Sollicitudo rei socialis 31


31     La fede in Cristo Redentore, mentre illumina dal di dentro la natura dello sviluppo, guida anche nel compito della collaborazione. Nella Lettera di san Paolo ai Colossesi leggiamo che Cristo è “il primogenito di tutta la creazione” e che “tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (cf. Col 1,15-16). Infatti, ogni cosa “ha consistenza in lui”, perché “piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose” (Col 1,19-20).

In questo piano divino, che comincia dall’eternità in Cristo, “immagine” perfetta del Padre, e che culmina in lui, “primogenito di coloro che risuscitano dai morti” (Col 1,15), s’inserisce la nostra storia, segnata dal nostro sforzo personale e collettivo di elevare la condizione umana, superare gli ostacoli sempre risorgenti lungo il nostro cammino, disponendoci così a partecipare alla pienezza che “risiede nel Signore” e che egli comunica “Al suo corpo, che è la Chiesa” (Col 1,18 cf. Ep 1,22-23) mentre il peccato, che sempre ci insidia e compromette le nostre realizzazioni umane, è vinto e riscattato dalla “conciliazione” operata da Cristo (cf. Col 1,20).

Qui le prospettive si allargano. Il sogno di un “progresso indefinito” si ritrova trasformato radicalmente dall’ottica nuova aperta dalla fede cristiana, assicurandoci che tale progresso è possibile solo perché Dio Padre ha deciso fin dal principio di rendere l’uomo partecipe della sua gloria in Gesù Cristo risorto, “nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati” (Ep 1,17), e in lui ha voluto vincere il peccato e farlo servire per il nostro bene più grande, che supera infinitamente quanto il progresso potrebbe realizzare.

Possiamo dire allora – mentre ci dibattiamo in mezzo alle oscurità e alle carenze del sottosviluppo e del supersviluppo – che un giorno “questo corpo corruttibile si vestirà di incorruttibilità e questo corpo mortale di immortalità” (cf. 1Co 15,54), quando il Signore “consegnerà il regno a Dio Padre” (cf. 1Co 15,24) e tutte le opere e azioni, degne dell’uomo, saranno riscattate.

La concezione della fede, inoltre, mette bene in chiaro le ragioni che spingono la Chiesa a preoccuparsi della problematica dello sviluppo, a considerarlo un dovere del suo ministero pastorale, a stimolare la riflessione di tutti circa la natura e le caratteristiche dell’autentico sviluppo umano. Col suo impegno essa desidera, da una parte, mettersi al servizio del piano divino inteso a ordinare tutte le cose alla pienezza che abita in Cristo (cf. Col 1,19), e che egli comunicò al suo corpo, e dall’altra, rispondere alla sua vocazione fondamentale di “sacramento”, ossia “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium LG 1).

Alcuni Padri della Chiesa si sono ispirati a tale visione per elaborare a loro volta, in forme originali, una concezione circa il significato della storia e il lavoro umano, come indirizzato a un fine che lo supera e definito sempre dalla relazione con l’opera di Cristo. In altre parole, è possibile ritrovare nell’insegnamento patristico una visione ottimistica della storia e del lavoro, ossia del valore perenne delle autentiche realizzazioni umane, in quanto riscattate da Cristo e destinate al regno promesso (san Basilio Magno, Regulae fusius tractatae; Teodoreto di Ciro, De Providentia; s. Agostino, De civitate Dei).

Così fa parte dell’insegnamento e della pratica più antica della Chiesa la convinzione di esser tenuta per vocazione – essa stessa, i suoi ministri e ciascuno dei suoi membri – ad alleviare la miseria dei sofferenti, vicini e lontani, non solo col “superfluo”, ma anche col “necessario”. Di fronte ai casi di bisogno, non si possono preferire gli ornamenti superflui delle chiese e la suppellettile preziosa del culto divino; al contrario, potrebbe essere obbligatorio alienare questi beni per dar pane, bevanda, vestito e casa a chi ne è privo (s. Giovanni Crisostomo, In Evang. S. Matthaei; s. Ambrogio, De officiis ministrorum, Possidio, Vita s. Augustini Episcopi). Come si è già notato, ci viene qui indicata una “gerarchia di valori” – nel quadro del diritto di proprietà – tra l’“avere” e l’“essere”, specie quando l’“avere” di alcuni può risolversi a danno dell’“essere” di tanti altri.

Nella sua enciclica Papa Paolo VI sta nella linea di tale insegnamento, ispirandosi alla costituzione pastorale Gaudium et Spes (Populorum Progressio PP 23). Per parte mia, desidero insistere ancora sulla sua gravità e urgenza, implorando dal Signore forza a tutti i cristiani per poter passare fedelmente all’applicazione pratica.


32     L’obbligo di impegnarsi per lo sviluppo dei popoli non è un dovere soltanto individuale, né tanto meno individualistico, come se fosse possibile conseguirlo con gli sforzi isolati di ciascuno. Esso è un imperativo per tutti e per ciascuno degli uomini e delle donne, per le società e le Nazioni, in particolare per la Chiesa cattolica e per le altre Chiese e comunità ecclesiali, con le quali siamo pienamente disposti a collaborare in questo campo. In tal senso, come noi cattolici invitiamo i fratelli cristiani a partecipare alle nostre iniziative, così ci dichiariamo pronti a collaborare alle loro, accogliendo gli inviti che ci sono rivolti. In questa ricerca dello sviluppo integrale dell’uomo possiamo fare molto anche con i credenti delle altre religioni, come del resto si sta facendo in diversi luoghi.

La collaborazione allo sviluppo di tutto l’uomo e di ogni uomo, infatti, è un dovere di tutti verso tutti e deve, al tempo stesso, essere comune alle quattro parti del mondo: Est e Ovest, Nord e Sud, o, per adoperare il termine oggi in uso, ai diversi “mondi”. Se, al contrario, si cerca di realizzarlo in una sola parte, o in un solo mondo, esso è fatto a spese degli altri; e là dove comincia, proprio perché gli altri sono ignorati, si ipertrofizza e si perverte.

I popoli o le Nazioni hanno anch’essi diritto a un proprio pieno sviluppo, che, se implica – come si è detto – gli aspetti economici e sociali, deve comprendere pure la rispettiva identità culturale e l’apertura verso il trascendente. Nemmeno la necessità dello sviluppo può essere assunta come pretesto per imporre agli altri il proprio modo di vivere o la propria fede religiosa.



33     Né sarebbe veramente degno dell’uomo un tipo di sviluppo che non rispettasse e non promovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli.

Oggi, forse più che in passato, si riconosce con maggiore chiarezza l’intrinseca contraddizione di uno sviluppo limitato soltanto al lato economico. Esso subordina facilmente la persona umana e le sue necessità più profonde alle esigenze della pianificazione economica o del profitto esclusivo.

L’intrinseca connessione tra sviluppo autentico e rispetto dei diritti dell’uomo ne rivela ancora una volta il carattere morale: la vera elevazione dell’uomo, conforme alla vocazione naturale e storica di ciascuno, non si raggiunge sfruttando solamente l’abbondanza dei beni e dei servizi, o disponendo di perfette infrastrutture.

Quando gli individui e le comunità non vedono rispettate rigorosamente le esigenze morali, culturali e spirituali, fondate sulla dignità della persona e sull’identità propria di ciascuna comunità, a cominciare dalla famiglia e dalle società religiose, tutto il resto – disponibilità di beni, abbondanza di risorse tecniche applicate alla vita quotidiana, un certo livello di benessere materiale – risulterà insoddisfacente e, alla lunga, disprezzabile. Ciò afferma chiaramente il Signore nel Vangelo, richiamando l’attenzione di tutti sulla vera gerarchia dei valori: “Qual vantaggio avrà l’uomo, se guadagnerà il mondo intero e poi perderà la propria anima?” (
Mt 16,26).

Un vero sviluppo, secondo le esigenze proprie dell’essere umano, uomo o donna, bambino, adulto o anziano, implica soprattutto da parte di quanti intervengono attivamente in questo processo e ne sono responsabili una viva coscienza del valore dei diritti di tutti e di ciascuno, nonché della necessità di rispettare il diritto di ognuno all’utilizzazione piena dei benefici offerti dalla scienza e dalla tecnica.

Sul piano interno di ogni Nazione, assume grande importanza il rispetto di tutti i diritti: specialmente il diritto alla vita in ogni stadio dell’esistenza; i diritti della famiglia, in quanto comunità sociale di base, o “cellula della società”; la giustizia nei rapporti di lavoro; i diritti inerenti alla vita della comunità politica in quanto tale; i diritti basati sulla vocazione trascendente dell’essere umano, a cominciare dal diritto alla libertà di professare e di praticare il proprio credo religioso.

Sul piano internazionale, ossia dei rapporti tra gli Stati o, secondo il linguaggio corrente, tra i vari “mondi”, è necessario il pieno rispetto dell’identità di ciascun popolo con le sue caratteristiche storiche e culturali. È indispensabile, altresì, come già auspicava l’enciclica Populorum Progressio, riconoscere a ogni popolo l’eguale diritto di assidersi alla mensa del banchetto comune” (PP 47), invece di giacere come Lazzaro fuori della porta, mentre “i cani vengono a leccare le sue piaghe” (cf. Lc 16,21). Sia i popoli che le persone singole debbono godere dell’eguaglianza fondamentale (cf. Populorum Progressio PP 47 cf. anche Gaudium et Spes GS 29), su cui si basa, per esempio, la Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite: eguaglianza che è il fondamento del diritto di tutti alla partecipazione al processo di pieno sviluppo.

Per essere tale, lo sviluppo deve realizzarsi nel quadro della solidarietà e della libertà, senza sacrificare mai l’una e l’altra per nessun pretesto. Il carattere morale dello sviluppo e la sua necessaria promozione sono esaltati quando c’è il più rigoroso rispetto di tutte le esigenze derivanti dall’ordine della verità e del bene, propri della creatura umana.

Il cristiano, inoltre, educato a vedere nell’uomo l’immagine di Dio, chiamato alla partecipazione della verità e del bene, che è Dio stesso, non comprende l’impegno per lo sviluppo e la sua attuazione fuori dell’osservanza e del rispetto della dignità unica di questa “immagine”. In altre parole, il vero sviluppo deve fondarsi sull’amore di Dio e del prossimo, e contribuire a favorire i rapporti tra individui e società. Ecco la “civiltà dell’amore”, di cui parlava spesso il Papa Paolo VI.


34     Il carattere morale dello sviluppo non può prescindere neppure dal rispetto per gli esseri che formano la natura visibile e che i greci, alludendo appunto all’ordine che la contraddistingue, chiamavano il “cosmo”. Anche tali realtà esigono rispetto, in virtù di una triplice considerazione, su cui giova attentamente riflettere.

La prima consiste nella convenienza di prendere crescente consapevolezza che non si può fare impunemente uso delle diverse categorie di esseri, viventi o inanimati – animali, piante, elementi naturali – come si vuole, a seconda delle proprie esigenze economiche. Al contrario, occorre tener conto della natura di ciascun essere e della sua mutua connessione in un sistema ordinato, ch’è appunto il cosmo.

La seconda considerazione, invece, si fonda sulla constatazione, si direbbe più pressante, della limitazione delle risorse naturali, alcune delle quali non sono, come si dice, rinnovabili. Usarle come se fossero inesauribili, con assoluto dominio mette seriamente in pericolo la loro disponibilità non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future.

La terza considerazione si riferisce direttamente alle conseguenze che un certo tipo di sviluppo ha sulla qualità della vita nelle zone industrializzate. Sappiamo tutti che risultato diretto o indiretto dell’industrializzazione è, sempre più di frequente, la contaminazione dell’ambiente, con gravi conseguenze per la salute della popolazione.

Ancora una volta risulta evidente che lo sviluppo, la volontà di pianificazione che lo governa, l’uso delle risorse e la maniera di utilizzarle non possono essere distaccati dal rispetto delle esigenze morali. Una di queste impone senza dubbio limiti all’uso della natura visibile. Il dominio accordato dal Creatore all’uomo (cf.
Gn 1,26) non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di “usare e abusare”, o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di “mangiare il frutto dell’albero” (cf. Gn 2,16-17), mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire.

Una giusta concezione dello sviluppo non può prescindere da queste considerazioni – relative all’uso degli elementi della natura, alla rinnovabilità delle risorse e alle conseguenze di una industrializzazione disordinata –, le quali ripropongono alla nostra coscienza la dimensione morale, che deve distinguere lo sviluppo (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X/3 [1987] 63ss.; Paolo VI, Octogesima Adveniens, 21).

  V – Una lettura teologica dei problemi moderni

35     Alla luce dello stesso essenziale carattere morale proprio dello sviluppo, sono da considerare anche gli ostacoli che ad esso si oppongono. Se durante gli anni trascorsi dalla pubblicazione dell’enciclica paolina lo sviluppo non c’è stato – o c’è stato in misura scarsa, irregolare, se non addirittura contraddittoria –, le ragioni non possono essere di natura soltanto economica. Come si è già accennato, vi intervengono anche moventi politici. Le decisioni propulsive o frenanti lo sviluppo dei popoli, infatti, non sono che fattori di carattere politico. Per superare i meccanismi perversi, sopra ricordati, e sostituirli con nuovi, più giusti e conformi al bene comune dell’umanità, è necessaria un’efficace volontà politica. Purtroppo, dopo aver analizzato la situazione, occorre concludere che essa è stata insufficiente.

In un documento pastorale, come il presente, un’analisi limitata esclusivamente alle cause economiche e politiche del sottosviluppo (e, fatti i debiti riferimenti, anche del cosiddetto supersviluppo) sarebbe incompleta. È necessario, perciò, individuare le cause di ordine morale che, sul piano del comportamento degli uomini considerati persone responsabili, interferiscono per frenare il corso dello sviluppo e ne impediscono il pieno raggiungimento.

Parimenti, quando siano disponibili risorse scientifiche e tecniche, che con le necessarie e concrete decisioni di ordine politico debbono contribuire finalmente a incamminare i popoli verso un vero sviluppo, il superamento dei maggiori ostacoli avverrà soltanto in forza di determinazioni essenzialmente morali, le quali, per i credenti, specie se cristiani, s’ispireranno ai principi della fede con l’aiuto della grazia divina.



36     È da rilevare, pertanto, che un mondo diviso in blocchi, sostenuti da ideologie rigide, dove, invece dell’interdipendenza e della solidarietà, dominano differenti forme di imperialismo, non può che essere un mondo sottomesso a “strutture di peccato”. La somma dei fattori negativi, che agiscono in senso contrario a una vera coscienza del bene comune universale e all’esigenza di favorirlo, dà l’impressione di creare, in persone e istituzioni, un ostacolo difficile da superare (Gaudium et Spes GS 25).

Se la situazione di oggi è da attribuire a difficoltà di diversa indole, non è fuori luogo parlare di “strutture di peccato”, le quali – come ho affermato nell’esortazione apostolica Reconciliatio et Paenitentia – si radicano nel peccato personale e, quindi, sono sempre collegate ad atti concreti delle persone, che le introducono, le consolidano e le rendono difficili da rimuovere (Reconciliatio et Paenitentia RP 16). E così esse si rafforzano, si diffondono e diventano sorgente di altri peccati, condizionando la condotta degli uomini.

“Peccato” e “strutture di peccato” sono categorie che non sono spesso applicate alla situazione del mondo contemporaneo. Non si arriva, però, facilmente alla comprensione profonda della realtà quale si presenta ai nostri occhi, senza dare un nome alla radice dei mali che ci affliggono.

Si può parlare certo di “egoismo” e di “corta veduta”; si può fare riferimento a “calcoli sbagliati”, a decisioni economiche imprudenti”. E in ciascuna di tali valutazioni si nota un’eco di natura etico–morale. La condizione dell’uomo è tale da rendere difficile un’analisi più profonda delle azioni e delle omissioni delle persone senza implicare, in una maniera o nell’altra, giudizi o riferimenti di ordine etico.

Questa valutazione è di per sé positiva, specie se diventa coerente fino in fondo e se si basa sulla fede in Dio e sulla sua legge, che ordina il bene e proibisce il male. In ciò consiste la differenza tra il tipo di analisi socio–politica e il riferimento formale al “peccato” e alle “strutture di peccato”. Secondo quest’ultima visione si inseriscono la volontà di Dio tre volte Santo, il suo progetto sugli uomini, la sua giustizia e la sua misericordia. Il Dio ricco in misericordia, redentore dell’uomo, Signore e datore della vita, esige dagli uomini atteggiamenti precisi che si esprimano anche in azioni o omissioni nei riguardi del prossimo. Si ha qui un riferimento alla “seconda tavola” dei dieci Comandamenti (cf. Ex 20,12-17 Dt 5,16-21): con l’inosservanza di questi si offende Dio e si danneggia il prossimo, introducendo nel mondo condizionamenti e ostacoli, che vanno molto più in là delle azioni e del breve arco della vita di un individuo. S’inserisce anche nel processo dello sviluppo dei popoli, il cui ritardo o la cui lentezza deve essere giudicata anche sotto tale luce.


37     A questa analisi generale di ordine religioso si possono aggiungere alcune considerazioni particolari, per notare che tra le azioni e gli atteggiamenti opposti alla volontà di Dio e al bene del prossimo e le “strutture” che essi inducono, i più caratteristici sembrano oggi soprattutto due: da una parte, la brama esclusiva del profitto e, dall’altra, la sete del potere col proposito di imporre agli altri la propria volontà. A ciascuno di questi atteggiamenti si può aggiungere, per caratterizzarli meglio, l’espressione: “a qualsiasi prezzo”. In altre parole, siamo di fronte all’assolutizzazione di atteggiamenti umani con tutte le possibili conseguenze.

Anche se di per sé sono separabili, sicché l’uno potrebbe stare senza l’altro, entrambi gli atteggiamenti si ritrovano – nel panorama aperto davanti ai nostri occhi – indissolubilmente uniti, sia che predomini l’uno o l’altro. Ovviamente, a cader vittime di questo duplice atteggiamento di peccato non sono solo gli individui; possono essere anche le Nazioni e i blocchi. E ciò favorisce di più l’introduzione delle “strutture di peccato”, di cui ho parlato. Se certe forme di “imperialismo” moderno si considerassero alla luce di questi criteri morali, si scoprirebbe che sotto certe decisioni, apparentemente ispirate solo dall’economia o dalla politica, si nascondono vere forme di idolatria del danaro, dell’ideologia, della classe, della tecnologia.

Ho voluto introdurre questo tipo di analisi soprattutto per indicare quale sia la vera natura del male, a cui ci si trova di fronte nella questione dello “sviluppo dei popoli”: si tratta di un male morale, frutto di molti peccati, che portano a “strutture di peccato”. Diagnosticare così il male significa identificare esattamente, a livello della condotta umana, il cammino da seguire per superarlo.



38     È un cammino lungo e complesso e, per di più, tenuto sotto costante minaccia sia per l’intrinseca fragilità dei propositi e delle realizzazioni umane, sia per la mutabilità delle circostanze esterne tanto imprevedibili. Bisogna, tuttavia, avere il coraggio d’intraprenderlo e, dove sono stati fatti alcuni passi o percorsa una parte del tragitto, andare fino in fondo.

Nel quadro di tali riflessioni, la decisione di mettersi sulla strada o di continuare la marcia comporta, innanzitutto, un valore morale che gli uomini e le donne credenti riconoscono come richiesto dalla volontà di Dio, unico vero fondamento di un’etica assolutamente vincolante.

È da auspicare che anche gli uomini e donne privi di una fede esplicita siano convinti che gli ostacoli frapposti al pieno sviluppo non sono soltanto di ordine economico, ma dipendono da atteggiamenti più profondi configurabili, per l’essere umano, in valori assoluti. Perciò è sperabile che quanti, in una misura o l’altra, sono responsabili di una “vita più umana” verso i propri simili, ispirati o no da una fede religiosa, si rendano pienamente conto dell’urgente necessità di un cambiamento degli atteggiamenti spirituali, che definiscono i rapporti di ogni uomo con se stesso, col prossimo, con le comunità umane, anche le più lontane, e con la natura; in virtù di valori superiori, come il bene comune, o, per riprendere la felice espressione dell’enciclica Populorum Progressio, il pieno sviluppo “di tutto l’uomo e di tutti gli uomini” (Populorum Progressio PP 42).

Per i cristiani, come per tutti coloro che riconoscono il preciso significato teologico della parola “peccato”, il cambiamento di condotta o di mentalità o del modo di essere si chiama, con linguaggio biblico, “conversione” (cf.
Mc 1,15 Lc 13,35 Is 30,15). Questa conversione indica specificamente relazione a Dio, alla colpa commessa, alle sue conseguenze e, pertanto, al prossimo, individuo o comunità. È Dio, nelle “cui mani sono i cuori dei potenti” (cf. Liturgia horarum), e quelli di tutti, che può, secondo la sua stessa promessa, trasformare ad opera del suo Spirito i “cuori di pietra” in “cuori di carne” (cf. Ez 36,26).

Nel cammino della desiderata conversione verso il superamento degli ostacoli morali per lo sviluppo, si può già segnalare, come valore positivo e morale, la crescente consapevolezza dell’interdipendenza tra gli uomini e le Nazioni. Il fatto che uomini e donne, in varie parti del mondo, sentano come proprie le ingiustizie e le violazioni dei diritti umani commesse in Paesi lontani, che forse non visiteranno mai, è un segno ulteriore di una realtà trasformata in coscienza, acquistando così connotazione morale.

Si tratta, innanzitutto, dell’interdipendenza, sentita come sistema determinante di relazioni nel mondo contemporaneo, nelle sue componenti economica, culturale, politica e religiosa, e assunta come categoria morale. Quando l’interdipendenza viene così riconosciuta, la correlativa risposta, come atteggiamento morale e sociale, come “virtù”, è la solidarietà. Questa, dunque, non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune. Ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti. Tale determinazione è fondata sulla salda convinzione che le cause che frenano il pieno sviluppo siano quella brama del profitto e quella sete del potere, di cui si è parlato. Questi atteggiamenti e “strutture di peccato” si vincono solo – presupposto l’aiuto della grazia divina – con un atteggiamento diametralmente opposto: l’impegno per il bene del prossimo con la disponibilità, in senso evangelico, a “perdersi” a favore dell’altro invece di sfruttarlo, e a “servirlo” invece di opprimerlo per il proprio tornaconto (cf. Mt 10,40-42 Mt 20,25 Mc 10,42-45 Lc 22,25-27).


39     L’esercizio della solidarietà all’interno di ogni società è valido, quando i suoi componenti si riconoscono tra di loro come persone. Coloro che contano di più, disponendo di una porzione più grande di beni e di servizi comuni, si sentano responsabili dei più deboli e siano disposti a condividere quanto possiedono. I più deboli, da parte loro, nella stessa linea di solidarietà, non adottino un atteggiamento puramente passivo o distruttivo del tessuto sociale, ma, pur rivendicando i loro legittimi diritti, facciano quanto loro spetta per il bene di tutti. I gruppi intermedi, a loro volta, non insistano egoisticamente nel loro particolare interesse, ma rispettino gli interessi degli altri.

Segni positivi nel mondo contemporaneo sono la crescente coscienza di solidarietà dei poveri tra di loro, i loro interventi di appoggio reciproco, le manifestazioni pubbliche nella scena sociale, senza fare ricorso alla violenza, ma prospettando i propri bisogni e i propri diritti di fronte all’inefficienza e alla corruzione dei pubblici poteri. In virtù del suo impegno evangelico, la Chiesa si sente chiamata a restare accanto alle folle povere, a discernere la giustizia delle loro richieste, a contribuire a soddisfarle, senza perdere di vista il bene dei gruppi nel quadro del bene comune.

Lo stesso criterio si applica, per analogia, nelle relazioni internazionali. L’interdipendenza deve trasformarsi in solidarietà, fondata sul principio che i beni della creazione sono destinati a tutti – ciò che l’industria umana produce con la lavorazione delle materie prime, col contributo del lavoro, deve servire egualmente al bene di tutti.

Superando gli imperialismi di ogni tipo e i propositi di conservare la propria egemonia, le Nazioni più forti e più dotate debbono sentirsi moralmente responsabili delle altre, affinché sia instaurato un vero sistema internazionale, che si regga sul fondamento dell’eguaglianza di tutti i popoli e sul necessario rispetto delle loro legittime differenze. I Paesi economicamente più deboli, o rimasti al limite della sopravvivenza, con l’assistenza degli altri popoli e della comunità internazionale, debbono essere messi in grado di dare anch’essi un contributo al bene comune con i loro tesori di umanità e di cultura, che altrimenti andrebbero perduti per sempre.

La solidarietà ci aiuta a vedere l’“altro” – persona, popolo o Nazione – non come uno strumento qualsiasi, per sfruttarne a basso costo la capacità di lavoro e la resistenza fisica, abbandonandolo poi quando non serve più, ma come un nostro “simile”, un “aiuto” (cf.
Gn 2,18 Gn 2,20), da rendere partecipe, al pari di noi, del banchetto della vita, a cui tutti gli uomini sono egualmente invitati da Dio. Di qui l’importanza di risvegliare la coscienza religiosa degli uomini e dei popoli.

Sono così esclusi lo sfruttamento, l’oppressione, l’annientamento degli altri. Questi fatti, nella presente divisione del mondo in blocchi contrapposti, vanno a confluire nel pericolo di guerra e nell’eccessiva preoccupazione per la propria sicurezza, a spese non di rado dell’autonomia, della libera decisione, della stessa integrità territoriale delle Nazioni più deboli, che sono comprese nelle cosiddette “zone d’influenza” o nelle “cinture di sicurezza”.

Le “strutture di peccato” e i peccati, che in esse sfociano, si oppongono con altrettanta radicalità alla pace e allo sviluppo, perché lo sviluppo, secondo la nota espressione dell’enciclica paolina, è “il nuovo nome della pace” (Populorum Progressio PP 87). In tal modo la solidarietà da noi proposta è via alla pace e insieme allo sviluppo. Infatti, la pace del mondo è inconcepibile se non si giunge, da parte dei responsabili, a riconoscere che l’interdipendenza esige di per sé il superamento della politica dei blocchi, la rinuncia a ogni forma di imperialismo economico, militare o politico, e la trasformazione della reciproca diffidenza in collaborazione. Questa è, appunto, l’atto proprio della solidarietà tra individui e Nazioni.

Il motto del pontificato del mio venerato predecessore Pio XII era “Opus iustitiae pax”, la pace come frutto della giustizia. Oggi si potrebbe dire, con la stessa esattezza e la stessa forza di ispirazione biblica (cf. Is 32,17 Jc 3,18): “Opus solidaritatis pax”, la pace come frutto della solidarietà.

Il traguardo della pace, tanto desiderata da tutti, sarà certamente raggiunto con l’attuazione della giustizia sociale e internazionale, ma anche con la pratica delle virtù che favoriscono la convivenza e ci insegnano a vivere uniti, per costruire uniti, dando e ricevendo, una società nuova e un mondo migliore.


40     La solidarietà è indubbiamente una virtù cristiana. Già nella precedente esposizione era possibile intravedere numerosi punti di contatto tra essa e la carità, che è il segno distintivo dei discepoli di Cristo (cf. Jn 13,35).

Alla luce della fede, la solidarietà tende a superare se stessa, a rivestire le dimensioni specificamente cristiane della gratuità totale, del perdono e della riconciliazione. Allora il prossimo non è soltanto un essere umano con i suoi diritti e la sua fondamentale eguaglianza davanti a tutti, ma diviene la viva immagine di Dio Padre, riscattata dal sangue di Gesù Cristo e posta sotto l’azione permanente dello Spirito Santo. Egli, pertanto, deve essere amato, anche se nemico, con lo stesso amore con cui lo ama il Signore, e per lui bisogna essere disposti al sacrificio, anche supremo: “Dare la vita per i propri fratelli” (cf. Jn 3,16).

Allora la coscienza della paternità comune di Dio, della fratellanza di tutti gli uomini in Cristo, “figli nel Figlio”, della presenza e dell’azione vivificante dello Spirito Santo, conferirà al nostro sguardo sul mondo come un nuovo criterio per interpretarlo. Al di là dei vincoli umani e naturali, già così forti e stretti, si prospetta alla luce della fede un nuovo modello di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi, in ultima istanza, la solidarietà. Questo supremo modello di unità, riflesso della vita intima di Dio, uno in tre Persone, è ciò che noi cristiani designiamo con la parola “comunione”. Tale comunione, specificamente cristiana, gelosamente custodita, estesa e arricchita, con l’aiuto del Signore, è l’anima della vocazione della Chiesa a essere “sacramento”, nel senso già indicato.

La solidarietà, perciò, deve contribuire all’attuazione di questo disegno divino tanto sul piano individuale, quanto su quello della società nazionale e internazionale. I “meccanismi perversi” e le “strutture di peccato”, di cui abbiamo parlato, potranno essere vinte solo mediante l’esercizio della solidarietà umana e cristiana, a cui la Chiesa invita e che promuove instancabilmente. Solo così tante energie positive potranno pienamente sprigionarsi a vantaggio dello sviluppo e della pace.

Molti santi canonizzati dalla Chiesa offrono mirabili testimonianze di tale solidarietà e possono servire di esempio nelle difficili circostanze presenti. Fra tutti desidero ricordare san Pietro Claver, col suo servizio agli schiavi di Cartagena de Indias, e san Massimiliano Maria Kolbe, con l’offerta della sua vita in favore di un prigioniero a lui sconosciuto nel campo di concentramento di Auschwitz–Oswiecim.

  VI – Alcuni orientamenti particolari

41     La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire al problema del sottosviluppo in quanto tale, come affermò già Papa Paolo VI nella sua enciclica (Populorum Progressio PP 13 PP 81). Essa, infatti, non propone sistemi o programmi economici e politici, né manifesta preferenze per gli uni o per gli altri, purché la dignità dell’uomo sia debitamente rispettata e promossa e a lei stessa sia lasciato lo spazio necessario per esercitare il suo ministero nel mondo.

Ma la Chiesa è “esperta in umanità” (cf. PP 13), e ciò la spinge a estendere necessariamente la sua missione religiosa ai diversi campi in cui uomini e donne dispiegano le loro attività, in cerca della felicità, pur sempre relativa, che è possibile in questo mondo, in linea con la loro dignità di persone.

Sull’esempio dei miei predecessori, debbo ripetere che non può ridursi a problema “tecnico” ciò che, come lo sviluppo autentico, tocca la dignità dell’uomo e dei popoli. Così ridotto, lo sviluppo sarebbe svuotato del suo vero contenuto e si compirebbe un atto di tradimento verso l’uomo e i popoli, al cui servizio esso deve essere messo.

Ecco perché la Chiesa ha una parola da dire oggi, come venti anni fa, e anche in futuro, intorno alla natura, alle condizioni, esigenze e finalità dell’autentico sviluppo e agli ostacoli, altresì, che vi si oppongono. Così facendo, la Chiesa adempie la missione di evangelizzare, poiché dà il suo primo contributo alla soluzione dell’urgente problema dello sviluppo, quando proclama la verità su Cristo, su se stessa e sull’uomo, applicandola a una situazione concreta (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II [1979] 188ss.).

Quale strumento per raggiungere lo scopo, la Chiesa adopera la sua dottrina sociale. Nell’odierna difficile congiuntura, per favorire sia la corretta impostazione dei problemi che la loro migliore soluzione, potrà essere di grande aiuto una conoscenza più esatta e una diffusione più ampia dell’“insieme dei principi di riflessione, dei criteri di giudizio e delle direttrici di azione” proposti dal suo insegnamento (cf. Libertatis Conscientia, 72; Octogesima Adveniens, 4). Si avvertirà così immediatamente che le questioni che ci stanno di fronte sono innanzitutto morali; e che né l’analisi del problema dello sviluppo in quanto tale, né i mezzi per superare le presenti difficoltà possono prescindere da tale essenziale dimensione.

La dottrina sociale della Chiesa non è una “terza via” tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé. Non è neppure un’ideologia, ma l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza dell’uomo, nella società e nel contesto internazionale, alla luce della fede e della tradizione ecclesiale. Suo scopo principale è di interpretare tali realtà, esaminandone la conformità o difformità con le linee dell’insegnamento del Vangelo sull’uomo e sulla sua vocazione terrena e insieme trascendente; per orientare, quindi, il comportamento cristiano. Essa appartiene, perciò, non al campo dell’ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale.

L’insegnamento e la diffusione della dottrina sociale fanno parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. E, trattandosi di una dottrina indirizzata a guidare la condotta delle persone, ne deriva di conseguenza l’“impegno per la giustizia” secondo il ruolo, la vocazione, le condizioni di ciascuno.

All’esercizio del ministero dell’evangelizzazione in campo sociale, che è un aspetto della funzione profetica della Chiesa, appartiene pure la denuncia dei mali e delle ingiustizie. Ma conviene chiarire che l’annuncio è sempre più importante della denuncia, e questa non può prescindere da quello, che le offre la vera solidità e la forza della motivazione più alta.



Sollicitudo rei socialis 31