Regola pastorale 209

La guida delle anime deve essere attenta nella consapevolezza che non di rado i vizi si travestono da virtù

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La guida delle anime deve anche sapere che non di rado i vizi si travestono da virtù Infatti spesso l’avarizia si nasconde sotto il nome di parsimonia e, al contrario, la prodigalità sotto l’appellativo di generosità. Spesso una accondiscendenza senza discrezione è considerata pietà, e un’ira sfrenata zelo virtuoso; spesso un’azione precipitosa passa per rapidità efficiente e la lentezza dell’agire per prudenza deliberata. Perciò è necessario che la guida delle anime discerna con vigile cura virtù da vizi, perché l’avarizia non si impadronisca del suo cuore ed egli si compiaccia di apparire parco nella sua amministrazione; oppure si vanti, magari con l’aria di commiserare la propria liberalità, quando c’è stato qualche sperpero per la sua prodigalità; o trascini all’eterno supplizio i sudditi rimettendo il peccato che avrebbe dovuto colpire; o colpendo con crudeltà il peccato, pecchi egli stesso più gravemente; o, tratti con leggerezza, con una fretta troppo anticipata, ciò che si sarebbe potuto trattare correttamente e con ponderazione o, differendo il compimento di una buona azione, ne converta in peggio il risultato.



Quale debba essere la discrezione della guida delle anime nel correggere e nel dissimulare; nello zelo e nella mansuetudine

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Bisogna pure sapere che occorre talvolta dissimulare con prudenza i vizi dei sudditi ma che pur dissimulandoli bisogna mostrare di conoscerli. Talvolta, colpe manifeste bisognerà tollerarle per un certo tempo, talvolta invece, quando sono nascoste, esaminarle diligentemente; talvolta riprenderle con dolcezza; talvolta al contrario rimproverarle con forza. Alcune in effetti, come abbiamo detto, bisogna dissimularle con prudenza e tuttavia mostrare di conoscerle, affinché il peccatore sapendo di essere noto come tale, e di essere tuttavia sopportato, arrossisca di aumentare quelle colpe che vede tollerate in silenzio nei suoi confronti, e fattosi giudice di se stesso si punisca, lui che la clemente pazienza della sua guida, per parte sua, scusa. È chiaro che con questa dissimulazione il Signore corregge la Giudea, quando dice per mezzo del profeta: Hai mentito e non ti sei ricordata di me né hai meditato in cuor tuo; perché io tacevo quasi come uno che non vede (
Is 57,11). Dunque dissimulò le colpe e lo fece notare, in quanto tacque contro il peccatore ma non tacque il fatto stesso di avere taciuto. Alcune colpe manifeste, invece, bisogna tollerarle per un certo tempo; finché cioè l’opportunità della situazione non sia tale da consigliare un’aperta correzione. Infatti le ferite operate troppo presto si infiammano maggiormente, e se i medicamenti non vengono graduati in modo conveniente nel tempo, è chiaro che non rendono al medico la loro utilità. Ma quando il superiore deve cercare tempo per infliggere la correzione ai sudditi, è proprio sotto il peso di quelle colpe che si esercita la sua pazienza. Perciò dice bene il salmista: Sul mio dorso hanno fabbricato i peccatori (Ps 128,3). Poiché è sul dorso che portiamo i pesi, egli si lamenta che sul suo dorso i peccatori hanno fabbricato, come se dicesse apertamente: Porto addosso come un peso coloro che non posso correggere. Alcune colpe invece, che sono nascoste, vanno esaminate diligentemente perché, se se ne manifestano alcuni segni, la guida delle anime possa scoprire tutto ciò che si nasconde, chiuso, nell’animo dei sudditi e, presentandosi il momento della correzione, possa conoscere dai più piccoli segni di vizio le colpe maggiori. Perciò giustamente viene detto ad Ezechiele: Figlio dell’uomo, fora la parete. E subito il profeta prosegue: E quando ebbi forato la parete mi apparve una porta. E mi disse: Entra e vedi le orribili abominazioni che costoro commettono qui. Ed entrato vidi; ed ecco ogni tipo di rettili e di animali abominevoli e tutti gli idoli della casa di Israele erano dipinti sulla parete (Ez 8,8-10). È chiaro che Ezechiele rappresenta le persone dei superiori, e la parete la durezza dei sudditi. E che cosa significa forare la parete se non aprire la durezza del cuore con penetranti indagini? Quando ebbe forato la parete apparve una porta, perché quando la durezza del cuore si spacca cedendo alle attente indagini o alle sapienti correzioni, è come se si mostrasse una porta dalla quale si vedono tutte le profondità dei pensieri in colui che viene ammonito. Per cui è ben detto ciò che segue quel punto: Entra e vedi le orribili abominazioni che costoro commettono. Ed è uno che entra per vedere delle abominazioni, colui che, andando oltre certi segni che appaiono all’esterno, penetra i cuori dei sudditi in modo che gli risultino chiari tutti i loro pensieri illeciti. E quindi prosegue: Ed entrato vidi; ed ecco ogni tipo di rettili e animali abominevoli. Nei rettili sono indicati i pensieri del tutto terreni, negli animali i pensieri già un poco sollevati da terra ma ancora alla ricerca di un compenso terreno.

Infatti i rettili aderiscono alla terra con tutto il corpo, mentre gli animali con gran parte del corpo sono sospesi da terra e tuttavia continuano a essere inclinati verso di essa per l’appetito della gola. Così i rettili sono oltre la parete, quando nella mente si rivolgono pensieri che non si innalzano mai dai desideri terreni. E ci sono pure animali oltre la parete, quando pensieri e meditazioni, sia pure giusti e onesti, sono tuttavia ancora asserviti a mire di guadagni e onori temporali: per sé, in effetti, sono già quasi elevati da terra ma si sottomettono ancora alle realtà più basse per la loro ambizione che è paragonabile a un desiderio di gola. Perciò ancora prosegue giustamente: E tutti gli idoli della casa di Israele erano dipinti sulla parete. In effetti è scritto: E l’avarizia, che è schiavitù agli idoli (Col 3,5). Dunque è giusto che dopo gli animali si descrivano gli idoli, poiché sebbene alcuni si drizzino già da terra per l’agire onesto, tuttavia per la loro disonesta ambizione si riadagiano per terra. Ed è ben detto: Erano dipinti, perché, quando gli aspetti delle cose esterne vengono assorbiti interiormente, viene come dipinto nel cuore quello che si pensa e si delibera sulla base di quelle false immagini. Pertanto, occorre sottolineare che prima c’è il foro nella parete, quindi si vede la porta e infine viene manifestata la occulta abominazione. Ciò evidentemente perché in ciascuno si danno prima i segni esterni del peccato, quindi si mostra la porta dell’iniquità manifesta e infine si spalanca ogni male che si nasconde nell’intimo. Alcuni peccati però vanno ripresi con dolcezza; infatti, quando non si pecca per malizia ma solo per ignoranza o per debolezza, è assolutamente necessario che la stessa correzione del peccato sia temperata da grande moderazione: tutti, finché siamo in questa carne mortale, soggiacciamo alla debolezza della nostra natura corrotta, così ciascuno deve apprendere da se stesso come si debba essere misericordiosi nei confronti della debolezza altrui affinché, se si lascia trasportare a pronunciare parole di rimprovero troppo accese contro la debolezza del prossimo, non gli accada di apparire uno che si è dimenticato di sé. Perciò Paolo ammonisce giustamente: Se qualcuno sarà colto in qualche peccato, voi che siete spirituali istruite questo tale in spirito di mansuetudine, considerando te stesso perché anche tu non sia tentato (Ga 6,1); come se dicesse apertamente: Quando vedi qualcosa di spiacevole dovuto alla debolezza altrui, pensa a ciò che sei; perché nello zelo del rimprovero lo spirito si moderi, se teme anche per se stesso ciò che rimprovera ad altri. Altri peccati invece si devono rimproverare con forza, affinché chi ha commesso la colpa e non ne conosce l’entità la apprenda dalla bocca di colui che lo rimprovera. E se qualcuno è portato a considerare con leggerezza il male commesso, lo tema molto, al contrario, per la severità di chi glielo rimprovera aspramente. Ed è certamente dovere della guida delle anime mostrare con la predicazione la gloria della patria celeste, manifestare quanto son grandi le tentazioni dell’antico nemico, che si nascondono nel cammino di questa vita, e correggere con zelo grande e severo i peccati dei sudditi che non devono essere tollerati con leggerezza, perché non sia considerato lui stesso reo di tutte le colpe se il suo sdegno non si accende contro quelle. Perciò è ben detto in Ezechiele: Prenditi un mattone e lo porrai davanti a te e disegnerai su di esso la città di Gerusalemme. E subito prosegue: E disporrai l’assedio contro di essa, edificherai le opere di difesa, costruirai un terrapieno, e porrai contro di essa gli accampamenti e metterai intorno gli arieti. E subito per sua protezione gli viene suggerito: E tu prenditi una teglia di ferro e la porrai come un muro di ferro fra te e la città (Ez 4,1-3). E di chi è figura il profeta Ezechiele se non dei maestri? Giacché gli vien detto: Prenditi un mattone e lo porrai davanti a te e disegnerai su di esso la città di Gerusalemme. E in realtà i santi dottori si prendono un mattone quanto attirano a sé il cuore di terra degli ascoltatori per istruirli. E pongono davanti a sé quel mattone evidentemente nel senso di custodirlo con tutta la tensione dello spirito. E ricevono l’ordine di disegnare su di esso la città di Gerusalemme, perché predicando a cuori di terra pongono ogni loro cura a dimostrare quale sia la visione della pace celeste. Ma poiché invano si cerca di conoscere la gloria della patria celeste se non si conosce la grandezza delle tentazioni dell’astuto nemico che vi fanno irruzione, si prosegue opportunamente: Disporrai l’assedio contro di essa e edificherai le opere di difesa. E i santi predicatori indubbiamente dispongono un assedio intorno al mattone su cui è disegnata la città di Gerusalemme, quando dimostrano a un cuore terreno ma già in ricerca della patria celeste quanto essa sia soggetta nel tempo di questa vita agli assalti ostili dei vizi. Infatti quando si mostra in qual modo ciascun peccato insidia coloro che avanzano [nel cammino spirituale] è come se dalla voce del predicatore si disponesse un assedio intorno alla città di Gerusalemme. Ma poiché non solo devono risultare chiari gli assalti dei vizi ma anche come ci fortifichi la custodia delle virtù, giustamente si prosegue: Edificherai le opere di difesa. Queste difese, il predicatore santo le edifica quando dimostra quali virtù si oppongono a quei vizi. E poiché quando aumenta la virtù per lo più crescono le guerre della tentazione, si aggiunge giustamente ancora: E costruirai un terrapieno e porrai contro di essa gli accampamenti e metterai intorno gli arieti. Infatti costruisce un terrapieno, il predicatore, quando annuncia l’entità della tentazione crescente. Ed erige accampamenti contro Gerusalemme, quando predice le caute e quasi inavvertibili insidie dell’astuto nemico, alla onesta intenzione degli ascoltatori. E pone arieti intorno, quando fa conoscere gli aculei delle tentazioni, che ci circondano da ogni parte in questa vita e sono capaci di perforare il muro delle virtù. Ma quantunque la guida delle anime riesca a suggerire sottilmente tutte queste consapevolezze, se egli non arde di uno spirito di gelosia contro i peccati dei singoli, non si procura assoluzione in eterno; perciò, in quel luogo, ancora giustamente si prosegue: E tu prenditi una teglia di ferro e la porrai come un muro di ferro tra te e la città. Con teglia si intende l’ardore dello spirito, e con ferro la forza del rimprovero. Che cosa infatti fa ardere e tormenta il maestro con più acutezza che lo zelo di Dio? E Paolo, che bruciava per l’ardore di questa teglia diceva: Chi è infermo e io non sono infermo? Chi è scandalizzato e io non brucio? (2Co 11,29) E poiché chiunque è acceso dallo zelo di Dio è custodito in eterno da una forte custodia, per non dovere essere condannato per la negligenza, è detto giustamente: La porrai come muro di ferro fra te e la città. Infatti, la teglia di ferro è posta come muro di ferro fra il profeta e la città, nel senso che, quando le guide delle anime manifestano un forte zelo, questo stesso zelo essi lo conservano come forte difesa fra sé e gli ascoltatori, affinché se saranno troppo indulgenti nella correzione non siano poi abbandonati alla vendetta [divina]. Soprattutto però bisogna sapere, che se l’animo del maestro si esaspera nel rimprovero, è molto difficile che egli una volta o l’altra non prorompa a dire qualcosa che non deve dire. E per lo più accade che, quando si corregge la colpa di sudditi con grande impeto, la lingua del maestro è trascinata ad eccedere nelle parole; e, quando il rimprovero è acceso oltre misura, il cuore dei peccatori si deprime fino alla disperazione. Perciò è necessario che quando il superiore si rende conto di avere colpito l’animo dei sudditi con eccessiva durezza, nella sua esasperazione, ricorra alla penitenza dentro di sé per ottenere perdono, col suo pianto, di fronte alla Verità, anche per ciò in cui pecca per eccessivo zelo. A ciò corrisponde, in figura, il precetto del Signore che per mezzo di Mosè dice: Se uno andrà con un suo amico nel bosco, semplicemente a tagliar legna, e gli sfuggirà di mano il manico della scure, e il ferro caduto dal manico colpirà l’amico e l’ucciderà; egli fuggirà in una delle città sopraddette e vivrà; perché non accada che il parente prossimo di colui di cui è stato sparso il sangue, spinto dal dolore, lo insegua, lo prenda e colpisca la sua vita (Dt 19,5-6). Dunque, noi andiamo nel bosco con l’amico ogni volta che ci disponiamo a ricercare i peccati dei sudditi, e tagliamo semplicemente legna quando recidiamo, con disposizione d’animo pietosa, i vizi dei peccatori. Ma quando il rimprovero si trascina fino a divenire più aspro del necessario, è allora che la scure sfugge di mano; e quando le parole della correzione si fanno troppo dure il ferro cade dal manico, per cui colpisce e uccide l’amico colui che, proferendo parole ingiuriose, spegne nel suo ascoltatore lo spirito di carità. Infatti l’animo di colui che subisce la correzione immediatamente precipita nell’odio se questo rimprovero va oltre i limiti. Ma è necessario che, chi colpisce incautamente la legna e uccide il prossimo, fugga verso tre città per vivere protetto in una di esse; perché colui che, voltosi a lacrime di penitenza, si nasconde sotto la speranza la fede e la carità nell’unità del sacramento non è considerato reo dell’omicidio commesso. E il parente prossimo dell’ucciso, quando lo troverà non lo ucciderà; perché quando verrà il severo Giudice, che si è unito a noi facendosi consorte della nostra natura, senza dubbio non perseguirà il reato della sua colpa col castigo poiché fede speranza e carità lo nascondono sotto il suo perdono.



Quando la guida delle anime debba essere dedita alla meditazione della legge sacra

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Ma tutto ciò si compie debitamente dalla guida delle anime se, animato dallo spirito del timore e dell’amore, ogni giorno con diligenza, medita i precetti della Parola sacra, affinché le parole della divina ammonizione ricostruiscano in lui la forza della sollecitudine e della previdente attenzione verso la vita celeste, che viene distrutta incessantemente dalla pratica della vita tra gli uomini. E chi, attraverso la comunione con le persone del mondo, è ricondotto alla vita dell’uomo vecchio, con il desiderio della comunione si rinnova a un amore incessante della patria spirituale. Infatti, nel parlare con gli uomini il cuore si disperde, e constatando con certezza che, spinto dal tumulto delle occupazioni esteriori, decade dalla sua condizione, deve avere una cura incessante di rialzarsi attraverso la dedizione allo studio [sacro]. Perciò Paolo ammonisce il discepolo preposto al gregge, dicendo: Fino alla mia venuta attendi alla lettura (
1Tm 4,13). Perciò David dice: Come amo la tua legge, Signore, tutto il giorno è la mia meditazione (Ps 118,97). Perciò il Signore dà ordine a Mosè a proposito del trasporto dell’arca, dicendo: Farai quattro anelli d’oro che porrai ai quattro angoli dell’arca, e farai delle stanghe di legno di acacia e le coprirai d’oro e le infilerai negli anelli ai lati dell’arca così che sia portata con quelle, che saranno sempre infilate negli anelli e non ne verranno mai estratte (Ex 25,12 ss.). Che cosa è rappresentato dall’arca se non la Santa Chiesa? Si ordina poi che ad essa vengano aggiunti quattro anelli agli angoli, e ciò senza dubbio significa che essa, per il fatto che si estende dilatandosi nelle quattro parti del mondo, è annunciata cinta dei quattro libri del Santo Evangelo. E si fanno stanghe di legno di acacia da infilarsi nei medesimi anelli per il trasporto, pérché bisogna cercare maestri forti e perseveranti come legno che non imputridisce, i quali, sempre intenti allo studio dei libri sacri, annuncino l’unità della Santa Chiesa portando l’arca come inseriti in quegli anelli, poiché portare l’arca con le stanghe significa, per i buoni maestri, condurre la Santa Chiesa alle rozze menti degli infedeli attraverso la predicazione. E le stanghe devono essere pure ricoperte d’oro, cioè i maestri mentre con i loro discorsi predicano agli altri devono risplendere anche loro per la luminosità della vita. E giustamente, riferendosi a loro si aggiunge: Le quali saranno sempre dentro gli anelli e non saranno mai estratte da essi, perché evidentemente è necessario che chi veglia all’ufficio della predicazione non cessi dall’amoroso studio della lettura sacra. E l’ordine che le stanghe siano sempre negli anelli è in vista dell’opportunità indeclinabile di trasportare l’arca senza che si generi alcun ritardo nell’inserimento delle stanghe; ciò significa che quando un Pastore viene interrogato dai sudditi riguardo a un qualche contenuto spirituale, è veramente vergognoso se egli si mette a cercare la risposta proprio quando deve risolvere una questione. Ma le stanghe sono inserite negli anelli perché i maestri che meditano sempre nel loro cuore la Parola sacra alzino l’arca del testamento senza indugi, e insegnino senza incertezze in qualunque necessità. Perciò dice bene il primo Pastore della Chiesa ammonendo gli altri Pastori: Pronti sempre a rispondere a chiunque vi chiede ragione della speranza che è in voi (1P 3,15). Come se dicesse apertamente: Le stanghe non siano mai tolte dagli anelli affinché nessun indugio intralci il trasporto dell’arca.










PARTE TERZA



COME DEVE INSEGNARE E AMMONIRE I SUDDITI

UNA GUIDA DELLE ANIME

CHE HA BUONA CONDOTTA DI VITA





Prologo

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Poiché abbiamo indicato come deve essere il Pastore, ora intendiamo dimostrare quale debba essere il suo insegnamento. Infatti, come insegnò molti anni prima di noi Gregorio di Nazianzo di venerabile memoria, non a tutti si adatta un unico e medesimo genere di esortazione poiché sono diversi la natura e il comportamento di ciascuno, e spesso ciò che giova agli uni nuoce agli altri. Così accade non di rado che certe erbe adatte a nutrire alcuni animali ne uccidono altri o che un leggero fischio che acquieta i cavalli eccita i cagnolini; e una medicina che fa passare una malattia ne aggrava un’altra; e il pane che rinvigorisce le persone forti uccide i bambini piccoli. Dunque, il discorso di chi insegna deve essere fatto tenendo conto del genere degli ascoltatori per essere adeguato a quella che è la condizione propria dei singoli e tuttavia non decadere dal suo proprio genere che è di servire alla comune edificazione. Infatti che cosa sono le menti degli ascoltatori se non, per così dire, corde ben tese di una cetra che l’artista tocca con diversa intensità per produrre un’armonia che si accordi col canto?

E le corde danno un’armonia ben modulata, perché sono toccate da un unico plettro ma con vibrazioni diverse. Perciò il maestro per edificare tutti nell’unica virtù della carità deve toccare il cuore degli ascoltatori con una sola dottrina ma con un diverso genere di esortazione.



Nell’arte della predicazione bisogna osservare una grande diversità di modi

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Infatti deve essere diverso il modo con cui si ammoniscono gli uomini e le donne. Diversa l’ammonizione per i giovani e per i vecchi; per i poveri e per i ricchi; per gli allegri e per i tristi; per i sudditi e per i prelati; per i servi e per i padroni; per i sapienti di questo mondo e per gli incolti; per gli sfrontati e per i timidi; i presuntuosi e i pusillanimi; gli impazienti e i pazienti; i benevoli e gli invidiosi; i semplici e gli insinceri; i sani e i malati; coloro che temono i castighi e perciò conducono una vita innocente e quelli tanto induriti nell’iniquità che neppure i castighi li correggono; i taciturni e i chiacchieroni; i pigri e i precipitosi; i mansueti e gli iracondi; gli umili e gli orgogliosi; gli ostinati e gli incostanti; i golosi e i temperanti; quelli che distribuiscono per misericordia i propri beni, e coloro che fanno di tutto per rapire quelli degli altri; quelli che né rapiscono i beni altrui né elargiscono i propri, e coloro che distribuiscono ciò che hanno e tuttavia non desistono dal rapire i beni altrui; i litigiosi e i pacifici; i seminatori di discordia e gli operatori di pace; coloro che non intendono rettamente le parole della legge divina, e coloro che, invece, le intendono certo rettamente ma non ne parlano umilmente; coloro che sono in grado di predicare degnamente ma temono di farlo per eccessiva umiltà e quelli a cui sarebbe proibito da qualche difetto o dall’età e tuttavia l’irruenza li spinge a farlo; quelli che prosperano in tutto quel che desiderano nei beni temporali, e quelli che, pur accesi di desiderio delle cose mondane, durano la fatica di una pesante fortuna avversa; quelli che sono vincolati dal matrimonio, e quelli che sono liberi dal vincolo matrimoniale; quelli che hanno esperienza di unione carnale, e quelli che non l’hanno; quelli che piangono peccati di opere, e quelli che piangono peccati di pensiero; quelli che piangono i peccati e tuttavia non se ne staccano, e quelli che se ne staccano e tuttavia non li piangono; quelli che addirittura lodano le azioni illecite che compiono, e quelli che accusano le loro depravazioni ma non le evitano; quelli che sono vinti da una improvvisa concupiscenza, e quelli che restano prigionieri della colpa con deliberazione; quelli che commettono frequentemente peccati, sia pure minimi, e quelli che si custodiscono dai piccoli ma talvolta’affondano nei più gravi; quelli che non incominciano neppure a fare il bene, e quelli che dopo averlo incominciato non lo portano a termine; coloro che fanno il male di nascosto e il bene in pubblico, e quelli che nascondono il bene che fanno e tuttavia lasciano che si pensi male di loro per certe loro azioni pubbliche. Ma non ci sarebbe alcuna utilità a passare in rassegna in una breve enumerazione tutte queste situazioni se non esponessimo anche, con la maggiore brevità possibile, i modi dell’ammonizione adatti a ciascuna di esse. Dunque deve essere diverso il modo di ammonire gli uomini e le donne poiché agli uni bisogna imporre obblighi più gravi affinché gravi doveri li rendano sempre operanti nell’esercizio del bene; alle altre invece bisogna imporre pesi più leggeri che le convertano come accarezzandole. Diverso deve essere il modo di ammonire i giovani e i vecchi poiché è la severità dell’ammonizione che per lo più guida i primi nel loro progresso mentre è un’amorevole preghiera che dispone i secondi a un agire migliore. Poiché è scritto: Non sgridare un anziano ma pregalo come un padre (
1Tm 5,1).



Come bisogna ammonire i poveri e i ricchi

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Diverso è il modo di ammonire i poveri e i ricchi poiché agli uni dobbiamo offrire il sollievo della consolazione di fronte alla tribolazione, agli altri invece il timore di fronte all’esaltazione. Al povero, il Signore dice, per mezzo del profeta: Non temere perché non sarai confuso. E non molto tempo dopo dice con dolcezza: Poverina, sbattuta dalla tempesta (
Is 48,10). E ancora la consola dicendo: Ti ho scelto nel crogiolo della povertà (Is 54,4 Is 54,11). Paolo, al contrario, a proposito dei ricchi dice al discepolo: Ai ricchi di questo secolo ordina di non essere superbi e di non sperare nelle loro incerte ricchezze (1Tm 6,17); dove occorre notare che il maestro dell’umiltà non dice: prega ma ordina, perché quantunque si debba usare misericordia alla debolezza, non si deve onore all’orgoglio. Dunque, ciò che è giusto dire a tali persone viene loro tanto più giustamente comandato quanto più esse si gonfiano nell’esaltazione del loro pensiero riguardo a realtà che passano. Di costoro il Signore dice nell’Evangelo: Guai a voi, ricchi, che avete la vostra consolazione (Lc 6,24). Poiché infatti essi ignorano in che cosa consistono le gioie eterne e si consolano con la ricchezza della vita presente. Bisogna allora offrire consolazione a coloro che ardono nel crogiolo della povertà, mentre agli altri, che si esaltano nella consolazione della gloria mondana, occorre insinuare il timore; affinché i poveri apprendano che possiedono ricchezze che non vedono e i ricchi sappiano che non possono conservare le ricchezze che vedono. Spesso tuttavia la qualità dei costumi inverte l’ordine delle persone, per cui il ricco è umile e il povero orgoglioso. Subito allora la parola del predicatore deve adattarsi alla vita di chi ascolta così da colpire con tanto maggior rigore l’orgoglio nel povero in quanto neppure la povertà che gli è stata imposta riesce a piegarlo; e con tanta più dolcezza accarezzi l’umiltà dei ricchi in quanto neppure la ricchezza che inorgoglisce li esalta. Tuttavia non di rado anche il ricco superbo deve essere placato con dolce esortazione, perché spesso dure ferite si alleviano con medicamenti leggeri e la furia dei pazzi è ricondotta al senno da un medico amorevole, così che quando si viene loro incontro con dolcezza si mitiga la malattia, dell’insania. Infatti bisogna penetrare senza negligenza il significato più profondo di ciò che accadeva quando lo spirito avverso invadeva Saul, e David calmava la sua follia con la cetra (cf. 1S 16,23); giacché, a che cosa si accenna attraverso Saul se non all’orgoglio dei potenti? E a che cosa attraverso David se non all’umile vita dei santi? Dunque, quando Saul è afferrato dallo spirito immondo, la sua follia è moderata dal canto di David perché quando il sentimento dei potenti si muta in furore a causa dell’orgoglio, è opportuno che esso sia richiamato alla sanità della mente, dalla pacatezza del nostro parlare come dal dolce suono della cetra. Ma talvolta, quando si tratta di confutare dei potenti di questo mondo, occorre prima metterli alla prova usando delle similitudini come se si trattasse di affare che non riguarda loro; e quando avranno proferito una giusta sentenza come rivolta a un altro, allora con i modi opportuni bisogna colpirli direttamente con l’accusa della loro colpa, affinché il cuore, gonfio della sua potenza mondana, non si erga contro chi lo rimprovera — poiché è col suo stesso giudizio che questi calpesta il suo collo superbo — ed esso non provi a difendersi in alcun modo, legato com’è dalla sentenza pronunciata con la sua stessa bocca. Perciò, infatti, il profeta Natan era venuto ad accusare il re con l’aria di chiedere un giudizio contro un ricco in difesa di un povero (cf. 2S 12,1-15), affinché il re prima pronunciasse la sua sentenza e solamente dopo ascoltasse il suo peccato, senza poter contraddire ciò che era giusto, secondo quanto egli stesso aveva proferito contro di sé. E così l’uomo santo considerando insieme il peccatore e il re, secondo un mirabile procedimento, prima legò il re temerario attraverso la confessione quindi lo troncò con l’accusa; per un poco celò chi veramente cercava ma colpi improvvisamente colui che teneva stretto. Forse avrebbe agito su di lui con minore efficacia se fin dal principio del discorso avesse voluto colpire apertamente la colpa, mentre anticipando la similitudine rese più acuto il rimprovero che essa nascondeva. Era venuto come un medico da un malato, vedeva che la ferita doveva essere tagliata ma dubitava della pazienza del malato; pertanto, nascose il bisturi sotto la veste e trattolo improvvisamente lo conficcò nella ferita, perché il malato lo sentisse tagliare prima di vederlo e non si fosse rifiutato di sentirlo se l’avesse veduto in precedenza.



Come bisogna ammonire gli allegri e i tristi

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Diverso è il modo di ammonire gli allegri e i tristi. Agli allegri evidentemente bisogna presentare le tristezze che tengono dietro al castigo; ai tristi invece i gaudii promessi come frutto del regno. Gli allegri imparino dalla durezza delle minacce ciò che devono temere; i tristi ascoltino le gioie del premio che già possono pregustare. Ai primi, infatti, è detto: Guai a voi che ora ridete, poiché piangerete (
Lc 6,25); gli altri invece ascoltano l’insegnamento del medesimo maestro: Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà e nessuno vi toglierà la vostra gioia (Jn 16,22). Alcuni però non diventano allegri o tristi per le circostanze ma lo sono per temperamento nativo e ad essi bisogna certamente far conoscere che ci sono dei vizi verso i quali certi temperamenti sono più proclivi: infatti le persone allegre sono facili alla lussuria, le tristi all’ira. Perciò è necessario che ognuno consideri non solamente ciò che deve sostenere a causa del suo temperamento, ma anche ciò che lo preme da vicino con peggiore pericolo, perché non avvenga che, mentre lotta contro ciò che deve sopportare, si trovi a soccombere davanti a quel vizio dal quale pensa di essere libero.



Come bisogna ammonire i sudditi e i prelati

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Diverso è il modo di ammonire i sudditi e i prelati, affinché l’assoggettamento non annienti i primi e la posizione elevata non esalti i secondi. Quelli non compiano meno di ciò che è stato loro ordinato, e questi non ordinino pila di quanto giustamente si può compiere; i primi siano sottomessi umilmente e gli altri presiedano con moderazione. Infatti, per quanto si può anche intendere in modo figurato, ai sudditi viene detto: Figli, obbedite ai vostri genitori, nel Signore; e per i prelati c’è il precetto: E voi, padri, non provocate all’ira i vostri figli (
Col 3,20-21). I primi imparino come disporre il proprio intimo agli occhi del Giudice occulto; e gli altri come offrire all’esterno esempi di una vita buona anche a coloro che sono stati loro affidati. I prelati, infatti, devono sapere che se commettono azioni perverse sono degni di morire tante volte quanti sono gli esempi di perdizione che essi offrono ai loro sudditi. Perciò è necessario che si custodiscano dalla colpa con una cautela tanto maggiore in quanto non sono soli a morire, a causa delle loro azioni perverse, ma sono rei delle anime altrui che essi hanno distrutto con i loro cattivi esempi. Così occorre ammonire i sudditi, che saranno severamente puniti se non sapranno farsi trovare liberi da colpa, almeno quanto a se stessi; e i prelati, che saranno giudicati degli errori dei sudditi anche se essi si sentono tranquilli per quanto li riguarda personalmente. I sudditi abbiano una cura tanto pila sollecita del proprio dovere in quanto non devono preoccuparsi degli altri; ma i prelati provvedano agli interessi altrui senza tralasciare di curare i propri, e per questi siano ferventi e solleciti come in nulla devono essere pigri a custodire quanti sono stati loro affidati. Infatti a colui che deve provvedere solo a se stesso viene detto: Va’ dalla formica, pigro, e considera le sue vie e impara la sapienza (Pr 6,6); ma all’altro viene fatta una terribile ammonizione quando gli è detto: Figlio mio, ti sei impegnato per il tuo amico, hai dato la tua mano a un estraneo e ti sei preso al laccio con le parole della tua bocca e sei prigioniero dei tuoi propri discorsi (Pr 6,1). Infatti, impegnarsi per un amico equivale a prendere su di sé l’anima di un altro a rischio della propria vita; per questo poi si dà anche la mano a un estraneo, perché l’animo si lega a una preoccupazione e a una sollecitudine che prima non aveva. Ed egli è preso al laccio dalle parole della sua bocca e prigioniero dei propri discorsi, perché mentre è costretto a dire cose buone a coloro che gli sono stati affidati è necessario che prima egli stesso custodisca ciò che dice, ed è quindi propriamente preso al laccio dalle parole della sua bocca quando è costretto dalla coerenza a non abbandonarsi a una vita diversa da quanto egli va insegnando. E perciò presso il severo Giudice egli è costretto ad adempiere, praticamente, tutto quanto risulta che egli ha imposto agli altri a parole. Segue poi subito e opportunamente l’esortazione: Dunque, fa’ quanto ti dico, figlio mio, e liberati poiché sei caduto nelle mani del tuo prossimo, corri, affrettati, sveglia il tuo amico, non dare sonno ai tuoi occhi, non sonnecchino le tue palpebre (Pr 6,3-4). Chi infatti è preposto agli altri come esempio di vita è ammonito non solo a vegliare lui stesso ma anche a svegliare l’amico. Giacché non basta, perché la sua vita sia buona, che vegli, se non separa dal torpore del peccato anche colui a cui presiede. Ed è detto bene: Non dare sonno ai tuoi occhi, non sonnecchino le tue palpebre. Dare sonno agli occhi significa trascurare affatto la cura dei sudditi cessando l’attenzione per loro. E le palpebre sonnecchiano quando i nostri pensieri sanno che cosa bisogna rimproverare ai sudditi ma lo dissimulano, resi indolenti dalla pigrizia. Infatti, dormire profondamente è non conoscere e non correggere le azioni dei sudditi, mentre non è dormire ma sonnecchiare, il conoscere ciò che va rimproverato e tuttavia non correggerlo coi giusti rimproveri, per una specie di pigra noia dello spirito. Ma, sonnecchiando, l’occhio cade nel sonno profondo, e ciò avviene per lo più quando chi governa non taglia il male che conosce, e quindi poi, a causa della sua negligenza, può giungere addirittura al punto di non sapere più riconoscere il peccato commesso dai sudditi. Pertanto, bisogna ammonire coloro che governano ad avere gli occhi attentissimi, dentro di sé e attorno, attraverso una accurata vigilanza e ad adoperarsi per divenire animali celesti (cf. Ez. Ez 1,18): quegli animali celesti che vengono descritti tutti pieni di occhi di dentro e di fuori (cf. Ap. Ap 6,6). Ed è certo cosa degna che tutti quelli che governano abbiano occhi rivolti dentro di sé e attorno e, mentre cercano di piacere nel loro intimo al Giudice interiore, offrendo all’esterno esempi di vita scorgano anche ciò che va corretto negli altri. I sudditi poi vanno ammoniti a non giudicare temerariamente la vita dei loro superiori, se capita di vederli fare qualche cosa degna di rimprovero, perché non accada che, mentre giustamente rimproverano cose malfatte, poi per un impulso orgoglioso, sprofondino in mali peggiori. Bisogna ammonirli che, quando considerano le colpe dei superiori, non diventino arroganti verso di loro, ma se si danno di fatto in essi alcune gravi colpe, le discernano così però da non rifiutarsi, in ogni caso, di portare nei loro confronti il giogo del rispetto dovuto, costretti a ciò dal timore di Dio. Ciò si dimostra meglio portando l’esempio di quanto fece David: una volta che Saul, il suo persecutore, era entrato in una grotta per evacuare, e là c’era David coi suoi uomini — il quale già da lungo tempo portava il peso della sua persecuzione — questi, poiché i suoi lo incitavano a colpire Saul, li persuase con la risposta che non si doveva mettere le mani sull’unto del Signore. Tuttavia si alzò di nascosto e gli tagliò il lembo del mantello (cf. 1S 24,4 ss.). Che cosa rappresenta Saul se non le cattive guide delle anime; e David, se non i buoni sudditi? Pertanto, Saul che evacua designa i superiori empi che estendono la malizia concepita nel cuore a compiere opere maleodoranti, e mostrano nell’aperta esecuzione dei fatti i pensieri colpevoli del loro intimo. E tuttavia David ebbe timore di colpirlo perché le pie menti dei sudditi che si astengono da ogni pestifera maldicenza non colpiscono la vita dei superiori, con la spada della loro lingua, anche quando li rimproverano per la loro imperfezione. E se pure talvolta, per la loro debolezza fanno fatica ad astenersi dal parlare di certe mancanze dei superiori più gravi e manifeste, e tuttavia lo fanno umilmente, è come se tagliassero in silenzio l’orlo del mantello; perché questo mancare verso la dignità del superiore, sia pure senza nuocere e di nascosto, equivale a rovinare la veste del re costituito su di loro. Ma essi poi rientrano in se stessi e si rimproverano aspramente perfino di quel leggerissimo taglio operato con la parola. Perciò si trova giustamente scritto in quel luogo: Dopo ciò David percosse il suo cuore, per aver tagliato l’orlo del mantello di Saul (1S 24,6). Dunque, le azioni dei superiori non bisogna ferirle con la spada della bocca, anche quando si giudica che sia giusto rimproverarle. Se però qualche volta la lingua si lascia andare anche per pochissimo contro di loro, bisogna che il cuore si stringa per il dolore del pentimento finché rientri in se stesso e, avendo peccato contro l’autorità che gli è preposta, tema molto il giudizio di colui che gliel’ha preposta. Perché quando pecchiamo contro i superiori contravveniamo a quella disposizione che ce li ha preposti. Perciò anche Mosè, quando venne a sapere che il popolo si lamentava contro di lui e contro Aronne, disse: Che cosa siamo noi? La vostra mormorazione non è contro di noi, ma contro il Signore (Ex 16,8).




Regola pastorale 209