Reconciliatio & paen. IT 26

  La catechesi

26     Nella vasta area, in cui la Chiesa ha la missione di operare con lo strumento del dialogo, la pastorale della penitenza e della riconciliazione si rivolge ai membri del corpo della Chiesa, innanzitutto, con un’adeguata catechesi circa le due realtà distinte e complementari, alle quali i padri sinodali hanno dato una particolare importanza, e che hanno messo in rilievo in alcune delle “Propositiones” conclusive: appunto la penitenza e la riconciliazione. La catechesi, dunque, è il primo mezzo da impiegare.

          Alla radice della raccomandazione del Sinodo, così opportuna, si trova un presupposto fondamentale: ciò che è pastorale non si oppone al dottrinale, né può l’azione pastorale prescindere dal contenuto dottrinale, dal quale, anzi, trae la sua sostanza e la sua reale validità. Ora, se la Chiesa è “colonna e sostegno della verità” (
1Tm 3,15) ed è posta nel mondo come madre e maestra, come potrebbe tralasciare il compito di insegnare la verità che costituisce un cammino di vita?

          Dai pastori della Chiesa si attende, prima di tutto, una catechesi sulla riconciliazione. Questa non può non fondarsi sull’insegnamento biblico, specialmente quello neo-testamentario, circa la necessità di ricostituire l’alleanza con Dio in Cristo redentore e riconciliatore e, alla luce e come espansione di questa nuova comunione e amicizia, circa la necessità di riconciliarsi col fratello, a costo di dover interrompere l’offerta del sacrificio (cf. Mt 5,23s.). Su questo tema della riconciliazione fraterna Gesù insiste molto: ad esempio, quando invita a porgere l’altra guancia a chi ci ha percosso e a lasciare anche il mantello a chi ci ha preso la tunica (cf. Mt 5,38-40), o quando inculca la legge del perdono: perdono che ciascuno riceve nella misura in cui sa perdonare (cf. Mt 6,12), perdono da offrire anche ai nemici (cf. Mt 5,43ss.), perdono da concedere settanta volte sette (cf. Mt 18,21s.), cioè, in pratica, senza alcuna limitazione. A queste condizioni, realizzabili solo in un clima genuinamente evangelico, è possibile una vera riconciliazione sia fra gli individui, sia fra le famiglie, le comunità, le nazioni e i popoli. Da questi dati biblici sulla riconciliazione deriverà naturalmente una catechesi teologica, la quale integrerà nella sua sintesi anche gli elementi della psicologia, della sociologia e delle altre scienze umane, che possono servire per chiarire le situazioni, impostare bene i problemi, persuadere gli ascoltatori o i lettori a prendere risoluzioni concrete.

          Dai pastori della Chiesa si attende pure una catechesi sulla penitenza. Anche qui la ricchezza del messaggio biblico ne deve essere la sorgente. Questo messaggio sottolinea nella penitenza, anzitutto, il suo valore di conversione, termine col quale si cerca di tradurre la parola del testo greco “metànoia” (cf. Mc 1,4 Mc 1,14 Mt 3,2 Mt 4,17 Lc 3,8), che letteralmente significa lasciar capovolgere lo spirito per farlo volgere a Dio. Sono questi, del resto, i due elementi fondamentali emergenti dalla parabola del figlio perduto e ritrovato: il “rientrare in sé” (cf. Lc 15,17) e la decisione di tornare al padre. Non ci può essere riconciliazione senza questi atteggiamenti primordiali della conversione, e la catechesi deve spiegarli con concetti e termini adatti alle varie età, alle diverse condizioni culturali, morali e sociali.

          È un primo valore della penitenza che si prolunga nel secondo: penitenza significa anche pentimento. I due sensi della “metànoia” appaiono nella significativa consegna data da Gesù: “Se un tuo fratello si pente (= ritorna a te), perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte torna a te dicendo: "Mi pento", tu gli perdonerai” (Lc 17,3s.). Una buona catechesi mostrerà come il pentimento, tanto quanto la conversione, lungi dall’essere un sentimento superficiale, è un vero capovolgimento dell’anima.

          Un terzo valore è contenuto nella penitenza, ed è il movimento per il quale i precedenti atteggiamenti di conversione e di pentimento si manifestano all’esterno: è il fare penitenza. Questo significato è ben percepibile nel termine “metànoia”, come è usato dal Precursore secondo il testo dei sinottici (cf. Mt 3,2 Mc 1,2-6 Lc 3,1-6). Fare penitenza vuol dire, oltre tutto, ristabilire l’equilibrio e l’armonia rotti dal peccato, cambiare direzione anche a costo di sacrificio.

          Insomma, una catechesi sulla penitenza, la più completa e adeguata possibile, è inderogabile in un tempo come il nostro, nel quale gli atteggiamenti dominanti nella psicologia e nel comportamento sociale sono così in contrasto col triplice valore, già illustrato: l’uomo contemporaneo sembra far più fatica che mai a riconoscere i propri sbagli e a decidere di tornare sui suoi passi per riprendere il cammino dopo aver rettificato la marcia; egli sembra molto riluttante a dire “me ne pento” o “mi dispiace”; sembra rifiutare istintivamente, e spesso irresistibilmente, tutto ciò che è penitenza nel senso del sacrificio accolto e praticato per la correzione del peccato. A questo riguardo, vorrei sottolineare che, anche se mitigata da qualche tempo, la disciplina penitenziale della Chiesa non può essere abbandonata senza grave nocumento sia per la vita interiore dei cristiani e della comunità ecclesiale, sia per la loro capacità di irradiazione missionaria. Non è raro che non-cristiani siano sorpresi per la scarsa testimonianza di vera penitenza da parte dei discepoli di Cristo. È chiaro, peraltro, che la penitenza cristiana sarà autentica, se sarà ispirata dall’amore, e non dal mero timore; se consisterà in un serio sforzo di crocifiggere l’“uomo vecchio”, perché possa rinascere il “nuovo”, ad opera di Cristo; se seguirà come modello Cristo che, pur essendo innocente, scelse la via della povertà, della pazienza, dell’austerità e, si può dire, della vita penitente.

          Dai pastori della Chiesa si attende ancora – come ha ricordato il Sinodo – una catechesi sulla coscienza e la sua formazione. Anche questo è un tema di acuta attualità, visto che, nei sussulti a cui è soggetta la cultura del nostro tempo, viene troppo spesso aggredito, messo a prova, sconvolto, ottenebrato questo santuario interiore, cioè l’io più intimo dell’uomo: la sua coscienza. Per una sapiente catechesi sulla coscienza si possono trovare indicazioni preziose sia nei dottori della Chiesa, sia nella teologia del Concilio Vaticano II e, specialmente, nei due documenti sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (cf. Gaudium et spes GS 8 GS 16 GS 19 GS 26 GS 41 GS 48) e sulla libertà religiosa (cf. Dignitatis humanae, DH 2-4.). Su questa stessa linea il pontefice Paolo VI intervenne spesso, per ricordare la natura e il ruolo della coscienza nella nostra vita. Io stesso, seguendo le sue orme, non tralascio nessuna occasione per far luce su questa altissima componente della grandezza e dignità dell’uomo (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/1 [1982] 860s.), su questa “sorta di senso morale, che ci porta a discernere ciò che è bene da ciò che è male (...) come un occhio interiore, una capacità visiva dello spirito, in grado di guidare i nostri passi sulla via del bene”, ribadendo la necessità di formare cristianamente la propria coscienza, affinché essa non diventi “una forza distruttrice dell’umanità vera (della persona), anziché il luogo santo dove Dio gli rivela il suo vero bene” (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI/2 [1983] 256s.).

          Anche su altri punti di non minore rilevanza per la riconciliazione si attende la catechesi dei pastori della Chiesa.

          - Sul senso del peccato, che, come ho detto, si è non poco attenuato nel nostro mondo.

          - Sulla tentazione e le tentazioni: lo stesso Signore Gesù, Figlio di Dio, “provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato” (He 4,15), volle esser tentato dal maligno (cf. Mt 4,1-11 Mc 1,12s Lc 4,1-13), per indicare che, come lui, anche i suoi sarebbero sottoposti alla tentazione, nonché per mostrare come bisogna comportarsi nella tentazione. Per chi supplica il Padre di non esser tentato al di sopra delle proprie forze (cf. 1Co 10,13) e di non soccombere alla tentazione (cf. Mt 6,13 Lc 11,4), per chi non si espone alle occasioni, l’esser sottoposto a tentazione non significa aver peccato, ma è, piuttosto, occasione per crescere nella fedeltà e nella coerenza attraverso l’umiltà e la vigilanza.

          - Sul digiuno: che può praticarsi in forme antiche e nuove, come segno di conversione, di pentimento e di mortificazione personale e, al tempo stesso, di unione con Cristo crocifisso e di solidarietà con gli affamati e i sofferenti.

          - Sull’elemosina: che è mezzo per render concreta la carità, condividendo ciò di cui si dispone con colui che soffre le conseguenze della povertà.

          - Sul nesso intimo, che collega il superamento delle divisioni nel mondo alla comunione piena con Dio e fra gli uomini, scopo escatologico della Chiesa.

          - Sulle circostanze concrete, in cui si deve operare la riconciliazione (nella famiglia, nella comunità civile, nelle strutture sociali) e, particolarmente, sulle quattro riconciliazioni che riparano le quattro fratture fondamentali: riconciliazione dell’uomo con Dio, con se stesso, con i fratelli, con tutto il creato.

          Né la Chiesa può omettere, senza grave mutilazione del suo messaggio essenziale, una costante catechesi su quelli che il linguaggio cristiano tradizionale designa come i quattro novissimi dell’uomo: morte, giudizio (particolare e universale), inferno e paradiso. In una cultura, che tende a racchiudere l’uomo nella sua vicenda terrena più o meno riuscita, ai pastori della Chiesa si chiede una catechesi che dischiuda e illumini con le certezze della fede l’aldilà della vita presente: oltre le misteriose porte della morte si profila un’eternità di gioia nella comunione con Dio o di pena nella lontananza da lui. Soltanto in questa visione escatologica si può avere la misura esatta del peccato e sentirsi spinti decisamente alla penitenza e alla riconciliazione.

          Ai pastori zelanti e capaci di inventiva non mancano mai le occasioni per impartire questa ampia e varia catechesi, tenendo conto della diversità di cultura e di formazione religiosa di coloro ai quali si rivolgono. Le offrono spesso le letture bibliche e i riti della santa messa e degli altri sacramenti, come le stesse circostanze in cui essi vengono celebrati. Allo stesso scopo possono esser prese molte iniziative, quali predicazioni, lezioni, dibattiti, incontri e corsi di cultura religiosa, ecc., come avviene in molti luoghi. Desidero qui segnalare, in particolare, l’importanza e l’efficacia che, ai fini di tale catechesi, hanno le antiche missioni popolari. Se adattate alle peculiari esigenze del nostro tempo, esse possono essere, oggi come ieri, un valido strumento di educazione nella fede anche per quanto riguarda il settore della penitenza e della riconciliazione.

          Per la grande rilevanza che ha la riconciliazione, fondata sulla conversione, nel delicato campo dei rapporti umani e della convivenza sociale a tutti i livelli, compreso quello internazionale, non può mancare alla catechesi il prezioso apporto della dottrina sociale della Chiesa. Il puntuale e preciso insegnamento dei miei predecessori, a partire dal papa Leone XIII, a cui è venuto a unirsi il sostanzioso apporto della costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II con quello dei diversi episcopati sollecitati da varie circostanze nei rispettivi paesi, ha costituito un ampio e solido corpo di dottrina riguardante le molteplici esigenze inerenti alla vita della comunità umana, ai rapporti tra individui, famiglie, gruppi nei suoi diversi ambiti, e alla stessa costituzione di una società che voglia esser coerente con la legge morale, che è fondamento della civiltà.

          Alla base di questo insegnamento sociale della Chiesa si trova, ovviamente, la visione che essa trae dalla parola di Dio circa i diritti e i doveri degli individui, della famiglia e della comunità; circa il valore della libertà e le dimensioni della giustizia; circa il primato della carità; circa la dignità della persona umana e le esigenze del bene comune, al quale devono mirare la politica e la stessa economia. Su questi fondamentali principi del magistero sociale, che confermano e ripropongono i dettami universali della ragione e della coscienza dei popoli, poggia in gran parte la speranza di una pacifica soluzione di tanti conflitti sociali e, in definitiva, della riconciliazione universale.


  I sacramenti

27     Il secondo mezzo di istituzione divina, che dalla Chiesa è offerto alla pastorale della penitenza e della riconciliazione, è costituito dai sacramenti. Nel misterioso dinamismo dei sacramenti, così ricco di simbolismi e di contenuti, è possibile ravvisare un aspetto non sempre messo in luce: ciascuno di essi, oltreché della sua grazia propria, è segno anche di penitenza e riconciliazione e, dunque, in ciascuno di essi è possibile rivivere queste dimensioni dello spirito.

          Il battesimo è, certo, un lavacro salvifico, che – come dice san Pietro – vale “non (come) rimozione di sporcizia del corpo, ma (come) invocazione di salvezza, rivolta a Dio da parte di una buona coscienza” (
1P 3,21). È morte, sepoltura e risurrezione con Cristo morto, sepolto e risorto (cf. Rm 6,3-4 Col 2,12). È dono dello Spirito Santo per il tramite di Cristo (cf. Mt 3,11 Lc 3,16 Jn 1,33 Ac 1,5 Ac 11,16). Ma questo costitutivo essenziale e originale del battesimo cristiano, lungi dall’eliminare, arricchisce l’elemento penitenziale già presente nel battesimo, che Gesù stesso ricevette da Giovanni “per adempiere ogni giustizia” (cf. Mt 3,15): un fatto, cioè, di conversione e di reintegrazione nel giusto ordine di rapporti con Dio, di riconciliazione con Dio, con la cancellazione della macchia originale e il conseguente inserimento nella grande famiglia dei riconciliati.

          Parimenti la cresima, anche in quanto confermazione del battesimo e, con esso, sacramento di iniziazione, nel conferire la pienezza dello Spirito Santo e nel portare all’età adulta la vita cristiana, significa e realizza per ciò stesso una maggiore conversione del cuore e una più intima ed effettiva appartenenza alla medesima assemblea di riconciliati, che è la Chiesa di Cristo.

          La definizione, che sant’Agostino dà dell’eucaristia come “sacramentum pietatis, signum unitatis, vinculum caritatis” (In Iohannis Evangelium tractatus, 26, 13: CCL 36, 266), mette in chiara luce gli effetti di santificazione personale (“pietas”) e di riconciliazione comunitaria (“unitas” e “caritas”), che derivano dall’essenza stessa del mistero eucaristico, come rinnovamento incruento del sacrificio della croce, fonte di salvezza e di riconciliazione per tutti gli uomini. È necessario, tuttavia, ricordare che la Chiesa, guidata dalla fede in questo augusto sacramento, insegna che nessun cristiano, consapevole di peccato grave, può ricevere l’eucaristia prima di aver ottenuto il perdono di Dio. Come si legge nell’istruzione “Eucharisticum mysterium”, la quale, debitamente approvata da Paolo VI, conferma in pieno l’insegnamento del Concilio Tridentino: “L’eucaristia sia proposta ai fedeli anche “come antidoto, che ci libera dalle colpe quotidiane, e ci preserva dai peccati mortali”, e sia loro indicato il modo conveniente di servirsi delle parti penitenziali della liturgia della messa. “A colui che vuole comunicarsi venga ricordato... il precetto: L’uomo provi se stesso (1Co 11,28). E la consuetudine della Chiesa dimostra che quella prova è necessaria, perché nessuno consapevole di essere in peccato mortale, per quanto si creda contrito, si accosti alla santa eucaristia prima della confessione sacramentale. Che, se si trova in caso di necessità e non ha modo di confessarsi, faccia prima un atto di contrizione perfetta” (AAS 59 [1967] 560s.).

          Il sacramento dell’ordine è destinato a dare alla Chiesa i pastori, i quali, oltreché maestri e guide, sono chiamati a essere testimoni e operatori di unità, costruttori della famiglia di Dio, difensori e preservatori della comunione di questa famiglia contro i fermenti di divisione e di dispersione.

          Il sacramento del matrimonio, esaltazione dell’amore umano sotto l’azione della grazia, è segno, sì, dell’amore di Cristo per la Chiesa, ma anche della vittoria che egli concede agli sposi di riportare sulle forze che deformano e distruggono l’amore, sicché la famiglia, nata da tale sacramento, diventa segno anche della Chiesa riconciliata e riconciliatrice per un mondo riconciliato in tutte le sue strutture e istituzioni.

          L’unzione degli infermi, infine, nella prova della malattia e della vecchiaia e specialmente nell’ora finale del cristiano, è segno della definitiva conversione al Signore, nonché della totale accettazione del dolore e della morte come penitenza per i peccati. E in questo si attua la suprema riconciliazione col Padre.

          Tuttavia, fra i sacramenti ce n’è uno che, se spesso è stato chiamato della confessione a motivo dell’accusa dei peccati che in esso vien fatta, più propriamente può ritenersi il sacramento della penitenza per antonomasia, come di fatto si chiama, e quindi è il sacramento della conversione e della riconciliazione. Di questo sacramento si è particolarmente occupata la recente assemblea del Sinodo per l’importanza che ha in ordine alla riconciliazione.


  II. Il sacramento della penitenza e della riconciliazione

28     In tutte le fasi e a tutti i livelli del suo svolgimento, il Sinodo ha considerato con la massima attenzione quel segno sacramentale che rappresenta e insieme realizza la penitenza e la riconciliazione. Questo sacramento certamente non esaurisce in se stesso i concetti di conversione e di riconciliazione. La Chiesa, infatti, sin dalle sue origini conosce e valorizza numerose e svariate forme di penitenza: alcune liturgiche o paraliturgiche, che vanno dall’atto penitenziale della messa alle funzioni propiziatorie, ai pellegrinaggi; altre di carattere ascetico, come il digiuno. Tuttavia, di tutti gli atti nessuno è più significativo, né più divinamente efficace, né più elevato e in pari tempo accessibile nel suo stesso rito, del sacramento della penitenza.

          Sin dalla sua preparazione, poi nei numerosi interventi succedutisi durante il suo svolgimento, nei lavori dei gruppi e nelle “Propositiones” finali, il Sinodo ha tenuto conto dell’affermazione pronunciata molte volte, con toni diversi e diverso contenuto: il sacramento della penitenza è in crisi, e di tale crisi ha preso atto. Ha raccomandato un’approfondita catechesi, ma anche una non meno approfondita analisi di carattere teologico, storico, psicologico, sociologico e giuridico circa la penitenza in generale e il sacramento della penitenza in particolare. Con tutto ciò esso ha inteso chiarire i motivi della crisi e aprire le vie per una soluzione positiva, a beneficio dell’umanità. Intanto, dal Sinodo stesso la Chiesa ha ricevuto una chiara conferma della sua fede riguardo al sacramento, per il quale viene data ad ogni cristiano e all’intera comunità dei credenti la certezza del perdono per la potenza del sangue redentore di Cristo.

          Giova rinnovare e riaffermare questa fede nel momento in cui essa potrebbe affievolirsi, perdere qualcosa della sua integrità o entrare in una zona d’ombra e di silenzio, minacciata com’è dalla già menzionata crisi in ciò che essa ha di negativo. Insidiano, infatti, il sacramento della confessione, da un lato, l’oscuramento della coscienza morale e religiosa, l’attenuazione del senso del peccato, il travisamento del concetto di pentimento, la scarsa tensione verso una vita autenticamente cristiana; dall’altro lato, la mentalità, talora diffusa, che si possa ottenere il perdono direttamente da Dio anche in maniera ordinaria, senza accostarsi al sacramento della riconciliazione, e l’abitudine di una pratica sacramentale priva talora di fervore e di vera spontaneità, originata forse da una considerazione errata e deviante degli effetti del sacramento.

          Conviene, pertanto, ricordare le principali dimensioni di questo grande sacramento.



  “A chi rimetterete”

29     Il primo dato fondamentale ci è offerto dai libri santi dell’Antico e del Nuovo Testamento riguardo alla misericordia del Signore e al suo perdono. Nei salmi e nella predicazione dei profeti il nome di misericordioso è forse quello che più spesso viene attribuito al Signore, contrariamente al persistente cliché, secondo il quale il Dio dell’Antico Testamento viene presentato soprattutto come severo e punitivo. Così, fra i salmi, un lungo discorso sapienziale, attingendo alla tradizione dell’Esodo, rievoca l’azione benefica di Dio in mezzo al suo popolo. Tale azione, pur nella sua rappresentazione antropomorfica, è forse una delle più eloquenti proclamazioni veterotestamentarie della misericordia divina. Basti qui riportare il versetto: “Ed egli, pietoso, perdonava la colpa, li perdonava invece di distruggerli. Molte volte placò la sua ira e trattenne il suo furore, ricordando che essi sono carne, un soffio che va e non ritorna” (Ps 78,38s.).

          Nella pienezza dei tempi il Figlio di Dio, venendo come l’Agnello che toglie e porta su di sé il peccato del mondo (cf. Jn 1,29 Is 53,7 Is 53,12), appare come colui che ha il potere sia di giudicare (cf. Jn 5,27) sia di perdonare i peccati (cf. Mt 9,2-7 Lc 5,18-25 Lc 7,47-49 Mc 2,3-12), e che è venuto non per condannare, ma per perdonare e salvare (cf. Jn 3,17).

          Ora, questo potere di rimettere i peccati Gesù lo conferisce, mediante lo Spirito Santo, a semplici uomini, soggetti essi stessi all’insidia del peccato, cioè ai suoi apostoli: “Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Jn 20,22 Mt 18,18). È, questa, una delle più formidabili novità evangeliche! Egli conferisce tale potere agli apostoli anche come trasmissibile – così lo ha inteso la Chiesa sin dai suoi primi albori – ai loro successori, investiti dagli stessi apostoli della missione e della responsabilità di continuare la loro opera di annunciatori del Vangelo e di ministri dell’opera redentrice di Cristo.

          Qui si rivela in tutta la sua grandezza la figura del ministro del sacramento della penitenza, chiamato, per antichissima consuetudine, il confessore.

          Come all’altare dove celebra l’eucaristia e come in ciascuno dei sacramenti, il sacerdote, ministro della penitenza, opera “in persona Christi”. Il Cristo, che da lui è reso presente e che per suo mezzo attua il mistero della remissione dei peccati, è colui che appare come fratello dell’uomo (cf. Mt 12,49s,Mc 3,33s; Lc 8,20 Rm 8,29), pontefice misericordioso, fedele e compassionevole (cf. He 2,17 He 4,15), pastore deciso a cercare la pecora smarrita (cf. Lc 5,31s.), medico che guarisce e conforta, maestro unico che insegna la verità e indica le vie di Dio (cf. Mt 22,16), giudice dei vivi e dei morti (cf. Ac 10,42), che giudica secondo la verità e non secondo le apparenze (cf. Jn 8,16).

          Questo è, senza dubbio, il più difficile e delicato, il più faticoso ed esigente, ma anche uno dei più belli e consolanti ministeri del sacerdote, e proprio per questo, attento anche al forte richiamo del Sinodo, non mi stancherò mai di richiamare i miei fratelli, vescovi e presbiteri, al suo fedele e diligente adempimento (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VII/2 [1987] 63ss.). Di fronte alla coscienza del fedele, che a lui si apre con un misto di trepidazione e di fiducia, il confessore è chiamato a un alto compito che è servizio alla penitenza e alla riconciliazione umana: conoscere di quel fedele le debolezze e cadute, valutarne il desiderio di ripresa e gli sforzi per ottenerla, discernere l’azione dello Spirito santificatore nel suo cuore, comunicargli un perdono che solo Dio può concedere, “celebrare” la sua riconciliazione col Padre raffigurata nella parabola del figlio prodigo, reinserire quel peccatore riscattato nella comunione ecclesiale con i fratelli, ammonire paternamente quel penitente con un fermo, incoraggiante e amichevole “D’ora in poi non peccare più” (Jn 8,11).

          Per l’efficace adempimento di tale ministero, il confessore deve avere necessariamente qualità umane di prudenza, discrezione, discernimento, fermezza temperata da mansuetudine e bontà. Egli deve avere, altresì, una seria e accurata preparazione, non frammentaria ma integrale e armonica, nelle diverse branche della teologia, nella pedagogia e nella psicologia, nella metodologia del dialogo e, soprattutto, nella conoscenza viva e comunicativa della parola di Dio. Ma ancora più necessario è che egli viva una vita spirituale intensa e genuina. Per condurre altri sulla via della perfezione cristiana il ministro della penitenza deve percorrere egli stesso, per primo, questa via e, più con gli atti che con abbondanti discorsi, dar prova di reale esperienza dell’orazione vissuta, di pratica delle virtù evangeliche teologali e morali, di fedele obbedienza alla volontà di Dio, di amore alla Chiesa e di docilità al suo magistero.

          Tutto questo corredo di doti umane, di virtù cristiane e di capacità pastorali non si improvvisa né si acquista senza sforzo. Per il ministero della penitenza sacramentale ogni sacerdote deve essere preparato già dagli anni del seminario, insieme con lo studio della teologia dogmatica, morale, spirituale e pastorale (che son sempre una sola teologia), con le scienze dell’uomo, la metodologia del dialogo e, specialmente, del colloquio pastorale. Egli dovrà poi essere avviato e sostenuto nelle prime esperienze. Dovrà sempre curare il proprio perfezionamento e aggiornamento con lo studio permanente. Quale tesoro di grazia, di vita vera e di spirituale irradiazione non verrebbe alla Chiesa, se ciascun sacerdote si mostrasse premuroso di non mancare mai, per negligenza o pretesti vari, all’appuntamento con i fedeli al confessionale, e fosse ancor più premuroso di non andarvi mai impreparato, o privo delle indispensabili qualità umane e delle condizioni spirituali e pastorali!

          A questo proposito non posso non evocare con devota ammirazione le figure di straordinari apostoli del confessionale, quali san Giovanni Nepomuceno, san Giovanni Maria Vianney, san Giuseppe Cafasso e san Leopoldo da Castelnuovo, per parlare di quelli più noti che la Chiesa ha iscritto nell’albo dei suoi santi. Ma io desidero rendere omaggio anche all’innumerevole schiera di confessori santi e quasi sempre anonimi, ai quali è dovuta la salvezza di tante anime, da loro aiutate nella conversione, nella lotta contro il peccato e le tentazioni, nel progresso spirituale e, in definitiva, nella santificazione. Non esito a dire che anche i grandi santi canonizzati sono generalmente usciti da quei confessionali e, con i santi, il patrimonio spirituale della Chiesa e la stessa fioritura di una civiltà, permeata di spirito cristiano! Onore, dunque, a questo silenzioso esercito di nostri confratelli, che hanno ben servito e servono ogni giorno la causa della riconciliazione mediante il ministero della penitenza sacramentale.


  Il sacramento del perdono

30     Dalla rivelazione del valore di questo ministero e del potere di rimettere i peccati, da Cristo conferito agli apostoli e ai loro successori, si è sviluppata nella Chiesa la coscienza del segno del perdono, conferito mediante il sacramento della penitenza. La certezza, cioè, che lo stesso Signore Gesù ha istituito e affidato alla Chiesa – quale dono della sua benignità e della sua “filantropia” (cf. Tt 3,4), da offrire a tutti – uno speciale sacramento per la remissione dei peccati commessi dopo il battesimo.

          La pratica di questo sacramento, per quanto riguarda la sua celebrazione e la sua forma, ha conosciuto un lungo processo di sviluppo, come attestano i più antichi sacramentari, gli atti di concili e di sinodi episcopali, la predicazione dei padri e l’insegnamento dei dottori della Chiesa. Ma circa la sostanza del sacramento è rimasta sempre solida e immutata nella coscienza della Chiesa la certezza che, per volontà di Cristo, il perdono è offerto a ciascuno per mezzo dell’assoluzione sacramentale, data dai ministri della penitenza: è certezza riaffermata con particolare vigore sia dal Concilio di Trento, che dal Concilio Vaticano II: “Quelli che si accostano al sacramento della penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui e, nello stesso tempo, la riconciliazione con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato: la Chiesa che coopera alla loro conversione con la carità, con l’esempio e la preghiera” (Lumen gentium LG 11). E come dato essenziale di fede sul valore e lo scopo della penitenza si deve riaffermare che il nostro salvatore Gesù Cristo istituì nella sua Chiesa il sacramento della penitenza, perché i fedeli caduti in peccato dopo il battesimo ricevessero la grazia e si riconciliassero con Dio.

          La fede della Chiesa in questo sacramento comporta alcune altre verità fondamentali, che sono ineludibili. Il rito sacramentale della penitenza, nella sua evoluzione e variazione di forme pratiche, ha sempre conservato e messo in luce queste verità. Il Concilio Vaticano II, nel prescrivere la riforma di questo rito, intendeva far sì che esso esprimesse ancor più chiaramente tali verità (cf. Sacrosanctum Concilium SC 72), e ciò è avvenuto nel nuovo “Rito della penitenza”. Questo, infatti, ha assunto nella sua integrità la dottrina della tradizione raccolta dal Concilio Tridentino, trasferendola dal suo particolare contesto storico (quello di un deciso sforzo di chiarimento dottrinale di fronte alle gravi deviazioni dal genuino insegnamento della Chiesa) per tradurla fedelmente in termini più aderenti al contesto del nostro tempo.


  Alcune convinzioni fondamentali

31     Le menzionate verità, ribadite con forza e chiarezza dal Sinodo e presenti nelle “Propositiones”, possono riassumersi nelle seguenti convinzioni di fede, intorno alle quali si raccolgono tutte le altre affermazioni della dottrina cattolica sul sacramento della penitenza.

          I. La prima convinzione è che, per un cristiano, il sacramento della penitenza è la via ordinaria per ottenere il perdono e la remissione dei suoi peccati gravi commessi dopo il battesimo. Certo, il Salvatore e la sua azione salvifica non sono così legati ad un segno sacramentale, da non potere in qualsiasi tempo e settore della storia della salvezza operare al di fuori e al di sopra dei sacramenti. Ma alla scuola della fede noi apprendiamo che il medesimo Salvatore ha voluto e disposto che gli umili e preziosi sacramenti della fede siano ordinariamente i mezzi efficaci, per i quali passa e opera la sua potenza redentrice. Sarebbe dunque insensato, oltreché presuntuoso, voler prescindere arbitrariamente dagli strumenti di grazia e di salvezza che il Signore ha disposto e, nel caso specifico, pretendere di ricevere il perdono facendo a meno del sacramento, istituito da Cristo proprio per il perdono. Il rinnovamento dei riti, attuato dopo il Concilio, non autorizza alcuna illusione e alterazione in questa direzione. Esso doveva e deve servire, secondo l’intenzione della Chiesa, a suscitare in ciascuno di noi un nuovo slancio verso il rinnovamento del nostro atteggiamento interiore, cioè verso una comprensione più profonda della natura del sacramento della penitenza; verso un’accoglienza di esso più nutrita di fede, non ansiosa ma fiduciosa; verso una maggiore frequenza del sacramento, che si riconosce tutto pervaso dall’amore misericordioso del Signore.

          II. La seconda convinzione riguarda la funzione del sacramento della penitenza per colui che vi ricorre. Esso è, secondo la più antica tradizionale concezione, una specie di azione giudiziaria; ma questa si svolge presso un tribunale di misericordia, più che di stretta e rigorosa giustizia, il quale non è paragonabile che per analogia ai tribunali umani, cioè in quanto il peccatore vi svela i suoi peccati e la sua condizione di creatura soggetta al peccato; si impegna a rinunciare e a combattere il peccato; accetta la pena (penitenza sacramentale) che il confessore gli impone e ne riceve l’assoluzione. Ma, riflettendo sulla funzione di questo sacramento, la coscienza della Chiesa vi scorge, oltre il carattere di giudizio nel senso accennato, un carattere terapeutico o medicinale. E questo si ricollega al fatto che è frequente nel Vangelo la presentazione di Cristo come medico (cf.
Lc 5,31s Lc 9,2 Is 53,4s), mentre la sua opera redentrice viene spesso chiamata, sin dall’antichità cristiana, “medicina salutis”. “Io voglio curare, non accusare”, diceva sant’Agostino riferendosi all’esercizio della pastorale penitenziale (Sermo 82, 8: PL 38, 511), ed è grazie alla medicina della confessione che l’esperienza del peccato non degenera in disperazione (cf. Sermo 352, 3,8-9: PL 39, 1558s.). Il “Rito della penitenza” allude a questo aspetto medicinale del sacramento (cf. Ordo paenitentiae, 6c.), al quale l’uomo contemporaneo è forse più sensibile, vedendo nel peccato, sì, ciò che comporta di errore, ma ancor più ciò che dimostra in ordine alla debolezza e infermità umana. Tribunale di misericordia o luogo di guarigione spirituale, sotto entrambi gli aspetti, il sacramento esige una conoscenza dell’intimo del peccatore, per poterlo giudicare ed assolvere, per curarlo e guarirlo. E proprio per questo esso implica, da parte del penitente, l’accusa sincera e completa dei peccati, che ha pertanto una ragion d’essere non solo ispirata da fini ascetici (quale esercizio di umiltà e di mortificazione), ma inerente alla natura stessa del sacramento.

          III. La terza convinzione, che tengo ad accentuare, riguarda le realtà o parti, che compongono il segno sacramentale del perdono e della riconciliazione. Alcune di queste realtà sono atti del penitente, di diversa importanza, ciascuno però indispensabile o alla validità, o all’integrità, o alla fruttuosità del segno. Una condizione indispensabile è, innanzitutto, la rettitudine e la limpidezza della coscienza del penitente. Un uomo non si avvia ad una vera e genuina penitenza, finché non scorge che il peccato contrasta con la norma etica, iscritta nell’intimo del proprio essere; finché non riconosce di aver fatto l’esperienza personale e responsabile di un tale contrasto; finché non dice non soltanto “il peccato c’è”, ma “io ho peccato”; finché non ammette che il peccato ha introdotto nella sua coscienza una divisione, che pervade poi tutto il suo essere e lo separa da Dio e dai fratelli. Il segno sacramentale di questa limpidezza della coscienza è l’atto tradizionalmente chiamato esame di coscienza, atto che deve esser sempre non già un’ansiosa introspezione psicologica, ma il confronto sincero e sereno con la legge morale interiore, con le norme evangeliche proposte dalla Chiesa, con lo stesso Cristo Gesù, che è per noi maestro e modello di vita, e col Padre celeste, che ci chiama al bene e alla perfezione (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VII/1 [1984] 683).

          Ma l’atto essenziale della penitenza, da parte del penitente, è la contrizione, ossia un chiaro e deciso ripudio del peccato commesso insieme col proposito di non tornare a commetterlo, per l’amore che si porta a Dio e che rinasce col pentimento. Così intesa, la contrizione è, dunque, il principio e l’anima della conversione, di quella “metànoia” evangelica che riporta l’uomo a Dio come il figlio prodigo che ritorna al padre, e che ha nel sacramento della penitenza il suo segno visibile, perfezionativo della stessa attrizione. Perciò, “da questa contrizione del cuore dipende la verità della penitenza” (Ordo paenitentiae, 6c.).

          Rimandando a tutto quanto la Chiesa, ispirata dalla parola di Dio, insegna circa la contrizione, mi preme qui sottolineare un solo aspetto di tale dottrina, che va meglio conosciuto e tenuto presente. Non di rado si considerano la conversione e la contrizione sotto il profilo delle innegabili esigenze, che esse comportano, e della mortificazione che esse impongono in vista di un radicale cambiamento di vita. Ma è bene ricordare e rilevare che contrizione e conversione sono ancor più un avvicinamento alla santità di Dio, un ritrovare la propria verità interiore, turbata e sconvolta dal peccato, un liberarsi nel più profondo di se stessi e, per questo, un riacquistare la gioia perduta, la gioia di essere salvati (cf. Ps 51,14), che la maggioranza degli uomini del nostro tempo non sa più gustare.

          Si comprende, perciò, come fin dai primi tempi cristiani, in collegamento con gli apostoli e con Cristo, la Chiesa abbia incluso nel segno sacramentale della penitenza l’accusa dei peccati. Questa appare così rilevante, che da secoli il nome usuale del sacramento è stato ed è tuttora quello di confessione. Accusare i propri peccati è, anzitutto, richiesto dalla necessità che il peccatore sia conosciuto da colui che nel sacramento esercita il ruolo di giudice, il quale deve valutare sia la gravità dei peccati, sia il pentimento del penitente, e insieme il ruolo di medico, il quale deve conoscere lo stato dell’infermo per curarlo e guarirlo. Ma la confessione individuale ha anche il valore di segno: segno dell’incontro del peccatore con la mediazione ecclesiale nella persona del ministro; segno del suo scoprirsi al cospetto di Dio e della Chiesa come peccatore, del suo chiarirsi a se stesso sotto lo sguardo di Dio. L’accusa dei peccati, dunque, non è riducibile ad un qualsiasi tentativo di autoliberazione psicologica, anche se corrisponde a quel legittimo e naturale bisogno di aprirsi a qualcuno, che è insito nel cuore umano: è un gesto liturgico, solenne nella sua drammaticità, umile e sobrio nella grandezza del suo significato. È il gesto del figlio prodigo, che ritorna al Padre ed è accolto da lui col bacio della pace; gesto di lealtà e di coraggio; gesto di affidamento di se stessi, al di là del peccato, alla misericordia che perdona (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/2 [1982] 1758ss.; II [1979] 475-478; VII/1 [1984] 720-722; CIC, CIC 964 § 2-3). Si capisce allora perché l’accusa dei peccati deve essere ordinariamente individuale e non collettiva, come il peccato è un fatto profondamente personale. Nello stesso tempo, però, questa accusa strappa in certo modo il peccato dal segreto del cuore e, quindi, dall’ambito della pura individualità, mettendo in risalto anche il suo carattere sociale, perché mediante il ministro della penitenza è la comunità ecclesiale, lesa dal peccato, che accoglie di nuovo il peccatore pentito e perdonato.

          L’altro momento essenziale del sacramento della penitenza compete questa volta al confessore giudice e medico, immagine di Dio Padre che accoglie e perdona colui che ritorna: è l’assoluzione. Le parole che la esprimono e i gesti che la accompagnano nell’antico e nel nuovo “Rito della penitenza” rivestono una significativa semplicità nella loro grandezza. La formula sacramentale: “Io ti assolvo...”, l’imposizione della mano e il segno della croce, tracciato sul penitente, manifestano che in quel momento il peccatore contrito e convertito entra in contatto con la potenza e la misericordia di Dio. È il momento nel quale, in risposta al penitente, la Trinità si fa presente per cancellare il suo peccato e restituirgli l’innocenza, e la forza salvifica della passione, morte e risurrezione di Gesù è comunicata al medesimo penitente, quale “misericordia più forte della colpa e dell’offesa”, come ebbi a definirla nell’enciclica Dives in misericordia. Dio è sempre il principale offeso dal peccato – “tibi soli peccavi!” –, e solo Dio può perdonare. Perciò, l’assoluzione che il sacerdote, ministro del perdono, benché egli stesso peccatore, concede al penitente, è il segno efficace dell’intervento del Padre in ogni assoluzione e della “risurrezione” dalla “morte spirituale”, che si rinnova ogni volta che si attua il sacramento della penitenza. Soltanto la fede può assicurare che in quel momento ogni peccato è rimesso e cancellato per il misterioso intervento del Salvatore.

          La soddisfazione è l’atto finale, che corona il segno sacramentale della penitenza. In alcuni paesi ciò che il penitente perdonato e assolto accetta di compiere dopo aver ricevuto l’assoluzione, si chiama appunto penitenza. Qual è il significato di questa soddisfazione che si presta, o di questa penitenza che si compie? Non è certo il prezzo che si paga per il peccato assolto e per il perdono acquistato: nessun prezzo umano può equivalere a ciò che si è ottenuto, frutto del preziosissimo sangue di Cristo. Le opere della soddisfazione – che, pur conservando un carattere di semplicità e umiltà, dovrebbero essere rese più espressive di tutto ciò che significano – vogliono dire alcune cose preziose: esse sono il segno dell’impegno personale che il cristiano ha assunto con Dio, nel sacramento, di cominciare un’esistenza nuova (e perciò non dovrebbero ridursi soltanto ad alcune formule da recitare, ma consistere in opere di culto, di carità, di misericordia, di riparazione); includono l’idea che il peccatore perdonato è capace di unire la sua propria mortificazione fisica e spirituale, ricercata o almeno accettata, alla passione di Gesù che gli ha ottenuto il perdono; ricordano che anche dopo l’assoluzione rimane nel cristiano una zona d’ombra, dovuta alle ferite del peccato, all’imperfezione dell’amore nel pentimento, all’indebolimento delle facoltà spirituali, in cui opera ancora un focolaio infettivo di peccato, che bisogna sempre combattere con la mortificazione e la penitenza. Tale è il significato dell’umile, ma sincera soddisfazione (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VII/1 [1984] 631-633).

          IV. Resta da fare un breve accenno ad altre importanti convinzioni circa il sacramento della penitenza. Anzitutto, bisogna ribadire che nulla è più personale e intimo di questo sacramento, nel quale il peccatore si trova al cospetto di Dio, solo con la sua colpa, il suo pentimento e la sua fiducia. Nessuno può pentirsi al suo posto o può chiedere perdono in suo nome. C’è una certa solitudine del peccatore nella sua colpa, che si può vedere drammaticamente rappresentata in Caino col peccato “accovacciato alla sua porta”, come dice tanto efficacemente il libro della Genesi, e col particolare segno, inciso sulla sua fronte (cf. Gn 4,7 Gn 4,15); o in Davide, rimproverato dal profeta Natan (cf. 2S 12); o nel figlio prodigo, quando prende coscienza della condizione, a cui si è ridotto per la lontananza dal padre, e decide di tornare a lui (cf. Lc 15,17-21): tutto ha luogo soltanto fra l’uomo e Dio. Ma, nello stesso tempo, è innegabile la dimensione sociale di questo sacramento, nel quale è l’intera Chiesa – quella militante, quella purgante e quella gloriosa del cielo – che interviene in soccorso del penitente e lo accoglie di nuovo nel suo grembo, tanto più che tutta la Chiesa era stata offesa e ferita dal suo peccato. Il sacerdote, ministro della penitenza, appare in forza del suo ufficio sacro come testimone e rappresentante di tale ecclesialità. Sono due aspetti complementari del sacramento l’individualità e l’ecclesialità, che la progressiva riforma del rito della penitenza, specialmente quella dell’“Ordo paenitentiae” promulgata da Paolo VI, ha cercato di mettere in risalto e di rendere più significativi nella sua celebrazione.

          V. È da sottolineare, poi, che il frutto più prezioso del perdono ottenuto nel sacramento della penitenza consiste nella riconciliazione con Dio, la quale avviene nel segreto del cuore del figlio prodigo e ritrovato, che è ciascun penitente. Ma bisogna aggiungere che tale riconciliazione con Dio ha come conseguenza, per così dire, altre riconciliazioni, che rimediano ad altrettante rotture, causate dal peccato: il penitente perdonato si riconcilia con se stesso nel fondo più intimo del proprio essere, in cui ricupera la propria verità interiore; si riconcilia con i fratelli, da lui in qualche modo aggrediti e lesi; si riconcilia con la Chiesa; si riconcilia con tutto il creato. Da questa consapevolezza nasce nel penitente, al termine della celebrazione, il senso della gratitudine a Dio per il dono della misericordia ottenuta, a cui lo invita la Chiesa. Ogni confessionale è uno spazio privilegiato e benedetto, dal quale, cancellate le divisioni, nasce nuovo e incontaminato un uomo riconciliato – un mondo riconciliato!

          VI. Infine, mi sta particolarmente a cuore fare un’ultima considerazione, che riguarda tutti noi sacerdoti, che siamo i ministri del sacramento della penitenza, ma ne siamo pure – e dobbiamo esserne – i beneficiari. La vita spirituale e pastorale del sacerdote, come quella dei suoi fratelli laici e religiosi, dipende, per la sua qualità e il suo fervore, dall’assidua e coscienziosa pratica personale del sacramento della penitenza (cf. Presbyterorum Ordinis, PO 18). La celebrazione dell’eucaristia e il ministero degli altri sacramenti, lo zelo pastorale, il rapporto con i fedeli, la comunione con i confratelli, la collaborazione col vescovo, la vita di preghiera, in una parola tutta l’esistenza sacerdotale subisce un inesorabile scadimento, se viene a mancarle, per negligenza o per qualsiasi altro motivo, il ricorso, periodico e ispirato da autentica fede e devozione, al sacramento della penitenza. In un prete che non si confessasse più o si confessasse male, il suo essere prete e il suo fare il prete ne risentirebbero molto presto, e se ne accorgerebbe anche la comunità, di cui egli è pastore.

          Ma aggiungo pure che, persino per essere un buono ed efficace ministro della penitenza, il sacerdote ha bisogno di ricorrere alla sorgente di grazia e santità presente in questo sacramento. Noi sacerdoti, in base alla nostra personale esperienza, possiamo ben dire che, nella misura in cui siamo attenti a ricorrere al sacramento della penitenza e ci accostiamo ad esso con frequenza e con buone disposizioni, adempiamo meglio il nostro stesso ministero di confessori e ne assicuriamo il beneficio ai penitenti. Perderebbe, invece, molto della sua efficacia questo ministero, se in qualche modo tralasciassimo di essere buoni penitenti. Tale è la logica interna di questo grande sacramento. Esso invita noi tutti, sacerdoti di Cristo, a una rinnovata attenzione alla nostra confessione personale.

          A sua volta, l’esperienza diventa e deve diventare oggi uno stimolo all’esercizio diligente, regolare, paziente, fervoroso del sacro ministero della penitenza, al quale siamo impegnati in forza del nostro sacerdozio e della nostra vocazione ad essere pastori e servitori dei nostri fratelli. Anche con la presente esortazione rivolgo, dunque, un insistente invito a tutti i sacerdoti del mondo, specialmente ai miei confratelli nell’episcopato e ai parroci, perché favoriscano con tutte le forze la frequenza dei fedeli a questo sacramento, e mettano in opera tutti i mezzi possibili e convenienti, tentino tutte le vie per far pervenire al maggior numero di nostri fratelli la “grazia che a noi è stata data” mediante la penitenza per la riconciliazione di ogni anima e di tutto il mondo con Dio, in Cristo.



Reconciliatio & paen. IT 26