Sollicitudo rei socialis 18


18     Altro indice, comune alla stragrande maggioranza delle Nazioni, è il fenomeno della disoccupazione e della sottoccupazione. Non c’è chi non si renda conto dell’attualità e della crescente gravità di un simile fenomeno nei Paesi industrializzati. Se esso appare allarmante nei Paesi in via di sviluppo, con il loro alto tasso di crescita demografica e la massa della popolazione giovanile, nei Paesi di grande sviluppo economico sembra che si contraggano le fonti di lavoro, e così le possibilità di occupazione, invece di crescere, diminuiscono.

Anche questo fenomeno, con la sua serie di effetti negativi a livello individuale e sociale, dalla degradazione alla perdita del rispetto che ogni uomo o donna deve a se stesso, ci spinge a interrogarci seriamente sul tipo di sviluppo, che si è perseguito nel corso di questi vent’anni. A tale proposito torna quanto mai opportuna la considerazione dell’enciclica Laborem Exercens. “Bisogna sottolineare che l’elemento costitutivo e, al tempo stesso, la più adeguata verifica di questo progresso nello spirito di giustizia e di pace, che la Chiesa proclama e per il quale non cessa di pregare... è proprio la continua rivalutazione del lavoro umano; sia sotto l’aspetto della sua finalità oggettiva, sia sotto l’aspetto della dignità del soggetto di ogni lavoro, che è l’uomo”. Al contrario, “non si può non rimanere colpiti da un fatto sconcertante di proporzioni immense”, e cioè che “esistono schiere di disoccupati o di sotto–occupati...: un fatto che, senza dubbio, sta ad attestare che sia all’interno delle singole comunità politiche, sia nei rapporti tra esse su piano continentale e mondiale – per quanto concerne l’organizzazione del lavoro e dell’occupazione – c’è qualcosa che non funziona, e proprio nei punti critici e di maggiore rilevanza sociale” (Laborem Exercens
LE 18).

Come il precedente, anche quest’altro fenomeno, per il suo carattere universale e in certo senso moltiplicatore; rappresenta un senso sommamente indicativo, per la sua incidenza negativa, dello stato e della qualità dello sviluppo dei popoli, di fronte al quale ci troviamo oggi.


19     Un altro fenomeno; anch’esso tipico del più recente periodo – pur se non si riscontra dappertutto –, è senza dubbio egualmente indicativo dell’interdipendenza esistente tra Paesi sviluppati e meno. È la questione del debito internazionale, a cui la Pontificia Commissione “Iustitia et Pax” ha dedicato un suo documento. Non si può qui passare sotto silenzio lo stretto collegamento tra simile problema, la cui crescente gravità era stata già prevista dalla Populorum Progressio (PP 54), e la questione dello sviluppo dei popoli.

La ragione che spinse i popoli in via di sviluppo ad accogliere l’offerta di abbondanti capitali disponibili fu la speranza di poterli investire in attività di sviluppo. Di conseguenza, la disponibilità dei capitali e il fatto di accettarli a titolo di prestito possono considerarsi un contributo allo sviluppo stesso, cosa desiderabile e in sé legittima, anche se forse imprudente e, in qualche occasione, affrettata.

Cambiare le circostanze, tanto nei Paesi indebitati quanto nel mercato internazionale finanziatore, lo strumento prescelto per dare un contributo allo sviluppo si è trasformato in un congegno controproducente. E ciò sia perché i Paesi debitori, per soddisfare gli impegni del debito, si vedono obbligati a esportare i capitali che sarebbero necessari per accrescere o, addirittura, per mantenere il loro livello di vita, sia perché, per la stessa ragione, non possono ottenere nuovi finanziamenti del pari indispensabili. Per questo meccanismo il mezzo destinato allo sviluppo dei popoli si è risolto in un freno; anzi, in certi casi, addirittura in un’accentuazione del sottosviluppo.

Queste constatazioni debbono spingere a riflettere – come dice il recente documento della Pontificia Commissione “Iustitia et Pax” – sul carattere etico dell’interdipendenza dei popoli, e, per stare nella linea della presente considerazione, sulle esigenze e condizioni, ispirate egualmente a principi etici della cooperazione allo sviluppo.



20     Se, a questo punto, esaminiamo le cause di tale grave ritardo nel processo dello sviluppo, verificatosi in senso opposto alle indicazioni dell’enciclica Populorum Progressio, che aveva sollevato tante speranze, la nostra attenzione si ferma in particolare sulle cause politiche della situazione odierna. Trovandoci di fronte a un insieme di fattori indubbiamente complessi, non è possibile giungere qui a un’analisi completa. Ma non si può passare sotto silenzio un fatto saliente del quadro politico, che caratterizza il periodo storico seguito al secondo conflitto mondiale ed è un fattore non trascurabile nell’andamento dello sviluppo dei popoli.

Ci riferiamo all’esistenza di due blocchi contrapposti, designati comunemente con i nomi convenzionali di Est e Ovest, oppure di Oriente e Occidente. La ragione di questa connotazione non è puramente politica, ma anche, come si dice, geopolitica. Ciascuno dei due blocchi tende ad assimilare o ad aggregare intorno a sé, con diversi gradi di adesione o partecipazione, altri Paesi o gruppi di Pace. La contrapposizione è innanzitutto politica; in quanto ogni blocco trova la propria identità in un sistema di organizzazione della società e di gestione del potere, che tende ad essere alternativo all’altro; a sua volta la contrapposizione politica trae origine da una contrapposizione più profonda che è di ordine ideologico.

In Occidente esiste, infatti, un sistema che storicamente si ispira ai principi del capitalismo liberista, quale si sviluppò nel secolo scorso con l’industrializzazione; in Oriente c’è un sistema ispirato al collettivismo marxista; che nacque dall’interpretazione della condizione delle classi proletarie, fatta di una peculiare lettura della storia. Ciascuna delle due ideologie, facendo riferimento a due visioni così diverse dell’uomo, della sua libertà e del suo ruolo sociale, ha proposto e promuove, sul piano economico, forme antitetiche di organizzazione del lavoro e di strutture della proprietà, specialmente per quanto riguarda i cosiddetti mezzi di produzione.

Era inevitabile che la contrapposizione ideologica, sviluppando sistemi e centri antagonistici di potere, con proprie forme di propaganda e di indottrinamento, evolvesse in una crescente contrapposizione militare; dando origine a due blocchi di potenze armate, ciascuno diffidente e timoroso del prevalere dell’altro.

A loro volta le relazioni internazionali non potevano non risentire gli effetti di questa “logica dei blocchi” e delle rispettive “sfere di influenza”. Nata dalla conclusione della seconda guerra mondiale, la tensione tra i due blocchi ha dominato tutto il quarantennio successivo, assumendo ora il carattere di “guerra fredda”, ora di “guerre per procura” mediante la strumentalizzazione di conflitti locali, ora tenendo sospesi e angosciati gli animi con la minaccia di una guerra aperta e totale.

Se al presente un tale pericolo sembra divenuto più remoto, pur senza essere del tutto scomparso, e se si è pervenuti ad un primo accordo sulla distruzione di un tipo di armamenti nucleari, l’esistenza e la contrapposizione dei blocchi non cessano di essere tuttora un fatto reale e preoccupante, che continua a condizionare il quadro mondiale.



21     Ciò si verifica con effetto particolarmente negativo nelle relazioni internazionali, che riguardano i Paesi in via di sviluppo. Infatti, com’è noto, la tensione tra Oriente e Occidente non riguarda di per sé un’opposizione tra due diversi gradi di sviluppo, ma piuttosto tra due concezioni dello sviluppo stesso degli uomini e dei popoli, entrambe imperfette e tali da esigere una radicale correzione. Detta opposizione viene trasferita in seno a quei Paesi, contribuendo così ad allargare il fissato, che già esiste sul piani economico tra Nord e Sud ed è conseguenza della distanza tra i due mondi più sviluppati e quelli meno sviluppati.

È, questa, una delle ragioni per cui la dottrina sociale della Chiesa assume un atteggiamento critico nei confronti sia del capitalismo liberista sia del collettivismo marxista. Infatti, dal punto di vista dello sviluppo, viene spontanea la domanda: in qual modo o in che misura questi due sistemi sono suscettibili di trasformazioni e di aggiornamenti, tali da favorire e promuovere un vero e integrale sviluppo dell’uomo e dei popoli nella società contemporanea? Di fatti, queste trasformazioni e aggiornamenti sono indispensabili per la causa di uno sviluppo comune a tutti.

I Paesi di recente indipendenza, che, sforzandosi di conseguire una propria identità culturale e politica, avrebbero bisogno del contributo efficace e disinteressato dei Paesi più ricchi e sviluppati, si trovano coinvolti – e talvolta anche travolti – nei conflitti ideologici, che generano inevitabili divisioni al loro interno, fino a provocare in certi casi vere guerre civili. Ciò anche perché gli investimenti e gli aiuti allo sviluppo sono spesso distolti dal proprio fine e strumentalizzati per alimentare i contrasti al di fuori e contro gli interessi dei Paesi che dovrebbero beneficiarne. Molti di questi diventano sempre più consapevoli del pericolo di cadere vittime di un neo–colonialismo e tentano di sottrarvisi. È tale consapevolezza che ha dato origine, pur tra difficoltà, oscillazioni e talvolta contraddizioni, al Movimento internazionale dei Paesi Non Allineati; il quale, in ciò che ne forma la parte politica, vorrebbe effettivamente affermare il diritto di ogni popolo alla propria identità, alla propria indipendenza e sicurezza, nonché alla partecipazione, sulla base dell’eguaglianza e della solidarietà, al godimento dei beni che sono destinati a tutti gli uomini.



22     Fatte queste considerazioni, riesce agevole avere una visione più chiara del quadro degli ultimi vent’anni e comprendere meglio i contrasti esistenti nella parte Nord del mondo, cioè tra Oriente e Occidente, quale causa non ultima del ritardo o del ristagno del Sud.

I Paesi in via di sviluppo, più che trasformarsi in Nazioni autonome, preoccupate del proprio cammino verso la giusta partecipazione ai beni e ai servizi destinati a tutti, diventano pezzi di un meccanismo, parti di un ingranaggio gigantesco. Ciò si verifica spesso anche nel campo dei mezzi di comunicazione sociale, i quali, essendo per lo più gestiti da centri nella parte Nord del mondo, non tengono sempre nella dovuta considerazione le priorità e i problemi propri di questi Paesi né rispettano la loro fisionomia culturale, ma non di rado impongono una visione distorta della vita e dell’uomo e così non rispondono alle esigenze del vero sviluppo.

Ognuno dei due blocchi nasconde dentro di sé, a suo modo, la tendenza all’imperialismo, come si dice comunemente, o a forme di neo–colonialismo: tentazione facile, nella quale non di rado si cade, come insegna la storia anche recente. È questa situazione anormale – conseguenza di una guerra e di una preoccupazione ingigantita, oltre il lecito, da motivi della propria sicurezza – che mortifica lo slancio di cooperazione solidale di tutti per il bene comune del genere umano, a danno soprattutto di popoli pacifici, bloccati nel loro diritto di accesso ai beni destinati a tutti gli uomini.

Vista così, la presente divisione del mondo è di diretto ostacolo alla vera trasformazione delle condizioni di sottosviluppo nei Paesi in via di sviluppo o in quelli meno avanzati. I popoli, però, non sempre si rassegnano alla loro sorte. Inoltre, gli stessi bisogni di un’economia soffocata dalle spese militari, come dal burocratismo e dall’intrinseca inefficienza, sembrano adesso favorire dei processi che potrebbero rendere meno rigida la contrapposizione e più facile l’avvio di un proficuo dialogo e di una vera collaborazione per la pace.



23     L’affermazione dell’enciclica Populorum Progressio, secondo cui le risorse e gli investimenti destinati alla produzione delle armi debbono essere impiegati per alleviare la miseria delle popolazioni indigenti (PP 53), rende più urgente l’appello a superare la contrapposizione tra i due blocchi. Oggi, in pratica, tali risorse servono a mettere ciascuno dei due blocchi in condizione di potersi avvantaggiare sull’altro, e garantire così la propria sicurezza. Questa distorsione, che è un vizio d’origine, rende difficile a quelle Nazioni, che sotto l’aspetto storico, economico e politico hanno la possibilità di svolgere un ruolo di guida, l’adempiere adeguatamente il loro dovere di solidarietà in favore dei popoli che aspirano al pieno sviluppo.

È qui opportuno affermare, e non sembri un’esagerazione, che una funzione di guida tra le Nazioni si può giustificare solo con la possibilità e la volontà di contribuire, in maniera ampia e generosa, al bene comune. Una Nazione che cedesse, più o meno consapevolmente, alla tentazione di chiudersi in se stessa, venendo meno alle responsabilità conseguenti a una sua superiorità nel concerto delle Nazioni, mancherebbe gravemente a un suo preciso dovere etico. E questo è facilmente ravvisabile nella contingenza storica, nella quale i credenti intravedono le disposizioni della divina Provvidenza, pronta a servirsi delle Nazioni per la realizzazione dei suoi progetti, così come a rendere “vani i disegni dei popoli” (cf.
Ps 33,10).

Quando l’Occidente dà l’impressione di abbandonarsi a forme di crescente ed egoistico isolamento, e l’Oriente, a sua volta, sembra ignorare per discutibili motivi il dovere di cooperazione nell’impegno di alleviare la miseria dei popoli, non ci si trova soltanto di fronte a un tradimento delle legittime attese dell’umanità, foriero di imprevedibili conseguenze, ma a una vera e propria defezione rispetto a un obbligo morale.


24     Se la produzione delle armi è un grave disordine che regna nel mondo odierno rispetto alle vere necessità degli uomini e all’impiego dei mezzi adatti a soddisfarle, non lo è meno il commercio delle stesse armi. Anzi, a proposito di questo, è necessario aggiungere che il giudizio morale è ancora più severo. Come si sa, si tratta di un commercio senza frontiere, capace di oltrepassare perfino le barriere dei blocchi. Esso sa superare la divisione tra Oriente e Occidente e, soprattutto, quella tra Nord e Sud sino a inserirsi – e questo è più grave – tra le diverse componenti della zona meridionale del mondo.

Ci troviamo così di fronte a uno strano fenomeno: mentre gli aiuti economici e i piani di sviluppo si imbattono nell’ostacolo di barriere ideologiche insuperabili, di barriere tariffarie e di mercato, le armi di qualsiasi provenienza circolano con quasi assoluta libertà nelle varie parti del mondo. E nessuno ignora – come rileva il recente documento della Pontificia Commissione “Iustitia et Pax” sul debito internazionale – che in certi casi i capitali, dati in prestito dal mondo dello sviluppo, sono serviti ad acquistare armamenti nel mondo non sviluppato.

Se a tutto questo si aggiunge il pericolo tremendo, universalmente conosciuto, rappresentato dalle armi atomiche accumulate fino all’incredibile, la conclusione logica appare questa: il panorama del mondo odierno, compreso quello economico, anziché rivelare preoccupazione per un vero sviluppo che conduca tutti verso una vita “più umana” – come auspicava l’enciclica Populorum Progressio () –, sembra destinato ad avviarci più rapidamente verso la morte.

Le conseguenze di tale stato di cose si manifestano nell’acuirsi di una piaga tipica e rivelatrice degli squilibri e dei conflitti del mondo contemporaneo: i milioni di rifugiati, a cui guerre, calamità naturali, persecuzioni e discriminazioni di ogni tipo hanno sottratto la casa, il lavoro, la famiglia e la patria. La tragedia di queste moltitudini si riflette nel volto disfatto di uomini, donne e bambini, che, in un mondo diviso e divenuto inospitale, non riescono a trovare più un focolare.

Né si possono chiudere gli occhi su un’altra dolorosa piaga del mondo odierno: il fenomeno del terrorismo, inteso come proposito di uccidere e distruggere indistintamente uomini e beni e di creare appunto un clima di terrore e di insicurezza, spesso anche con la cattura di ostaggi. Anche quando si adduce come motivazione di questa pratica inumana una qualsiasi ideologia o la realizzazione di una società migliore, gli atti di terrorismo non sono mai giustificabili. Ma tanto meno lo sono quando, come accade oggi, tali decisioni e gesti, che diventano a volte vere stragi, certi rapimenti di persone innocenti ed estranee ai conflitti si prefiggono un fine propagandistico a vantaggio della propria causa; ovvero, peggio ancora, sono fine i se stessi, sicché si uccide soltanto per uccidere. Di fronte a tanto orrore e a tanta sofferenze mantengono sempre il loro valore le parole che ho pronunciato alcuni anni fa e che vorrei ripetere ancora: “Il cristianesimo proibisce... il ricorso alle vie dell’odio, all’assassinio di persone indifese, ai metodi del terrorismo” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II/2 [1979] 425).



25     A questo punto occorre fare un riferimento al problema demografico e al modo di parlarne oggi, seguendo quanto Paolo VI ha indicato nell’enciclica (Populorum Progressio PP 37) e io stesso ho esposto diffusamente nell’esortazione apostolica Familiaris Consortio. Non si può negare l’esistenza, specie nella zona Sud del nostro pianeta, di un problema demografico tale da creare difficoltà allo sviluppo. È bene aggiungere subito che nella zona Nord questo problema si pone con connotazioni inverse: qui, a preoccupare, è la caduta del tasso di natalità, con ripercussioni sull’invecchiamento della popolazione, incapace perfino di rinnovarsi biologicamente. Fenomeno, questo, in grado di ostacolare di per sé lo sviluppo. Così non è esatto affermare che tali difficoltà provengono soltanto dalla crescita demografica, così non è neppure dimostrato che ogni crescita demografica sia incompatibile con uno sviluppo ordinato.

D’altra parte, appare molto allarmante constatare in molti Paesi il lancio di campagne sistematiche contro la natalità per iniziativa dei loro governi, in contrasto non solo con l’identità culturale e religiosa degli stessi Paesi, ma anche con la natura del vero sviluppo. Avviene spesso che tali campagne sono dovute a pressioni e sono finalizzate da capitali provenienti dall’estero e, in qualche caso, ad esse sono addirittura subordinati gli aiuti e l’assistenza economico–finanziaria. In ogni caso, si tratta di assoluta mancanza di rispetto per la libertà di decisione delle persone interessate, uomini e donne, sottoposte non di rado a intolleranti pressioni, comprese quelle economiche, per piegarle a questa forma nuova di oppressione. Sono le popolazioni più povere a subire i maltrattamenti: e ciò finisce con l’ingenerare, a volte, la tendenza a un certo razzismo, o col favorire l’applicazione di certe forme, egualmente razziste, di eugenismo.

Anche questo fatto, che reclama la condanna più energica, è indizio di un concetto errato e perverso del vero sviluppo umano.



26     Simile panorama, prevalentemente negativo, della reale situazione dello sviluppo nel mondo contemporaneo, non sarebbe completo se non si segnalasse la coesistenza di aspetti positivi.

La prima nota positiva è la piena consapevolezza, in moltissimi uomini e donne, della dignità propria e di ciascun essere umano. Tale consapevolezza si esprime, per esempio, con la preoccupazione dappertutto più viva per il rispetto dei diritti umani e il più deciso rigetto delle loro violazioni. Ne è segno rivelatore il numero delle associazioni private, alcune di portata mondiale, di recente istituzione, e quasi tutte impegnate a seguire con grande cura e lodevole obiettività gli avvenimenti internazionali in un campo così delicato.

Su questo piano bisogna riconoscere l’influsso esercitato dalla Dichiarazione dei Diritti Umani, promulgata circa quarant’anni fa dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. La sua stessa esistenza e la sua progressiva accettazione da parte della comunità internazionale sono già segno di una consapevolezza che si va affermando. Lo stesso bisogna dire, sempre nel campo dei diritti umani, per gli altri strumenti giuridici della medesima Organizzazione delle Nazioni Unite o di altri organismi internazionali (cf. Diritti dell’uomo; Redemptor Hominis
RH 17).

La consapevolezza, di cui parliamo, non va riferita soltanto agli individui, ma anche alle Nazioni e ai popoli, che, quali entità aventi una determinata identità culturale, sono particolarmente sensibili alla conservazione, alla libera gestione e alla promozione del loro prezioso patrimonio.

Contemporaneamente, nel mondo diviso e sconvolto da ogni tipo di conflitti, si fa strada la convinzione di una radicale interdipendenza e, per conseguenza, la necessità di una solidarietà che la assuma e la traduca sul piano morale. Oggi, forse più che in passato, gli uomini si rendono conto di essere legati da un comune destino, da costruire insieme, se si vuole evitare la catastrofe per tutti. Dal profondo dell’angoscia, della paura e dei fenomeni di evasione come la droga, tipici del mondo contemporaneo, emerge via via l’idea che il bene, al quale siamo tutti chiamati, e la felicità, a cui aspiriamo, non si possono conseguire senza lo sforzo e l’impegno di tutti, nessuno escluso, e con la conseguente rinuncia al proprio egoismo.

Qui si inserisce anche, come segno del rispetto per la vita – nonostante tutte le tentazioni di distruggerla, dall’aborto all’eutanasia –, la preoccupazione concomitante per la pace; e, di nuovo, la coscienza che questa è indivisibile o è di tutti, o non è di nessuno. Una pace che esige sempre il rispetto rigoroso della giustizia e, conseguentemente, l’equa distribuzione dei frutti del vero sviluppo (cf. Gaudium et Spes GS 78 Populorum Progressio PP 76).

Tra i segnali positivi del presente occorre registrare ancora la maggiore consapevolezza dei limiti delle risorse disponibili, la necessità di rispettare l’integrità e i ritmi della natura e di tenerne conto nella programmazione dello sviluppo, invece di sacrificarlo a certe concezioni demagogiche dello stesso. È quella che oggi va sotto il nome di preoccupazione ecologica.

È giusto riconoscere pure l’impegno di uomini di governo, politici, economisti, sindacalisti, personalità della scienza e funzionari internazionali – molti dei quali ispirati dalla fede religiosa – a risolvere generosamente, con non pochi sacrifici personali, i mali del mondo e ad adoperarsi con ogni mezzo, perché un sempre maggior numero di uomini e donne possa godere del beneficio della pace e di una qualità di vita degna di questo nome. A ciò contribuiscono in non piccola misura le grandi Organizzazioni internazionali e alcune Organizzazioni regionali, i cui sforzi congiunti consentono interventi di maggiore efficacia.

È stato anche per questi contributi che alcuni Paesi del Terzo Mondo, nonostante il peso di numerosi condizionamenti negativi, sono riusciti a raggiungere una certa autosufficienza alimentare, o un grido di industrializzazione che consente di sopravvivere degnamente e di garantire fonti di lavoro alla popolazione attiva. Pertanto, non tutto è negativo nel mondo contemporaneo, e non potrebbe essere altrimenti, perché la Provvidenza del Padre celeste vigili con amore persino sulle nostre preoccupazioni quotidiane (cf. Mt 6,25-32 Mt 10,23-31 Lc 12,6-7 Lc 12,22-30); anzi i valori positivi, che abbiamo rilevato, attestano una nuova preoccupazione morale soprattutto in ordine ai grandi problemi umani, quali sono lo sviluppo e la pace.

Questa realtà mi spinge a portare la riflessione sulla vera natura dello sviluppo dei popoli, in linea con l’enciclica di cui celebriamo l’anniversario, e come omaggio il suo insegnamento.

  IV – L’autentico sviluppo umano

27     Lo sguardo che l’enciclica ci invita a rivolgere al mondo contemporaneo ci fa constatare, anzitutto, che lo sviluppo non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, come se, a certe condizioni, il genere umano debba camminare spedito verso una specie di perfezione indefinita (cf. Familiaris Consortio FC 6). Simile concezione, legata a una nozione di “progresso” dalle connotazioni filosofiche di tipo illuministico, piuttosto che a quella di “sviluppo” adoperata in senso specificamente economico–sociale, sembra posta ora seriamente in dubbio, specie dopo la tragica esperienza delle due guerre mondiali, della distruzione pianificata e in parte attuata in intere popolazioni e dell’incombente pericolo atomico. A un ingenuo ottimismo meccanicistico è subentrata una fondata inquietudine per il destino dell’umanità.


28     Al tempo stesso, però, è entrata in crisi la stessa concezione “economica” o “economicista”, legata al vocabolo sviluppo. Effettivamente oggi si comprende meglio che la pura accumulazione di beni e di servizi, anche a favore della maggioranza, non basta a realizzare la felicità umana. Né, di conseguenza, la disponibilità dei molteplici benefici reali, apportati negli ultimi tempi dalla scienza e dalla tecnica compresa l’informatica, comporta la liberazione da ogni forma di schiavitù. Al contrario, l’esperienza degli anni più recenti dimostra che, se tutta la massa delle risorse e delle potenzialità, messe a disposizione dell’uomo, non è retta da un intendimento morale e da un orientamento verso il vero bene del genere umano, si ritorce facilmente contro di lui per opprimerlo.

Dovrebbe essere altamente istruttiva una sconcertante constatazione del più recente periodo: accanto alle miserie del sottosviluppo, che non possono essere tollerate, ci troviamo di fronte a una sorta di supersviluppo, egualmente inammissibile, perché, come il primo, è contrario al bene e alla felicità autentica. Tale supersviluppo, infatti, consistente nell’eccessiva disponibilità di ogni tipo di beni materiali in favore di alcune fasce sociali, rende facilmente gli uomini schiavi del “possesso” e del godimento immediato, senza altro orizzonte che la moltiplicazione o la continua sostituzione delle cose, che già si posseggono, con altre ancora più perfette. È la cosiddetta civiltà dei “consumi”, o consumismo, che comporta tanti “scarti” e “rifiuti”. Un oggetto posseduto, e già superato da un altro più perfetto, è messo da parte, senza tener conto del suo possibile valore permanente per sé o in favore di un altro essere umano più povero.

Tutti noi tocchiamo con mano i tristi effetti di questa cieca sottomissione al puro consumo: prima di tutto, una forma di materialismo crasso, e al tempo stesso una radicale insoddisfazione, perché si comprende subito che – se non si è premuniti contro il dilagare dei messaggi pubblicitari e l’offerta incessante e tentatrice dei prodotti – quanto più si possiede tanto più si desidera, mentre le aspirazioni più profonde restano insoddisfatte e forse anche soffocate.

L’enciclica di Papa Paolo VI segnalò la differenza, al giorno d’oggi così frequentemente accentuata, tra l’“avere” e l’“essere” (Populorum Progressio PP 19 cf. anche Octogesima Adveniens, 9), in precedenza espressa con parole precise dal Concilio Vaticano II (Gaudium et Spes
GS 35). L’“avere” oggetti e beni non perfeziona di per sé il soggetto umano, se non contribuisce alla maturazione e all’arricchimento del suo “essere”, cioè alla realizzazione della vocazione umana in quanto tale. Certo, la differenza tra “essere” e “avere”, il pericolo inerente a una mera moltiplicazione o sostituzione di cose possedute rispetto al valore dell’“essere” non deve trasformarsi necessariamente in un’antinomia. Una delle più grandi ingiustizie del mondo contemporaneo consiste proprio in questo: che sono relativamente pochi quelli che possiedono molto, e molti quelli che non possiedono quasi nulla. È l’ingiustizia della cattiva distribuzione dei beni e dei servizi destinati originariamente a tutti.

Ecco allora il quadro: ci sono quelli – i pochi che possiedono molto – che non riescono veramente ad “essere”, perché, per un capovolgimento della gerarchia dei valori, ne sono impediti dal culto dell’“avere”; e ci sono quelli – i molti che possiedono poco o nulla –, i quali non riescono a realizzare la loro vocazione umana fondamentale, essendo privi dei beni indispensabili. Il male non consiste nell’“avere” in quanto tale, ma nel possedere in modo irrispettoso della qualità e dell’ordinata gerarchia dei beni che si hanno. Qualità e gerarchia che scaturiscono dalla subordinazione dei beni e dalla loro disponibilità all’“essere” dell’uomo e alla sua vera vocazione.

Con ciò resta dimostrato che, se lo sviluppo ha una necessaria dimensione economica, poiché deve fornire al maggior numero possibile degli abitanti del mondo la disponibilità di beni indispensabili per “essere”, tuttavia non si esaurisce in tale dimensione. Se viene limitato a questa, esso si ritorce contro quelli che si vorrebbero favorire. Le caratteristiche di uno sviluppo pieno, “più umano”, che – senza negare le esigenze economiche – sia in grado di mantenersi all’altezza dell’autentica vocazione dell’uomo e della donna, sono state descritte da Paolo VI ().


29     Uno sviluppo non soltanto economico si misura e si orienta secondo questa realtà e vocazione dell’uomo visto nella sua globalità, ossia secondo un suo parametro interiore. Egli ha senza dubbio bisogno dei beni creati e dei prodotti dell’industria, arricchita in continuo dal progresso scientifico e tecnologico. E la disponibilità sempre nuova dei beni materiali, mentre viene incontro alle necessità, apre nuovi orizzonti. Il pericolo dell’abuso consumistico e l’apparizione delle necessità artificiali non debbono affatto impedire la stima e l’utilizzazione dei nuovi beni e risorse posti a nostra disposizione; in ciò dobbiamo, anzi, vedere un dono di Dio e una risposta alla vocazione dell’uomo, che si realizza pienamente in Cristo.

Ma per conseguire il vero sviluppo è necessario non perder mai di vista detto parametro che è nella natura specifica dell’uomo, creato da Dio a sua immagine e somiglianza (cf.
Gn 1,26). Natura corporale e spirituale, simboleggiata nel secondo racconto della creazione dai due elementi: la terra, con cui Dio plasma il fisico dell’uomo, e l’alito di vita, soffiato nelle sue narici (Gn 2,7).

L’uomo così viene ad avere una certa affinità con le altre creature: è chiamato a utilizzarle, a occuparsi di esse e, sempre secondo la narrazione della Genesi (Gn 2,15), è posto nel giardino col compito di coltivarlo e custodirlo, al di sopra di tutti gli altri esseri collocati da Dio sotto il suo dominio (Gn 1,26). Ma nello stesso tempo l’uomo deve rimanere sottomesso alla volontà di Dio, che gli prescrive limiti nell’uso e nel dominio delle cose (cf. Gn 2,16-17), così come gli promette l’immortalità (cf. Gn 2,9 Sg 2,23). L’uomo, pertanto, essendo immagine di Dio, ha una vera affinità anche con lui.

Sulla base di questo insegnamento, lo sviluppo non può consistere soltanto nell’uso, nel dominio e nel possesso indiscriminato delle cose create e dei prodotti dell’industria umana, ma piuttosto nel subordinare il possesso, il dominio e l’uso alla somiglianza divina dell’uomo e alla sua vocazione all’immortalità. Ecco la realtà trascendente dell’essere umano, la quale appare partecipata fin dall’origine a una coppia di uomo e donna (cf. Gn 1,27) ed è quindi fondamentalmente sociale.


30     Secondo la sacra Scrittura, dunque, la nozione di sviluppo non è soltanto “laica” o “profana”, ma appare anche, pur con una sua accentuazione socio–economica, come l’espressione moderna di un’essenziale dimensione della vocazione dell’uomo. L’uomo, infatti, non è stato creato, per così dire, immobile e statico. La prima raffigurazione, che di lui offre la Bibbia, lo presenta senz’altro come creatura e immagine, definita nella sua profonda realtà dall’origine e dall’affinità, che lo costituisce. Ma tutto questo immette nell’essere umano, uomo e donna, il germe e l’esigenza di un compito originario da svolgere, sia ciascuno individualmente sia come coppia. Il compito è di “dominare” sulle altre creature, “coltivare il giardino”, ed è da assolvere nel quadro dell’ubbidienza alla legge divina e, quindi, nel rispetto dell’immagine ricevuta, fondamento chiaro del potere di dominio, riconosciutogli in ordine al suo perfezionamento (cf. Sg 9,2-3).

Quando l’uomo disobbedisce a Dio e rifiuta di sottomettersi alla sua potestà, allora la natura gli si ribella e non lo riconosce più come “signore”, perché egli ha appannato in sé l’immagine divina. L’appello al possesso e all’uso dei mezzi creati rimane sempre valido, ma dopo il peccato l’esercizio ne diviene arduo e carico di sofferenze (cf. Gn 3,17-19).

Infatti, il successivo capitolo della Genesi ci mostra la discendenza di Caino, la quale costruisce “una città”, si dedica alla pastorizia, si dà alle arti (la musica) (Gn 4,21) e alla tecnica (la metallurgia) (Gn 4,22), mentre al tempo stesso si comincia a invocare il nome del Signore” (cf. Gn 4,26).

La storia del genere umano, delineata dalla sacra Scrittura, anche dopo la caduta nel peccato è una storia di realizzazioni continue, che, sempre rimesse in questione e in pericolo dal peccato, si ripetono, si arricchiscono e si diffondono come risposta alla vocazione divina, assegnata sin dal principio all’uomo e alla donna (cf. Gn 1,26-28) e impressa nell’immagine, da loro ricevuta.

È logico concludere, almeno da parte di quanti credono nella parola di Dio, che lo “sviluppo” di oggi deve essere visto come un momento della storia iniziata con la creazione e di continuo messa in pericolo a motivo dell’infedeltà alla volontà del Creatore, soprattutto per la tentazione dell’idolatria; ma esso corrisponde fondamentalmente alle premesse iniziali. Chi volesse rinunciare al compito, difficile ma esaltante, di elevare la sorte di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, sotto il pretesto del peso della lotta e dello sforzo incessante di superamento, o addirittura per l’esperienza della sconfitta e del ritorno al punto di partenza, verrebbe meno alla volontà di Dio creatore. Sotto questo aspetto, nell’enciclica Laborem Exercens ho fatto riferimento alla vocazione dell’uomo al lavoro, per sottolineare il concetto che è sempre lui il protagonista dello sviluppo (Laborem Exercens LE 4 Populorum Progressio, PP 15).

Anzi, lo stesso Signore Gesù, nella parabola dei talenti, mette in rilievo il severo trattamento riservato a chi osò nascondere il dono ricevuto: “Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso... Toglietegli, dunque, il talento e datelo a chi ha dieci talenti” (Mt 25,26-28). A noi, che riceviamo i doni di Dio per farli fruttificare, tocca “seminare” e “raccogliere”. Se non lo faremo, ci sarà tolto anche quello che abbiamo.

L’approfondimento di queste severe parole potrà spingerci a impegnarci con più decisione nel dovere, oggi per tutti urgente, di collaborare allo sviluppo pieno degli altri: “Sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini” (Populorum Progressio PP 42).


Sollicitudo rei socialis 18