati in servizio per il bene di coloro che devono usufruire della salvezza (). Essi salgono a recare le suppliche degli uomini nelle più pure regioni celesti. Successivamente ne discendono per portare a ciascuno, secondo i suoi meriti, una delle grazie che Dio incarica loro di dispensare a quanti ricevono i suoi favori. Essi dunque, che noi abbiamo imparato a chiamare angeli a causa della loro funzione, noi li troviamo talvolta, anche nelle sante Scritture, con la denominazione di dèi (): essi sono infatti divini. Tuttavia, non lo sono al punto da esserci ordinato di venerare ed adorare al posto di Dio coloro che ci dispensano e ci portano le sue grazie. Ogni preghiera, infatti, ogni domanda, ogni supplica, ogni azione di grazie (1Tm 2,1) va fatta risalire verso il Dio supremo, attraverso il Sommo Sacerdote che è al di sopra di tutti gli angeli, Logos vivente e Dio. E noi potremo offrire al Logos stesso domande, preghiere, azioni di grazie ed anche suppliche, se saremo stati capaci di discernere fra il senso assoluto e quello relativo della parola supplica. Infatti, invocare gli angeli senza aver ricevuto una scienza superiore a quella umana, non è ragionevole. Ma supponiamo, per ipotesi, di aver ricevuto questa scienza meravigliosa e misteriosa: essa ci fa conoscere la natura degli angeli e gli uffici ai quali ognuno di essi è preposto; essa non permetterà che si osi pregare nessuno se non il Dio supremo che è perfettamente sufficiente a tutto, attraverso il nostro Salvatore, il Figlio di Dio, lui che è Logos, Saggezza, Verità e tutto ciò che dicono ancora di lui le Scritture dei profeti di Dio e degli apostoli di Gesù.

       Per propiziarci i santi angeli di Dio ed indurli a compiere ogni cosa per noi, è sufficiente, per quanto è possibile alla natura umana, imitare, nella nostra attitudine verso Dio, la loro disposizione personale grazie alla quale essi sono imitatori di Dio: così facendo, la concezione che noi abbiamo di suo Figlio, il Logos, in luogo di contraddire quella più chiara che ne hanno i santi angeli, si avvicinerà a questa di giorno in giorno per quanto è possibile, in chiarità e nettezza.

       Origene, Contra Celsum, 5, 4-5


4. Gli angeli, inviati per concorrere alla nostra salvezza

       Chi sono dunque i figli di Dio, se non gli angeli fedeli? Dato è certo che essi obbediscono ai cenni della Maestà divina, noi dobbiamo ricercare con attenzione donde possono venire per presentarsi così davanti al Signore (cf. ). È di loro che la Verità dice: I loro angeli in cielo vedono continuamente il volto del Padre mio che è nei cieli (Mt 18,10), ed di essi che un profeta dichiara: Mille migliaia lo servivano, e una miriade di miriadi stavano in piedi davanti a Lui (Da 7,10). Se dunque essi lo vedono sempre, e sempre si tengono alla sua presenza, occorre cercare con attenzione diligente donde essi vengono, essi che mai si allontanano. San Paolo dice a loro proposito: Non sono forse tutti spiriti destinati a servire, inviati in missione per il bene di coloro che ricevono l’eredità della salvezza? (He l,14).

       Per il fatto stesso che li sappiamo inviati, noi scopriremo donde essi vengono. Ma questo significa voler aggiungere un nuovo problema, e stringere il nodo mentre si vuol disfare il ricciolo. Infatti come possono stare continuamente davanti a Dio e contemplare sempre il volto del Padre, se sono inviati per la nostra salvezza in missioni esterne? Ma noi troviamo assai presto la soluzione, se teniamo conto della grande sottigliezza della natura angelica. Mai gli angeli si allontanano esteriormente dalla visione di Dio, sì da essere privati delle gioie della contemplazione interiore. Se in queste missioni essi perdessero la visione del loro Creatore, sarebbero incapaci di rialzare coloro che sono caduti, e annunciare la verità a coloro che la ignorano; non potrebbero minimamente offrire ai ciechi quella sorgente di luce che essi stessi avrebbero perduta allontanandosi.

       La natura angelica differisce attualmente dalla nostra per il fatto che noi siamo circoscritti in un luogo e resi ottusi dalla nostra cieca ignoranza; gli spiriti angelici, invece, pur essendo anch’essi circoscritti per la verità, in un luogo, la loro conoscenza. Cosa possono ignorare di ciò che si deve conoscere, essi si può dire che essi sono ingranditi interiormente ed esteriormente, perché contemplano la sorgente stessa di ogni conoscenza. Cosa possono ignorare di ciò che si deve conoscere essi che conoscono colui che sa tutte le cose? Così, la loro scienza, in paragone con la nostra, è immensa, in paragone con la scienza divina, tuttavia, essa è molto piccola. Analogamente, per il rapporto con i nostri corpi; essi sono puri spiriti, però in raffronto con lo Spirito supremo e senza limite, essi non sono che dei corpi.

       Essi sono dunque inviati, e nel contempo si tengono alla presenza di Dio. Limitati nello spazio, essi vagano. Sempre interiormente alla sua presenza, non se ne allontanano mai. Essi vedono dunque sempre il volto del Padre, e tuttavia vengono verso di noi: vengono a noi con la loro presenza spirituale e nondimeno vigilano con la loro contemplazione interiore nel luogo che avevano lasciato.

       Gregorio Magno, Moralia in Iob, 2, 3


5. La presenza degli angeli

       Quanto a me, non esito affatto a pensare che gli angeli siano presenti anche nella nostra assemblea, in quanto essi vegliano non soltanto su tutta la Chiesa presa nel suo insieme, ma anche su ciascuno di noi. È di essi che parla il Salvatore, quando dice: I loro angeli vedono sempre il volto del Padre mio che è nei cieli (Mt 18,10). Ci sono qui due Chiese: quella degli uomini e quella degli angeli. Se quanto noi diciamo è conforme al pensiero divino e all’intenzione delle Scritture, gli angeli ne godono e pregano per noi. Ed è perché gli angeli sono presenti nelle Chiese, in tutte, o almeno in quelle che lo meritano e che appartengono a Cristo, che è prescritto alle donne, durante la preghiera, di avere un velo sulla testa a causa degli angeli (1Co 11,10). Di quali angeli si tratta? Senza alcun dubbio degli angeli che assistono i santi e si rallegrano nella Chiesa; angeli che noi non vediamo perché il fango del peccato ci copre gli occhi, ma che vedono gli apostoli di Gesù ai quali il Signore dice: In verità, in verità vi dico: voi vedrete i cieli aperti e gli angeli di Dio che salgono e discendono sul Figlio dell’uomo (Jn 1,51).

       Se io avessi la grazia di vederli come gli apostoli e di guardarli come li contemplò Paolo, scorgerei senza dubbio ora la folla di angeli che vedeva Eliseo e che Gihezi, che era al suo fianco, non vedeva affatto. Gihezi aveva paura di essere catturato dai nemici, perché vedeva Eliseo tutto solo. Ma Eliseo, in quanto era profeta del Signore, si mise a pregare e disse: O Signore, apri gli occhi di questo servo in modo che egli veda che ci sono più con noi che con loro (2Re 6,17). E subito, alla preghiera di quel santo, Gihezi vide gli angeli che non vedeva prima.

       Origene, Comment. in Luc., 23, 8-9


6. Gli angeli e il governo della Chiesa

       Se chi intende il senso delle Scritture può parlare con una certa audacia, ebbene dirò che ci sono due vescovi per ogni Chiesa, uno visibile e l’altro invisibile, uno manifesto agli occhi della carne, l’altro all’intelligenza. Come un uomo, se ha eseguito bene il compito affidatogli, è lodato dal Signore, mentre, se si è comportato male, soggiace alla colpa e al vizio, così ciò accade anche all’angelo. Sta scritto infatti nella Apocalisse di Giovanni: Ma tu hai qui poche persone che non hanno sozzure (Ap 3,4); e, poco prima: Tu hai qui chi insegna la dottrina dei Nicolaiti (Ap 2,15), e più avanti: tu ne hai altri che fanno questo o quel peccato. Queste parole mettono in stato di accusa gli angeli ai quali sono state affidate le Chiese.

       Se dunque gli angeli vivono in trepidazione per il governo delle Chiese, occorre forse spendere parole sul timore che gli uomini debbono provare per poter conseguire la salvezza lavorando in collaborazione con gli angeli? Penso sia possibile trovare un angelo e un uomo che siano ugualmente buoni vescovi della Chiesa e che partecipino in qualche modo uniti alla stessa opera. Dato che è così, chiediamo a Dio onnipotente che i vescovi delle Chiese, angeli e uomini, ci vengano in aiuto, e sappiamo che gli uni e gli altri saranno giudicati per quanto avranno fatto per noi. E se, dopo il giudizio, non si troveranno vizi e colpe da addebitare loro, ma solo alla nostra negligenza, saremo noi ad essere accusati e condannati: anche se essi infatti compiono tutto quello che è in loro potere e fanno ogni sforzo possibile per la nostra salvezza, non per questo noi saremo esenti dai peccati. Accade tuttavia frequentemente che, mentre noi ci affatichiamo, essi non compiano il loro dovere e siano in colpa.

       Origene, Comment. in Luc., 13, 5-6




COMUNE DEGLI APOSTOLI E DEGLI EVANGELISTI


La Chiesa, sin dai tempi più antichi, onorava coloro che Gesù stesso ha scelto all’inizio, e invocava il loro soccorso. Le feste in onore degli apostoli compariranno più tardi e gradualmente saranno accolte in tutta la Chiesa. La tradizione ci ha lasciato alcuni particolari riguardanti l’attività di alcuni apostoli; degli altri non abbiamo informazioni. Non conosciamo neppure il giorno della loro «nascita al Cielo» e perciò la commemorazione di un apostolo avviene generalmente nel giorno del trasloco delle sue reliquie. Il culto di alcuni apostoli è diffuso di più rispetto agli altri; alcuni apostoli sono venerati in modo particolare nella Chiesa che era nata dal loro lavoro. La commemorazione dei Santi Pietro e Paolo, apostoli di Roma, risale al III secolo e viene celebrata solennemente in tutta la Chiesa. La commemorazione di san Giovanni apostolo la troviamo già nel IV secolo sia in Oriente che in Occidente. Sant’Andrea apostolo è venerato in modo particolare in Oriente, benché il suo culto sia conosciuto a Roma già nel V secolo. Il culto di Jc il Maggiore si è sviluppato in Europa a partire dal X secolo, dopo la scoperta delle sue reliquie a Compostella in Spagna, dove, attraverso i secoli, giungevano moltissimi pellegrini.

       Accanto agli apostoli stanno gli evangelisti: essi ci hanno tramandato le parole di Cristo, che durano sempre nella Chiesa. Due di loro appartenevano alla cerchia degli apostoli, Marco e Luca invece erano loro molto vicini. Si è sviluppato di più il culto di san Marco, le cui reliquie furono fatte venire da Alessandria a Venezia; san Marco è ancor oggi il patrono di Venezia.

       Gesù, dopo la notte passata in orazione, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli (Lc 6,12). Ne costituì Dodici affinché stessero con lui e anche per mandarli a predicare (Mc 3,14). Hanno ricevuto dal Signore il potere di «legare e di sciogliere» sopra la terra (Mt 18,18). Tra di loro occupa il primo posto Pietro: su di lui, come su una pietra, Cristo edificherà la sua Chiesa e a lui darà le chiavi del regno dei cieli (Mt 16,18). Andando al Padre, Cristo dirà agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). Gli apostoli hanno adempiuto la disposizione di Cristo; sono andati fino ai confini della terra annunziando la salvezza del Signore. La Chiesa primitiva era consapevole di essere costruita sul fondamento degli apostoli. San Paolo scrisse agli Efesini: «Siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti» (Ep 2,19).

       Le mura della nuova Gerusalemme, contemplate nella visione di Giovanni hanno «dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello» (Ap 21,14). La Chiesa di tutti i secoli era consapevole di provenire dagli apostoli e questa consapevolezza c’è l’ha anche la Chiesa di oggi. Essa loda Dio perché non abbandona il suo ovile ma attraverso gli apostoli l’ha sempre nella sua protezione: i vescovi sono i successori degli apostoli, e il papa, vescovo di Roma, è il successore di san Pietro.

       La Chiesa fondata sugli apostoli vive continuamente di nuovo la sua missione nel mondo, assume il grande impegno missionario, si sente tenuta a predicare la Parola, sa che deve incessantemente realizzare «l’andate» pronunciato da Cristo. La Chiesa costruita sul fondamento degli apostoli si sente responsabile della purezza della dottrina. Gli uomini, diverse volte nella storia, «non sopportavano la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, si circondavano di maestri secondo le proprie voglie», rifiutando di dare ascolto alla verità. La Chiesa, in questi casi, si richiama all’insegnamento degli apostoli, indica gli errori, rimprovera ed insegna.

       Celebrare la commemorazione degli apostoli vuol dire prendere coscienza della propria appartenenza alla Chiesa costruita da loro, approfondire l’intelligenza della propria fede, ascoltare la voce di coloro che oggi esercitano l’ufficio apostolico nella Chiesa, condividere la propria fede con gli altri.

       Nella festa degli apostoli bisogna pregare, affinché la Parola di Dio sia annunziata dappertutto e che la Chiesa di Cristo cresca nell’amore e nell’unità.

       Esulti sempre, Signore, la tua Chiesa
       radunata nella memoria gloriosa dei santi apostoli,
       e fedele alla dottrina e all’esempio dei suoi primi pastori,
       proceda sicura sotto la loro guida e protezione.

       Missale Romanum: Missae Votivae, De omn. Sanct. Apostolis, Coll.


1. La Chiesa ha ricevuto il Vangelo dagli apostoli

       In effetti, il Signore di tutte le cose ha conferito agli apostoli il potere di annunciare il Vangelo (Mt 28,18-19), ed è per loro tramite che abbiamo conosciuto la verità, cioè l’insegnamento del Figlio di Dio. È a loro, del pari, che il Signore ha detto: Chi ascolta voi, ascolta me, e chi disprezza voi, disprezza me e colui che mi ha mandato (Lc 10,16). In realtà, non è attraverso altri che abbiamo conosciuto l’«economia» della salvezza, bensì ad opera di coloro per i quali il Vangelo ci è pervenuto. Quel Vangelo, essi lo hanno anzitutto predicato; poi, per volere di Dio, ce lo hanno trasmesso attraverso le Scritture, perché fosse fondamento e colonna (1Tm 3,15) della nostra fede.

       Non è lecito dire, infatti, che essi hanno predicato prima di aver ricevuto una conoscenza perfetta, come alcuni osano affermare, che si gloriano di correggere gli apostoli. Difatti, dopo che nostro Signore fu risuscitato dai morti e gli apostoli, con la venuta dello Spirito Santo (Ac 1,8), furono rivestiti di forza dall’alto (Lc 24,49), essi ebbero la piena certezza su tutto e il possesso della perfetta conoscenza; ed è allora che se ne andarono fino alle estremità della terra (Ps 18,5 Rm 10,18 Ac 1,8), proclamando la buona novella dei beni che ci provengono da Dio (Is 52,7 Rm 10,15) e annunciando agli uomini la pace celeste (Lc 2,13-14): essi possedevano, tutti insieme e ciascuno per suo conto, il «Vangelo di Dio» (Rm 1,1 Rm 15,16 2Co 11,7 1Th 2,2 1Th 2,8 1Th 2,9 1P 4,17).

       Così Matteo pubblicò tra gli Ebrei, nella loro lingua, una forma scritta di Vangelo, nel momento in cui Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e vi fondavano la Chiesa. Dopo la morte di questi ultimi, Marco, discepolo e interprete di Pietro, ci ha anch’egli trasmesso per iscritto ciò che Pietro predicava. Dal canto suo, Luca, compagno di Paolo, affidò ad un libro il Vangelo che questi predicava (Ga 2,2 1Th 2,9). Poi Giovanni, discepolo del Signore, quegli stesso che aveva posato la testa sul suo petto (cf. Jn 13,23 Jn 21,10), pubblicò del pari il Vangelo, durante il suo soggiorno ad Efeso, in Asia.

       E tutti costoro ci hanno trasmesso il seguente insegnamento: un solo Dio, Creatore del cielo e della terra, che fu predicato dalla Legge e dai Profeti, e un solo Cristo, Figlio di Dio. Per cui, se qualcuno rifiuta loro il proprio assenso, disprezza coloro che hanno avuto parte con il Signore (He 3,14), disprezza inoltre lo stesso Signore, e disprezza infine il Padre (Lc 10,16); si condanna da solo (Tt 3,11), perché resiste (2Tm 2,25) e si oppone alla propria salvezza - il che fanno precisamente tutti gli eretici.

       Tale essendo la forza di queste prove, non occorre allora cercare presso altri la verità che è facile ricevere dalla Chiesa, poiché gli apostoli, come fosse una ricca cantina, hanno ammassato in lei, nella maniera più completa, tutto ciò che si riferisce alla verità, affinché chiunque lo voglia vi possa attingere la bevanda della vita (Ap 22,17). È lei, in effetti, che costituisce l’accesso alla vita; tutti gli altri sono dei ladri e dei briganti (Jn 10,8 Jn 1,9). Ecco perché occorre ricusarli, ed amare invece con uno zelo estremo ciò che è della Chiesa e impadronirsi della Tradizione della verità. Come questo? Se sorgesse una controversia su qualche questione di importanza minima, non si dovrebbe allora richiedere l’aiuto delle Chiese più antiche, quelle in cui gli apostoli hanno vissuto, per ricevere da esse la dottrina esatta sulla questione in discussione? E anche supponendo che gli apostoli non ci avessero lasciato le Scritture, non si dovrebbe allora seguire l’ordine della Tradizione che essi hanno tramandato a coloro ai quali hanno affidato la Chiesa?

       Ireneo di Lione, Adv. Haer., III, 1, 1. 4


2. L’ordine dei Vangeli e il Vangelo di Marco

       Ora parliamo degli scritti, che incontestabilmente appartengono a Giovanni l’Apostolo.

       In primo luogo si deve riconoscere come autentico il suo Vangelo, notissimo a tutte le Chiese che sono sotto il cielo. A ragione gli antichi gli hanno assegnato il quarto posto fra gli Evangeli, ed eccone il motivo.

       Quegli uomini ispirati e veramente degni di Dio che furono gli Apostoli di Cristo, erano d’una squisita purezza di vita, e avevano l’anima adorna di ogni più bella virtù, ma nel parlare erano incolti e rudi (Ac 4,13 2Co 11,6). Fidando solo nella divina virtù taumaturgica concessa loro dal Salvatore, non sapevano né pretendevano esporre gl’insegnamenti del Maestro con l’arte persuasiva dell’eloquenza; per questo, mentre annunziavano al mondo intero il messaggio del regno celeste mediante la manifestazione dello Spirito Santo che li assisteva, mediante la potenza di Cristo che per mezzo di essi agiva e compiva prodigi (1Co 2,4), si davano ben poca cura di scrivere libri.

       Erano assorbiti nel loro ministero sovrumano e sublime. Basti dire che Paolo stesso, che era il più destro nell’abilità della parola e nella facoltà intellettiva, non ci ha lasciato in iscritto che brevissime lettere. E dire che poteva narrarci senza fine cose di ineffabile grandezza, avendo contemplato le meraviglie persino del terzo cielo, quando fu rapito nel Paradiso di Dio, dove meritò di ascoltare parole incantevoli (2Co 12,2-4).

       Così pure quei che frequentavano il Salvatore, parlo dei dodici Apostoli, dei settanta Discepoli e degli altri che non è possibile numerare, erano tutt’altro che ignari dei fatti evangelici; tuttavia solamente Matteo e Giovanni fra tutti ci han lasciato le memorie della vita del Signore, e, stando a quanto ci dice la tradizione, si decisero a scriverle perché spinti dalla necessità.

       Matteo, infatti, che predicò dapprima agli Ebrei, donò ad essi il suo Vangelo, composto nell’idioma patrio, quando fu in procinto di recarsi in altri paesi, e con quello supplì alla sua presenza personale presso coloro che lasciava.

       Si dice che mentre Marco e Luca avevano già pubblicato i loro Vangeli, Giovanni invece continuava ad annunziare a voce la parola di Dio, e si decise a scrivere da ultimo; ed ecco per quale motivo. I tre primi Vangeli s’erano diffusi in tutta la cristianità, quando capitarono anche in mano a Giovanni. Egli li approvò; dichiarò che contenevano la pura verità, ma osservò che ci mancava la narrazione di quanto Gesù fece ai primordi [della sua vita pubblica], all’inizio della Sua predicazione.

       Ed è verissimo. È poi facile costatare che i tre primi Evangelisti descrissero le azioni del Salvatore posteriori all’arresto e all’incarceramento di Giovanni Battista abbracciando lo spazio di un anno, e lo affermano essi stessi all’inizio della loro narrazione.

       Difatti Matteo, dopo avere parlato del digiuno di quaranta giorni e della tentazione che ne seguì, precisa il tempo della sua storia dicendo: Udito che Giovanni era stato incarcerato, si ritirò dalla Giudea nella Galilea (Mt 4,12).

       Mc dice lo stesso: Dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù venne nella Galilea (Mc 1,14). Anche Luca, prima d’incominciare a narrare le gesta di Cristo, fa su per giù la stessa osservazione dicendo che Erode, agli altri mali che aveva commessi, aggiunse pur questo: che rinchiuse Giovanni in prigione (Lc 3,19-20).

       Perciò si dice che l’Apostolo Giovanni, dietro preghiera di terzi, illustrò nel suo Vangelo il periodo passato sotto silenzio dai tre Evangelisti precedenti e le opere compiute dal Salvatore in questo tempo, prima, cioè, dell’imprigionamento di Giovanni Battista; e lo dichiara da sé quando dice: Così Gesù diede principio ai miracoli (Jn 2,11), e quando sospeso il racconto delle azioni di Gesù, ci avverte che Giovanni Battista battezzava ancora in Enon vicino a Salim. L’intento di Giovanni appare chiaro e lampante anche da queste altre sue parole: Giovanni ancora non era stato gettato in prigione (Jn 3,23-24).

       Jn quindi, nel suo Vangelo ci descrive quel che Gesù fece prima che il Battista venisse incarcerato, mentre gli altri Evangelisti ci riferiscono ciò che operò dopo l’arresto e l’imprigionamento di lui.

       Chi pone mente a questa differenza, non può pensare a un disaccordo tra i Vangeli, poiché quello di Giovanni espone le opere iniziali dell’attività di Cristo, gli altri, invece, rilevano gli avvenimenti dell’ultima parte della Sua vita. Con tutta ragione, dunque, Giovanni tacque la genealogia di Cristo secondo la carne già descritta prima da Matteo e da Luca, ed esordisce mettendo subito in rilievo la Sua divinità; e quest’onore gli era stato riservato dallo Spirito Santo, perché ne era il più degno...

       Lc poi, nel prologo mette in luce la ragione che lo ha determinato a dar mano a quella sua opera: ivi ci fa sapere che molti s’erano accinti a narrare con temeraria leggerezza le cose che egli ha esaminato a fondo. Era necessario liberarsi da quell’incertezza di opinioni; e, mediante il suo Vangelo, ci ha trasmesso la narrazione sicura degli avvenimenti di cui poté egli stesso cogliere la verità con certezza per la convivenza e consuetudine che ebbe con Paolo e per le conversazioni con gli altri Apostoli.

       Questo è quanto si aveva da dire intorno ai Vangeli...

       La Luce della Religione rifulgeva con sì affascinante splendore nelle menti di coloro che udivano Pietro, che essi non si appagarono d’avere inteso solamente l’esposizione orale di questa predicazione divina e, con ripetute istanze pregarono Marco, l’autore del Vangelo e seguace di Pietro, a lasciar loro in iscritto un memoriale di quell’insegnamento impartito a viva voce; e non desistettero sino a tanto che non lo compose: così essi furono la causa della redazione del Vangelo secondo Marco.

       Dicono che Pietro conobbe il fatto per rivelazione dello Spirito Santo e, rallegratosi per lo zelo di quella gente, ratificò lo scritto da leggersi nelle chiese. Clemente ci dà queste notizie nel libro sesto delle sue Ipotiposi e con lui s’accorda Papia, vescovo di Gerapoli. Pietro accenna a Marco nella sua prima lettera, che si dice da lui composta a Roma e l’indica lui stesso chiamando l’Urbe metaforicamente Babilonia: Vi saluta la Chiesa che c’è in Babilonia e Marco mio figliuolo (1P 5,13).

       Si riferisce che questo Marco, inviato nell’Egitto, fu il primo a predicarvi il Vangelo da lui composto, e che fondò delle chiese dapprima in Alessandria.

       Eusebio di Cesarea, Hist. eccl., III, 24, 1-13. 15 s.; II, 15-16. 1


3. Bibbia e tradizione

       Dopo che uno di loro cadde, egli, nel salire al Padre dopo la risurrezione, intimò agli altri undici di andare e ammaestrare le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

       Orbene, gli apostoli (che significa «inviati») subito dopo aver rimpiazzato Giuda con Mattia, eletto a sorte come dodicesimo tra loro, sull’autorità della profezia contenuta nel salmo davidico (Ps 108,8 Ac 1,20) e dopo aver ricevuta la promessa potenza di miracoli e d’eloquio da parte dello Spirito Santo, sul principio affermarono la fede in Gesù Cristo e stabilirono Chiese per la Giudea, e subito dopo, sparsi per il mondo, annunziarono la medesima dottrina e una medesima fede alle nazioni e quindi fondarono Chiese presso ogni città. Da queste poi le altre Chiese derivarono la propaggine della loro fede e la semenza della dottrina, e tutt’ora la derivano per esser appunto Chiese. In questa maniera anche esse son ritenute apostoliche, come discendenza delle Chiese degli apostoli.

       Ogni famiglia deve necessariamente valutarsi dalla sua origine.

       Pertanto, le Chiese sono molte e grandi, ma unica è la Chiesa prima degli apostoli, e da essa tutte derivano. Sì che tutte sono la prima Chiesa, tutte apostoliche, in quanto che insieme tutte provano questa unità, avendo esse la comunione della pace, il nome della fratellanza e il distintivo dell’ospitalità.

       E questi titoli non si fondano su altra legge che sull’unica tradizione del medesimo sacro deposito.

       Da questi titoli moviamo la prescrizione: se il Signore Gesù Cristo mandò gli apostoli a predicare, è evidente che non si debbano accogliere altri predicatori all’infuori di quelli da lui istituiti. E questo perché nessun altro conosce il Padre all’infuori del Figlio e di quelli a cui lo rivelò il Figlio (Mt 11,27). Ma si sa che il Figlio non lo rivelò ad altri che agli apostoli, da lui inviati a predicare: a predicare, s’intende, quanto da lui era stato rivelato.

       Che cosa essi predicassero, vale a dire che cosa Cristo avesse loro rivelato, anche questo, in forza della prescrizione, non si può provare se non mediante quelle medesime Chiese, che gli apostoli fondarono predicando loro a viva voce e, più tardi, per iscritto.

       Se la cosa sta così, ne consegue che si debba considerar vera solo quella dottrina la quale concordi con la dottrina delle Chiese apostoliche, madri e sorgenti della fede; perché senza dubbio essa comprende l’insegnamento che le Chiese ricevettero dagli apostoli, gli apostoli da Cristo e Cristo da Dio; e ne consegue che ogni altra dottrina sia da giudicarsi a priori falsa, perché impregnata d’uno spirito avverso alla verità delle Chiese degli apostoli, di Cristo e di Dio.

       Non resta quindi se non da dimostrare che la nostra dottrina il cui canone è stato sopra riferito, risalga, in forza della tradizione, agli apostoli e che, per la stessa ragione, le altre risalgano a una menzogna.

       Noi siamo in comunione con le Chiese apostoliche, perché non abbiamo una dottrina diversa: e questa è la prova della verità.

       Tertulliano, De praescript. haeretic., 3, 20-21


4. Fiducia nella semplicità degli evangelisti

       Noi ci fidiamo della sincerità di coloro che composero i Vangeli, perché ne indoviniamo la pietà e la conoscenza dei fatti che si rivelano dai loro scritti, mentre non vi si trova traccia di alterazione, di inganno, di invenzione o sofisticazione. Il loro animo non aveva imparato ciò che insegna la scaltra arte sofistica dei Greci, con la sua forza persuasiva e le sue sottigliezze, né l’oratoria che fa mostra di sé nei tribunali; siamo persuasi perciò che non erano in grado di escogitare gli argomenti capaci per se stessi di produrre la fede e la vita conforme alla fede. Io credo poi che Gesù proprio per questo motivo volle che tali uomini fossero i maestri della sua dottrina, perché ciò non vi fosse spazio per il sospetto di abilità sofistica nel persuadere e perché fosse chiaro, per chi ha intelligenza, che la sincerità dei sacri scrittori - unita, per dir così, a tanta semplicità - fu avvalorata da una forza divina che otteneva molto di più di quanto sembra possano ottenere la ricchezza nel parlare, la struttura del discorso, la fedeltà alle divisioni e alle regole dell’arte greca.

       Origene, Contra Celsum, 3, 39


5. Gli apostoli testimoni del Risorto

       I primi beati apostoli, pastori del santo gregge, videro lo stesso Signore Gesù pendente [dalla croce] provarono dolore nel vederlo morire, si spaventarono osservandolo risorto, lo amarono potente, ed effusero il proprio sangue per quello di cui essi furono testimoni.

       Pensate, fratelli, quale cosa grande fu che degli uomini fossero mandati per tutta la terra, a predicare che un uomo morto era risorto, e che era salito al cielo; e che per questa predicazione sopportarono tutti quei tormenti che il mondo folle scatenò contro di loro, i danni, gli esilii, le catene, i tormenti, le fiamme, le belve, le croci, le morti.

       Io non so questo per chi? Forse che, infatti, fratelli miei, Pietro moriva per la sua gloria, oppure predicava se stesso? L’Uno moriva affinché l’altro fosse onorato; l’uno veniva ucciso affinché l’altro venisse onorato.
       Forse non avrebbe fatto questo, se non per l’ardore della carità, e per la consapevolezza della verità?
       Avevano visto ciò che vedevano: infatti, quando morivano per quella causa, che essi non avevano visto?
       Ciò che avevano visto non dovevano negare. E non negarono: predicavano un Morto che essi sapevano vivo.
       Sapevano per quale vita disprezzavano la vita: sapevano per quale felicità sopportavano la infelicità passeggera, e per quali premi disprezzavano gli stessi danni.
       La loro fede non sarebbe misurata con tutto il mondo. Avevano ascoltato: Che cosa giova all’uomo, qualora guadagni tutto il mondo, se poi la sua anima ne soffra danno? (Mt 16,26).
       Non ritardo quelli che si affrettano (a seguire) le attrattive del mondo, quelli che si allontanano dalle cose effimere, quantunque e in qualsiasi modo la splendida felicità [di questa terra] sia da abbandonarsi, non trasferibile all’altra vita, allorquando la debbano lasciare gli uomini viventi.

       Agostino, Sermo 311, 2


6. L’identità degli apostoli e il Vangelo

       Sta di fatto che essi scrivevano tenendosi in disparte dal mondo e non nascondevano nessuna delle verità che scrivevano. Al contrario, essi giravano da ogni parte, per terra e per mare, parlando a tutti; leggevano allora, come noi leggiamo oggi, questi libri al cospetto dei loro nemici. Ebbene, nessuno si è mai scandalizzato della loro dottrina. Ed a ragione si è verificato questo, dato che la forza e la virtù di Dio stesso li accompagnava e faceva far loro tutto quanto compivano. Se non fosse stato così, come avrebbero potuto un pubblicano, un pescatore e altri uomini illetterati annunziare verità così elevate?

       Essi parlavano e scrivevano, con meravigliosa sicurezza e con forza persuasiva, di misteri di cui gli antichi filosofi non erano riusciti neppure a formarsi la più piccola idea: e hanno chiarito questi misteri non soltanto durante la loro vita, ma anche dopo la loro morte e non a due o a venti persone e neppure a cento o a mille o a diecimila, ma a città, a popoli, a stirpi intere, ai Greci e ai barbari, sul mare e sulla terra, nei centri abitati, come all’interno dei deserti. Non solo, ma essi annunziavano realtà che superano del tutto la natura umana. Allontanandosi dalle cose terrestri, parlavano soltanto di cose di cielo, riportando a noi un’altra vita e un altro modo di vivere. Essi annunziavano, sì, una ricchezza e una povertà, una libertà e una servitù, una vita e una morte, un mondo e una società: ma tutte queste realtà erano cambiate, rinnovate...

       Il Vangelo, al contrario, è stato annunziato da pescatori, perseguitati, flagellati, esposti a ogni pericolo: eppure è stato accolto con il massimo rispetto sia dai sapienti come dagli ignoranti, dagli uomini liberi come dagli schiavi, dai soldati e dai principi, dai Greci come dai popoli barbari...

       I capi di questa santa istituzione sono pescatori, pubblicani, fabbricanti di tende, che non sono vissuti soltanto un limitato numero di anni, ma che vivono in eterno e possono, anche dopo la loro morte, aiutare ancora moltissimo i loro discepoli. In questa società non si fa guerra contro gli uomini, ma contro i demoni e le potenze incorporee; perciò essa non ha come condottiero, in questa invisibile battaglia, un uomo o un angelo, ma Dio stesso, e le armi di questi soldati si adattano alla natura di tale guerra: esse non sono fatte né di cuoio né di ferro, ma di verità, di fede, di giustizia e di ogni sapienza.

       Dato, dunque, che il libro che ci accingiamo a spiegare tratta di questo nuovo modo di vivere, ascoltiamo con diligenza Matteo, che ne parla con estrema chiarezza o, meglio, ascoltiamo Gesù Cristo, che ne è il legislatore e che parla egli stesso per la bocca del suo evangelista. Accostiamoci a lui, in modo da poter essere un giorno nel novero dei cittadini di questa nuova società, di coloro che sono divenuti illustri seguendone le leggi e che hanno perciò ricevuto una immortale corona. Molti credono che questo libro sia di facile comprensione e che soltanto i profeti siano difficili da comprendere. Chi pensa così non conosce abbastanza le profondità dei misteri contenuti nel Vangelo. E per questo io vi scongiuro di seguirmi con molto impegno e attenzione, in modo da poter entrare insieme in questo vasto mare degli scritti evangelici, seguendo Gesù Cristo che ci servirà da guida...

       Voi procurate di erudirvi nella storia del mondo, cercando di conoscerne il presente e il passato. Voi vi ricordate dei re ai cui ordini avete portato le armi, degli organizzatori dei giochi pubblici, di coloro che hanno vinto i premi e di altre cose che non vi sono di alcuna utilità, mentre non mettete la minima cura nel considerare chi è il capo di questa città celeste, chi sono coloro che stanno in essa al primo, al secondo e al terzo posto nel sapere in quanto tempo se lo sono conquistato, come ciascuno ha combattuto e per quali azioni si è segnalato. Non solo, ma non vi date neppure la pena di stare a sentire chi vi parla delle leggi di questa città celeste. Ebbene, dopo tutto questo, oserete ancora sperare di gioire un giorno nel possesso di questi beni promessi, mentre oggi non vi degnate nemmeno di stare a sentir coloro che ve ne parlano?

       Facciamo, dunque, almeno oggi, cari fratelli, quanto prima abbiamo trascurato di fare. Se Dio ci consente la speranza di entrare un giorno in questa città tutta d’oro, e che in realtà è infinitamente più preziosa dell’oro, cerchiamo di apprendere ora quali sono le sue fondamenta, quali sono le sue porte fatte di perle e di diamanti.

       Noi abbiamo in Matteo una eccellente guida: entriamo perciò, ora, dalla porta che egli ci apre. E raddoppiamo la nostra attenzione nel timore che egli, accorgendosi che qualcuno lo ascolta con negligenza, lo bandisca da questa città celeste. Questa città, infatti, è veramente regale e magnifica: non ha niente in comune con le città terrene, non è divisa in piazza e reggia. Essa è tutta il palazzo del suo re. Ebbene, apriamo le porte delle nostre anime, apriamo le orecchie dei nostri cuori e, mentre ne varchiamo le soglie, adoriamo con rispettoso timore il re che in essa regna. Chi desidera contemplarlo, può al primo contatto essere colto dallo spavento, perché le sue porte in questo momento sono ancora chiuse per noi: ma quando le vedremo aperte, cioè quando avremo dato la soluzione degli interrogativi che ci siamo proposti, vedremo allora il grande splendore che dentro vi rifulge. Questo pubblicano vi condurrà lassù con gli occhi dello spirito e - come promette - vi farà vedere tutto. Egli vi mostrerà dov’è il trono del re, chi sono i soldati che lo circondano, dove sono gli angeli e gli arcangeli, qual è il luogo destinato ai nuovi cittadini della città e quale è la strada che vi conduce, quali onori spettano a chi occupa il primo, il secondo o il terzo posto, come vi siano diverse dignità e vari ordini tra gli abitanti di quella città. Perciò noi non vi entriamo tumultuosamente o facendo chiasso, ma con rispetto e in silenzio degni di questi grandi misteri. Se si osserva un silenzio profondo quando si debbono leggere le lettere del re in un’assemblea pubblica, tanto più voi tutti dovrete far silenzio e stare in piedi con l’anima e la mente attente ora che si sta per leggere, non le ordinanze di un principe qualunque, ma la rivelazione del re degli angeli. Se noi ci comportiamo così, lo Spirito stesso ci condurrà, con la sua grazia, fino al trono del re, per godervi beni senza fine, per la grazia e la misericordia di Gesù Cristo, nostro Signore.

       Crisostomo Giovanni, In Matth., 1, 4. 6. 8




COMUNE DEI MARTIRI


Dopo il martirio subito dal vescovo di Smirne, Policarpo (+ 155), la comunità locale si raduna ogni anno presso la tomba del loro pastore per celebrare l’anniversario della sua morte. Questa la più antica testimonianza del culto dei martiri in Oriente Testimonianze del genere sono reperibili in Roma al tempo delle cruente persecuzioni che scoppiarono nel III secolo. I papi Callisto (+ 222) e Sisto (+ 258) danno la vita per la fede e la venerazione che li circonda da parte della comunità esercita l’influsso positivo nell’incrementare il culto dei martiri a Roma. Nel giorno della «nascita al Cielo» di un martire, presso la sua tomba si raduna la comunità e vi celebra l’Eucaristia; così si manifesta il culto. È il giorno solenne per una data comunità locale. Con la libertà acquistata dalla Chiesa, il culto dei martiri si sviluppa moltissimo. Le tombe dei martiri vengono messe in rilievo, vi si pongono delle iscrizioni e spesso vi s’innalzano delle basiliche. Nelle orazioni della Chiesa compare la preghiera per l’intercessione di coloro che soffrirono per il Signore; molte volte, il culto di una Chiesa locale si diffonde nelle Chiese vicine o addirittura nelle province.

       Prima in Oriente, poi anche a Roma si accoglie l’usanza di traslocare le reliquie dei santi martiri nei templi in costruzione e così sorgono i nuovi luoghi del culto. Spesso, il giorno del trasloco delle reliquie si identificava col giorno «della nascita al cielo», particolarmente quando quest’ultimo non era noto. Più tardi, diverse Chiese e città si scambiano le reliquie e perciò il culto di tanti martiri, una volta limitato alla Chiesa locale, si diffonde in tutto il mondo.

       Preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suoi fedeli (Ps 115), così il Salmista esprime il punto di vista del Vecchio Testamento riguardo alla morte per la fede. Cristo dirà: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Jn 15,13). San Paolo scriverà: «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?» (Rm 8,35). Dare la vita per Cristo vuol dire diventare suo testimone nel significato più profondo di questa parola, vivere nel modo più pieno la partecipazione al mistero pasquale del Redentore, offrire la propria vita volontariamente in sacrificio.

       Deve esserci una grande fede ed un grande amore per spingere a ciò. La fede e l’amore così grandi non sono opera dello spirito e dello sforzo umano. Lo Spirito Santo, Spirito di Coraggio e di Fortezza, pervade l’uomo e gli permette di elevarsi fino a questo punto. Colui che muore per Cristo viene talmente riempito dallo Spirito del Signore che diventa veramente uomo «spirituale». Tutta la sua vita precedente doveva essere una grande apertura a Dio, una continua disponibilità a compiere la sua volontà. Lo Spirito Santo ancora prima del «giorno della nascita al cielo» ha reso l’uomo un continuo dono, offerta viva al Padre in Cristo.

       Venerando i martiri, la Chiesa ci presenta degli esempi da imitare: la costanza nella fede, la perseveranza nel professare il nome del Signore, la totale adesione a Cristo, la vittoria nel momento della prova, la resistenza alla tentazione di andarsene, la carità senza limiti, la fermezza fino alla fine. La Chiesa implora Dio, per i meriti dei martiri, di concedere i doni sopra elencati a coloro che sono ancora per via verso la patria celeste. La Chiesa crede che il sacrificio dei martiri porti frutto: fa nascere nuovi seguaci del Signore, e coloro che già credono li introduce nella più profonda conoscenza del mistero di Cristo.

       Dio, al cui cospetto è preziosa la morte dei santi,
       concedi che conferisca a noi una vita fedele
       ciò che procurò ad essi una morte devota.

       Missale Gothicum, ed. L.C. Mohlberg, Roma 1961, n. 458


1. Lode del martirio

       Cosa mai di più glorioso, cosa mai di più felice può toccare a un uomo, dalla divina degnazione, che confessare intrepido il Signore Iddio tra gli stessi carnefici? Che professare fedeltà a Cristo, Figlio di Dio con lo spirito libero, anche se sul punto di andarsene, tra i tormenti vari e ricercati della crudele potestà secolare, col corpo slogato, tribolato e scarnificato? Che abbandonare il mondo e dirigersi verso il cielo, che lasciare gli uomini e abitare tra gli angeli, che rompere tutti i legami del mondo e stare ormai libero al cospetto di Dio, che possedere ormai senza dubbio alcuno il regno dei cieli? Che essere divenuto socio di Cristo nella passione per il nome di Cristo, che essersi reso, per divina degnazione, giudice dei propri giudici, che aver mantenuto la coscienza immacolata nella professione del nome cristiano che aver rifiutato obbedienza a leggi umane, sacrileghe e contrarie alla fede, che aver attestato a gran voce, in pubblico, la verità, che aver sottomesso, morendo, la morte stessa da tutti temuta, che aver con essa acquistato l’immortalità? Che aver superato i tormenti con gli stessi tormenti, cioè tribolati e lacerati da tutti gli strumenti di tortura, che aver resistito con la forza dell’animo a tutti i dolori del corpo dilaniato, che non essersi terrorizzati vedendo scorrere il proprio sangue, che aver sentito amore, dopo la confessione di fede, per i propri supplizi, che aver considerato ormai detrimento della vita lo stesso sopravvivere?

       A questa battaglia quasi con la tromba del suo Vangelo ci eccita il Signore dicendo: Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me, e chi ama l’anima sua più di me non è degno di me, e chi non prende la sua croce e mi segue non è degno di me (Mt 10,37s); e ancora: Beati coloro che sopporteranno persecuzione per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati siete voi quando gli uomini vi avranno perseguitato e vi avranno odiato. Godete ed esultate. In questo modo infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi (Mt 5,10ss). E: Starete di fronte ai re e ai presidi, e il fratello consegnerà a morte il fratello, e il padre il figlio, e chi avrà perseverato sino alla fine, costui sarà salvo (Mt 10,8 21s ). E: A chi vincerà concederò di sedere sopra il mio trono, come io ho vinto e siedo sopra il trono del Padre mio (Ap 3,21). Ma anche l’Apostolo: Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Il tormento, o l’angustia, o la persecuzione, o la fame, o la nudità, o il pericolo, o la spada? Sta scritto infatti: Per te veniamo uccisi tutto il giorno, siamo considerati pecore da macello, ma tutto ciò noi superiamo per colui che ci ha amato (Rm 8,35ss).

       Cipriano di Cartagine, Epist. 31, 1


2. I martiri sono testimoni della verità

       Nel salmo abbiamo detto al nostro Signore Dio: È preziosa innanzi al Signore la morte dei suoi fedeli (Ps 115,15). È preziosa la morte dei santi martiri; perché il loro valore è il sangue del loro Signore. Lui volle la sua passione, in grazia di quelli che, dopo di lui, avrebbero avuta la loro. Lui andò avanti e tanti lo seguirono. La via era molto aspra, ma divenne dolce, perché lui andò innanzi a tutti. Gli altri non ebbero paura di percorrerla, perché l’aveva già percorsa lui. Quando morì, i discepoli ebbero paura; ma risuscitò e portò via ogni paura e li riempì d’amore. Vedete la grazia di Dio proprio nell’atto del seguirlo. Un ladro credette in lui, proprio nel momento in cui i discepoli ebbero paura. Ma quel ladro stava in croce con lui e perciò poté credere fino al punto da dirgli: Signore, ricordati di me quando sarai nel tuo regno (Lc 23,42). Chi lo illuminò in quel momento, se non colui che pendeva al suo fianco? Sembrava che gli stesse crocifisso a fianco, ma in realtà gli stava già nel cuore.

       In questo salmo in cui abbiamo detto: È preziosa innanzi al Signore la morte dei suoi fedeli, troviamo anche scritto: Ho detto con sgomento: Ogni uomo è inganno (Ps 115,11).

       Che diciamo, fratelli? Ogni uomo è inganno? Allora anche i martiri sono stati bugiardi. E se diciamo che i martiri son veritieri, come può esser vera la Scrittura, quando afferma che tutti gli uomini sono bugiardi? Se son veritieri i martiri è bugiarda la Scrittura; e se è veritiera la Scrittura, i martiri son bugiardi. Come possiamo mettere insieme la veracità della Scrittura e la veracità dei martiri? Forse i martiri non son da dire uomini? Perché, se sono uomini, come può essere vero che tutti gli uomini sian bugiardi? Che faremo? Cercheremo di farvi vedere che la Scrittura dice giusto, quando afferma che ogni uomo è bugiardo, e che i martiri son veritieri, perché son morti per la verità. Per questo son chiamati martiri, perché hanno accettato di morire per rendere testimonianza alla verità. Martire è parola greca e in latino vuol dire testimone. Se furono testimoni veraci, dissero la verità; e furono coronati, perché dissero la verità. Se furono testimoni falsi, il che è assurdo, non ebbero una corona, ma una condanna perché sta scritto: Non resterà impunito il testimone falso (Pr 19,5). Vediamone allora la veracità. Vollero morire per la verità. Ma come si può accordar questo con la Scrittura che dice che ogni uomo è bugiardo? Preghiamo il Signore Gesù Cristo ed egli ci risolverà il problema. A che cosa si rivolgerà per risolverlo? Si rivolgerà al Vangelo, del quale stavamo parlando.

       I martiri son veraci, perché in essi parlava lo Spirito di Dio. Avete sentito, infatti, durante la lettura del Vangelo, che Gesù diceva ai martiri: Non vi preoccupate, quando vi consegneranno ai carnefici, di quello che dovrete pensare o dire, in quel momento vi sarà dato tutto quello che dovrete dire. Non siete voi infatti, che parlate, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi (Mt 10,19-20). Poiché se parlate voi, dite bugie: infatti, ogni uomo è inganno. Il Signore sapeva che ogni uomo è inganno e diede ai martiri il suo Spirito, perché non fossero loro a parlare, ma il suo Spirito; così non sarebbero stati un inganno, ma la verità. Ecco perché furono veritieri, perché non erano essi che parlavano, ma lo Spirito del Signore. E anche ora, ciò che vi diciamo se lo diciamo da noi, diciamo bugie. Se però quello che vi diciamo è Spirito di Dio, è una verità. Imparate anche voi. Non parlate da voi stessi, se volete dire la verità. Dite quello che dice lo Spirito del Padre, per non essere uomini d’inganno ma autentici figli di Dio.

       Agostino, Sermo 328, 1-3


3. Esortazione ai martiri

       Prima di tutto, benedetti, non contristate lo Spirito Santo (Ep 4,30), che è entrato con voi in carcere. Se, infatti, egli non fosse entrato con voi, neanche voi sareste stati lì oggi. Perciò impegnatevi a farlo restare con voi, perché di là vi conduca dal Signore...

       Tutte le altre pastoie dell’animo, compresi i vostri congiunti, vi accompagnino fino alla porta del carcere. Lì venite separati dalla vita quanto più dai pericoli profani. E non vi rattristi questo venire separati dai pericoli profani. Se, infatti, ci rendiamo conto che questo mondo profano è esso stesso piuttosto un carcere, ci sarà facile comprendere che voi siete usciti dal carcere, più che entrarvi. Il mondo profano ha maggiori tenebre, che accecano i cuori degli uomini; mette più pesanti catene, che stringono le anime degli uomini, spira peggiori immondizie, che formano la concupiscenza degli uomini. Questo mondo profano poi ha un maggior numero di delinquenti, o meglio tutto il genere umano. E questo dovrà affrontare non il giudizio di un proconsole, ma di Dio. Perciò, o benedetti, consideratevi, semmai, trasferiti da un carcere in una custodia. Vi son delle tenebre, ma voi stessi siete luce; vi son delle catene, ma siete sciolti per Dio. C’è un cattivo odore, ma voi siete odore di soavità. Dovete essere giudicati da un giudice, ma un giorno voi giudicherete i giudici...

       Il carcere è per un cristiano ciò che era la solitudine per i profeti. Lo stesso Signore Gesù Cristo spesso si ritirava nella solitudine, per pregare più liberamente, per allontanarsi dal mondo profano. Nella solitudine palesò la sua gloria ai discepoli. Non lo chiamiamo più carcere, chiamiamolo ritiro. Anche se il corpo è legato, anche se la carne è tenuta stretta, tutto è aperto allo spirito. Spazia con lo spirito, vola con lo spirito, non pensare a stadi ricoperti o a lunghi porticati, ma alla via che mena fino a Dio. Tutte le volte che ti fermerai a pensare a quella, ti sentirai fuori dal carcere. Le gambe non sentono alcuna difficoltà, se l’anima è in cielo. L’anima porta con sé tutto l’uomo e lo porta dove vuole. Dov’è il tuo cuore, ivi è il tuo tesoro (Mt 6,21). Mettiamo, dunque, il nostro cuore dove vogliamo avere il tesoro.

       Tertulliano, Ad martyras, 1, 3; 2, 1-4. 8-10


4. «Sono il frumento di Dio»

       Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono il frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo.

       Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio.

       Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi io a tuttora uno schiavo (1Co 9,1). Ma se soffro sarò affrancato in Gesù Cristo (1Co 7,22) e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla.

       Dalla Siria sino a Roma combatto con le fiere, per terra e per mare, di notte e di giorno, legato a dieci leopardi, il manipolo dei soldati. Beneficati diventano peggiori. Per le loro malvagità mi alleno di più ma non per questo sono giustificato (1Co 4,4).

       Potessi gioire delle bestie per me preparate e m’auguro che mi si avventino subito. Le alletterò perché presto mi divorino e non succeda, come per alcuni, che intimorite non li toccarono. Se incerte non volessero, le costringerò. Perdonatemi, so quello che mi conviene.

       Ora incomincio ad essere un discepolo. Nulla di visibile e di invisibile abbia invidia perché io raggiungo Gesù Cristo. Il fuoco, la croce, le belve, le lacerazioni, gli strappi, le slogature delle ossa, le mutilazioni delle membra, il pestaggio di tutto il corpo, i malvagi tormenti del diavolo vengano su di me, perché voglio solo trovare Gesù Cristo.

       Nulla mi gioverebbero le lusinghe del mondo e tutti i regni di questo secolo. È bello per me morire in Gesù Cristo più che regnare sino ai confini della terra. Cerco quello che è morto per noi; voglio quello che è risorto per noi. Il mio rinascere è vicino.

       Perdonatemi, fratelli. Non impedite che io viva, non vogliate che io muoia. Non abbandonate al mondo né seducete con la materia chi vuol essere di Dio. Lasciate che riceva la luce pura; là giunto sarò uomo.

       Lasciate che io sia imitatore della passione del mio Dio. Se qualcuno l’ha in sé, comprenda quanto desidero e mi compatisca conoscendo ciò che mi opprime.

       Il principe di questo mondo vuole rovinare e distruggere il mio proposito verso Dio. Nessuno di voi qui presenti lo assecondi. Siate piuttosto per me, cioè di Dio. Non parlate di Gesù Cristo, mentre desiderate il mondo. Non ci sia in voi gelosia.

       Anche se vicino a voi vi supplico non ubbiditemi. Obbedite a quanto vi scrivo. Vivendo vi scrivo che bramo di morire. La mia passione umana è stata crocifissa, e non è in me un fuoco materiale. Un’acqua viva mi parla dentro e mi dice: qui al Padre (Jn 14,22).

       Non mi attirano il nutrimento della corruzione e i piaceri di questa vita. Voglio il pane di Dio che è la carne di Gesù Cristo, della stirpe di David e come bevanda voglio il suo sangue che è l’amore incorruttibile.

       Non voglio più vivere secondo gli uomini. Questo sarà se voi lo volete. Vogliatelo perché anche voi potreste essere voluti [da Lui]. Ve lo chiedo con poche parole.

       Credetemi, Gesù Cristo vi farà vedere che io parlo sinceramente; egli è la bocca infallibile con la quale il Padre ha veramente parlato.

       Chiedete per me che lo raggiunga. Non ho scritto secondo la carne, ma secondo la mente di Dio. Se soffro mi avete amato, se sono ricusato, mi avete odiato.

       Ignazio di Antiochia, Ad Romanos, 4-8


5. Combattere per il bene dei popoli

       Voi, dunque, da veri discepoli del Signore, considerate vostre le nostre afflizioni. Non facciamo guerre per denaro, né per gloria, né per alcun’altra cosa temporale: ma ci battiamo per la comune eredità, patrio tesoro della retta fede. Vi affliggete per il nostro dolore, voi che amate i fratelli, poiché davanti a noi è stata chiusa la bocca dei pii ed è stata sciolta, in verità, la lingua arrogante e blasfema di coloro che dicono iniquità contro Dio (Ps 74,6). Le colonne e il fondamento della verità vengono abbattuti; noi, invero, che fummo disprezzati a causa della povertà, veniamo privati della libertà di parola. Combattete per il bene dei popoli, non preoccupatevi solo del vostro stato cioè di stare in porti tranquilli con la grazia di Dio che vi protegge sempre dal turbine dei venti contrari. Ma porgete la mano anche alle Chiese agitate dalla tempesta, perché un giorno, abbandonate non abbiano a soffrire profondamente a causa del naufragio della fede.

       Basilio di Cesarea, Epist. 243, 4


6. I martiri danno testimonianza a favore della fede nella risurrezione

       A che cosa danno testimonianza tali miracoli (avvenuti nei luoghi destinati al culto dei martiri), se non a questa fede che predica la risurrezione di Cristo nella carne e la sua ascensione al cielo con la carne? Gli stessi martiri infatti furono «martiri» di questa fede, cioè suoi testimoni: a questa fede dettero testimonianza davanti al mondo inimicissimo e crudelissimo, che vinsero non combattendo, ma morendo. Per questa fede sono morti, e ora possono impetrarla al Signore, per il cui nome furono uccisi. E per questa fede che essi hanno anzitutto sofferto con una ammirevole pazienza affinché in seguito potessero manifestare questa grande potenza. Poiché, se la risurrezione della carne per l’eternità non ha avuto già luogo nel Cristo, o non deve aver luogo in futuro come l’ha predetto il Cristo e come l’hanno predetto i profeti che hanno annunziato il Cristo, perché tanto potere è stato concesso a dei morti che hanno gettato via la loro vita per una fede che proclama questa risurrezione? Infatti, sia che Dio stesso operi da sé in quel modo mirabile con cui egli, eterno, agisce nelle cose temporali, sia che operi per mezzo dei suoi ministri; e in questo caso, sia che agisca per mezzo dello spirito dei martiri come fa per mezzo degli uomini ancora viventi in questa carne, sia per mezzo degli angeli, in cui opera in modo invisibile, immutabile e incorporeo - e di conseguenza i miracoli che si dicono compiuti dai martiri avverrebbero solo per le loro preghiere e impetrazioni, non per la loro opera - sia che egli li compia alcuni in un modo, altri in un altro modo che a noi mortali non è possibile comprendere: tuttavia è certo che questi prodigi sono una testimonianza in favore di quella fede che annuncia la risurrezione della carne per l’eternità.

       Agostino, De civit. Dei., 22, 9


7. I martiri testimoniano Cristo più da morti che da vivi

       Quasi dal seme del loro sangue è ripiena la terra coi martiri, e dal loro seme è sorta la messe della Chiesa.

       Testimoniarono il Cristo più da morti che da vivi. Oggi testimoniano, oggi predicano: tace la loro lingua, risuonano i loro fatti. Erano impediti, venivano legati, erano rinchiusi, venivano condotti [davanti ai tribunali], erano torturati, arsi vivi, lapidati, percossi, e dati in pasto alle belve. In tutte le loro morti venivano irrisi come vili: ma preziosa davanti al Signore è la morte dei suoi santi (Ps 115,15). E davanti al Signore è così preziosa, come ora davanti a noi.

       Quando allora era un disonore esser cristiano, vile era la morte dei santi davanti agli uomini: venivano detestati, maledetti; ed erano messi a morte in segno di maledizione: «Così tu possa morire!».

       Così tu sia crocifisso, così tu sia arso vivo. Quale fedele non desidera ora queste maledizioni?

       Agostino, Sermo 286, 3


8. I libri dei miracoli attribuiti ai martiri

       Molti, dunque, sopportano il martirio nel letto: molti, proprio.

       Vi è una certa persecuzione di Satana più occulta ed insidiosa di quella che vi fu un tempo.

       Giace un fedele nel letto, è tormentato dai dolori, prega, ma non è esaudito: anzi è esaudito, ma è provato, ma è tenuto in esercizio, viene flagellato affinché venga accolto come figlio.

       Dunque, quando è tormentato dai dolori, giunge la tentazione della lingua. Diventa martire nel letto, mentre lo corona colui che pende dalla croce per lui.

       Agostino, Sermo 286, 7




COMUNE DELLE VERGINI


Al tempo delle persecuzioni, si rendeva il culto ai martiri, cioè a coloro che hanno reso la più alta testimonianza a Cristo offrendo per lui la loro vita. Quando cessarono le persecuzioni anche la testimonianza Cristiana assunse una nuova forma. Il posto dei martiri venne occupato dagli asceti: la lunga vita piena di mortificazioni «sostituisce» la testimonianza del sangue. Scrive san Giovanni Crisostomo (+ 407): «Mortificate e crocifiggete i vostri corpi, e riceverete la corona del martirio». La forma più sublime di ascesi è costituita dalla verginità dedicata a Dio. Metodio da Olimpo, alla fine del III secolo, paragonò la verginità cristiana al martirio ed aggiunse che quest’ultimo dura brevemente invece la vita verginale esige un sacrificio continuo.

       Il culto delle vergini nella Chiesa cominciò dal culto delle vergini-martiri: sant’Agnese (Roma), sant’Agata (Catania), santa Lucia (Siracusa).

       La Chiesa sanzionava la decisione riguardante la vita nello stato di verginità attraverso uno speciale rito: papa Liberio (+ 336) consacra nella basilica di San Pietro Marcellina, sorella di sant’Ambrogio. Dalla lettera di papa Sirizio (+ 339) risulta che al rito assisteva sempre il vescovo, che dà alla vergine un velo simile a quello usato nelle nozze. I padri della Chiesa scrivono tanto sull’argomento della verginità consacrata a Dio e nei loro scritti si ripete spesso il termine «la sposa di Cristo» per indicare la vergine. Il Sacramentario Veronese contiene il rito della consacrazione delle vergini nel V secolo e le preghiere di questo Sacramentario, con alcuni cambiamenti, vennero usate per molti secoli.

       Anche oggi, la Chiesa conosce il rito della «consacrazione delle vergini», che non è la stessa cosa dell’emissione del voto solenne di castità.

       Celebrando la commemorazione di una santa vergine, la Chiesa vuole che prendiamo coscienza di che cos’è la vita di verginità. L’uomo chiamato a questa forma di vita nella Chiesa sta in un certo senso tra ciò che «era all’inizio» e ciò «che sarà alla fine».

       Nella vocazione dell’uomo alla castità, Dio ripristina nella natura umana la santità originaria e permette di sperimentare fin da ora il tempo ultimo, quando cioè «non si prende né moglie né marito» (Mt 22,30).

       In tal modo, la vita consacrata a Dio nella verginità diventa un segno nella Chiesa, un segno del rinnovamento di tutto, un segno della venuta dei tempi ultimi. I chiamati a questa forma di vita, in Cielo «seguono l’Agnello dovunque va» e cantano un cantico, che «nessuno può comprendere» (Ap 14,3). Ecco perché la Chiesa sempre, e particolarmente oggi, ha bisogno della testimonianza della castità.

       L’uomo si decide a vivere nella castità «per il regno dei cieli» (Mt 19,12), ma è consapevole che sta di fronte al mistero. La chiamata alla vita nella castità è un dono proveniente da Dio, è una grazia.

       Il cuore umano viene spinto con grande amore dalla forza dello Spirito Santo e l’uomo ispirato da Dio pronuncia il suo «sì». La vita nella castità consacrata a Dio si può capire e spiegare soltanto con le ragioni dell’amore. L’uomo, mosso dall’amore, vuole rispondere con amore e desidera dare un segno di questo amore. Dicendo «sì», diventa libero, e adesso «si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore» (1Co 7,32); prepara nel suo cuore l’abitazione per il Signore e come «la vergine prudente» esce ogni giorno con la lampada accesa per attendere l’arrivo dello Sposo.

       Nel giorno della commemorazione di una vergine, la Chiesa implora per la sua intercessione affinché noi possiamo crescere sempre nell’amore, viviamo nella castità evangelica, vinciamo il peccato e portiamo nel nostro corpo mortale la Passione di Cristo. Affinché siamo sempre accesi nella fede, aspettando il ritorno del Signore.

       O Dio, nostra salvezza,

       accogli le preghiere di questa tua famiglia

       che si rallegra nel ricordo di santa N.,

       e fa che profondamente rinnovata nello spirito,

       si consacri per sempre al tuo servizio.

       Missale Romanum: Missae Votivae. Com. Virginum I. Coll.


1. Vera grandezza della verginità

       Buona cosa è il matrimonio: ma non posso dire che cosa ci sia di più grande della verginità. La verginità, infatti, non sarebbe una cosa grande, se non fosse migliore e più nobile di una cosa buona. Non ve la prendete a male voi che siete sottomesse al giogo del matrimonio. Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (Ac 5,29). Del resto fate in modo da essere tra voi strette quasi da una catena, vergini e mogli, ed essere una sola cosa nel Signore e mutuo ornamento le une alle altre. Non ci sarebbe il celibato, se non ci fosse il matrimonio. Infatti come potrebbe esserci verginità in questo mondo? Non ci sarebbe matrimonio onorato e rispettabile, se non mostrasse la verginità sia a Dio, sia al mondo. Anche tu onora tua madre da cui nascesti. Onora anche colei che nacque da madre ed è madre. In verità non è solo madre, ma sposa di Cristo. Infatti la bellezza che cade sotto gli occhi non si tiene celata; ma quella che gli occhi non vedono è vista da Dio. Tutta la gloria della figlia del Re è dall’interno, circondata di auree frange (Ps 45,14), resa manifesta dalle azioni e dalle contemplazioni. Colei che è sotto il giogo [del matrimonio] sia almeno in parte di Cristo: colei che ha abbracciato la verginità sia tutta di Cristo. Quella non sia completamente legata al mondo: questa in nessun modo abbandoni l’animo al mondo.

       Infatti, ciò che per la coniugata è una parte, per la vergine è tutto. Hai scelto la vita degli angeli? Ti sei unita alla schiera di quelli che non conoscono il giogo? Non cedere alla carne, non abbassarti verso la materia, non congiungerti in matrimonio materialmente, anche se per altri aspetti persisti nel celibato. L’occhio lascivo ed impudico non conserva affatto la verginità: la lingua impudica si dà al diavolo: i piedi vacillanti rivelano la malattia o il pericolo di malattia incombente. Anche la mente stessa rispetti la verginità: non rimugini, non vada vagando, non rechi in sé immagini di meretricio (infatti nella mente è impressa anche una certa forma di libidine), non lasci che l’anima venga plasmata da simulacri che bisogna aborrire.

       Ed egli disse loro: Non tutti intendono questo discorso, ma solo coloro ai quali è stato concesso (Mt 19,11). Vedete la sublimità di questa espressione? Essa è perfino tale da non potersi, in un certo qual modo, concepire e comprendere. O forse non è più grande, rispetto alla fragilità della carne, ciò che, pur essendo stato creato dalla carne, non genera nella carne? Non è forse cosa veramente angelica che colei, che è stata legata dai vincoli della carne, viva non secondo la carne, ma sia più in alto della natura stessa? La carne legò al mondo, ma la ragione condusse verso Dio. La carne oppresse, la ragione innalzò e diede quasi le ali. La carne sottomise con le sue catene, ma l’amore liberò. O vergine, la tua anima si volga tutta a Dio (e questa stessa cosa la dico sia per gli uomini, sia per le donne), e non ti sembri bella nessun’altra cosa tra tutte quelle che di solito sembrano belle alla gente: non la nobiltà dei natali, non le ricchezze, non il trono, non l’autorità e la potenza, non quella bellezza cui si pensa nell’eleganza dell’aspetto e nella giusta conformazione delle membra, ed è in ogni caso soggetta al tempo e alle malattie. Se hai effuso tutta la forza dell’amore in Dio, se tu non ardi d’amore per ciò che ha duplice natura, è instabile e saldo, visibile ed invisibile, certamente fino a tal punto sei stata ferita da un dardo scelto e hai conosciuto la bellezza dello sposo così da poter dire anche quelle famose parole del dramma e del cantico nuziale: Sei la dolcezza e tutto desiderabile (Ct 5,16).

       Gregorio Nazianzeno, Oratio 37, 10-11


2. Quanto gran cosa è la verginità

       È così grande la verginità e vuol tanta fatica che Cristo, disceso dal cielo, per far gli uomini angeli e disegnare una celeste maniera di vita, non osò comandarla né prescriverla per legge però volle morire. E che cosa si può pensare più grave di questa? Si fece mettere in croce, comandò di colmare i nemici di benefici, ma lasciò la verginità alla scelta di quelli che lo ascoltavano, dicendo: Chi può comprenderla, la comprenda (Mt 19,12). È grande, infatti, la mole di questa cosa, grande la difficoltà di queste lotte e sudor di guerre e il campo di questa virtù e ripido e scivoloso, il che appare anche dalla vita di coloro che risplendettero di molte virtù nel Vecchio Testamento.

       Come quel grande Mosè, principe dei profeti, vero amico di Dio, che aveva tanta fiducia e autorità presso di lui, che poté strappare seicentomila uomini, esposti al supplizio a una piaga mandata dal cielo; un uomo, dico, che comandò al mare e lo spaccò in due, spezzò le rocce, trasformò l’atmosfera, mutò l’acqua del Nilo in sangue, oppose al Faraone un esercito di rane e di locuste, cambiò la natura delle cose create, fece infiniti miracoli e diede molti esempi di virtù, pure neanche volse lo sguardo alla lotta per la verginità, ma ebbe bisogno del sostegno del matrimonio e non osò affidarsi al mare della verginità, di cui temeva i flutti.

       Ma anche l’altro santissimo patriarca, che era pronto a sacrificar suo figlio, poté dominare gli affetti naturali; quel suo figlio Isacco, giovane, caro, unico, avuto contro ogni speranza, pieno di virtù, unico suo appoggio era pronto a sacrificarlo, lo condusse anche sul monte e costruì l’altare, v’accomodò la legna e vi pose la vittima e prese il coltello; fu più forte del diamante, ma tuttavia non osò affrontare la lotta della verginità e abbracciò il conforto del matrimonio.

       Così grande è la difficoltà della verginità, così alte le lotte, così gravi le fatiche e vogliono una enorme fortezza d’animo. Eppure molte di quelle che si sono accinte a questa lotta, neanche hanno superato il desiderio di un abbigliamento elegante e smodato, anzi sono schiave di quel desiderio più delle donne che si dedicano al mondo. E non mi venir a dire che esse non portano oro, nè seta, né gemme. Perché ciò che è più grave e mostra la loro malattia e tirannico affetto è che in ogni modo, proprio per mezzo dei loro indumenti di nessun prezzo, s’ingegnano di superare l’eleganza e l’amabilità di quelle che si vestono d’oro e di seta; così volendo apparire indifferenti, diventano pestifere e ingannatrici. Perciò trovo tanto più degna di lode te. Non mi sorprende, infatti, in te una povertà di vestito che magari gareggi con quella dei mendicanti, ma il fatto che nel tuo vestito, calzatura, e modo di camminare non c’è niente di artificioso e sofisticato, e questi sono i colori della virtù, per cui la sapienza che è nell’animo vien dipinta all’esterno. Il vestito del corpo, dice la Scrittura, e il riso dei denti e il portamento dell’uomo, lo dipingono (Si 19,27). Se infatti non avessi buttato al suolo con incredibile decisione tutti i pensieri delle vanità terrene, non ne avresti potuto raggiungere tanto disprezzo e non ne avresti superato lo scoglio.

       E nessuno mi accusi di esagerare se dico che questo sarebbe un gravissimo peccato. Se infatti con le donne mondane degli Ebrei, in quel tempo, questo peccato fu così gravemente punito, quale indulgenza possono sperare coloro la cui conversazione deve essere nei cieli e che devono imitare le maniere degli angeli quando commettono lo stesso peccato in circostanze molto più gravi? Quando vedi, infatti, una donna in veste ondeggiante, che il profeta chiama delitto, che passeggia lascivamente e che dalla bocca, dagli occhi, dagli abiti, versa una bevanda avvelenata a coloro che la guardano con occhio impudico ed essa continua a scavar la fossa e a gettar lacci, come fai a chiamarla vergine e non la chiami piuttosto meretrice? Le meretrici, anzi, non gettano tanti richiami, quanti codeste che spiegano tutt’intorno le penne della voluttà.

       Ti benediciamo perciò e ti colmiamo di lodi, perché liberata da queste vanità, anche in questo hai dato esempio di mortificazione, non mostrando eleganza, ma diportandoti con fortezza, non cercando femminili attrattive, ma procurandoti delle armi.

       Crisostomo Giovanni, Epist. ad Olymp., II, 7, 9


3. Essere solleciti nel servizio di Dio

       Poiché se nella Sacra Scrittura frequentemente e dovunque è prescritta la disciplina, e ogni fondamento ha inizio e dall’osservanza e dal timore della religione e dalla fede, che cosa conviene più ardentemente desiderare, che cosa volere e possedere maggiormente, che di rimanere incrollabili verso le tempeste e gli sconvolgimenti del mondo, tenendo molto fortemente salde fondamenta, e le nostre dimore sulla roccia con la mole robusta della solidità in tal modo, secondo gli ordini divini, potremo venire ai doni divini considerando parimenti e sapendo che le nostre membra sono tempio di Dio, purificate da ogni legame dell’antica colpa, purificate dalla santificazione del lavacro battesimale che dà la vita, né sia lecito che quelle cose siano violate o macchiate, dal momento che colui che viola è egli stesso violato.

       Noi siamo i cultori e i capi dei loro templi.

       Prestiamo servizio a colui cui già abbiamo cominciato ad appartenere.

       Paolo nelle sue lettere dice a quelle alle quali formò noi per il divino magistero nel modo di vivere: Non appartenete a voi. Siete stati riscattati a grande prezzo. Glorificate e portate Cristo nel vostro corpo (1Co 6,19-20).

       Glorifichiamo e portiamo Dio con cuore puro e mondo e con un’osservanza migliore, e quelli che sono stati riscattati col sangue di Cristo, obbediamo al comando del Redentore attraverso tutti gli omaggi di sottomissione, adoperiamoli affinché niente di immondo e di profano sia arrecato al tempio di Dio affinché, offeso [dal peccato] non abbandoni la dimora dove Egli abita.

       Del Signore ospite e maestro, sono le parole, [del Signore] medico e nel medesimo tempo, ammonitore, sono le parole: Ecco, disse, sei stato guarito, non peccare più, affinché non ti accada di peggio (Jn 5,14)

       Egli dà il modo di vivere, dà la legge dell’innocenza, dopo che apportò la guarigione; né sopportò che a briglie sciolte e libere in seguito si vada errando. Egli minaccia più gravemente chi, dopo essere stato sanato, abbandona, piuttosto che colui che abbandona prima di aver conosciuto il modo di procedere di Dio: questi ha minore colpa, mentre nel primo non vi è scusa. È, invero,

sia gli uomini che le donne sia i fanciulli che le fanciulle, ogni sesso, ed ogni età osservi, e curi per la religione e la fede che deve a Dio, venga trattenuto da un timore meno sollecito affinché non sia imposto quanto di santo e di puro riguarda la dignità di Dio.

       Cipriano di Cartagine, De Habitu verginum, 2


4. Matrimonio e verginità

      

       So bene che esiste un matrimonio degno di onore e un letto immacolato (He 13,4). Ho letto ciò che Dio da principio ha comandato: Crescete, moltiplicatevi e propagatevi su tutta la terra (Gn 1,28). Allora? Il matrimonio l’accetto, ma in questo senso: gli preferisco la verginità, che da esso nasce. L’argento non sarà più argento, solo perché l’oro è più prezioso dell’argento? o si fa ingiuria all’albero o ai cereali, quando alla radice ed alle foglie, ai culmi ed alle spighe si preferiscono i frutti o i chicchi? Ora, la verginità sta al matrimonio come i frutti all’albero e il frumento alla paglia...

       Il numero sessanta invece si riferisce alle vedove, proprio perché si trovano in posizione di angoscia e di tribolazione (anche per questo motivo esse vengono comprese dal dito superiore) e quanto più grande è la difficoltà di astenersi dalle dolcezze d’una voluttà già provata, tanto maggiore, in proporzione, ne è la ricompensa. Venendo al numero cento (sta’ bene attento, lettore, mi raccomando!), esso viene indicato passando dalla mano sinistra a quella destra: con le medesime dita di questa (non con la mano sinistra nella quale sono raffigurate le sposate e le vedove), si forma un cerchio che rappresenta la corona della verginità...

       Ci può essere un lettore malvagio, al punto da giudicarmi non da quanto ho scritto ma in base all’idea fattasi personalmente? Non c’è dubbio: io sono stato, verso il matrimonio, molto più benevolo di quasi tutti i trattatisti latini e greci. Essi fanno coincidere il numero cento col martirio, il sessanta con la verginità, il trenta con la vedovanza. Ne risulta, stando a loro, l’esclusione degli sposati dai frutti della terra buona e della semente del Padre di famiglia (Mt 13,27)...

       Ancora: nel passo dove ho chiarito il motivo che ha fatto dire all’Apostolo: Ma quanto alle vergini, non ho comandamento del Signore; do tuttavia il mio parere come uno che ha ricevuto dal Signore la grazia d’essere fedele (1Co 7,25), ho esaltato sì, a verginità, ma in modo da conservare al matrimonio il suo posto gerarchico. «Se il Signore - ho detto - avesse fatto un obbligo di restare vergini, si sarebbe potuto pensare che avesse condannato il matrimonio, togliendo in tal modo all’umanità il vivaio da cui sboccia anche la verginità. Se avesse tagliato le radici, come potrebbe cercarne i frutti? Senza aver prima gettato le fondamenta, potrebbe lui logicamente costruire un edificio e poi porvi sopra un tetto che tutto ricopra?».

       Girolamo, Epist. 49, 2. 3. 7


5. Per Maria, Madre della vita, tutti conseguono la purezza

       Vieni, adunque, sincero ascoltatore: percorri tutto l’Egitto e Alessandria, nostra pia città. Apprendi quanto ivi fiorisca la purezza. Alcuni si rivestono di purezza, simili ad angeli per probità: non gustarono i coniugali commerci, conservandosi invece vergini dalla nascita. Altri si fanno eunuchi per il regno dei cieli, obbligando se stessi alla continenza e possedendo mogli come se non le avessero. Altri ancora vagano per deserti, monti, valli, caverne, deboli nel ventre perché digiunano e si astengono da ogni alimento e da ogni piacere. Se vedono dell’acqua, di cui si saziano i loro cani, essi non si saziano, vivendo come angeli dei quali ambiscono imitare la conversazione e desiderano attingere la purezza. O Vergine pura di corpo e di spirito! Per te è stato inventato questo prezioso dono. Tu hai soffocato la morte alla gola, essa che aveva posto il suo impero nell’utero della donna e la dominava! La purezza è infatti il vestito degli angeli, la corona degli arcangeli, lo slancio dei cherubini, l’ornamento dei serafini.

       Donde deriva ai nati di donna un tal dono, se non da colei che si veste di purezza? Donde? I figli degli uomini, infatti, che poco dopo si dissolvono e diventano polvere nel sepolcro, si vestiranno in terra della gloria degli angeli.

       Da te, appunto, o Madre della vita, proviene a noi questo aiuto.

       Atanasio, Contra Arian., «Corpus Marian. Patr.», II, n. 559


6. Ricchezza della verginità di Maria

       O ricchezza della verginità di Maria! Bollì come una pentola e come una nube lasciò cader sulla terra la grazia di Cristo; di lei, infatti, è stato scritto: Ecco il Signore arriva seduto sopra una leggera nuvola (Is 19,1). Proprio leggera, perché non conobbe il peso del connubio; proprio leggera, perché alleggerì questo mondo del gran peso del peccato... Accogliete, dunque, accogliete, vergini consacrate, la pioggia spirituale di questa nuvola moderatrice delle fiamme del corpo, perché possiate spegnere tutti gli ardori corporali e irrigare le vostre menti.

       Ambrogio, De institut. virginis, 13, 81


7. Vergini stolte e vergini prudenti

       Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade andarono incontro allo sposo e alla sposa (Mt 25,1-13).

       Lo sposo è Cristo, e chi è suo amico, alla sua voce, sta attento, lo sente ed è contento, perché è la voce dello sposo. A lui ci ha promessi l’Apostolo che dice: Vi ho promessi a un uomo solo, come vergine pura da offrire a Cristo (2Co 11,2). Vedi chi è lo sposo. Ma chi è la sposa? La sposa è la tua anima, che l’Apostolo ha promesso di offrire pura a Cristo. Temo però che l’Apostolo non possa fare ciò che ha promesso, offrire cioè a Cristo la tua anima vergine e vergine casta. Aggiunse casta, perché ci sono delle vergini nel corpo, che sono deplorate da pensieri di fornicazione e contaminano il profumato fiore della verginità col puzzo di affetti libidinosi. E queste sono indicate da quelle vergini stolte, che son fatte stolte da intenzioni impure. Cristo è vergine, figlio di vergine e vuole una sposa vergine. Tu se hai questa verginità angelica e più che angelica, una verginità simile a quella di Cristo e di sua madre, sii felice, esulta, gettati subito tra le braccia di Cristo e gridagli il tuo sospiro: Mi baci col bacio della sua bocca (Ct 1,1).

       Giuliano di Vezelay, Sermo 4, vv. 1-24


8. La verginità, immagine della santità degli angeli

       Il Figlio di Dio, nostro Signore e Salvatore, Gesù Cristo, fattosi uomo per noi, ha distrutto la morte e liberato il nostro genere umano dalla corruzione. Oltre a tutte le grazie, ci ha concesso di possedere sulla terra un’immagine della stessa santità degli angeli, la verginità.

       Quelli che fanno professione di questa virtù, la Chiesa cattolica ha l’abitudine di chiamarli i fidanzati del Cristo. I pagani stessi, che li osservano li ammirano come templi del Verbo; in nessun luogo, infatti è vero, non si trova in vigore questa venerabile e celeste istituzione se non in mezzo a noi, cristiani. È qui, soprattutto, la grande prova che tra i cristiani è professato realmente il vero culto di Dio.

       Atanasio, Apologia ad Constant., 33


9. La Chiesa è vergine e madre

       Così la Chiesa santa, immacolata da accoppiamento, feconda nel parto, è vergine per la castità, è madre per la prole. E partorisce noi - vergine - non gravida di un uomo ma dello Spirito. Partorisce noi - vergine - non con il dolore delle membra, ma con il gaudio degli angeli. Nutre noi - vergine - non con il latte del corpo, ma dell’Apostolo, con il quale ha allattato l’età ancora debole del popolo che cresce (1Co 3,2 1P 2,2). Qual sposa mai ha più figli della Chiesa santa, che è vergine per i sacramenti, madre per i popoli, la cui fecondità anche la Scrittura attesta dicendo: Poiché più sono i figli della abbandonata di quella che ha marito (Is 54,1)? La nostra non ha marito, ma ha uno sposo: poiché sia la Chiesa fra i popoli, sia l’anima nei singoli va sposa al Verbo di Dio, senza alcuna flessione del pudore, come a Sposo eterno, infeconda nel peccato, feconda nell’intelligenza.

       Ambrogio, De virginibus, 1, 6, 31




EPILOGO DELL’INTERA OPERA


Importanza dell’istruzione religiosa

       Chiunque avrà in mano questo libretto lo prego e umilmente lo supplico che lo legga più volte e lo faccia leggere e trascrivere e si persuada che avrà un doppio premio dal Signore, quello del progresso proprio e quello del progresso altrui. E questo lo dico perché c’è tanta gente, e forse anche alcuni religiosi, che amano avere molti libri, ben puliti e ben rilegati, ma li tengono chiusi negli armadi, e non li leggono né li lasciano leggere agli altri; e non capiscono che non val niente aver dei libri e non leggerli. Il libro, infatti, ben foderato e nitido, se non è letto, non fa l’anima nitida; il libro, invece, che è letto spesso - per il fatto che sta spesso tra le mani, non può essere bello di fuori - fa l’anima bella.

Introduzione al libro dei Sermoni

       Spinti dall’amore paterno e dalla preoccupazione pastorale, abbiamo scritto in questo libretto delle raccomandazioni semplici ma utili ai pastori, perché nelle feste più grandi i presbiteri o i diaconi le leggano al loro gregge. Facendo questo con buona volontà, io ho fatto il mio dovere innanzi a Dio. Se però qualche presbitero o diacono, mosso da negligenza, trascurerà di leggere al popolo questi sermoni, sappia che dovrà rispondere con me innanzi a Cristo, quando dovremo render conto al giudice eterno, del gregge che ci è stato affidato. Perciò questo libretto rileggetelo ogni anno con molta cura, per giustificarvi innanzi a Dio e innanzi agli uomini. E poiché fu necessario fare parecchi libretti di queste semplici raccomandazioni, se non vi dispiaceranno, potete e dovete trascriverli e in bella scrittura e pergamena, per quanto potrete, e darli da trascrivere ad altre parrocchie, perché possiate avere il merito del vostro e dell’altrui progresso. E poiché è necessario decisamente che non solo i chierici ma anche i laici conoscano la fede cattolica, prima di tutto abbiamo esposto la fede cattolica, come la definirono i santi Padri; e queste definizioni noi dobbiamo rileggere spesso e le dobbiamo suggerire agli altri.

       E perché i nostri amanuensi sono ancora dei principianti, se troverete nelle lettere o nelle proposizioni qualche cosa in meno o in sovrappiù, siate indulgenti con carità, correggete, com’è giusto, e fate ricopiare in più accorta scrittura.

       Cesario di Arles, Sermo II, Humilis suggestio





Lezionario "I Padri vivi" 223