Reconciliatio & paen. IT 9


  III. L’iniziativa di Dio e il ministero della Chiesa

10     Comunità riconciliata e riconciliatrice, la Chiesa non può dimenticare che alle sorgenti del suo dono e della sua missione di riconciliazione si trova l’iniziativa, piena di amore compassionevole e di misericordia, di quel Dio che è amore (cf. 1Jn 4,8) e che per amore ha creato gli uomini (cf. Sg 11,23-26 Gn 1,27 Ps 8,4-8): li ha creati, affinché vivano in amicizia con lui e in comunione fra di loro.


  La riconciliazione viene da Dio

          Dio è fedele al suo disegno eterno anche quando l’uomo, spinto dal maligno (cf. Sg 2,24) e trascinato dal suo orgoglio, abusa della libertà, datagli per amare e cercare generosamente il bene, rifiutando l’obbedienza al suo Signore e Padre; anche quando l’uomo, invece di rispondere con amore all’amore di Dio, gli si oppone come a un suo rivale, illudendosi e presumendo delle sue forze, con la conseguente rottura dei rapporti con colui che lo ha creato. Nonostante questa prevaricazione dell’uomo, Dio rimane fedele nell’amore. Certo, il racconto del giardino dell’Eden ci fa meditare sulle funeste conseguenze del rifiuto del Padre, che si traduce nel disordine interno all’uomo e nella rottura dell’armonia tra l’uomo e la donna, tra fratello e fratello (cf. Gn 3,12-13 Gn 4,1-16). Anche la parabola evangelica dei due figli che si allontanano, in diverso modo, dal padre, scavando un abisso fra di loro, è significativa. Il rifiuto dell’amore paterno di Dio e dei suoi doni di amore è sempre alla radice delle divisioni dell’umanità.

          Ma noi sappiamo che Dio, “ricco di misericordia” (Ep 2,4), come il padre della parabola, non chiude il cuore a nessuno dei suoi figli. Egli li attende, li cerca, li raggiunge là dove il rifiuto della comunione li imprigiona nell’isolamento e nella divisione, li chiama a raccogliersi intorno alla sua mensa, nella gioia della festa del perdono e della riconciliazione.

          Questa iniziativa di Dio si concretizza e manifesta nell’atto redentivo di Cristo, che si irradia nel mondo mediante il ministero della Chiesa.

          Infatti, secondo la nostra fede, il Verbo di Dio si è fatto carne ed è venuto ad abitare la terra degli uomini, è entrato nella storia del mondo, assumendola e ricapitolandola in sé (cf. Ep 1,10). Egli ci ha rivelato che Dio è amore e ci ha dato il “comandamento nuovo” (Jn 13,34) dell’amore, comunicandoci al tempo stesso la certezza che la via dell’amore si dischiude a tutti gli uomini, cosicché non è vano lo sforzo per instaurare la fratellanza universale (cf. Gaudium et spes GS 38). Vincendo, con la sua morte sulla croce, il male e la potenza del peccato, con la sua obbedienza piena di amore egli ha portato la salvezza a tutti ed è diventato per tutti “riconciliazione”. In lui Dio ha riconciliato l’uomo con sé.

          La Chiesa, continuando l’annuncio di riconciliazione fatto risuonare da Cristo nei villaggi della Galilea e di tutta la Palestina (cf. Mc 1,15), non cessa di invitare l’umanità intera a convertirsi e a credere alla buona novella. Essa parla in nome di Cristo, facendo suo l’appello dell’apostolo Paolo, che abbiamo già ricordato: “Noi fungiamo... da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: Lasciatevi riconciliare con Dio” (2Co 5,20).

          Chi accetta questo appello entra nell’economia della riconciliazione e fa l’esperienza della verità contenuta in quell’altro annuncio di san Paolo, secondo il quale Cristo “è nostra pace, egli che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia (...), facendo la pace per riconciliare tutti e due con Dio” (Ep 2,14-16). Se questo testo riguarda direttamente il superamento della divisione religiosa tra Israele, come popolo eletto dell’Antico Testamento, e gli altri popoli, chiamati tutti a far parte della nuova alleanza, esso contiene però l’affermazione della nuova universalità spirituale, voluta da Dio e operata da lui mediante il sacrificio del suo Figlio, il Verbo fatto uomo, senza limiti ed esclusioni di sorta, per tutti coloro che si convertono e credono a Cristo. Tutti, dunque, siamo chiamati a godere i frutti di questa riconciliazione voluta da Dio: ogni uomo, ogni popolo.


  La Chiesa, grande sacramento di riconciliazione

11     La Chiesa ha la missione di annunciare questa riconciliazione e di esserne il sacramento nel mondo. Sacramento, cioè segno e strumento di riconciliazione, è la Chiesa a diversi titoli, di diverso valore, ma tutti convergenti nell’ottenere ciò che la divina iniziativa di misericordia vuol concedere agli uomini.

          Lo è, anzitutto, per la sua stessa esistenza di comunità riconciliata, che testimonia e rappresenta nel mondo l’opera di Cristo. Lo è, poi, per il suo servizio di custode e di interprete della Sacra Scrittura, che è lieta novella di riconciliazione, in quanto fa conoscere di generazione in generazione il disegno d’amore di Dio e indica a ciascuno le vie dell’universale riconciliazione in Cristo. Lo è, infine, per i sette sacramenti, che in un modo proprio a ciascuno “fanno la Chiesa” (cf. S. Agostino, De civitate Dei, XXII, 17: CCL 48,835s.; S. Tommaso, Summa theologiae,
III 64,2). Infatti, poiché commemorano e rinnovano il mistero della pasqua di Cristo, tutti i sacramenti sono sorgente di vita per la Chiesa e, nelle sue mani, sono strumento di conversione a Dio e di riconciliazione degli uomini.


  Altre vie di riconciliazione

12     La missione riconciliatrice è propria di tutta la Chiesa, anche e soprattutto di quella già ammessa alla piena partecipazione della gloria divina con Maria vergine, con gli angeli e i santi, i quali contemplano e adorano il Dio tre volte santo. Chiesa del cielo, Chiesa della terra, Chiesa del purgatorio sono misteriosamente unite in questa cooperazione con Cristo nel riconciliare il mondo con Dio.

          La prima via di questa azione salvifica è quella della preghiera. Senza dubbio la Vergine, madre di Cristo e della Chiesa (cf. Paolo VI: AAS 56 [1964] 1015-1018), e i santi, giunti ormai alla fine del cammino terreno e in possesso della gloria di Dio, con la loro intercessione sostengono i loro fratelli pellegrini nel mondo, nell’impegno di conversione, di fede, di ripresa dopo ogni caduta, di azione per far crescere la comunione e la pace nella Chiesa e nel mondo. Nel mistero della comunione dei santi la riconciliazione universale si attua nella sua forma più profonda e più fruttuosa per la comune salvezza.

          C’è poi un’altra via: quella della predicazione. Discepola dell’unico maestro Gesù Cristo, la Chiesa a sua volta, come madre e maestra, non si stanca di proporre agli uomini la riconciliazione e non esita a denunciare la malizia del peccato, a proclamare la necessità della conversione, a invitare e a chiedere agli uomini di “lasciarsi riconciliare”. In realtà, è questa la sua missione profetica nel mondo d’oggi, come in quello di ieri: è la stessa missione del suo maestro e capo, Gesù. Come lui, la Chiesa adempirà sempre tale missione con sentimenti di amore misericordioso e porterà a tutti le parole del perdono e l’invito alla speranza, che vengono dalla croce.

          C’è, ancora, la via spesso così difficile e aspra dell’azione pastorale per riportare ogni uomo – chiunque sia e dovunque si trovi – sul cammino, a volte lungo, del ritorno al Padre nella comunione con tutti i fratelli.

          C’è, infine, la via della testimonianza, quasi sempre silenziosa, che nasce da una duplice consapevolezza della Chiesa: quella di essere in sé “indefettibilmente santa” (Lumen gentium
LG 39), ma anche bisognosa di andare “di giorno in giorno purificandosi, fino a che Cristo se la faccia comparire dinanzi gloriosa, senza macchia né ruga”, giacché, per i nostri peccati, talvolta “il suo volto rifulge meno” agli occhi di chi la guarda (cf. Unitatis redintegratio UR 4). Questa testimonianza non può non assumere due aspetti fondamentali: essere segno di quella carità universale che Gesù Cristo ha lasciato in eredità ai suoi seguaci, come prova dell’appartenenza al suo Regno; tradursi in fatti sempre nuovi di conversione e di riconciliazione all’interno e all’esterno della Chiesa col superamento delle tensioni, col perdono reciproco, con la crescita nello spirito di fraternità e di pace, da propagare nel mondo intero. Lungo questa via la Chiesa potrà operare validamente per far nascere quella che il mio predecessore Paolo VI chiamava la “civiltà dell’amore”.


  Seconda parte

L’amore più grande del peccato


Il dramma dell’uomo

13     Come scrive l’apostolo san Giovanni, “se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati” (1Jn 1,8s.). Queste parole ispirate, scritte agli albori della Chiesa, avviano meglio di qualsiasi altra espressione umana quel discorso sul peccato, che è strettamente connesso con quello sulla riconciliazione. Esse colgono il problema del peccato nel suo orizzonte antropologico, in quanto parte integrante della verità sull’uomo, ma lo inseriscono subito nell’orizzonte divino, nel quale il peccato è confrontato con la verità dell’amore divino, giusto, generoso e fedele, che si manifesta soprattutto col perdono e la redenzione. Perciò, lo stesso san Giovanni scrive poco oltre che “qualunque cosa (il nostro cuore) ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore” (1Jn 3,20).

          Riconoscere il proprio peccato, anzi – andando ancora più a fondo nella considerazione della propria personalità – riconoscersi peccatore, capace di peccato e portato al peccato, è il principio indispensabile del ritorno a Dio. È l’esperienza esemplare di Davide, che dopo “aver fatto male agli occhi del Signore”, rimproverato dal profeta Natan (cf. 2S 11-12), esclama: “Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te, contro te solo ho peccato; quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto” (Ps 51,5s.). Del resto, Gesù mette sulla bocca e nel cuore del figlio prodigo quelle significative parole: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te” (Lc 15,18 Lc 15,21).

          In realtà, riconciliarsi con Dio suppone e include il distaccarsi con lucidità e determinazione dal peccato, in cui si è caduti. Suppone e include, dunque, il fare penitenza nel senso più completo del termine: pentirsi, manifestare il pentimento, assumere l’atteggiamento concreto del pentito, che è quello di chi si mette sulla via del ritorno al Padre. Questa è una legge generale, che ciascuno deve seguire nella situazione particolare in cui si trova. Il discorso sul peccato e sulla conversione, infatti, non può essere svolto solo in termini astratti.

          Nella condizione concreta dell’uomo peccatore, in cui non può esservi conversione senza riconoscimento del proprio peccato, il ministero di riconciliazione della Chiesa interviene in ogni caso con una finalità schiettamente penitenziale, cioè per riportare l’uomo al “cognoscimento di sé”, secondo l’espressione di santa Caterina da Siena (Lettere, Firenze 1970, I, pp. 3s.), al distacco dal male, al ristabilimento dell’amicizia con Dio, al riordinamento interiore, alla nuova conversione ecclesiale. Anzi, oltre l’ambito della Chiesa e dei credenti, il messaggio e il ministero della penitenza sono rivolti a tutti gli uomini, perché tutti hanno bisogno di conversione e di riconciliazione (cf. Rm 3,23-26).

          Per adempiere adeguatamente tale ministero penitenziale, è necessario anche valutare, con gli “occhi illuminati” (cf. Ep 1,18) della fede, le conseguenze del peccato, che sono motivo di divisione e di rottura non solo all’interno di ogni uomo, ma anche nelle varie cerchie in cui egli vive: familiare, ambientale, professionale, sociale, come tante volte si può sperimentalmente constatare, a conferma della pagina biblica riguardante la città di Babele e la sua torre (cf. Gn 11,1-9). Intenti a costruire ciò che doveva essere a un tempo simbolo e focolare di unità, quegli uomini si ritrovarono più dispersi di prima, confusi nel linguaggio, divisi tra loro, incapaci di consenso e di convergenza.

          Perché fallì l’ambizioso progetto? Perché “si affaticarono invano i costruttori” (cf. Ps 127,1)? Perché gli uomini avevano posto quale segno e garanzia dell’auspicata unità soltanto un’opera delle loro mani, dimentichi dell’azione del Signore. Essi avevano puntato sulla sola dimensione orizzontale del lavoro e della vita sociale, noncuranti di quella verticale, per la quale si sarebbero trovati radicati in Dio, loro Creatore e Signore, e protesi verso di lui come fine ultimo del loro cammino.

          Ora si può dire che il dramma dell’uomo d’oggi, come dell’uomo di tutti i tempi, consista proprio nel suo carattere babelico.


  I. Il mistero del peccato

14     Se leggiamo la pagina biblica della città e della torre di Babele alla luce della novità evangelica, e la confrontiamo con l’altra pagina della caduta dei progenitori, possiamo ricavarne preziosi elementi per una presa di coscienza del mistero del peccato. Questa espressione, nella quale echeggia ciò che san Paolo scrive circa il mistero dell’iniquità (cf. 2Th 2,7), tende a farci percepire quel che di oscuro e di inafferrabile si cela nel peccato. Questo, senza dubbio, è opera della libertà dell’uomo; ma dentro il suo stesso spessore umano agiscono fattori, per i quali esso si situa al di là dell’umano, nella zona di confine dove la coscienza, la volontà e la sensibilità dell’uomo sono in contatto con le forze oscure che, secondo san Paolo, agiscono nel mondo fin quasi a signoreggiarlo (cf. Rm 7,7-25).


  La disobbedienza a Dio

          Dalla narrazione biblica relativa alla costruzione della torre di Babele emerge un primo elemento, che ci aiuta a capire il peccato: gli uomini hanno preteso di edificare una città, riunirsi in una compagine sociale, esser forti e potenti senza Dio, se non proprio contro Dio. In questo senso, il racconto del primo peccato nell’Eden e il racconto di Babele, malgrado notevoli differenze di contenuto e di forma tra loro, hanno un punto di convergenza: in ambedue ci si trova di fronte a un’esclusione di Dio per l’opposizione frontale a un suo comandamento, per un gesto di rivalità nei suoi confronti, per l’ingannevole pretesa di essere “come lui” (Gn 3,5). Nel racconto di Babele l’esclusione di Dio non appare tanto in chiave di contrasto con lui, ma come dimenticanza e indifferenza di fronte a lui, quasi che Dio non meriti alcun interesse nell’ambito del disegno operativo e associativo dell’uomo. Ma in ambedue i casi viene troncato con violenza il rapporto con Dio. Nel caso dell’Eden appare in tutta la sua gravità e drammaticità ciò che costituisce l’essenza più intima e più oscura del peccato: la disobbedienza a Dio, alla sua legge, alla norma morale che egli ha dato all’uomo, scrivendogliela nel cuore e confermandola e perfezionandola con la rivelazione.

          Esclusione di Dio, rottura con Dio, disobbedienza a Dio: lungo tutta la storia umana questo è stato ed è, sotto forme diverse, il peccato, che può giungere fino alla negazione di Dio e della sua esistenza: è il fenomeno chiamato ateismo. Disobbedienza dell’uomo, che – con un atto della sua libertà – non riconosce la signoria di Dio sulla sua vita, almeno in quel determinato momento in cui viola la sua legge.


  La divisione tra i fratelli

15     Nelle narrazioni bibliche sopra ricordate la rottura con Dio sfocia drammaticamente nella divisione tra i fratelli. Nella descrizione del “primo peccato”, la rottura con Jahvè spezza al tempo stesso il filo dell’amicizia che univa la famiglia umana, cosicché le pagine successive della Genesi ci mostrano l’uomo e la donna, che puntano quasi il dito accusatore l’uno contro l’altra (cf. Gen Gn 3,12); poi il fratello che, ostile al fratello, finisce col togliergli la vita (cf. Gn 4,2-16). Secondo la narrazione dei fatti di Babele, la conseguenza del peccato è la frantumazione della famiglia umana, già cominciata col primo peccato e ora giunta all’estremo nella sua forma sociale.

          Chi vuole indagare il mistero del peccato non può non considerare questa concatenazione di causa e di effetto. Come rottura con Dio, il peccato è l’atto di disobbedienza di una creatura che, almeno implicitamente, rifiuta colui dal quale è uscita e che la mantiene in vita; è, dunque, un atto suicida. Poiché col peccato l’uomo rifiuta di sottomettersi a Dio, anche il suo equilibrio interiore si rompe e proprio al suo interno scoppiano contraddizioni e conflitti. Così lacerato, l’uomo produce quasi inevitabilmente una lacerazione nel tessuto dei suoi rapporti con gli altri uomini e col mondo creato. È una legge e un fatto oggettivo, che hanno riscontro in tanti momenti della psicologia umana e della vita spirituale, come pure nella realtà della vita sociale, dov’è facile osservare le ripercussioni e i segni del disordine interiore.

          Il mistero del peccato si compone di questa doppia ferita, che il peccatore apre nel suo proprio fianco e nel rapporto col prossimo. Perciò, si può parlare di peccato personale e sociale: ogni peccato è personale sotto un aspetto; sotto un altro aspetto, ogni peccato è sociale, in quanto e perché ha anche conseguenze sociali.


  Peccato personale e peccato sociale

16     Il peccato, in senso vero e proprio, è sempre un atto della persona, perché è un atto di libertà di un singolo uomo, e non propriamente di un gruppo o di una comunità. Quest’uomo può essere condizionato, premuto, spinto da non pochi né lievi fattori esterni, come anche può essere soggetto a tendenze, tare, abitudini legate alla sua condizione personale. In non pochi casi tali fattori esterni e interni possono attenuare, in maggiore o minore misura, la sua libertà e, quindi, la sua responsabilità e colpevolezza. Ma è una verità di fede, confermata anche dalla nostra esperienza e ragione, che la persona umana è libera. Non si può ignorare questa verità, per scaricare su realtà esterne – le strutture, i sistemi, gli altri – il peccato dei singoli. Oltretutto, sarebbe questo un cancellare la dignità e la libertà della persona, che si rivelano – sia pure negativamente e disastrosamente – anche in tale responsabilità per il peccato commesso. Perciò, in ogni uomo non c’è nulla di tanto personale e intrasferibile quanto il merito della virtù o la responsabilità della colpa.

          Atto della persona, il peccato ha le sue prime e più importanti conseguenze nel peccatore stesso: cioè, nella relazione di questi con Dio, che è il fondamento stesso della vita umana; nel suo spirito, indebolendone la volontà e oscurandone l’intelligenza.

          A questo punto dobbiamo chiederci a quale realtà si riferivano coloro che, nella preparazione del Sinodo e nel corso dei lavori sinodali, menzionarono con non poca frequenza il peccato sociale. L’espressione e il concetto, che ad essa è sotteso, hanno invero diversi significati.

          Parlare di peccato sociale vuol dire, anzitutto, riconoscere che, in virtù di una solidarietà umana tanto misteriosa e impercettibile quanto reale e concreta, il peccato di ciascuno si ripercuote in qualche modo sugli altri. È, questa, l’altra faccia di quella solidarietà che, a livello religioso, si sviluppa nel profondo e magnifico mistero della comunione dei santi, grazie alla quale si è potuto dire che “ogni anima che si eleva, eleva il mondo”. A questa legge dell’ascesa corrisponde, purtroppo, la legge della discesa, sicché si può parlare di una comunione del peccato, per cui un’anima che si abbassa per il peccato abbassa con sé la Chiesa e, in qualche modo, il mondo intero. In altri termini, non c’è alcun peccato, anche il più intimo e segreto, il più strettamente individuale, che riguardi esclusivamente colui che lo commette. Ogni peccato si ripercuote, con maggiore o minore veemenza, con maggiore o minore danno, su tutta la compagine ecclesiale e sull’intera famiglia umana. Secondo questa prima accezione, a ciascun peccato si può attribuire indiscutibilmente il carattere di peccato sociale.

          Alcuni peccati, però, costituiscono, per il loro oggetto stesso, un’aggressione diretta al prossimo e – più esattamente, in base al linguaggio evangelico – al fratello. Essi sono un’offesa a Dio, perché offendono il prossimo. A tali peccati si suole dare la qualifica di sociali, e questa è la seconda accezione del termine. In questo senso è sociale il peccato contro l’amore del prossimo, tanto più grave nella legge di Cristo, perché è in gioco il secondo comandamento, che è “simile al primo” (cf.
Mt 22,39 Mc 12,31 Lc 10,27-28). È egualmente sociale ogni peccato commesso contro la giustizia nei rapporti sia da persona a persona, sia dalla persona alla comunità, sia ancora dalla comunità alla persona. È sociale ogni peccato contro i diritti della persona umana, a cominciare dal diritto alla vita, non esclusa quella del nascituro, o contro l’integrità fisica di qualcuno; ogni peccato contro la libertà altrui, specialmente contro la suprema libertà di credere in Dio e di adorarlo; ogni peccato contro la dignità e l’onore del prossimo. Sociale è ogni peccato contro il bene comune e contro le sue esigenze, in tutta l’ampia sfera dei diritti e dei doveri dei cittadini. Sociale può essere il peccato di commissione o di omissione da parte di dirigenti politici, economici, sindacali, che, pur potendolo, non s’impegnano con saggezza nel miglioramento o nella trasformazione della società secondo le esigenze e le possibilità del momento storico; come pure da parte di lavoratori, che vengono meno ai loro doveri di presenza e di collaborazione, perché le aziende possano continuare a procurare il benessere a loro stessi, alle loro famiglie, all’intera società.

          La terza accezione di peccato sociale riguarda i rapporti tra le varie comunità umane. Questi rapporti non sempre sono in sintonia col disegno di Dio, che vuole nel mondo giustizia, libertà e pace tra gli individui, i gruppi, i popoli. Così la lotta di classe, chiunque ne sia il responsabile e, a volte, il codificatore, è un male sociale. Così la contrapposizione ostinata dei blocchi di nazioni e di una nazione contro l’altra, dei gruppi contro altri gruppi in seno alla stessa nazione, è pure un male sociale. In ambedue i casi, ci si può chiedere se si possa attribuire a qualcuno la responsabilità morale di tali mali e, quindi, il peccato. Ora si deve ammettere che realtà e situazioni, come quelle indicate, nel loro generalizzarsi e persino ingigantirsi come fatti sociali, diventano quasi sempre anonime, come complesse e non sempre identificabili sono le loro cause. Perciò, se si parla di peccato sociale, qui l’espressione ha un significato evidentemente analogico. In ogni caso, il parlare di peccati sociali, sia pure in senso analogico, non deve indurre nessuno a sottovalutare la responsabilità dei singoli, ma vuol essere un richiamo alle coscienze di tutti, perché ciascuno si assuma le proprie responsabilità, per cambiare seriamente e coraggiosamente quelle nefaste realtà e quelle intollerabili situazioni.

          Ciò premesso nel modo più chiaro e inequivocabile, bisogna subito aggiungere che non è legittima e accettabile un’accezione del peccato sociale, pur molto ricorrente ai nostri giorni in alcuni ambienti (cf. Libertatis nuntio: AAS 76 [1984] 885s.), la quale nell’opporre, non senza ambiguità, peccato sociale a peccato personale, più o meno inconsapevolmente conduca a stemperare e quasi a cancellare il personale, per ammettere solo colpe e responsabilità sociali. Secondo tale accezione, che rivela facilmente la sua derivazione da ideologie e sistemi non cristiani – forse accantonati oggi da coloro stessi che ne erano già i sostenitori ufficiali – praticamente ogni peccato sarebbe sociale, nel senso di essere imputabile non tanto alla coscienza morale di una persona, quanto ad una vaga entità e collettività anonima, che potrebbe essere la situazione, il sistema, la società, le strutture, l’istituzione.

          Orbene la Chiesa, quando parla di situazioni di peccato o denuncia come peccati sociali certe situazioni o certi comportamenti collettivi di gruppi sociali più o meno vasti, o addirittura di intere nazioni e blocchi di nazioni, sa e proclama che tali casi di peccato sociale sono il frutto, l’accumulazione e la concentrazione di molti peccati personali. Si tratta dei personalissimi peccati di chi genera o favorisce l’iniquità o la sfrutta; di chi, potendo fare qualcosa per evitare, o eliminare, o almeno limitare certi mali sociali, omette di farlo per pigrizia, per paura e omertà, per mascherata complicità o per indifferenza; di chi cerca rifugio nella presunta impossibilità di cambiare il mondo; e anche di chi pretende estraniarsi dalla fatica e dal sacrificio, accampando speciose ragioni di ordine superiore. Le vere responsabilità, dunque, sono delle persone.

          Una situazione – e così un’istituzione, una struttura, una società – non è, di per sé, soggetto di atti morali; perciò, non può essere, in se stessa, buona o cattiva. Al fondo di ogni situazione di peccato si trovano sempre persone peccatrici. Ciò è tanto vero che, se tale situazione può essere cambiata nei suoi aspetti strutturali e istituzionali per la forza della legge o – come più spesso avviene, purtroppo – per la legge della forza, in realtà il cambiamento si rivela incompleto, di poca durata e, in definitiva, vano e inefficace – per non dire controproducente –, se non si convertono le persone direttamente o indirettamente responsabili di tale situazione.


  Mortale, veniale

17     Ma ecco, nel mistero del peccato, una nuova dimensione, sulla quale l’intelligenza dell’uomo non ha mai cessato di meditare: quella della sua gravità. È una questione inevitabile, alla quale la coscienza cristiana non ha mai rinunciato a dare una risposta: perché e in quale misura il peccato è grave nell’offesa che fa a Dio e nella sua ripercussione sull’uomo? La Chiesa ha una sua dottrina in proposito e la riafferma nei suoi elementi essenziali, pur sapendo che non sempre è facile, nella concretezza delle situazioni, operare nette delimitazioni di confini.

          Già nell’Antico Testamento, per non pochi peccati – quelli commessi con deliberazione (cf.
Nb 15,30), le varie forme di impudicizia (cf. Lv 18,26-30), di idolatria (cf. Lv 19,4), di culto dei falsi dèi (cf. Lv 20,1-7) – si dichiarava che il reo doveva essere “eliminato dal suo popolo”, ciò che poteva anche significare condannato a morte (cf. Ex 21,17). Ad essi si contrapponevano altri peccati, soprattutto quelli commessi per ignoranza, che venivano perdonati mediante un sacrificio (cf. Lv 4,2ss. Lv 5 Nb 15,22-29).

          Anche in riferimento a quei testi la Chiesa, da secoli, costantemente parla di peccato mortale e di peccato veniale. Ma questa distinzione e questi termini ricevono luce soprattutto dal Nuovo Testamento, nel quale si trovano molti testi che enumerano e riprovano con forti espressioni i peccati particolarmente meritevoli di condanna (cf. Mt 5,28 Mt 6,23 Mt 12,31s Mt 15,19 Mc 3,28-30 Rm 1,29-31 Rm 13,13 Jc 4), oltre alla conferma del Decalogo fatta da Gesù stesso (cf. Mt 5,17 Mt 15,1-10 Mc 10,19 Lc 18,20). Voglio qui riferirmi specialmente a due pagine significative e impressionanti.

          In un testo della sua prima lettera, san Giovanni parla di un peccato che conduce alla morte (“pròs thánaton”) in contrapposizione a un peccato che non conduce alla morte (“mè pròs thánaton”) (cf. 1Jn 5,16s.). Ovviamente, qui il concetto di morte è spirituale: si tratta della perdita della vera vita o “vita eterna”, che per Giovanni è la conoscenza del Padre e del Figlio (cf. Jn 17,3), la comunione e l’intimità con loro. Il peccato che conduce alla morte sembra essere in quel brano la negazione del Figlio (cf. 1Jn 2,22), o il culto di false divinità (cf. 1Jn 5,21). Comunque, con tale distinzione di concetti Giovanni sembra voler accentuare l’incalcolabile gravità di ciò che è l’essenza del peccato, il rifiuto di Dio, che si attua soprattutto nell’apostasia e nell’idolatria, cioè nel ripudiare la fede nella verità rivelata e nell’equiparare a Dio certe realtà create, erigendole a idoli o falsi dèi (cf. 1Jn 5,16-21). Ma l’apostolo in quella pagina intende anche mettere in luce la certezza che viene al cristiano dal fatto di essere “nato da Dio” per la venuta del Figlio: c’è in lui una forza che lo preserva dalla caduta nel peccato; Dio lo custodisce, “il maligno non lo tocca”. Che se pecca per debolezza o per ignoranza, c’è in lui la speranza della remissione, anche per il sostegno che gli proviene dalla preghiera congiunta dei fratelli.

          In un’altra pagina del Nuovo Testamento, nel Vangelo di Matteo (Mt 12,31s.), Gesù stesso parla di una “bestemmia contro lo Spirito Santo”, la quale è “irremissibile”, poiché essa è nelle sue manifestazioni un ostinato rifiuto di conversione all’amore del Padre delle misericordie.

          Si tratta, beninteso, di espressioni estreme e radicali: rifiuto di Dio, rifiuto della sua grazia e, quindi, opposizione al principio stesso della salvezza (S. Tommaso, Summa theologiae, ), per cui l’uomo sembra volontariamente precludersi la via della remissione. È da sperare che ben pochi vogliano ostinarsi fino alla fine in questo atteggiamento di ribellione o addirittura di sfida contro Dio, il quale, d’altra parte, nel suo amore misericordioso è più grande del nostro cuore – come ci insegna ancora san Giovanni (cf. 1Jn 3,20) – e può vincere tutte le nostre resistenze psicologiche e spirituali, sicché – come scrive san Tommaso d’Aquino – “non c’è da disperare della salvezza di nessuno in questa vita, considerata l’onnipotenza e la misericordia di Dio” (S. Tommaso, Summa theologiae, ).

          Ma dinanzi al problema dell’incontro di una volontà ribelle col Dio infinitamente giusto non si può non nutrire sentimenti di salutare “timore e tremore”, come suggerisce san Paolo (cf. Ph 2,12); mentre l’ammonimento di Gesù circa il peccato che non è “remissibile” conferma l’esistenza di colpe, che possono attirare sul peccatore, come pena, la “morte eterna”.

          Alla luce di questi e altri testi della Sacra Scrittura, i dottori e i teologi, i maestri spirituali e i pastori hanno distinto i peccati in mortali e veniali. Sant’Agostino, fra gli altri, parla di “letalia” o “mortifera crimina”, opponendoli a “venialia”, “levia” o “quotidiana”. Il significato che egli attribuisce a questi qualificativi influirà nel magistero successivo della Chiesa. Dopo di lui, sarà san Tommaso d’Aquino a formulare nei termini più chiari possibili la dottrina divenuta costante nella Chiesa.

          Nel definire e distinguere i peccati mortali e veniali, non poteva essere estraneo a san Tommaso e alla teologia del peccato, che si rifà a lui, il riferimento biblico e, quindi, il concetto di morte spirituale. Secondo il Dottore Angelico, per vivere spiritualmente l’uomo deve rimanere in comunione col supremo principio della vita, che è Dio, in quanto è il fine ultimo di tutto il suo essere e il suo agire. Ora il peccato è un disordine perpetrato dall’uomo contro questo principio vitale. E quando, “per mezzo del peccato, l’anima commette un disordine che va fino alla separazione dal fine ultimo – Dio –, al quale essa è legata per la carità, allora si ha il peccato mortale; invece, ogni volta che il disordine rimane al di qua della separazione da Dio, allora il peccato è veniale” (S. Tommaso, Summa theologiae, I-II 72,5). Per questa ragione, il peccato veniale non priva della grazia santificante, dell’amicizia con Dio, della carità, né quindi della beatitudine eterna, mentre siffatta privazione è appunto conseguenza del peccato mortale.

          Considerando, inoltre, il peccato sotto l’aspetto della pena che include, san Tommaso con altri dottori chiama mortale il peccato che, se non rimesso, fa contrarre una pena eterna; veniale il peccato che merita una semplice pena temporale (cioè parziale ed espiabile in terra o nel purgatorio).

          Se poi si guarda alla materia del peccato, allora le idee di morte, di rottura radicale con Dio, sommo bene, di deviazione dalla strada che porta a Dio o di interruzione del cammino verso di lui (tutti modi di definire il peccato mortale) si congiungono con l’idea di gravità del contenuto oggettivo: perciò, il peccato grave si identifica praticamente, nella dottrina e nell’azione pastorale della Chiesa, col peccato mortale.

          Cogliamo qui il nucleo dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, ribadito spesso e con vigore nel corso del recente Sinodo. Questo, infatti, non soltanto ha riaffermato quanto è stato proclamato dal Concilio Tridentino sull’esistenza e la natura dei peccati mortali e veniali, ma ha voluto ricordare che è peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso. È doveroso aggiungere – come è stato anche fatto nel Sinodo – che alcuni peccati, quanto alla loro materia, sono intrinsecamente gravi e mortali. Esistono, cioè, atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto. Questi atti, se compiuti con sufficiente consapevolezza e libertà, sono sempre colpa grave.

          Questa dottrina fondata sul Decalogo e sulla predicazione dell’Antico Testamento, ripresa nel kerigma degli apostoli e appartenente al più antico insegnamento della Chiesa, che la ripete fino ad oggi, ha un preciso riscontro nell’esperienza umana di tutti i tempi. L’uomo sa bene, per esperienza, che nel cammino di fede e di giustizia che lo porta verso la conoscenza e l’amore di Dio in questa vita e verso la perfetta unione con lui nell’eternità, può sostare o distrarsi, senza però abbandonare la via di Dio: in questo caso si ha il peccato veniale, il quale, tuttavia, non dovrà essere attenuato quasi che sia automaticamente qualcosa di trascurabile o un “peccato di poco conto”.

          Sennonché l’uomo sa pure, per dolorosa esperienza, che con atto consapevole e libero della sua volontà può fare un’inversione di marcia, camminare nel senso opposto al volere di Dio e così allontanarsi da lui (“aversio a Deo”), rifiutando la comunione di amore con lui, staccandosi dal principio di vita che è lui, e scegliendo, dunque, la morte.

          Con tutta la tradizione della Chiesa noi chiamiamo peccato mortale questo atto, per il quale un uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta Dio, la sua legge, l’alleanza di amore che Dio gli propone, preferendo volgersi a se stesso, a qualche realtà creata e finita, a qualcosa di contrario al volere divino (“conversio ad creaturam”). Il che può avvenire in modo diretto e formale, come nei peccati di idolatria, di apostasia, di ateismo; o in modo equivalente, come in tutte le disubbidienze ai comandamenti di Dio in materia grave. L’uomo sente che questa disubbidienza a Dio tronca il collegamento col suo principio vitale: è un peccato mortale, cioè un atto che offende gravemente Dio e finisce col rivolgersi contro l’uomo stesso con un’oscura e potente forza di distruzione.

          Durante l’assemblea sinodale è stata proposta da alcuni padri una distinzione tripartita fra i peccati, che sarebbero da classificare come veniali, gravi e mortali. La tripartizione potrebbe mettere in luce il fatto che fra i peccati gravi esiste una gradazione. Ma resta sempre vero che la distinzione essenziale e decisiva è fra peccato che distrugge la carità e peccato che non uccide la vita soprannaturale: fra la vita e la morte non si dà via di mezzo.

          Parimenti, si dovrà evitare di ridurre il peccato mortale a un atto di “opzione fondamentale” – come oggi si suol dire – contro Dio, intendendo con essa un esplicito e formale disprezzo di Dio o del prossimo. Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l’uomo, sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In effetti, in una tale scelta è già contenuto un disprezzo del precetto divino, un rifiuto dell’amore di Dio verso l’umanità e tutta la creazione: l’uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità. L’orientamento fondamentale, quindi, può essere radicalmente modificato da atti particolari. Senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l’aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria teologica, qual è appunto l’“opzione fondamentale”, intendendola in modo tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di peccato mortale.

          Se è da apprezzare ogni tentativo sincero e prudente di chiarire il mistero psicologico e teologico del peccato, la Chiesa però ha il dovere di ricordare a tutti gli studiosi di questa materia la necessità, da una parte, di essere fedeli alla parola di Dio che ci istruisce anche sul peccato, e il rischio, dall’altra, che si corre di contribuire ad attenuare ancora di più, nel mondo contemporaneo, il senso del peccato.



Reconciliatio & paen. IT 9