Sollicitudo rei socialis 42


42     La dottrina sociale della Chiesa, oggi più di prima, ha il dovere di aprirsi a una prospettiva internazionale in linea col Concilio Vaticano II (cf. Gaudium et Spes, ), con le più recenti encicliche (Mater et Magistra; Pacem in Terris, IV PT 80-129; Octogesima Adveniens, 2–4) e, in particolare, con quella che stiamo ricordando (cf. Populorum Progressio PP 3 PP 9). Non sarà, pertanto, superfluo riesaminarne e approfondirne sotto questa luce i temi e gli orientamenti caratteristici, ripresi dal magistero in questi anni.

Desidero qui segnalarne uno: l’opzione, o amore preferenziale per i poveri. È, questa, una opzione, o una forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la tradizione della Chiesa. Essa si riferisce alla vita di ciascun cristiano, in quanto imitatore della vita di Cristo, ma si applica egualmente alle nostre responsabilità sociali e, perciò, al nostro vivere, alle decisioni da prendere coerentemente circa la proprietà e l’uso dei beni.

Oggi poi, attesa la dimensione mondiale che la questione sociale ha assunto (cf. PP 3), questo amore preferenziale, con le decisioni che esso ci ispira, non può non abbracciare le immense moltitudini di affamati, di mendicanti, di senzatetto, senza assistenza medica e, soprattutto, senza speranza di un futuro migliore: non si può non prendere atto dell’esistenza di queste realtà. L’ignorarle significherebbe assimilarci al “ricco epulone”, che fingeva di non conoscere Lazzaro il mendico, giacente fuori della sua porta (cf.
Lc 16,19-31).

La nostra vita quotidiana deve essere segnata da queste realtà, come pure le nostre decisioni in campo politico ed economico. Parimenti i responsabili delle Nazioni e degli stessi Organismi internazionali, mentre hanno l’obbligo di tener sempre presente come prioritaria nei loro piani la vera dimensione umana, non devono dimenticare di dare la precedenza al fenomeno della crescente povertà. Purtroppo, invece di diminuire, i poveri si moltiplicano non solo nei Paesi meno sviluppati, ma, ciò che appare non meno scandaloso, anche in quelli maggiormente sviluppati.

Bisogna ricordare ancora una volta il principio tipico della dottrina sociale cristiana: i beni di questo mondo sono originariamente destinati a tutti (cf. Gaudium et Spes GS 69 Populorum Progressio PP 22 Libertatis Conscientia 90; Summa Theologiae ). Il diritto alla proprietà privata è valido e necessario, ma non annulla il valore di tale principio: su di essa, infatti, grava “un’ipoteca sociale” (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II [1979] 188ss.; Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X/3 [1987] 1439), cioè vi si riconosce, come qualità intrinseca, una funzione sociale, fondata e giustificata precisamente sul principio della destinazione universale dei beni. Né sarà da trascurare in questo impegno per i poveri, quella speciale forma di povertà che è la privazione dei diritti fondamentali della persona, in particolare del diritto alla libertà religiosa e del diritto, altresì, all’iniziativa economica.


43     La preoccupazione stimolante verso i poveri – i quali, secondo la significativa formula, sono “i poveri del Signore” (cf. Mt 25,31-46 Ps 12,6 Lc 1,52-53) – deve tradursi, a tutti i livelli, in atti concreti fino a giungere con decisione a una serie di necessarie riforme. Dipende dalle singole situazioni locali individuare le più urgenti e i modi per realizzarle; ma non bisogna dimenticare quelle richieste dalla situazione di squilibrio internazionale, sopra descritto.

Al riguardo, desidero ricordare in particolare: la riforma del sistema internazionale di commercio, ipotecato dal protezionismo e dal crescente bilateralismo; la riforma del sistema monetario e finanziario mondiale, oggi riconosciuto insufficiente; la questione degli scambi delle tecnologie e del loro uso appropriato; la necessità di una revisione della struttura delle Organizzazioni internazionali esistenti, nella cornice di un ordine giuridico internazionale.

Il sistema internazionale di commercio oggi discrimina frequentemente i prodotti delle industrie incipienti dei Paesi in via di sviluppo, mentre scoraggia i produttori di materie prime. Esiste, peraltro, una sorta di divisione internazionale del lavoro, per cui i prodotti a basso costo di alcuni Paesi, privi di leggi efficaci sul lavoro o troppo deboli per applicarle, sono venduti in altre parti del mondo con considerevoli guadagni per le imprese dedite a questo tipo di produzione, che non conosce frontiere.

Il sistema monetario e finanziario mondiale si caratterizza per l’eccessiva fluttuazione dei metodi di scambio e di interesse, a detrimento della bilancia dei pagamenti e della situazione di indebitamento dei Paesi poveri. Le tecnologie e i loro trasferimenti costituiscono oggi uno dei principali problemi dell’interscambio internazionale e dei gravi danni, che ne derivano. Non sono rari i casi di Paesi in via di sviluppo, a cui si negano le tecnologie necessarie o si inviano quelle inutili.

Le Organizzazioni internazionali, secondo l’opinione di molti, sembrano trovarsi a un momento della loro esistenza, in cui i meccanismi di funzionamento, i costi operativi e la loro efficacia richiedono un attento riesame ed eventuali correzioni. Evidentemente, un processo così delicato non si potrà ottenere senza la collaborazione di tutti. Esso suppone il superamento delle rivalità politiche e la rinuncia a ogni volontà di strumentalizzare le stesse Organizzazioni, che hanno per unica ragion d’essere il bene comune.

Le Istituzioni e le Organizzazioni esistenti hanno operato bene a favore dei popoli. Tuttavia l’umanità, di fronte a una fase nuova e più difficile del suo autentico sviluppo, ha oggi bisogno di un grado superiore di ordinamento internazionale, a servizio delle società, delle economie e delle culture del mondo intero.


44     Lo sviluppo richiede soprattutto spirito d’iniziativa da parte degli stessi Paesi che ne hanno bisogno (Populorum Progressio PP 55 cf. Gaudium et Spes GS 86). Ciascuno di essi deve agire secondo le proprie responsabilità, senza sperare tutto dai Paesi più favoriti e operando in collaborazione con gli altri che sono nella stessa situazione. Ciascuno deve scoprire e utilizzare il più possibile lo spazio della propria libertà. Ciascuno dovrà rendersi capace di iniziative rispondenti alle proprie esigenze di società. Ciascuno dovrà pure rendersi conto delle reali necessità, nonché dei diritti e dei doveri che gli impongono di risolverle. Lo sviluppo dei popoli inizia e trova l’attuazione più adeguata nell’impegno di ciascun popolo per il proprio sviluppo, in collaborazione con gli altri.

È importante allora che le stesse Nazioni in via di sviluppo favoriscano l’autoaffermazione di ogni cittadino mediante l’accesso a una maggiore cultura e a una libera circolazione delle informazioni. Tutto quanto potrà favorire l’alfabetizzazione e l’educazione di base, che l’approfondisce e completa, come proponeva l’enciclica Populorum Progressio (PP 35) – mete ancora lontane dall’attuazione in tante parti del mondo – è un diretto contributo al vero sviluppo.

Per incamminarsi su questa via, le stesse Nazioni dovranno individuare le proprie priorità e riconoscer bene i propri bisogni secondo le particolari condizioni della popolazione, dell’ambiente geografico e delle tradizioni culturali.

Alcune Nazioni dovranno incrementare la produzione alimentare, per aver sempre a disposizione il necessario al nutrimento e alla vita. Nel mondo contemporaneo – in cui la fame miete tante vittime, specie in mezzo all’infanzia – ci sono esempi di Nazioni non particolarmente sviluppate, che pure sono riuscite a conseguire l’obiettivo dell’autosufficienza alimentare e a divenire perfino esportatrici di generi alimentari.

Altre nazioni hanno bisogno di riformare alcune ingiuste strutture e, in particolare, le proprie istituzioni politiche, per sostituire regimi corrotti, dittatoriali o autoritari con quelli democratici e partecipativi. È un processo che ci auguriamo si estenda e si consolidi, perché la “salute” di una comunità politica – in quanto si esprime mediante la libera partecipazione e responsabilità di tutti i cittadini alla cosa pubblica, la sicurezza del diritto, il rispetto e la promozione dei diritti umani – è condizione necessaria e garanzia sicura di sviluppo di “tutto l’uomo e di tutti gli uomini”.


45     Quanto si è detto non si potrà realizzare senza la collaborazione di tutti, specialmente della comunità internazionale, nel quadro di una solidarietà che abbracci tutti, a cominciare dal più emarginati. Ma le stesse Nazioni in via di sviluppo hanno il dovere di praticare la solidarietà fra se stesse e con i Paesi più emarginati del mondo.

È desiderabile, per esempio, che Nazioni di una stessa area geografica stabiliscano forme di cooperazione che le rendano meno dipendenti da produttori più potenti; aprano le frontiere ai prodotti della zona; esaminino le eventuali complementarità dei prodotti; si associno per dotarsi di servizi, che ciascuna da sola non è in grado di provvedere; estendano la cooperazione al settore monetario e finanziario.

L’interdipendenza è già una realtà in molti di questi Paesi. Riconoscerla, in maniera da renderla più attiva, rappresenta un’alternativa all’eccessiva dipendenza da Paesi più ricchi e potenti, nell’ordine stesso dell’auspicato sviluppo, senza contrapporsi a nessuno, ma scoprendo e valorizzando al massimo le proprie possibilità. I Paesi in via di sviluppo di una stessa area geografica, anzitutto quelli compresi nella denominazione “Sud”, possono e debbono costituire – come già si comincia a fare con promettenti risultati – nuove organizzazioni regionali, ispirate a criteri di eguaglianza, libertà e partecipazione nel concerto delle Nazioni.

La solidarietà universale richiede, come condizione indispensabile, autonomia e libera disponibilità di se stessi, anche all’interno di associazioni come quelle indicate. Ma, nello stesso tempo richiede disponibilità ad accettare i sacrifici necessari per il bene della comunità mondiale.


  VII – Conclusione

46     Popoli e individui aspirano alla propria liberazione: la ricerca del pieno sviluppo è il segno del loro desiderio di superare i molteplici ostacoli che impediscono di fruire di una “vita più umana”.

Recentemente, nel periodo seguito alla pubblicazione dell’enciclica Populorum Progressio, in alcune aree della Chiesa cattolica, in particolare nell’America Latina, si è diffuso un nuovo modo di affrontare i problemi della miseria e del sottosviluppo, che fa della liberazione la categoria fondamentale e il primo principio di azione. I valori positivi, ma anche le deviazioni e i pericoli di deviazione, connessi a questa forma di riflessione e di elaborazione teologica, sono stati convenientemente segnalati dal magistero ecclesiastico (cf. Libertatis nuntius, proemio).

È bene aggiungere che l’aspirazione alla liberazione da ogni forma di schiavitù, relativa all’uomo e alla società, è qualcosa di nobile e valido. A questo mira propriamente lo sviluppo, o piuttosto la liberazione e lo sviluppo, tenuto conto dell’intima connessione esistente tra queste due realtà.

Uno sviluppo soltanto economico non è in grado di liberare l’uomo, anzi, al contrario, finisce con l’asservirlo ancora di più. Uno sviluppo, che non comprenda le dimensioni culturali, trascendenti e religiose dell’uomo e della società, nella misura in cui non riconosce l’esistenza di tali dimensioni e non orienta ad esse i propri traguardi e priorità, ancor meno contribuisce alla vera liberazione. L’essere umano è totalmente libero solo quando è se stesso, nella pienezza dei suoi diritti e doveri: la stessa cosa si deve dire dell’intera società.

L’ostacolo principale da superare per una vera liberazione è il peccato e le strutture da esso indotte, man mano che si moltiplica e si estende (cf. Reconciliatio et Paenitentia
RP 16 Libertatis conscientia, 38.42). La libertà, con la quale Cristo ci ha liberati (cf. Ga 5,1), stimola a convertirci in servi di tutti. Così il processo dello sviluppo e della liberazione si concreta in esercizio di solidarietà, ossia di amore e servizio al prossimo, particolarmente ai più poveri: “Là dove vengono meno la verità e l’amore, il processo di liberazione porta alla morte di una libertà, che non ha più sostegno” (Libertatis conscientia, 24).


47     Nel quadro delle tristi esperienze degli anni recenti e del panorama prevalentemente negativo del momento presente, la Chiesa deve affermare con forza la possibilità del superamento degli intralci che, per eccesso o per difetto, si frappongono allo sviluppo, e la fiducia per una vera liberazione. Fiducia e possibilità fondate, in ultima istanza, sulla consapevolezza che ha la Chiesa della promessa divina, volta a garantire che la storia presente non resta chiusa in se stessa, ma è aperta al regno di Dio.

La Chiesa ha fiducia anche nell’uomo, pur conoscendo la malvagità di cui è capace, perché sa bene che – nonostante il peccato ereditato e quello che ciascuno può commettere – ci sono nella persona umana sufficienti qualità ed energie, c’è una fondamentale “bontà” (cf.
Gn 1,31), perché è immagine del Creatore, posta sotto l’influsso redentore di Cristo, “che si è unito in certo modo a ogni uomo” (cf. Gaudium et Spes GS 22 Redemptor Hominis RH 8), e perché l’azione efficace dello Spirito Santo “riempie la terra” (Sg 1,7).

Non sono, pertanto, giustificabili né la disperazione, né il pessimismo, né la passività. Anche se con amarezza, occorre dire che, come si può peccare per egoismo, per brama di guadagno esagerato e di potere, si può anche mancare, di fronte alle urgenti necessità di moltitudini umane immerse nel sottosviluppo, per timore, indecisione e, in fondo, per codardia. Siamo tutti chiamati, anzi obbligati, ad affrontare la tremenda sfida dell’ultima decade del secondo millennio. Anche perché i pericoli incombenti minacciano tutti: una crisi economica mondiale, una guerra senza frontiere, senza vincitori né vinti. Di fronte a simile minaccia, la distinzione tra persone e Paesi ricchi, tra persone e Paesi poveri, avrà poco valore, salvo la maggiore responsabilità gravante su chi ha di più e può di più.

Ma tale motivazione non è né l’unica né la principale. È in gioco la dignità della persona umana, la cui difesa e promozione ci sono state affidate dal Creatore, e di cui sono rigorosamente e responsabilmente debitori gli uomini e le donne in ogni congiuntura della storia. Il panorama odierno – come già molti più o meno chiaramente avvertono – non sembra rispondente a questa dignità. Ciascuno è chiamato a occupare il proprio posto in questa campagna pacifica, da condurre con mezzi pacifici, per conseguire lo sviluppo nella pace, per salvaguardare la stessa natura e il mondo che ci circonda. Anche la Chiesa si sente profondamente implicata in questo cammino, nel cui felice esito finale spera.

Perciò, sull’esempio di Papa Paolo VI con l’enciclica Populorum Progressio (PP 5; cf. ), desidero rivolgermi con semplicità e umiltà a tutti, uomini e donne senza eccezione, perché, convinti della gravità del momento presente e della rispettiva, individuale responsabilità, mettano in opera – con lo stile personale e familiare della vita, con l’uso dei beni, con la partecipazione come cittadini, col contributo alle decisioni economiche e politiche e col proprio impegno nei piani nazionali e internazionali – le misure ispirate alla solidarietà e all’amore preferenziale per i poveri. Così richiede il momento, così richiede soprattutto la dignità della persona umana, immagine indistruttibile di Dio creatore, ch’è identica in ciascuno di noi.

In questo impegno debbono essere di esempio e di guida i figli della Chiesa, chiamati, secondo il programma enunciato da Gesù stesso nella sinagoga di Nazaret, ad “annunciare ai poveri un lieto messaggio..., a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19). Conviene sottolineare il ruolo preponderante, che spetta ai laici, uomini e donne, come è stato ripetuto nella recente assemblea sinodale. A loro compete animare, con impegno cristiano, le realtà temporali e, in esse, mostrare di essere testimoni e operatori di pace e di giustizia.

Desidero rivolgermi specialmente a quanti, per il sacramento del Battesimo e la professione dello stesso Credo, sono compartecipi di una vera comunione, sia pure imperfetta, con noi. Sono sicuro che sia la sollecitudine che questa Lettera esprime, sia le motivazioni che la animano saranno loro familiari, perché ispirate dal Vangelo di Cristo Gesù. Possiamo trovare qui un nuovo invito a dare testimonianza unanime delle nostre comuni convinzioni sulla dignità dell’uomo, creato da Dio, redento da Cristo, santificato dallo Spirito, e chiamato in questo mondo a vivere una vita conforme a questa dignità.

A coloro che condividono con noi l’eredità di Abramo, “nostro padre nella fede” (cf. Nostra Aetate, NAE 4; cf. Rm 4,11-12) e la tradizione dell’Antico Testamento, ossia gli ebrei, a coloro che, come noi, credono in Dio giusto e misericordioso, ossia i musulmani, rivolgo parimenti questo appello, che si estende, altresì, a tutti i seguaci delle grandi religioni dei mondo.

L’incontro del 27 ottobre dell’anno passato ad Assisi, la città di san Francesco, per pregare e impegnarci per la pace – ognuno in fedeltà alla propria professione religiosa – ha rivelato a tutti fino a che punto la pace, e quale sua necessaria condizione, lo sviluppo di “tutto l’uomo e di tutti gli uomini” siano una questione anche religiosa, e come la piena attuazione dell’una e dell’altro dipenda dalla fedeltà alla nostra vocazione di uomini e di donne credenti. Perché dipende, innanzitutto, da Dio.


48     La Chiesa sa bene che nessuna realizzazione temporale s’identifica col regno di Dio, ma che tutte le realizzazioni non fanno che riflettere e, in un certo senso, anticipare la gloria del regno, che attendiamo alla fine della storia, quando il Signore ritornerà. Ma l’attesa non potrà esser mai una scusa per disinteressarsi degli uomini nella loro concreta situazione personale e nella loro vita sociale, nazionale e internazionale, in quanto questa – ora soprattutto – condiziona quella.

Nulla, anche se imperfetto e provvisorio, di tutto ciò che si può e si deve realizzare mediante lo sforzo solidale di tutti e la grazia divina in un certo momento della storia, per rendere “più umana” la vita degli uomini, sarà perduto né sarà stato vano. Questo insegna il Concilio Vaticano II in un testo luminoso della costituzione Gaudium et Spes (
GS 39): “I beni della dignità umana, l’unione fraterna e la libertà, in una parola tutti i frutti eccellenti della natura e del nostro sforzo, dopo averli diffusi per la terra nello Spirito del Signore e in accordo al suo mandato, torneremo a ritrovarli, purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, quando Cristo consegnerà al Padre il regno eterno e universale..., già misteriosamente presente sulla nostra terra”.

Il regno di Dio si fa presente, ora, soprattutto con la celebrazione del sacramento dell’Eucaristia, che è il sacrificio del Signore. In tale celebrazione i frutti della terra e del lavoro umano – il pane e il vino – sono trasformati misteriosamente, ma realmente e sostanzialmente, per opera dello Spirito Santo e delle parole del ministro, nel corpo e nel sangue del Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio e Figlio di Maria, per il quale il regno del Padre si è fatto presente in mezzo a noi.

I beni di questo mondo e l’opera delle nostre mani – il pane e il vino – servono per la venuta del regno definitivo, giacché il Signore mediante il suo Spirito li assume in sé, per offrirsi al Padre e offrire noi con lui nel rinnovamento del suo unico sacrificio, che anticipa il regno di Dio e ne annuncia la venuta finale. Così il Signore mediante l’Eucaristia, sacramento e sacrificio, ci unisce con sé e ci unisce tra di noi con un vincolo più forte di ogni unione naturale; e uniti ci invia il mondo intero per dare testimonianza, con la fede e con le opere, dell’amore di Dio, preparando la venuta del suo regno e anticipandolo pur nelle ombre del tempo presente.

Quanti partecipiamo dell’Eucaristia, siamo chiamati a scoprire, mediante questo Sacramento, il senso profondo della nostra azione nel mondo in favore dello sviluppo e della pace; e a ricevere da esso le energie per impegnarci sempre più generosamente, sull’esempio di Cristo che in tale sacramento dà la vita per i suoi amici (cf. Jn 15,13). Come quello di Cristo e in quanto unito al suo, il nostro personale impegno non sarà inutile, ma certamente fecondo.


49     In quest’Anno mariano, che ho indetto perché i fedeli cattolici guardino sempre di più a Maria, che ci precede nel pellegrinaggio della fede (cf. Lumen Gentium LG 58 Redemptoris Mater, ) e con materna premura intercede per noi davanti al suo Figlio, nostro Redentore, desidero affidare a lei e alla sua intercessione la difficile congiuntura del mondo contemporaneo, gli sforzi che si fanno e si faranno, spesso con grandi sofferenze, per contribuire al vero sviluppo dei popoli, proposto e annunciato dal mio predecessore Paolo VI.

Come sempre ha fatto la pietà cristiana, noi presentiamo alla santissima Vergine le difficili situazioni individuali, perché, esponendole a suo Figlio, ottenga da lui che siano alleviate e cambiate. Ma le presentiamo, altresì, le situazioni sociali e la stessa crisi internazionale nei loro aspetti preoccupanti di miseria, disoccupazione, carenza di vitto, corsa agli armamenti, disprezzo dei diritti umani, stati o pericoli di conflitto, parziale o totale. Tutto ciò vogliamo finalmente deporre davanti a suoi “occhi misericordiosi”, ripetendo ancora una volta con fede e speranza l’antica antifona: “Santa Madre di Dio, non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci sempre da tutti i pericoli, o Vergine gloriosa e benedetta”.

Maria santissima, nostra Madre e Regina è colei che, volgendosi a suo Figlio, dice: “Non hanno più vino” (Jn 2,3), ed è anche colei che loda Dio Padre, perché: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1,52-53). La sua materna sollecitudine si interessa degli aspetti personali e sociali della vita degli uomini sulla terra (cf. Marialis Cultus, 37; Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II [1979] 290s.).

Davanti alla santissima Trinità, io affido a Maria quanto in questa Lettera ho esposto invitando tutti a riflettere e a impegnarsi attivamente nel promuovere il vero sviluppo dei popoli, come efficacemente afferma l’orazione della Messa omonima: “O Dio, che hai dato a tutte le genti un’unica origine e vuoi riunirle in una sola famiglia, fa’ che gli uomini si riconoscano fratelli e promuovano nella solidarietà lo sviluppo di ogni popolo, perché... si affermino i diritti di ogni persona e la comunità umana conosca un’era di eguaglianza e di pace” (Missale Romanum, p. 820).

Questo, concludendo, io chiedo a nome di tutti i fratelli e sorelle, ai quali, in segno di saluto e di augurio, invio una speciale benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 dicembre dell’anno 1987, decimo di pontificato.





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