Veritatis splendor 15

"Se vuoi essere perfetto"

(Mt 19,21)
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16. La risposta sui comandamenti non soddisfa il giovane, che interroga Gesù: "Ho sempre osservato tutte queste cose; che cosa mi manca ancora?" (
Mt 19,20). Non è facile dire con buona coscienza: "ho sempre osservato tutte queste cose", se appena si comprende l'effettiva portata delle esigenze racchiuse nella Legge di Dio. E tuttavia, se anche gli è possibile dare una simile risposta, se anche ha seguito l'ideale morale con serietà e generosità fin dalla fanciullezza, il giovane ricco sa di essere ancora lontano dalla meta: davanti alla persona di Gesù avverte che qualcosa ancora gli manca. E' alla consapevolezza di questa insufficienza che si rivolge Gesù nella sua ultima risposta: cogliendo la nostalgia per una pienezza che superi l'interpretazione legalistica dei comandamenti, il Maestro buono invita il giovane ad entrare nella strada della perfezione: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi" (Mt 19,21).

Come già il precedente passo della risposta di Gesù, così anche questo deve essere letto e interpretato nel contesto di tutto il messaggio morale del Vangelo e, specialmente, nel contesto del Discorso della Montagna, delle beatitudini (Cfr. Mt 5,3-12), la prima delle quali è proprio la beatitudine dei poveri, dei "poveri in spirito", come precisa san Matteo (Mt 5,3), ossia degli umili. In tal senso si può dire che anche le beatitudini rientrano nello spazio aperto dalla risposta che Gesù dà all'interrogativo del giovane: "Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?". Infatti, ogni beatitudine promette, secondo una particolare prospettiva, proprio quel "bene" che apre l'uomo alla vita eterna, anzi che è la stessa vita eterna.

Le beatitudini non hanno propriamente come oggetto delle norme particolari di comportamento, ma parlano di atteggiamenti e di disposizioni di fondo dell'esistenza e quindi non coincidono esattamente con i comandamenti.

D'altra parte, non c'è separazione o estraneità tra le beatitudini e i comandamenti: ambedue si riferiscono al bene, alla vita eterna. Il Discorso della Montagna inizia con l'annuncio delle beatitudini, ma contiene anche il riferimento ai comandamenti (Cfr. Mt 5,20-48). Nello stesso tempo, tale Discorso mostra l'apertura e l'orientamento dei comandamenti alla prospettiva della perfezione che è propria delle beatitudini. Queste sono, anzitutto, promesse, da cui derivano in forma indiretta anche indicazioni normative per la vita morale. Nella loro profondità originale sono una specie di autoritratto di Cristo e, proprio per questo, sono inviti alla sua sequela e alla comunione di vita con Lui.

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17. Non sappiamo quanto il giovane del Vangelo abbia compreso il profondo ed esigente contenuto della prima risposta data da Gesù: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti"; è certo, pero, che l'impegno manifestato dal giovane nel rispetto di tutte le esigenze morali dei comandamenti costituisce l'indispensabile terreno sul quale può germogliare e maturare il desiderio della perfezione, cioè della realizzazione del loro significato compiuto nella sequela di Cristo. Il colloquio di Gesù con il giovane ci aiuta a cogliere le condizioni per la crescita morale dell'uomo chiamato alla perfezione: il giovane, che ha osservato tutti i comandamenti, si dimostra incapace con le sole sue forze di fare il passo successivo. Per farlo occorrono una libertà umana matura: "Se vuoi", e il dono divino della grazia: "Vieni e seguimi".

La perfezione esige quella maturità nel dono di sé, a cui è chiamata la libertà dell'uomo. Gesù indica al giovane i comandamenti come la prima condizione irrinunciabile per avere la vita eterna; l'abbandono di tutto ciò che il giovane possiede e la sequela del Signore assumono invece il carattere di una proposta: "Se vuoi...". La parola di Gesù rivela la particolare dinamica della crescita della libertà verso la sua maturità e, nello stesso tempo, attesta il fondamentale rapporto della libertà con la legge divina. La libertà dell'uomo e la legge di Dio non si oppongono, ma, al contrario, si richiamano a vicenda. Il discepolo di Cristo sa che la sua è una vocazione alla libertà. "Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà" (
Ga 5,13), proclama con gioia e fierezza l'apostolo Paolo. Subito pero precisa: "Purché questa libertà non divenga pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri" (). La fermezza con la quale l'Apostolo si oppone a chi affida la propria giustificazione alla Legge, non ha nulla da spartire con la "liberazione" dell'uomo dai precetti, i quali al contrario sono al servizio della pratica dell'amore: "Perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Rm 13,8-9). Lo stesso sant'Agostino, dopo aver parlato dell'osservanza dei comandamenti come della prima imperfetta libertà, così prosegue: "Perché, domanderà qualcuno, non ancora perfetta? Perché "sento nelle mie membra un'altra legge in conflitto con la legge della mia ragione"... Libertà parziale, parziale schiavitù: non ancora completa, non ancora pura, non ancora piena è la libertà, perché ancora non siamo nell'eternità. In parte conserviamo la debolezza, e in parte abbiamo raggiunto la libertà. Tutti i nostri peccati nel battesimo sono stati distrutti, ma è forse scomparsa la debolezza, dopo che è stata distrutta l'iniquità? Se essa fosse scomparsa, si vivrebbe in terra senza peccato. Chi oserà affermare questo se non chi è superbo, se non chi è indegno della misericordia del liberatore?... Ora siccome è rimasta in noi qualche debolezza, oso dire che nella misura in cui serviamo Dio siamo liberi, mentre nella misura in cui seguiamo la legge del peccato siamo schiavi".

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18. Chi vive "secondo la carne" sente la legge di Dio come un peso, anzi come una negazione o comunque una restrizione della propria libertà. Chi, invece, è animato dall'amore e "cammi- na secondo lo Spirito" (
Ga 5,16) e desidera servire gli altri trova nella legge di Dio la via fondamentale e necessaria per praticare l'amore liberamente scelto e vissuto. Anzi, egli avverte l'urgenza interiore - una vera e propria "necessità", e non già una costrizione - di non fermarsi alle esigenze minime della legge, ma di viverle nella loro "pienezza". E' un cammino ancora incerto e fragile fin che siamo sulla terra, ma reso possibile dalla grazia che ci dona di possedere la piena libertà dei figli di Dio (Cfr. Rm 8,21) e quindi di rispondere nella vita morale alla sublime vocazione di essere "figli nel Figlio".

Questa vocazione all'amore perfetto non è riservata solo ad una cerchia di persone. L'invito "va', vendi quello che possiedi, dàllo ai poveri" con la promessa "avrai un tesoro nel cielo" riguarda tutti, perché è una radicalizzazione del comandamento dell'amore del prossimo, come il successivo invito "vieni e seguimi" è la nuova forma concreta del comandamento dell'amore di Dio. I comandamenti e l'invito di Gesù al giovane ricco sono al servizio di un'unica e indivisibile carità, che spontaneamente tende alla perfezione, la cui misura è Dio solo: "Siate voi dunque perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste" (Mt 5,48). Nel Vangelo di Luca Gesù precisa ulteriormente il senso di questa perfezione: "Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro" (Lc 6,36).

"Vieni e seguimi"

(Mt 19,21)
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19. La via e, nello stesso tempo, il contenuto di questa perfezione consiste nella sequela Christi, nel seguire Gesù, dopo aver rinunciato ai propri beni e a se stessi. Proprio questa è la conclusione del colloquio di Gesù con il giovane: "Poi vieni e seguimi" (
Mt 19,21). E' un invito la cui meravigliosa profondità sarà pienamente percepita dai discepoli dopo la risurrezione di Cristo, quando lo Spirito Santo li guiderà alla verità tutta intera (Cfr. Jn 16,13).

E' Gesù stesso che prende l'iniziativa e chiama a seguirlo. L'appello è rivolto innanzi tutto a coloro ai quali egli affida una particolare missione, a cominciare dai Dodici; ma appare anche chiaro che essere discepoli di Cristo è la condizione di ogni credente (Cfr. Ac 6,1). Per questo, seguire Cristo è il fondamento essenziale e originale della morale cristiana: come il popolo d'Israele seguiva Dio che lo conduceva nel deserto verso la Terra promessa (Cfr. Ex 13,21), così il discepolo deve seguire Gesù, verso il quale il Padre stesso lo attira (Cfr. Jn 6,44).

Non si tratta qui soltanto di mettersi in ascolto di un insegnamento e di accogliere nell'obbedienza un comandamento. Si tratta, più radicalmente, di aderire alla persona stessa di Gesù, di condividere la sua vita e il suo destino, di partecipare alla sua obbedienza libera e amorosa alla volontà del Padre.

Seguendo, mediante la risposta della fede, colui che è la Sapienza incarnata, il discepolo di Gesù diventa veramente discepolo di Dio (Cfr. Jn 6,45). Gesù, infatti, è la luce del mondo, la luce della vita (Cfr. Jn 8,12); è il pastore che guida e nutre le pecore (Cfr. Jn 10,11-16), è la via, la verità e la vita (Cfr. Jn 14,6), è colui che conduce al Padre, al punto che vedere lui, il Figlio, è vedere il Padre (Cfr. Jn 14,6-10). Pertanto imitare il Figlio, "l'immagine del Dio invisibile" (Col 1,15), significa imitare il Padre.

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20. Gesù chiede di seguirlo e di imitarlo sulla strada dell'amore, di un amore che si dona totalmente ai fratelli per amore di Dio: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati" (
Jn 15,12). Questo "come" esige l'imitazione di Gesù, del suo amore di cui la lavanda dei piedi è segno: "Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi" (Jn 13,14-15). L'agire di Gesù e la sua parola, le sue azioni e i suoi precetti costituiscono la regola morale della vita cristiana.

Infatti, queste sue azioni e, in modo particolare, la passione e la morte in croce, sono la viva rivelazione del suo amore per il Padre e per gli uomini.

Proprio questo amore Gesù chiede che sia imitato da quanti lo seguono. Esso è il comandamento "nuovo": "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Jn 13,34-35).

Questo "come" indica anche la misura con la quale Gesù ha amato, e con la quale devono amarsi tra loro i suoi discepoli. Dopo aver detto: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati" (Jn 15,12), Gesù prosegue con le parole che indicano il dono sacrificale della sua vita sulla croce, quale testimonianza di un amore "sino alla fine" (Jn 13,1): "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Jn 15,13).

Chiamando il giovane a seguirlo sulla strada della perfezione, Gesù gli chiede di essere perfetto nel comandamento dell'amore, nel "suo" comandamento: di inserirsi nel movimento della sua donazione totale, di imitare e di rivivere l'amore stesso del Maestro "buono", di colui che ha amato "sino alla fine". E' quanto Gesù chiede ad ogni uomo che vuole mettersi alla sua sequela: "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mt 16,24).

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21. Seguire Cristo non è una imitazione esteriore, perché tocca l'uomo nella sua profonda interiorità. Essere discepoli di Gesù significa essere resi conformi a Lui, che si è fatto servo fino al dono di sé sulla croce (Cfr.
Ph 2,5-8).

Mediante la fede, Cristo abita nel cuore del credente (Cfr. Ep 3,17), e così il discepolo è assimilato al suo Signore e a Lui configurato. Questo è frutto della grazia, della presenza operante dello Spirito Santo in noi.

Inserito in Cristo, il cristiano diventa membro del suo Corpo, che è la Chiesa (Cfr. 1Co 12,13 1Co 12,27). Sotto l'impulso dello Spirito, il Battesimo configura radicalmente il fedele a Cristo nel mistero pasquale della morte e risurrezione, lo "riveste" di Cristo (Cfr. Ga 3,27): "Rallegriamoci e ringraziamo - esclama sant'Agostino rivolgendosi ai battezzati -: siamo diventati non solo cristiani, ma Cristo (...). Stupite e gioite: Cristo siamo diventati!". Morto al peccato, il battezzato riceve la vita nuova (Cfr. Rm 6,3-11): vivente per Dio in Cristo Gesù, è chiamato a camminare secondo lo Spirito e a manifestarne nella vita i frutti (Cfr. Ga 5,16-25). La partecipazione poi all'Eucaristia, sacramento della Nuova Alleanza (Cfr. 1Co 11,23-29), è vertice dell'assimilazione a Cristo, fonte di "vita eterna" (Cfr. Jn 6,51-58), principio e forza del dono totale di sé, di cui Gesù secondo la testimonianza tramandata da Paolo comanda di far memoria nella celebrazione e nella vita: "Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga" (1Co 11,26).

"A Dio tutto è possibile"

(Mt 19,26)
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22. Amara è la conclusione del colloquio di Gesù con il giovane ricco: "Udito questo, il giovane se ne ando triste; poiché aveva molte ricchezze" (
Mt 19,22).

Non solo l'uomo ricco, ma anche gli stessi discepoli sono spaventati dall'appello di Gesù alla sequela, le cui esigenze superano le aspirazioni e le forze umane: "A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: "Chi si potrà dunque salvare?"" (Mt 19,25). Ma il Maestro rimanda alla potenza di Dio: "Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile" (Mt 19,26).

Nel medesimo capitolo del Vangelo di Matteo (Mt 19,3-10), Gesù, interpretando la Legge mosaica sul matrimonio, rifiuta il diritto al ripudio, richiamando ad un "principio" più originario e più autorevole rispetto alla Legge di Mosè: il disegno nativo di Dio sull'uomo, un disegno al quale l'uomo dopo il peccato è diventato inadeguato: "Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così" (Mt 19,8). Il richiamo al "principio" sgomenta i discepoli, che commentano con queste parole: "Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi" (Mt 19,10). E Gesù, riferendosi in modo specifico al carisma del celibato "per il Regno dei cieli" (Mt 19,12), ma enunciando una regola generale, rimanda alla nuova e sorprendente possibilità aperta all'uomo dalla grazia di Dio: "Egli rispose loro: "Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso"" (Mt 19,11).

Imitare e rivivere l'amore di Cristo non è possibile all'uomo con le sole sue forze. Egli diventa capace di questo amore soltanto in virtù di un dono ricevuto. Come il Signore Gesù riceve l'amore del Padre suo, così egli a sua volta lo comunica gratuitamente ai discepoli: "Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore" (Jn 15,9). Il dono di Cristo è il suo Spirito, il cui primo "frutto" (Cfr. Ga 5,22) è la carità: "L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato" (Rm 5,5). Sant'Agostino si chiede: "E' l'amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure è l'osservanza dei comandamenti che fa nascere l'amore?". E risponde: "Ma chi può mettere in dubbio che l'amore precede l'osservanza? Chi infatti non ama è privo di motivazioni per osservare i comandamenti".

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23. "La legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte" (
Rm 8,2). Con queste parole l'apostolo Paolo ci introduce a considerare nella prospettiva della storia della Salvezza che si compie in Cristo il rapporto tra la Legge (antica) e la grazia (Legge nuova). Egli riconosce il ruolo pedagogico della Legge, la quale, permettendo all'uomo peccatore di misurare la sua impotenza e togliendogli la presunzione dell'autosufficienza, lo apre all'invocazione e all'accoglienza della "vita nello Spirito". Solo in questa vita nuova è possibile la pratica dei comandamenti di Dio. Infatti, è per la fede in Cristo che noi siamo resi giusti (Cfr. Rm 3,28): la "giustizia" che la Legge esige, ma non può dare a nessuno, ogni credente la trova manifestata e concessa dal Signore Gesù. così mirabilmente ancora sant'Agostino sintetizza la dialettica paolina di legge e grazia: "La legge, perciò, è stata data perché si invocasse la grazia; la grazia è stata data perché si osservasse la legge".

L'amore e la vita secondo il Vangelo non possono essere pensati prima di tutto nella forma del precetto, perché ciò che essi domandano va al di là delle forze dell'uomo: essi sono possibili solo come frutto di un dono di Dio, che risana e guarisce e trasforma il cuore dell'uomo per mezzo della sua grazia: "Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo" (Jn 1,17). Per questo la promessa della vita eterna è legata al dono della grazia, e il dono dello Spirito che abbiamo ricevuto è già "caparra della nostra eredità" (Ep 1,14).

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24. Si rivela così il volto autentico e originale del comandamento dell'amore e della perfezione alla quale esso è ordinato: si tratta di una possibilità aperta all'uomo esclusivamente dalla grazia, dal dono di Dio, dal suo amore. D'altra parte, proprio la coscienza di aver ricevuto il dono, di possedere in Gesù Cristo l'amore di Dio, genera e sostiene la risposta responsabile di un amore pieno verso Dio e tra i fratelli, come con insistenza ricorda l'apostolo Giovanni nella sua prima Lettera: "Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore... Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri... Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo" (
1Jn 4,7-8 1Jn 4,11 1Jn 4,19).

Questa connessione inscindibile tra la grazia del Signore e la libertà dell'uomo, tra il dono e il compito, è stata espressa in termini semplici e profondi da sant'Agostino, che così prega: "Da quod iubes et iube quod vis" (dona ciò che comandi e comanda ciò che vuoi).

Il dono non diminuisce, ma rafforza l'esigenza morale dell'amore: "Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato" (1Jn 3,23). Si può "rimanere" nell'amore solo a condizione di osservare i comandamenti, come afferma Gesù: "Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore" (Jn 15,10).

Raccogliendo quanto è al cuore del messaggio morale di Gesù e della predicazione degli Apostoli, e riproponendo in una sintesi mirabile la grande tradizione dei Padri d'Oriente e d'Occidente - in particolare di sant'Agostino - san Tommaso ha potuto scrivere che la Legge Nuova è la grazia dello Spirito Santo donata mediante la fede in Cristo. I precetti esterni, di cui pure il Vangelo parla, dispongono a questa grazia o ne dispiegano gli effetti nella vita. Infatti, la Legge Nuova non si contenta di dire ciò che si deve fare, ma dona anche la forza di "fare la verità" (Cfr. Jn 3,21). Nello stesso tempo san Giovanni Crisostomo ha osservato che la Legge Nuova fu promulgata proprio quando lo Spirito Santo discese dal cielo nel giorno di Pentecoste e che gli Apostoli "non discesero dal monte portando, come Mosè, delle tavole di pietra nelle loro mani; ma se ne venivano portando lo Spirito Santo nei loro cuori..., divenuti mediante la sua grazia una legge viva, un libro animato".

"Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo"

(Mt 28,20)
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25. Il colloquio di Gesù con il giovane ricco continua, in un certo senso, in ogni epoca della storia, anche oggi. La domanda: "Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?" sboccia nel cuore di ogni uomo, ed è sempre e solo Cristo a offrire la risposta piena e risolutiva. Il Maestro, che insegna i comandamenti di Dio, che invita alla sequela e dà la grazia per una vita nuova, è sempre presente e operante in mezzo a noi, secondo la promessa: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo" (
Mt 28,20). La contemporaneità di Cristo all'uomo di ogni tempo si realizza nel suo corpo, che è la Chiesa. Per questo il Signore promise ai suoi discepoli lo Spirito Santo, che avrebbe loro "ricordato" e fatto comprendere i suoi comandamenti (Cfr. Jn 14,26) e sarebbe stato il principio sorgivo di una vita nuova nel mondo (Cfr. Jn 3,5-8 Rm 8,1-13).

Le prescrizioni morali, impartite da Dio nell'Antica Alleanza e giunte alla loro perfezione in quella Nuova ed Eterna nella persona stessa del Figlio di Dio fatto uomo, devono essere fedelmente custodite e permanentemente attualizzate nelle differenti culture lungo il corso della storia. Il compito della loro interpretazione è stato affidato da Gesù agli Apostoli e ai loro successori, con l'assistenza speciale dello Spirito di verità: "Chi ascolta voi ascolta me" (Lc 10,16). Con la luce e la forza di questo Spirito gli Apostoli hanno adempiuto la missione di predicare il Vangelo e di indicare la "via" del Signore (Cfr. Ac 18,25), insegnando anzitutto la sequela e l'imitazione di Cristo: "Per me il vivere è Cristo" (Ph 1,21).

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26. Nella catechesi morale degli Apostoli, accanto ad esortazioni e ad indicazioni legate al contesto storico e culturale, c'è un insegnamento etico con precise norme di comportamento. E' quanto emerge nelle loro Lettere, che contengono l'interpretazione, guidata dallo Spirito Santo, dei precetti del Signore da vivere nelle diverse circostanze culturali (Cfr.
Rm 12-15 1Co 11-14 Ga 5-6 Ep 4-6 Col 3-4 Gc). Incaricati di predicare il Vangelo, gli Apostoli fin dalle origini della Chiesa, in virtù della loro responsabilità pastorale, hanno vegliato sulla rettitudine della condotta dei cristiani, allo stesso modo in cui hanno vegliato sulla purezza della fede e sulla trasmissione dei doni divini mediante i Sacramenti. I primi cristiani, provenienti sia dal popolo giudaico sia dalle nazioni, differivano dai pagani non solo per la loro fede e per la loro liturgia, ma anche per la testimonianza della loro condotta morale, ispirata alla Legge Nuova. La Chiesa, infatti, è insieme comunione di fede e di vita; la sua norma è "la fede che opera per mezzo della carità" (Ga 5,6).

Nessuna lacerazione deve attentare all'armonia tra la fede e la vita: l'unità della Chiesa è ferita non solo dai cristiani che rifiutano o stravolgono le verità della fede, ma anche da quelli che misconoscono gli obblighi morali a cui li chiama il Vangelo (Cfr. 1Co 5,9-13). Con decisione gli Apostoli hanno rifiutato ogni dissociazione tra l'impegno del cuore e i gesti che lo esprimono e verificano (Cfr. 1Jn 2,3-6). E fin dai tempi apostolici i Pastori della Chiesa hanno denunciato con chiarezza i modi di agire di coloro che erano fautori di divisione con i loro insegnamenti o con i loro comportamenti.

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27. Promuovere e custodire, nell'unità della Chiesa, la fede e la vita morale è il compito affidato da Gesù agli Apostoli (Cfr.
Mt 28,19-20), che prosegue nel ministero dei loro successori. E' quanto si ritrova nella viva Tradizione, mediante la quale - come insegna il Concilio Vaticano II - "la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede. Questa Tradizione, che trae origine dagli Apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l'assistenza dello Spirito Santo". Nello Spirito la Chiesa accoglie e trasmette la Scrittura come testimonianza delle "grandi cose" che Dio opera nella storia (Cfr. Lc 1,49), confessa per bocca dei Padri e dei Dottori la verità del Verbo fatto carne, ne mette in pratica i precetti e la carità nella vita dei Santi e delle Sante e nel sacrificio dei Martiri, ne celebra la speranza nella Liturgia: mediante la stessa Tradizione i cristiani ricevono "la viva voce del Vangelo", come espressione fedele della sapienza e della volontà divina.

All'interno della Tradizione si sviluppa, con l'assistenza dello Spirito Santo, l'interpretazione autentica della legge del Signore. Lo stesso Spirito, che è all'origine della Rivelazione dei comandamenti e degli insegnamenti di Gesù, garantisce che vengano santamente custoditi, fedelmente esposti e correttamente applicati nel variare dei tempi e delle circostanze. Questa "attualizzazione" dei comandamenti è segno e frutto di una più profonda penetrazione della Rivelazione e di una comprensione alla luce della fede delle nuove situazioni storiche e culturali. Essa, tuttavia, non può che confermare la permanente validità della Rivelazione e inserirsi nel solco dell'interpretazione che ne dà la grande Tradizione di insegnamento e di vita della Chiesa, di cui sono testimoni la dottrina dei Padri, la vita dei Santi, la liturgia della Chiesa e l'insegnamento del Magistero.

In particolare, poi, come afferma il Concilio, "l'ufficio d'interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo". In tal modo la Chiesa, nella sua vita e nel suo insegnamento, si presenta come "colonna e sostegno della verità" (1Tm 3,15), anche della verità circa l'agire morale. Infatti, "è compito della Chiesa annunziare sempre e dovunque i principi morali anche circa l'ordine sociale, e così pure pronunciare il giudizio su qualsiasi realtà umana, in quanto lo esigano i diritti fondamentali della persona umana o la salvezza delle anime".

Proprio sulle domande che caratterizzano oggi la discussione morale e intorno alle quali si sono sviluppate nuove tendenze e teorie, il Magistero, in fedeltà a Gesù Cristo e in continuità con la tradizione della Chiesa, sente più urgente il dovere di offrire il proprio discernimento e insegnamento, per aiutare l'uomo nel suo cammino verso la verità e la libertà.

Capitolo II "NON CONFORMATEVI ALLA MENTALITA' DI QUESTO MONDO"

(Rm 12,2)

LA CHIESA E IL DISCERNIMENTO DI ALCUNE TENDENZE DELLA TEOLOGIA MORALE ODIERNA

Insegnare ciò che è secondo la sana dottrina

(Cfr. Tt 2,1)
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28. La meditazione del dialogo tra Gesù e il giovane ricco ci ha permesso di raccogliere i contenuti essenziali della Rivelazione dell'Antico e del Nuovo Testamento circa l'agire morale. Essi sono: la subordinazione dell'uomo e del suo agire a Dio, Colui che "solo è buono"; il rapporto tra il bene morale degli atti umani e la vita eterna; la sequela di Cristo, che apre all'uomo la prospettiva dell'amore perfetto; ed infine il dono dello Spirito Santo, fonte e risorsa della vita morale della "creatura nuova" (Cfr.
2Co 5,17).

Nella sua riflessione morale la Chiesa ha sempre avuto presenti le parole che Gesù ha rivolto al giovane ricco. La Sacra Scrittura, infatti, rimane la sorgente viva e feconda della dottrina morale della Chiesa, come ha ricordato il Concilio Vaticano II: "Il Vangelo [è]... fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale". Essa ha custodito fedelmente ciò che la parola di Dio insegna, non solo circa le verità da credere, ma anche circa l'agire morale, cioè l'agire che piace a Dio (Cfr. 1Th 4,1), realizzando uno sviluppo dottrinale analogo a quello che si è avuto nell'ambito delle verità della fede. Assistita dallo Spirito Santo che la guida alla verità tutta intera (Cfr. Jn 16,13), la Chiesa non ha cessato, e non può mai cessare, di scrutare il "mistero del Verbo incarnato", nel quale "trova vera luce il mistero dell'uomo".

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29. La riflessione morale della Chiesa, operata sempre nella luce di Cristo, il "Maestro buono", si è sviluppata anche nella forma specifica della scienza teologica, detta "teologia morale", una scienza che accoglie e interroga la rivelazione divina e insieme risponde alle esigenze della ragione umana. La teologia morale è una riflessione che riguarda la "moralità", ossia il bene e il male degli atti umani e della persona che li compie, e in tal senso è aperta a tutti gli uomini; ma è anche "teologia", in quanto riconosce il principio e il fine dell'agire morale in Colui che "solo è buono" e che, donandosi all'uomo in Cristo, gli offre la beatitudine della vita divina.

Il Concilio Vaticano II ha invitato gli studiosi a porre "speciale cura nel perfezionare la teologia morale in modo che la sua esposizione scientifica, maggiormente fondata sulla Sacra Scrittura, illustri l'altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo". Lo stesso Concilio ha invitato i teologi, "nel rispetto dei metodi e delle esigenze proprie della scienza teologica, a ricercare modi sempre più adatti di comunicare la dottrina agli uomini della loro epoca, perché altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo con cui vengono enunciate, rimanendo pur sempre lo stesso il significato e il senso profondo". Di qui l'ulteriore invito, esteso a tutti i fedeli, ma rivolto in particolare ai teologi: "I fedeli dunque vivano in strettissima unione con gli uomini del loro tempo, e si sforzino di penetrare perfettamente il loro modo di pensare e di sentire, di cui la cultura è espressione".

Lo sforzo di molti teologi, sostenuti dall'incoraggiamento del Concilio, ha già dato i suoi frutti con interessanti e utili riflessioni intorno alle verità della fede da credere e da applicare nella vita, presentate in forma più corrispondente alla sensibilità e agli interrogativi degli uomini del nostro tempo. La Chiesa e, in particolare, i Vescovi, ai quali Gesù Cristo ha affidato innanzitutto il servizio dell'insegnamento, accolgono con gratitudine tale sforzo ed incoraggiano i teologi a un ulteriore lavoro, animato da un profondo e autentico timore del Signore, che è il principio della sapienza (Cfr.
Pr 1,7).

Nello stesso tempo, nell'ambito delle discussioni teologiche postconciliari si sono sviluppate pero alcune interpretazioni della morale cristiana che non sono compatibili con la "sana dottrina" (2Tm 4,3). Certamente il Magistero della Chiesa non intende imporre ai fedeli nessun particolare sistema teologico né tanto meno filosofico, ma, per "custodire santamente ed esporre fedelmente" la Parola di Dio, esso ha il dovere di dichiarare l'incompatibilità di certi orientamenti del pensiero teologico o di talune affermazioni filosofiche con la verità rivelata.

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30. Rivolgendomi con questa Enciclica a voi, Confratelli nell'Episcopato, intendo enunciare i principi necessari per il discernimento di ciò che è contrario alla "sana dottrina", richiamando quegli elementi dell'insegnamento morale della Chiesa che sembrano oggi particolarmente esposti all'errore, all'ambiguità o alla dimenticanza. Sono, peraltro, gli elementi dai quali dipende "la risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo: la natura dell'uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l'origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l'ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, dal quale noi traiamo origine e verso il quale tendiamo".

Questi e altri interrogativi, come: cosa è la libertà e qual è la sua relazione con la verità contenuta nella legge di Dio? qual è il ruolo della coscienza nella formazione del profilo morale dell'uomo? come discernere, in conformità con la verità sul bene, i diritti e i doveri concreti della persona umana?, si possono riassumere nella fondamentale domanda che il giovane del Vangelo pose a Gesù: "Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?". Inviata da Gesù a predicare il Vangelo e ad "ammae- strare tutte le nazioni..., insegnando loro ad osservare tutto ciò" che egli ha comandato (Cfr.
Mt 28,19-20), la Chiesa ripropone, ancora oggi, la risposta del Maestro: questa possiede una luce e una forza capaci di risolvere anche le questioni più discusse e complesse. Questa stessa luce e forza sollecitano la Chiesa a sviluppare costantemente la riflessione non solo dogmatica, ma anche morale in un ambito interdisciplinare, così com'è necessario specialmente per i nuovi problemi.

E' sempre in questa medesima luce e forza che il Magistero della Chiesa compie la sua opera di discernimento, accogliendo e rivivendo il monito che l'apostolo Paolo rivolgeva a Timoteo: "Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu pero vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del Vangelo, adempi il tuo ministero" (2Tm 4,1-5 Cfr. Tt 1,10 Tt 1,13-14).



Veritatis splendor 15