Salvifici doloris





Lettera enciclica "Salvifici Doloris" - Città del Vaticano (Roma)

Titolo: Il significato cristiano del dolore umano

Testo:

I. Introduzione


Venerati fratelli e diletti figli.

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1. "Completo nella mia carne - dice l'apostolo Paolo spiegando il valore salvifico della sofferenza - quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa".

Queste parole sembrano trovarsi al termine del lungo cammino che si snoda attraverso la sofferenza inserita nella storia dell'uomo e illuminata dalla parola di Dio. Esse hanno quasi il valore di una definitiva scoperta, che viene accompagnata dalla gioia; per questo l'Apostolo scrive: "perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi" (
Col 1,24). La gioia proviene dalla scoperta del senso della sofferenza, e una tale scoperta, anche se vi partecipa in modo personalissimo Paolo di Tarso che scrive queste parole, è al tempo stesso valida per gli altri. L'Apostolo comunica la propria scoperta e ne gioisce a motivo di tutti coloro che essa può aiutare - così come aiuto lui - a penetrare il senso salvifico della sofferenza.

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2. Il tema della sofferenza - proprio sotto l'aspetto di questo senso salvifico - sembra essere profondamente inserito nel contesto dell'anno della redenzione come giubileo straordinario della Chiesa; e anche questa circostanza si dimostra direttamente in favore dell'attenzione da dedicare ad esso proprio durante questo periodo. Indipendentemente da questo fatto, è un tema universale che accompagna l'uomo ad ogni grado della longitudine e della latitudine geografica: esso, in un certo senso, coesiste con lui nel mondo, e perciò esige di essere costantemente ripreso. Anche se Paolo nella lettera ai Romani ha scritto che "tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto" (
Rm 8,22), anche se all'uomo sono note e vicine le sofferenze proprie del mondo degli animali, tuttavia ciò che esprimiamo con la parola "sofferenza" sembra essere particolarmente essenziale alla natura dell'uomo. ciò è tanto profondo quanto l'uomo, appunto perché manifesta a suo modo quella profondità che è propria dell'uomo, e a suo modo la supera. La sofferenza sembra appartenere alla trascendenza dell'uomo: essa è uno di quei punti, nei quali l'uomo viene in un certo senso "destinato" a superare se stesso, e viene a ciò chiamato in modo misterioso.

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3. Se il tema della sofferenza esige di essere affrontato in modo particolare nel contesto dell'anno della redenzione, ciò avviene prima di tutto perché la redenzione si è compiuta mediante la croce di Cristo, ossia mediante la sua sofferenza. E al tempo stesso nell'anno della redenzione ripensiamo alla verità espressa nell'enciclica "Redemptor Hominis": in Cristo "ogni uomo diventa la via della Chiesa". Si può dire che l'uomo diventa in modo speciale la via della Chiesa, quando nella sua vita entra la sofferenza. ciò avviene - come è noto - in diversi momenti della vita, si realizza in modi differenti, assume diverse dimensioni; tuttavia, nell'una o nell'altra forma, la sofferenza sembra essere, ed è, quasi inseparabile dall'esistenza terrena dell'uomo.

Dato dunque che l'uomo, attraverso la sua vita terrena, cammina in un modo o nell'altro sulla via della sofferenza, la Chiesa in ogni tempo - e forse specialmente nell'anno della redenzione - dovrebbe incontrarsi con l'uomo proprio su questa via. La Chiesa, che nasce dal mistero della redenzione nella croce di Cristo, è tenuta a cercare l'incontro con l'uomo in modo particolare sulla via della sua sofferenza. In un tale incontro l'uomo "diventa la via della Chiesa", ed è, questa, una delle vie più importanti.

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4. Da qui deriva anche la presente riflessione, proprio nell'anno della redenzione: la riflessione sulla sofferenza. La sofferenza umana desta compassione, desta anche rispetto, e a suo modo intimidisce. In essa, infatti, è contenuta la grandezza di uno specifico mistero. Questo particolare rispetto per ogni umana sofferenza deve esser posto all'inizio di quanto verrà espresso qui successivamente dal più profondo bisogno del cuore, e anche dal profondo imperativo della fede. Intorno al tema della sofferenza questi due motivi sembrano avvicinarsi particolarmente tra loro e unirsi: il bisogno del cuore ci ordina di vincere il timore, e l'imperativo della fede formulato, per esempio, nelle parole di san Paolo, riportate all'inizio - fornisce il contenuto, nel nome e in forza del quale osiamo toccare ciò che sembra in ogni uomo tanto intangibile: poiché l'uomo, nella sua sofferenza, rimane un mistero intangibile.


II. Il mondo dell'umana sofferenza

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5. Anche se nella sua dimensione soggettiva, come fatto personale, racchiuso nel concreto e irripetibile interno dell'uomo, la sofferenza sembra quasi ineffabile e incomunicabile, al tempo stesso, nella sua realtà oggettiva, forse non c'è nient'altro quanto essa che esiga di essere trattato, meditato, concepito nella forma di un esplicito problema; intorno al quale si pongano interrogativi di fondo e si cerchino le risposte. Come si vede, non si tratta qui solo di dare una descrizione della sofferenza. Vi sono altri criteri, che vanno oltre la sfera della descrizione, e che dobbiamo introdurre, quando vogliamo penetrare il mondo dell'umana sofferenza.

Si sa che la medicina, come scienza e insieme come arte del curare, scopre sul vasto terreno delle sofferenze dell'uomo il settore più conosciuto, quello identificato con maggior precisione e, relativamente, più controbilanciato dai metodi del "reagire" (cioè della terapia). Tuttavia, questo è solo un settore.

Il terreno della sofferenza umana è molto più vasto, molto più vario e pluridimensionale. L'uomo soffre in modi diversi, non sempre contemplati dalla medicina, neanche nelle sue più avanzate specializzazioni. La sofferenza è qualcosa di ancora più ampio della malattia, di più complesso e insieme ancor più profondamente radicato nell'umanità stessa. Una certa idea di questo problema ci viene dalla distinzione tra sofferenza fisica e sofferenza morale. Questa distinzione prende come fondamento la duplice dimensione dell'essere umano, e indica l'elemento corporale e spirituale come l'immediato o diretto soggetto della sofferenza. Per quanto si possano, fino ad un certo grado, usare come sinonimi le parole "sofferenza" e "dolore", la sofferenza fisica si verifica quando in qualsiasi modo "duole il corpo", mentre la sofferenza morale è "dolore dell'anima". Si tratta, infatti, del dolore di natura spirituale, e non solo della dimensione "psichica" del dolore che accompagna sia la sofferenza morale, sia quella fisica. La vastità e la multiformità della sofferenza morale non sono certamente minori di quella fisica; al tempo stesso, pero, essa sembra quasi meno identificata e meno raggiungibile dalla terapia.

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6. La sacra scrittura è un grande libro sulla sofferenza. Riportiamo dai libri dell'Antico Testamento solo alcuni esempi di situazioni, che recano i segni della sofferenza e, prima di tutto, di quella morale: il pericolo di morte, la morte dei propri figli e, specialmente, la morte del figlio primogenito e unico, e poi anche: la mancanza di prole, la nostalgia per la patria, la persecuzione e l'ostilità dell'ambiente, lo scherno e la derisione per il sofferente, la solitudine e l'abbandono; e ancora: i rimorsi di coscienza, la difficoltà di capire perché i cattivi prosperano e i giusti soffrono, l'infedeltà e l'ingratitudine da parte degli amici e dei vicini; infine: le sventure della propria nazione.

L'Antico Testamento, trattando l'uomo come un "insieme" psicofisico, unisce spesso le sofferenze "morali" col dolore di determinate parti dell'organismo: delle ossa, dei reni, del fegato, dei visceri, del cuore. Non si può, infatti, negare che le sofferenze morali abbiano anche una loro componente "fisica", o somatica, e che spesso si riflettano sullo stato dell'intero organismo.

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7. Come si vede dagli esempi riportati, nella sacra scrittura troviamo un vasto elenco di situazioni variamente dolorose per l'uomo. Quest'elenco diversificato certamente non esaurisce tutto ciò che in tema di sofferenza ha già detto e costantemente ripete il libro della storia dell'uomo (questo è piuttosto un "libro non scritto"), e ancor più il libro della storia dell'umanità, letto attraverso la storia di ogni uomo.

Si può dire che l'uomo soffre, allorquando sperimenta un qualsiasi male.

Nel vocabolario dell'Antico Testamento il rapporto tra sofferenza e male si pone in evidenza come identità. Quel vocabolario, infatti, non possedeva una parola specifica per indicare la "sofferenza"; perciò definiva come "male" tutto ciò che era sofferenza. Solamente la lingua greca e, insieme con essa, il Nuovo Testamento (e le versioni greche dall'Antico) si servono del verbo "pascho" = "sono affetto da..., provo una sensazione, soffro"; e grazie ad esso la sofferenza non è più direttamente identificabile col male (oggettivo), ma esprime una situazione nella quale l'uomo prova il male e, provandolo, diventa soggetto di sofferenza. Questa invero ha, a un tempo, carattere attivo e passivo (da "patior"). Perfino quando l'uomo si provoca da solo una sofferenza, quando è l'autore di essa, questa sofferenza rimane qualcosa di passivo nella sua essenza metafisica.

ciò, tuttavia, non vuol dire che la sofferenza in senso psicologico non sia contrassegnata da una specifica "attività". Questa è, infatti, quella molteplice e soggettivamente differenziata "attività" di dolore, di tristezza, di delusione, di abbattimento o, addirittura, di disperazione, a seconda dell'intensità della sofferenza, della sua profondità e, indirettamente, a seconda di tutta la struttura del soggetto sofferente e della sua specifica sensibilità.

Al centro di ciò che costituisce la forma psicologica della sofferenza si trova sempre un'esperienza del male, a causa del quale l'uomo soffre.

Così dunque la realtà della sofferenza provoca l'interrogativo sull'essenza del male: che cosa è il male? Quest'interrogativo sembra, in un certo senso, inseparabile dal tema della sofferenza. La risposta cristiana ad esso è diversa da quella che viene data da alcune tradizioni culturali e religiose, le quali ritengono che l'esistenza sia un male, dal quale bisogna liberarsi. Il cristianesimo proclama l'essenziale bene dell'esistenza e il bene di ciò che esiste, professa la bontà del Creatore e proclama il bene delle creature. L'uomo soffre a causa del male, che è una certa mancanza, limitazione o distorsione del bene. Si potrebbe dire che l'uomo soffre a motivo di un bene al quale egli non partecipa, dal quale viene, in un certo senso, tagliato fuori, o del quale egli stesso si è privato. Soffre in particolare quando "dovrebbe" aver parte - nell'ordine normale delle cose - a questo bene, e non l'ha. così dunque nel concetto cristiano la realtà della sofferenza si spiega per mezzo del male, che è sempre, in qualche modo, in riferimento a un bene.

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8. La sofferenza umana costituisce in se stessa quasi uno specifico "mondo" che esiste insieme all'uomo, che appare in lui e passa, e a volte non passa, ma in lui si consolida e approfondisce. Questo mondo della sofferenza, diviso in molti, in numerosissimi soggetti, esiste quasi nella dispersione. Ogni uomo, mediante la sua personale sofferenza, costituisce non solo una piccola parte di quel "mondo", ma al tempo stesso quel "mondo" è in lui come un'entità finita e irripetibile. Di pari passo con ciò va, tuttavia, la dimensione interumana e sociale. Il mondo della sofferenza possiede quasi una sua propria compattezza. Gli uomini sofferenti si rendono simili tra loro mediante l'analogia della situazione, la prova del destino, oppure mediante il bisogno di comprensione e di premura, e forse soprattutto mediante il persistente interrogativo circa il senso di essa. Benché dunque il mondo della sofferenza esista nella dispersione, al tempo stesso contiene in sé una singolare sfida alla comunione e alla solidarietà. Cercheremo anche di seguire un tale appello nella presente riflessione.

Pensando al mondo della sofferenza nel suo significato personale e insieme collettivo, non si può, infine, non notare il fatto che un tal mondo, in alcuni periodi di tempo e in alcuni spazi dell'esistenza umana, quasi si addensa in modo particolare. ciò accade, per esempio, nei casi di calamità naturali, di epidemie, di catastrofi e di cataclismi, di diversi flagelli sociali: si pensi, ad esempio, a quello di un cattivo raccolto e legato ad esso - oppure a diverse altre cause - al flagello della fame. Si pensi, infine, alla guerra. Parlo di essa in modo speciale. Parlo delle ultime due guerre mondiali, delle quali la seconda ha portato con sé una messe molto più grande di morte e un cumulo più pesante di umane sofferenze. A sua volta, la seconda metà del nostro secolo - quasi in proporzione agli errori e alle trasgressioni della nostra civiltà contemporanea - porta in sé una minaccia così orribile di guerra nucleare, che non possiamo pensare a questo periodo se non in termini di un accumulo incomparabile di sofferenze, fino alla possibile autodistruzione dell'umanità. In questo modo quel mondo di sofferenza, che in definitiva ha il suo soggetto in ciascun uomo, sembra trasformarsi nella nostra epoca - forse più che in qualsiasi altro momento - in una particolare "sofferenza del mondo": del mondo che come non mai è trasformato dal progresso per opera dell'uomo e, in pari tempo, come non mai è in pericolo a causa degli errori e delle colpe dell'uomo.

III. Alla ricerca della risposta all'interrogativo sul senso della sofferenza

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9. All'interno di ogni singola sofferenza provata dall'uomo e, parimenti, alla base dell'intero mondo delle sofferenze appare inevitabilmente l'interrogativo: perché? E' un interrogativo circa la causa, la ragione, e insieme un interrogativo circa lo scopo (perché?) e, in definitiva, circa il senso. Esso non solo accompagna l'umana sofferenza, ma sembra addirittura determinarne il contenuto umano, ciò per cui la sofferenza è propriamente sofferenza umana.

Ovviamente il dolore, specie quello fisico, è ampiamente diffuso nel mondo degli animali. Pero solo l'uomo, soffrendo, sa di soffrire e se ne chiede il perché; e soffre in modo umanamente ancor più profondo, se non trova soddisfacente risposta. Questa è una domanda difficile, così come lo è un'altra, molto affine, cioè quella intorno al male. Perché il male? Perché il male nel mondo? Quando poniamo l'interrogativo in questo modo, facciamo sempre, almeno in una certa misura, una domanda anche sulla sofferenza.

L'uno e l'altro interrogativo sono difficili, quando l'uomo li pone all'uomo, gli uomini agli uomini, come anche quando l'uomo li pone a Dio. L'uomo, infatti, non pone questo interrogativo al mondo, benché molte volte la sofferenza gli provenga da esso, ma lo pone a Dio come al Creatore e al Signore del mondo. Ed è ben noto come sul terreno di questo interrogativo si arrivi non solo a molteplici frustrazioni e conflitti nei rapporti dell'uomo con Dio, ma capiti anche che si giunga alla negazione stessa di Dio. Se, infatti, l'esistenza del mondo apre quasi lo sguardo dell'anima umana all'esistenza di Dio, alla sua sapienza, potenza e magnificenza, allora il male e la sofferenza sembrano offuscare quest'immagine, a volte in modo radicale, tanto più nella quotidiana drammaticità di tante sofferenze senza colpa e di tante colpe senza adeguata pena.

perciò, questa circostanza - forse ancor più di qualunque altra - indica quanto sia importante l'interrogativo sul senso della sofferenza, e con quale acutezza occorre trattare sia l'interrogativo stesso, sia ogni possibile risposta da darvi.

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10. L'uomo può rivolgere un tale interrogativo a Dio con tutta la commozione del suo cuore e con la mente piena di stupore e di inquietudine; e Dio aspetta la domanda e l'ascolta, come vediamo nella rivelazione dell'Antico Testamento. Nel libro di Giobbe l'interrogativo ha trovato la sua espressione più viva.

E' nota la storia di questo uomo giusto, il quale senza nessuna colpa da parte sua viene provato da innumerevoli sofferenze. Egli perde i beni, i figli e le figlie, e infine viene egli stesso colpito da una grave malattia. In quest'orribile situazione si presentano nella sua casa i tre vecchi conoscenti, i quali - ognuno con diverse parole - cercano di convincerlo che, poiché è stato colpito da una così molteplice e terribile sofferenza, egli deve aver commesso una qualche colpa grave. La sofferenza - essi dicono - colpisce infatti sempre l'uomo come pena per un reato; viene mandata da Dio assolutamente giusto e trova la propria motivazione nell'ordine della giustizia. Si direbbe che i vecchi amici di Giobbe vogliano non solo convincerlo della giustezza morale del male, ma in un certo senso tentino di difendere davanti a se stessi il senso morale della sofferenza. Questa, ai loro occhi, può avere esclusivamente un senso come pena per il peccato, esclusivamente dunque sul terreno della giustizia di Dio, che ripaga col bene il bene e col male il male.

Il punto di riferimento è in questo caso la dottrina espressa in altri scritti dell'Antico Testamento che ci mostrano la sofferenza come pena inflitta da Dio per i peccati degli uomini. Il Dio della Rivelazione è legislatore e giudice in una tale misura, quale nessuna autorità temporale può avere. Il Dio della rivelazione, infatti, è prima di tutto il Creatore, dal quale, insieme con l'esistenza, proviene il bene essenziale della creazione. Pertanto, anche la consapevole e libera violazione di questo bene da parte dell'uomo è non solo una trasgressione della legge, ma al tempo stesso un'offesa al Creatore, che è il primo Legislatore. Tale trasgressione ha carattere di peccato, secondo il significato esatto, cioè biblico e teologico, di questa parola. Al male morale del peccato corrisponde la punizione, che garantisce l'ordine morale nello stesso senso trascendente, nel quale quest'ordine è stabilito dalla volontà del Creatore e supremo Legislatore. Di qui deriva anche una delle fondamentali verità della fede religiosa, basata del pari sulla Rivelazione: che cioè Dio è giudice giusto, il quale premia il bene e punisce il male: "Tu, Signore, sei giusto in tutto ciò che hai fatto; tutte le tue opere sono vere, rette le tue vie e giusti tutti i tuoi giudizi. Giusto è stato il tuo giudizio per quanto hai fatto ricadere su di noi... Con verità e giustizia tu ci hai inflitto tutto questo a causa dei nostri peccati".

Nell'opinione espressa dagli amici di Giobbe, si manifesta una convinzione che si trova anche nella coscienza morale dell'umanità: l'ordine morale oggettivo richiede una pena per la trasgressione, per il peccato e per il reato. La sofferenza appare, da questo punto di vista, come un "male giustificato". La convinzione di coloro che spiegano la sofferenza come punizione del peccato trova il suo sostegno nell'ordine della giustizia, e ciò corrisponde all'opinione espressa da un amico di Giobbe: "Per quanto io ho visto, chi coltiva iniquità, chi semina affanni, li raccoglie" (Gb 4,8).

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11. Giobbe, tuttavia, contesta la verità del principio, che identifica la sofferenza con la punizione del peccato. E lo fa in base alla propria opinione.

Infatti, egli è consapevole di non aver meritato una tale punizione, anzi espone il bene che ha fatto nella sua vita. Alla fine Dio stesso rimprovera gli amici di Giobbe per le loro accuse e riconosce che Giobbe non è colpevole. La sua è la sofferenza di un innocente; deve essere accettata come un mistero, che l'uomo non è in grado di penetrare fino in fondo con la sua intelligenza.

Il libro di Giobbe non intacca le basi dell'ordine morale trascendente, fondato sulla giustizia, quali sono proposte dalla Rivelazione, nell'antica e nella nuova alleanza. Al tempo stesso, pero, il libro dimostra con tutta fermezza che i principi di quest'ordine non si possono applicare in modo esclusivo e superficiale. Se è vero che la sofferenza ha un senso come punizione, quando è legata alla colpa, non è vero, invece, che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa e abbia carattere di punizione. La figura del giusto Giobbe ne è una prova speciale nell'Antico Testamento. La Rivelazione, parola di Dio stesso, pone con tutta franchezza il problema della sofferenza dell'uomo innocente: la sofferenza senza colpa. Giobbe non è stato punito, non vi erano le basi per infliggergli una pena, anche se è stato sottoposto a una durissima prova. Dall'introduzione del libro risulta che Dio permise questa prova per provocazione di Satana. Questi, infatti, aveva contestato davanti al Signore la giustizia di Giobbe: "Forse che Giobbe teme Dio per nulla?... Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani, e il suo bestiame abbonda sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti benedirà in faccia" (Gb 1,9-11). E se il Signore acconsente a provare Giobbe con la sofferenza, lo fa per dimostrarne la giustizia. La sofferenza ha carattere di prova.

Il libro di Giobbe non è l'ultima parola della Rivelazione su questo tema. In un certo modo esso è un annuncio della passione di Cristo. Ma, già da solo, è un argomento sufficiente, perché la risposta all'interrogativo sul senso della sofferenza non sia collegata senza riserve con l'ordine morale, basato sulla sola giustizia. Se una tale risposta ha una sua fondamentale e trascendente ragione e validità, al tempo stesso essa si dimostra non solo insoddisfacente in casi analoghi alla sofferenza del giusto Giobbe, ma anzi sembra addirittura appiattire e impoverire il concetto di giustizia, che incontriamo nella Rivelazione.

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12. Il libro di Giobbe pone in modo acuto il "perché" della sofferenza, mostra pure che essa colpisce l'innocente, ma non dà ancora la soluzione al problema. Già nell'Antico Testamento notiamo un orientamento che tende a superare il concetto, secondo cui la sofferenza ha senso unicamente come punizione del peccato, in quanto si sottolinea nello stesso tempo il valore educativo della pena-sofferenza.

Così dunque, nelle sofferenze inflitte da Dio al popolo eletto è racchiuso un invito della sua misericordia, la quale corregge per condurre alla conversione: "Questi castighi non vengono per la distruzione, ma per la correzione del nostro popolo".

Così si afferma la dimensione personale della pena. Secondo tale dimensione, la pena ha senso non soltanto perché serve a ripagare lo stesso male oggettivo della trasgressione con un altro male, ma prima di tutto perché essa crea la possibilità di ricostruire il bene nello stesso soggetto sofferente.

Questo è un aspetto estremamente importante della sofferenza. Esso è profondamente radicato nell'intera Rivelazione dell'antica e, soprattutto, della nuova alleanza.

La sofferenza deve servire alla conversione, cioè alla ricostruzione del bene nel soggetto, che può riconoscere la misericordia divina in questa chiamata alla penitenza. La penitenza ha come scopo di superare il male, che sotto diverse forme è latente nell'uomo, e di consolidare il bene sia in lui stesso, sia nei rapporti con gli altri e, soprattutto, con Dio.

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13. Ma per poter percepire la vera risposta al "perché" della sofferenza, dobbiamo volgere il nostro sguardo verso la Rivelazione dell'amore divino, fonte ultima del senso di tutto ciò che esiste. L'amore è anche la fonte più ricca del senso della sofferenza, che rimane sempre un mistero: siamo consapevoli dell'insufficienza e inadeguatezza delle nostre spiegazioni. Cristo ci fa entrare nel mistero e ci fa scoprire il "perché" della sofferenza, in quanto siamo capaci di comprendere la sublimità dell'amore divino.

Per ritrovare il senso profondo della sofferenza, seguendo la parola rivelata di Dio, bisogna aprirsi largamente verso il soggetto umano nella sua molteplice potenzialità. Bisogna, soprattutto, accogliere la luce della Rivelazione non soltanto in quanto essa esprime l'ordine trascendente della giustizia, ma in quanto illumina quest'ordine con l'amore, quale sorgente definitiva di tutto ciò che esiste. L'amore è anche la sorgente più piena della risposta all'interrogativo sul senso della sofferenza. Questa risposta è stata data da Dio all'uomo nella croce di Gesù Cristo.


IV. Gesù Cristo: la sofferenza vinta dall'amore

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14. "Dio infatti ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (
Jn 3,16). Queste parole, pronunciate da Cristo nel colloquio con Nicodemo, ci introducono nel centro stesso dell'azione salvifica di Dio. Esse esprimono anche l'essenza stessa della soteriologia cristiana, cioè della teologia della salvezza. Salvezza significa liberazione dal male, e per ciò stesso rimane in stretto rapporto col problema della sofferenza. Secondo le parole rivolte a Nicodemo, Dio dà il suo Figlio al "mondo" per liberare l'uomo dal male, che porta in sé la definitiva e assoluta prospettiva della sofferenza. Contemporaneamente, la stessa parola "dà" ("ha dato") indica che questa liberazione deve essere compiuta dal Figlio unigenito mediante la sua propria sofferenza. E in ciò si manifesta l'amore, l'amore infinito sia di quel Figlio unigenito, sia del Padre, il quale "dà" per questo il suo Figlio. Questo è l'amore per l'uomo, l'amore per il "mondo": è l'amore salvifico.

Ci troviamo qui - occorre rendersene conto chiaramente nella nostra comune riflessione su questo problema - in una dimensione completamente nuova del nostro tema. E' dimensione diversa da quella che determinava e, in un certo senso, chiudeva la ricerca del significato della sofferenza entro i limiti della giustizia. Questa è la dimensione della redenzione, alla quale nell'Antico Testamento già sembrano preludere, almeno secondo il testo della Volgata, le parole del giusto Giobbe: "Io so infatti che il mio Redentore vive, e che nell'ultimo giorno... vedro il mio Dio..." (Gb 19,25-26). Mentre finora la nostra considerazione si è concentrata prima di tutto e, in un certo senso, esclusivamente sulla sofferenza nella sua molteplice forma temporale (come anche le sofferenze del giusto Giobbe), invece le parole, ora riportate dal colloquio di Gesù con Nicodemo, riguardano la sofferenza nel suo senso fondamentale e definitivo. Dio dà il suo Figlio unigenito, affinché l'uomo "non muoia", e il significato di questo "non muoia" viene precisato accuratamente dalle parole successive: "ma abbia la vita eterna".

L'uomo "muore", quando perde "la vita eterna". Il contrario della salvezza non è, quindi, la sola sofferenza temporale, una qualsiasi sofferenza, ma la sofferenza definitiva: la perdita della vita eterna, l'essere respinti da Dio, la dannazione. Il Figlio unigenito è stato dato all'umanità per proteggere l'uomo, prima di tutto, contro questo male definitivo e contro la sofferenza definitiva.

Nella sua missione salvifica egli deve, dunque, toccare il male alle sue stesse radici trascendentali, dalle quali esso si sviluppa nella storia dell'uomo. Tali radici trascendentali del male sono fissate nel peccato e nella morte: esse, infatti, si trovano alla base della perdita della vita eterna. La missione del Figlio unigenito consiste nel vincere il peccato e la morte. Egli vince il peccato con la sua obbedienza fino alla morte, e vince la morte con la sua risurrezione.

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15. Quando si dice che Cristo con la sua missione tocca il male alle sue stesse radici, noi abbiamo in mente non solo il male e la sofferenza definitiva, escatologica (perché l'uomo "non muoia, ma abbia la vita eterna"), ma anche - almeno indirettamente - il male e la sofferenza nella loro dimensione temporale e storica. Il male, infatti, rimane legato al peccato e alla morte. E anche se con grande cautela si deve giudicare la sofferenza dell'uomo come conseguenza di peccati concreti (ciò indica proprio l'esempio del giusto Giobbe), tuttavia essa non può essere distaccata dal peccato delle origini, da ciò che in san Giovanni è chiamato "il peccato del mondo" (Gb 1,29), dallo sfondo peccaminoso delle azioni personali e dei processi sociali nella storia dell'uomo. Se non è lecito applicare qui il criterio ristretto della diretta dipendenza (come facevano i tre amici di Giobbe), tuttavia non si può neanche rinunciare al criterio che, alla base delle umane sofferenze, vi è un multiforme coinvolgimento nel peccato.

Similmente avviene quando si tratta della morte. Molte volte essa è persino attesa come una liberazione dalle sofferenze di questa vita. Al tempo stesso, non è possibile lasciarsi sfuggire che essa costituisce quasi una definitiva sintesi della loro opera distruttiva sia nell'organismo corporeo che nella psiche. Ma, prima di tutto, la morte comporta la dissociazione dell'intera personalità psicofisica dell'uomo. L'anima sopravvive e sussiste separata dal corpo, mentre il corpo viene sottoposto a una graduale decomposizione secondo le parole del Signore Dio, pronunciate dopo il peccato commesso dall'uomo agli inizi della sua storia terrena: "Tu sei polvere e in polvere ritornerai" (
Gn 3,19).

Anche se dunque la morte non è una sofferenza nel senso temporale della parola, anche se in un certo modo si trova al di là di tutte le sofferenze, contemporaneamente il male, che l'essere umano sperimenta in essa, ha un carattere definitivo e totalizzante. Con la sua opera salvifica il Figlio unigenito libera l'uomo dal peccato e dalla morte. Prima di tutto egli cancella dalla storia dell'uomo il dominio del peccato, che si è radicato sotto l'influsso dello spirito maligno, iniziando dal peccato originale, e dà poi all'uomo la possibilità di vivere nella grazia santificante. Sulla scia della vittoria sul peccato egli toglie anche il dominio della morte, dando, con la sua risurrezione, l'avvio alla futura risurrezione dei corpi. L'una e l'altra sono condizione essenziale della "vita eterna", cioè della definitiva felicità dell'uomo in unione con Dio; ciò vuol dire, per i salvati, che nella prospettiva escatologica la sofferenza è totalmente cancellata.

In conseguenza dell'opera salvifica di Cristo l'uomo esiste sulla terra con la speranza della vita e della santità eterne. E anche se la vittoria sul peccato e sulla morte, riportata da Cristo con la sua croce e risurrezione, non abolisce le sofferenze temporali dalla vita umana, né libera dalla sofferenza l'intera dimensione storica dell'esistenza umana, tuttavia su tutta questa dimensione e su ogni sofferenza essa getta una luce nuova, che è la luce della salvezza. E' questa la luce del Vangelo, cioè della buona novella. Al centro di questa luce si trova la verità enunciata nel colloquio con Nicodemo: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito". Questa verità cambia dalle sue fondamenta il quadro della storia dell'uomo e della sua situazione terrena: nonostante il peccato che si è radicato in questa storia e come eredità originale e come "peccato del mondo" e come somma dei peccati personali, Dio Padre ha amato il Figlio unigenito, cioè lo ama in modo durevole; nel tempo poi, proprio per quest'amore che supera tutto, egli "dà" questo Figlio, affinché tocchi le radici stesse del male umano e così si avvicini in modo salvifico all'intero mondo della sofferenza, di cui l'uomo è partecipe.

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16. Nella sua attività messianica in mezzo a Israele Cristo si è avvicinato incessantemente al mondo dell'umana sofferenza. "Passo facendo del bene" (
Ac 10,38) e questo suo operare riguardava, prima di tutto, i sofferenti e coloro che attendevano aiuto. Egli guariva gli ammalati, consolava gli afflitti, nutriva gli affamati, liberava gli uomini dalla sordità, dalla cecità, dalla lebbra, dal demonio e da diverse minorazioni fisiche, tre volte restitui ai morti la vita. Era sensibile a ogni umana sofferenza, sia a quella del corpo che a quella dell'anima.

E al tempo stesso ammaestrava, ponendo al centro del suo insegnamento le otto beatitudini, che sono indirizzate agli uomini provati da svariate sofferenze nella vita temporale. Essi sono "i poveri in spirito" e "gli afflitti", e "quelli che hanno fame e sete della giustizia" e "i perseguitati per causa della giustizia", quando li insultano, li perseguitano e, mentendo, dicono ogni sorta di male contro di loro per causa di Cristo... così secondo Matteo; Luca menziona esplicitamente coloro "che ora hanno fame".

Ad ogni modo Cristo si è avvicinato soprattutto al mondo dell'umana sofferenza per il fatto di aver assunto egli stesso questa sofferenza su di sé.

Durante la sua attività pubblica provo non solo la fatica, la mancanza di una casa, l'incomprensione persino da parte dei più vicini, ma, più di ogni cosa, venne sempre più ermeticamente circondato da un cerchio di ostilità e divennero sempre più chiari i preparativi per toglierlo di mezzo dai viventi. Cristo è consapevole di ciò, e molte volte parla ai suoi discepoli delle sofferenze e della morte che lo attendono: "Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà" (Mc 10,33-34). Cristo va incontro alla sua passione e morte con tutta la consapevolezza della missione che ha da compiere proprio in questo modo. Proprio per mezzo di questa sua sofferenza egli deve far si "che l'uomo non muoia, ma abbia la vita eterna". Proprio per mezzo della sua croce deve toccare le radici del male, piantate nella storia dell'uomo e nelle anime umane. Proprio per mezzo della sua croce deve compiere l'opera della salvezza. Quest'opera, nel disegno dell'eterno Amore, ha un carattere redentivo.

E perciò Cristo rimprovera severamente Pietro, quando vuole fargli abbandonare i pensieri sulla sofferenza e sulla morte di croce. E quando, durante la cattura nel Getsemani, lo stesso Pietro tenta di difenderlo con la spada, Cristo gli dice: "Rimetti la spada nel fodero... Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?". E inoltre dice: "Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?" (Jn 18,11). Questa risposta - come altre che ritornano in diversi punti del Vangelo - mostra quanto profondamente Cristo fosse penetrato dal pensiero che già aveva espresso nel colloquio con Nicodemo: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Jn 3,16). Cristo s'incammina verso la propria sofferenza, consapevole della sua forza salvifica, va obbediente al Padre, ma prima di tutto è unito al Padre in quest'amore, col quale egli ha amato il mondo e l'uomo nel mondo. E per questo san Paolo scriverà di Cristo: "Mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Ga 2,20).

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17. Le Scritture dovevano adempiersi. Erano molti i testi messianici dell'Antico Testamento che preludevano alle sofferenze del futuro Unto di Dio. Tra tutti particolarmente toccante è quello che di solito è chiamato il quarto carme del Servo di Jahvè, contenuto nel libro di Isaia. Il profeta, che giustamente viene chiamato "il quinto evangelista", presenta in questo carme l'immagine delle sofferenze del Servo con un realismo così acuto quasi le vedesse con i propri occhi: con gli occhi del corpo e dello spirito. La passione di Cristo diventa, alla luce dei versetti di Isaia, quasi ancora più espressiva e toccante che non nelle descrizioni degli stessi evangelisti. Ecco, si presenta davanti a noi il vero uomo dei dolori: "Non ha apparenza né bellezza / per attirare i nostri sguardi... / Disprezzato e reietto dagli uomini, / uomo dei dolori che ben conosce il patire, / come uno davanti al quale ci si copre la faccia, / era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. / Eppure, egli si è caricato delle nostre sofferenze, / si è addossato i nostri dolori, / e noi lo giudicavamo castigato, / percosso da Dio e umiliato. / Egli è stato trafitto per i nostri delitti, / schiacciato per le nostre iniquità. / Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; / per le sue piaghe noi siamo stati guariti. / Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, / ognuno di noi seguiva la sua strada; / il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti" (
Is 53,2-6).

Il carme del Servo sofferente contiene una descrizione nella quale si possono, in un certo senso, identificare i momenti della passione di Cristo in vari loro particolari: l'arresto, l'umiliazione, gli schiaffi, gli sputi, il vilipendio della dignità stessa del prigioniero, l'ingiusto giudizio, e poi la flagellazione, la coronazione di spine e lo scherno, il cammino con la croce, la crocifissione, l'agonia.

Più ancora di questa descrizione della passione ci colpisce nelle parole del profeta la profondità del sacrificio di Cristo. Ecco, egli, benché innocente, si addossa le sofferenze di tutti gli uomini, perché si addossa i peccati di tutti. "Il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di tutti": tutto il peccato dell'uomo nella sua estensione e profondità diventa la vera causa della sofferenza del Redentore. Se la sofferenza "viene misurata" col male sofferto, allora le parole del profeta ci permettono di comprendere la misura di questo male e di questa sofferenza, di cui Cristo si è caricato. Si può dire che questa è sofferenza "sostitutiva"; soprattutto, pero, essa è "redentiva". L'uomo dei dolori di quella profezia è veramente quell'"agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo" (Jn 1,29). Nella sua sofferenza i peccati vengono cancellati proprio perché egli solo come Figlio unigenito poté prenderli su di sé, assumerli con quell'amore verso il Padre che supera il male di ogni peccato; in un certo senso annienta questo male nello spazio spirituale dei rapporti tra Dio e l'umanità, e riempie questo spazio col bene.

Tocchiamo qui la dualità di natura di un unico soggetto personale della sofferenza redentiva. Colui, che con la sua passione e morte sulla croce opera la redenzione, è il Figlio unigenito che Dio "ha dato". E nello stesso tempo questo Figlio consostanziale al Padre soffre come uomo. La sua sofferenza ha dimensioni umane, ha anche - uniche nella storia dell'umanità - una profondità e intensità che, pur essendo umane, possono essere anche incomparabili profondità e intensità di sofferenza, in quanto l'uomo che soffre è in persona lo stesso Figlio unigenito: "Dio da Dio". Dunque, soltanto lui - il Figlio unigenito - è capace di abbracciare la misura del male contenuta nel peccato dell'uomo: in ogni peccato e nel peccato "totale", secondo le dimensioni dell'esistenza storica dell'umanità sulla terra.

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18. Si può dire che le suddette considerazioni ci conducono ormai direttamente al Getsemani e sul Golgota, dove si è adempiuto il carme del Servo sofferente, contenuto nel libro d'Isaia. Ancora prima di andarvi, leggiamo i successivi versetti del carme, che danno un'anticipazione profetica della passione del Getsemani e del Golgota. Il Servo sofferente - e questo a sua volta è essenziale per un'analisi della passione di Cristo - si addossa quelle sofferenze, di cui si è detto, in modo del tutto volontario: / "Maltrattato, si lascio umiliare / e non apri la sua bocca; / era come agnello condotto al macello, / come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, / e non apri la sua bocca. / Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; / chi si affligge per la sua sorte? / Si, fu eliminato dalla terra dei viventi, / per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte. / Gli si diede la sepoltura con gli empi, / con il ricco fu il suo tumulo, / sebbene non avesse commesso violenza, / né vi fosse inganno nella sua bocca" (
Is 53,7-9).

Cristo soffre volontariamente e soffre innocentemente. Accoglie con la sua sofferenza quell'interrogativo, che - posto molte volte dagli uomini - è stato espresso, in un certo senso, in modo radicale dal libro di Giobbe. Cristo, tuttavia, non solo porta con sé la stessa domanda (e ciò in modo ancor più radicale, poiché egli non è solo un uomo come Giobbe, ma è l'unigenito Figlio di Dio), ma porta anche il massimo della possibile risposta a questo interrogativo.

La risposta emerge, si può dire, dalla stessa materia, di cui è costituita la domanda. Cristo dà la risposta all'interrogativo sulla sofferenza e sul senso della sofferenza non soltanto col suo insegnamento, cioè con la buona novella, ma prima di tutto con la propria sofferenza, che con un tale insegnamento della buona novella è integrata in modo organico e indissolubile. E questa è l'ultima, sintetica parola di questo insegnamento: "la parola della croce", come dirà un giorno san Paolo.

Questa "parola della croce" riempie di una realtà definitiva l'immagine dell'antica profezia. Molti luoghi, molti discorsi durante l'insegnamento pubblico di Cristo testimoniano come egli accetti sin dall'inizio questa sofferenza, che è la volontà del Padre per la salvezza del mondo. Tuttavia, un punto definitivo diventa qui la preghiera nel Getsemani. Le parole: "Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Pero non come voglio io, ma come vuoi tu!" (Mt 26,39), e in seguito: "Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà" (Mt 26,42), hanno una multiforme eloquenza. Esse provano la verità di quell'amore, che il Figlio unigenito dà al Padre nella sua obbedienza. Al tempo stesso, attestano la verità della sua sofferenza. Le parole della preghiera di Cristo al Getsemani provano la verità dell'amore mediante la verità della sofferenza. Le parole di Cristo confermano con tutta semplicità questa umana verità della sofferenza, fino in fondo: la sofferenza è un subire il male, davanti al quale l'uomo rabbrividisce. Egli dice: "passi da me", proprio così, come dice Cristo nel Getsemani.

Le sue parole attestano insieme quest'unica e incomparabile profondità e intensità della sofferenza che poté sperimentare solamente l'Uomo che è il Figlio unigenito. Esse attestano quella profondità e intensità, che le parole profetiche sopra riportate aiutano, a loro modo, a capire: non certo fino in fondo (per questo si dovrebbe penetrare il mistero divino-umano del Soggetto), ma almeno a percepire quella differenza (e somiglianza insieme) che si verifica tra ogni possibile sofferenza dell'uomo e quella del Dio-Uomo. Il Getsemani è il luogo, nel quale appunto questa sofferenza, in tutta la verità, espressa dal profeta, si è rivelata quasi definitivamente davanti agli occhi dell'anima di Cristo.

Dopo le parole nel Getsemani vengono le parole pronunciate sul Golgota, che testimoniano questa profondità - unica nella storia del mondo - del male della sofferenza che si prova. Quando Cristo dice: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" le sue parole non sono solo espressione di quell'abbandono che più volte si faceva sentire nell'Antico Testamento, specialmente nei salmi e, in particolare, in quel salmo 21(22), dal quale provengono le parole citate. Si può dire che queste parole sull'abbandono nascono sul piano dell'inseparabile unione del Figlio col Padre, e nascono perché il Padre "fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti" (Is 53,6) e sulla traccia di ciò che dirà san Paolo: "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo tratto da peccato in nostro favore" (2Co 5,21). Insieme con questo orribile peso, misurando "l'intero" male di voltare le spalle a Dio, contenuto nel peccato, Cristo, mediante la divina profondità dell'unione filiale col Padre, percepisce in modo umanamente inesprimibile questa sofferenza che è il distacco, la ripulsa del Padre, la rottura con Dio. Ma proprio mediante tale sofferenza egli compie la redenzione, e può dire spirando: "Tutto è compiuto" (Jn 19,30).

Si può anche dire che si è adempiuta la Scrittura, che sono state definitivamente attuate nella realtà le parole di detto carme del Servo sofferente: "Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori" (Is 53,10). L'umana sofferenza ha raggiunto il suo culmine nella passione di Cristo. E contemporaneamente essa è entrata in una dimensione completamente nuova e in un nuovo ordine: è stata legata all'amore, a quell'amore del quale Cristo parlava a Nicodemo, a quell'amore che crea il bene ricavandolo anche dal male, ricavandolo per mezzo della sofferenza, così come il bene supremo della redenzione del mondo è stato tratto dalla croce di Cristo, e costantemente prende da essa il suo avvio.

La croce di Cristo è diventata una sorgente, dalla quale sgorgano fiumi d'acqua viva. In essa dobbiamo anche riproporre l'interrogativo sul senso della sofferenza, e leggervi sino alla fine la risposta a questo interrogativo.


Salvifici doloris